ZMA è un integratore alimentare molto comune composto da una combinazione variabile di zinco monometiona-aspartato, magnesio aspartato e vitamina B6.
Chi produce questo supplemento nutrizionale spesso afferma che è in grado di favorire la crescita muscolare, di aumentare la forza, migliorando anche il recupero dall’esercizio e il riposo notturno. Tutto questo dovrebbe avvenire anche tramite un incremento della sintesi endogena di testosterone.
Cerchiamo di capire se tutto questo è vero, e se può esserti davvero utile assumere ZMA.
Che cos’è l’integratore ZMA?
L’integratore alimentare ZMA è composto da una miscela variabile di zinco monometionina, magnesio aspartato e vitamina B6. I prodotti in commercio hanno mediamente la seguente composizione:
30 mg di zinco monometionina-aspartato
450 mg di magnesio aspartato
10 mg di vitamina B6 (praticamente sempre come piridossina cloridrato)
Rispetto alla formulazione di “base” alcune aziende aggiungono degli ingredienti in più, oppure scelgono forme chimiche differenti per il magnesio, aggiunto ad esempio come magnesio ossido o anche come magnesio citrato.
È bene ricordare che in base a quanto riportato nei LARN 2014 (documento elaborato dalla Societa Italiana di Nutrizione Umana), l’assunzione di riferimento per lo zinco è fissata a circa 12 mg per un uomo adulto, per il magnesio a 240 mg, e per la vitamina B6 a 1,3 mg. Sempre nei LARN vengono indicate anche le dosi massime tollerabili, che per lo zinco sono di 25 mg, per il magnesio (inteso come magnesio assunto in aggiunto a quello contenuto nei cibi) di 240 mg, e per la vitamina B6 25 mg.
Come funziona lo ZMA?
Dal punto di vista teorico il razionale di utilizzo dello ZMA è basato sul fatto che una carenza di zinco e di magnesio, può portare, tra le altre cose, ad una sintesi insufficiente di testosterone, ad un peggioramento generale del profilo ormonale, ad un sistema immunitario inefficiente, ad un sonno non ristoratore.
La diminuzione delle concentrazioni circolanti di testosterone sotto determinati livelli può portare ad una pletora di sintomi, tra cui chiaramente figura anche un decremento delle prestazioni fisiche.
Dunque la chiave per comprendere se utilizzare o meno lo ZMA risiede proprio nella eventuale carenza di zinco o di magnesio.
Alcune evidenze suggeriscono che più spesso tra chi pratica sport con costanza, è più probabile che vi sia una carenza di zinco, probabilmente dovuto ad una maggiore perdita attraverso la sudorazione. La medesima evenienza si verifica per il magnesio.
C’è da aggiungere che l’alimentazione tipica dei paesi occidentali, caratterizzata purtroppo da una elevata presenza di cibi raffinati ed ultra-raffinati, fa sì che l’introduzione di micronutrienti (tra cui figurano anche zinco, magnesio e vitamina B6) sia effettivamente spesso non rispondente ai fabbisogni. In altri termini si mangia cibo ad elevata densità energetica ma bassa o bassissima densità nutrizionale.
Altro fattore da tenere in considerazione, è l’effettiva biodisponibilità di zinco e magnesio nei cibi. In altri termini bisogna considerare il fatto che pur mangiando un cibo molto ricco di zinco o di magnesio, potrebbe capitare che la frazione effettivamente assorbita, possa essere anche significativamente più bassa. Tutto questo diventa ancora più importante nel momento in cui il regime alimentare seguito non è onnivoro, ma vegetariano o vegano, pertanto con esclusione di intere varietà di alimenti.
Quali sono i benefici (potenziali) dello ZMA?
I benefici potenziali derivanti da una integrazione di ZMA possono essere tanti, tuttavia la stragrande maggioranza delle ricerche, non è focalizzata sull’effetto dello ZMA in quanto tale, ma piuttosto sui singoli componenti (zinco, magnesio, vitamina B6).
Miglioramenti delle prestazioni atletiche e della forza, influenza sulla concentrazione di testosterone
Sebbene uno degli effetti maggiormente pubblicizzati dai produttori di ZMA sia proprio quello dei miglioramenti delle prestazioni atletiche e della forza, nella letteratura scientifica ad oggi disponibile, non esistono prove consistenti di tutto questo.
In verità i maggiori benefici decantati della supplementazione con ZMA derivano da uno studio effettuato circa una ventina di anni fa. In questa “sperimentazione” vennero arruolati inizialmente 57 giocatori di football americano, che prima di avviarsi al protocollo di integrazione, furono “analizzati” per avere dati relativi alla situazione iniziale in termini di livelli plasmatici di testosterone totale e libero, IGF-1, zinco e magnesio.
Il protocollo di integrazione prevedeva che, uno dei due gruppi, assumesse ZMA (30 mg di zinco monometionina-aspartato, 450 mg di magnesio aspartato, 10.5 mg di piridossina cloridrato), mentre l’altro un placebo. Lo studio ebbe una durata di 7 settimane, e fu portato con successo a termine da 27 partecipanti.
Secondo i dati raccolti, chi aveva assunto ZMA mostrava livelli significativamente superiori di testosterone totale e libero, zinco e magnesio plasmatici, ed anche di IGF-1.
Il problema maggiore di questo studio, è che uno degli organizzatori (Victor Conte) faceva parte di uno società (SNAC System Inc.) che tra le altre cose produceva proprio ZMA e ne aveva concepito la formulazione iniziale. A dirla tutta, l’intera ricerca era stata finanziata proprio da SNAC System Inc.
Questo piccolissimo dettaglio, unito al fatto che successivi studi, come di seguito riportato, non hanno confermato i risultati ottenuti, avvalorano la tesi che l’integrazione con ZMA non apporti particolari vantaggi in termini di prestazioni atletiche, e soprattutto non sia in grado di determinare miglioramenti significativi del “profilo ormonale anabolico”.
In uno studio randomizzato in doppio cieco, si è indagato l’effetto dell’integrazione di ZMA su 22 persone sottoposte ad allenamento contro-resistenza, per verificare sia l’impatto sui livelli di magnesio e zinco, che le eventuali modifiche al profilo ormonale, nonché le prestazioni atletiche.
I partecipanti allo studio sono stati suddivisi in due gruppi, facendo in modo che vi fosse uniformità rispetto all’età, l’anzianità di allenamento, e la quantità di massa magra (valore ottenuto mediante DEXA).
Un gruppo ha ricevuto un integratore di ZMA, contenente 11 mg di vitamina B6 come piridossina cloridrato, 450 mg di magnesio, come magnesio aspartato, 30 mg di zinco, come zinco monometionina-aspartato. L’altro gruppo invece ha avuto un placebo a base di destrosio.
Ovviamente per tutti i partecipanti si è tenuto conto dell’alimentazione seguita, che è stata tracciata attraverso appositi questionari e diari alimentari.
Nel totale lo studio è durato 8 settimane, al termine delle quali si è osservato come nessuno dei partecipanti avesse riportato effetti collaterali o altre problematiche rilevanti.
Gli esami di laboratorio hanno evidenziato come l’integrazione di ZMA non avesse prodotto differenze significative tra i due gruppi, in termini di profilo lipidico, omeostasi glicemica, proteine plasmatiche, enzimi epatici, elettroliti, conta dei globuli bianchi e dei globuli rossi. Anche i livelli di zinco plasmatici, sebbene più elevati nel gruppo che aveva assunto ZMA, non mostravano differenze significative con il gruppo che aveva assunto placebo. La medesima evidenza si rivelava anche rispetto al magnesio.
Anche il profilo ormonale non mostrava differenze significative tra i due gruppi, ed infatti le differenze tra i livelli di cortisolo, IGF-1, testosterone libero e totale, e GH, erano trascurabili.
Le prestazioni atletiche dei partecipanti, misurate attraverso diversi test, non mostravano differenze significative tra i due gruppi, e la stessa cosa si evidenziava rispetto alla composizione corporea, che appariva del tutto comparabile tra chi avevo assunto ZMA e chi solamente placebo.
Immunità
Zinco, magnesio e vitamina B6, sono nutrienti che giocano un ruolo di determinante importanza nel corretto sviluppo e funzione del sistema immunitario. È documentato come una loro rispettiva carenza si rifletta in un peggioramento del recupero rispetto a svariate patologie, oltre che predisporre verso l’insorgenza di malattie anche cronico-degenerative, che conoscono nell’infiammazione sistemica uno di più importanti fattori eziologici.
Pertanto una corretta integrazione di zinco, di magnesio e di vitamina B6, può senza ombra di dubbio costituire una mossa vincente affinchè si abbia un sistema immunitario più in salute e più efficiente. Tuttavia non esistono pubblicazioni che indichino un miglioramento dell’immunità in seguito ad integrazione di ZMA.
Qualità del sonno
La qualità del sonno potrebbe risultare migliorata con l’assunzione di ZMA, tuttavia si tratta di una deduzione fatta a partire da una serie di studi riguardanti l’utilizzo di zinco, magnesio e vitamina B6, utilizzati singolarmente o in combinazioni comunque diverse da quella caratterizzante lo ZMA.
Altri effetti
Essendo “elementi” che partecipano ad una serie infinita di processi nell’organismo, una carenza di magnesio, zinco o vitamina B6, può portare ad una pletora di conseguenze che riguardano organi ed apparati diversi. Per questo motivo, l’integrazione di magnesio e di zinco, ad esempio, possono essere in grado di migliorare l’omeostasi glicemica (anche attraverso una migliore “risposta insulinica”), aumentare la tolleranza verso vari tipi di “stress” (anche mediante una migliore gestione di ormoni come il cortisolo), ma anche di permettere una gestione più efficiente della sensazione di fatica indotta dall’esercizio fisico.
Quali sono gli effetti collaterali dello ZMA? Fa male?
Ad oggi non sono noti effetti avversi in seguito all’assunzione di ZMA, tuttavia è plausibile che se ne assumi una quantità troppo elevata, potresti andare incontro ad una serie di effetti indesiderati.
Infatti un intake molto alto di zinco può portare a perdita dell’appetito, nausea, diarrea, vomito, vertigini, oltre che determinare problemi nell’assorbimento del rame, e susseguente carenza.
Anche se estremamente raro e difficile da “realizzare”, un eccessivo introito di magnesio può causare una serie di conseguenze, tra cui soprattutto problemi gastrointestinali.
Ovviamente anche esagerare con la vitamina B6 non è una buona idea, né tanto meno una pratica scevra da rischi.
È bene comunque specificare che se ci si mantiene entro i dosaggi indicati, lo ZMA è un integratore generalmente sicuro, e che in persone sane, senza particolari patologie, o che non assumono determinati farmaci, non provoca alcun effetto avverso.
Conclusioni sullo ZMA
Come si è visto la letteratura scientifica a supporto dei benefici dello ZMA non è molto “folta”, né tanto meno densa di risultativi significativi, e una lettura attenta lascia sempre intendere come difatto i benefici ottenibili da questa integrazione, possano in qualche misura essere messi in relazione con le eventuali carenze nutrizionali in essere, rispetto alle componenti che formano lo ZMA (zinco, magnesio, vitamina B6). Detto questo, le ricerche che evidenziano il ruolo dello zinco, e del magnesio, presi singolarmente, ad esempio nel migliorare la sintesi di testosterone, o nella qualità del sonno, non mancano.
L’utilità eventuale dello ZMA nel bodybuilding dipende fortissimamente dall’alimentazione condotta e da altri fattori che presi insieme possono portare alla carenza di zinco, magnesio e vitamina B6. Stando alle prove finora disponibili non è possibile affermare che lo ZMA sia in grado di determinare aumenti nella sintesi del testosterone, o comunque portare a miglioramenti generali del profilo ormonale correlato all’anabolismo.
Perciò lo ZMA rimane un supplemento nutrizionale, che come dice la definizione stessa, mostra la sua maggiore utilità qualora vi sia una carenza o un aumentato fabbisogno.
Note sull’autore
Dott. Antonio Molinari (Biologo Nutrizionista)
Laurea triennale, presso l’università degli studi di Salerno, in Scienze Biologiche
Laurea magistrale, presso l’università degli studi di Roma Tor Vergata in Scienze della Nutrizione Umana
Perfezionato in “Diete e terapie nutrizionali chetogeniche”, presso l’Università degli studi di Salerno.
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L’acromion, o processo acromiale (dal greco akos, ossia “il più alto”), è una parte ossea della scapola, che contribuisce a comporre la struttura anatomica dell’arto superiore, in particolare nel complesso articolare della spalla. È un prolungamento osseo che si estende tra la spina della scapola e la clavicola.
Vista la sua localizzazione fornisce con un’estremità la superficie di contatto per l’articolazione acromioclaveare, mentre con l’altra dona continuità ossea alla spina della scapola.
L’acromion ospita l’inserzione di due muscoli che determinano i movimenti di omero, scapola e rachide cervicale. Analizziamo ora la morfologia dell’acromion nello specifico, premessa fondamentale per comprenderne l’importanza per la funzionalità di tutto il complesso scapolo-omerale.
Anatomia dell’acromion
Per descrivere l’anatomia dobbiamo necessariamente comprendere dove si trova l’acromion.
L’acromion è il “tetto della scapola”. È la parte finale della spina della scapola
L’acromion è un processo osseo che insieme al resto della scapola, alla clavicola e all’omero forma il complesso scapolo-omerale e ne garantisce supporto per il movimento. Vi si distinguono una faccia superiore ed una inferiore, un margine interno e uno esterno. Si estende lateralmente e anteriormente, formando un tetto orizzontale sopra la fossa glenoidea della scapola.
L’estremità distale possiede una faccetta clavicolare, rivolta verso l’interno e lievemente verso l’alto, grazie alla quale può articolarsi con la corrispondente faccetta acromiale della clavicola, andando a formare l’articolazione acromioclaveare.
Le superficie articolare acromiale può essere appiattita o leggermente convessa. Proprio in virtù della sua forma piatta, l’artrocinematica dei movimenti di rotazione e scivolamento di questa articolazioni sono minimi, con una predominanza del movimento di scivolamento, stabilizzato da legamenti anteriori, posteriori e dai legamenti coraco-clavicolari trapezoide e conoide.
Legamenti dell’acromion
Il margine laterale dell’acromion è spesso e di forma irregolare, ed è caratterizzato da tre o quattro piccole protruberanze ossee chiamate tubercoli, che ospitano i fasci del muscolo deltoide nella sua porzione intermedia. Il margine mediale, che si presenta più corto di quello laterale, è concavo, e fornisce sede di inserzione per il muscolo trapezio, nei suoi fasci intermedi.
L’acromion può presentarsi nell’essere umano con tre diverse tipologie di forma: di tipo 1 (piatta), di tipo 2 (curva), di tipo 3 (uncinata). Diversi studi scientifici concordano nell’indentificare la forma curva come quella più comune nella popolazione.
Tipi di acromion
Acromion e omero non hanno superfici articolari ben distinte che li uniscono tra loro, ma stringono tuttavia intimi rapporti attraverso il cosiddetto spazio sub-acromiale, che unisce la protuberanza ossea ad uncino chiamata processo coracoideo e l’acromion, formando l’arco coracoacromiale. All’interno di questo spazio si interpongono alcuni tessuti molli tra cui il muscolo sovraspinato, la borsa sub-acromiale, il tendine del capo lungo del bicipite e parte della capsula superiore. L’interposizione di questi tessuti fa in modo che il cosiddetto spazio sub-acromiale diventi uno spazio solo “virtuale”, che in realtà è interamente occupato.
Funzioni dell’acromion
L’acromion ha essenzialmente tre funzioni principali: fornisce la superficie articolare per l’articolazione acromioclaveare, fondamentale per l’arto superiore, si presta come punto di inserzione ossea dei muscoli deltoide e trapezio nei loro fasci intermedi, e rappresenta infine un’utile barriera di protezione per l’articolazione della spalla da stress esterni.
L’acromion è quindi una parte anatomica fondamentale per il movimento di tutto l’arto superiore. Permette un supporto funzionale nella regolazione del movimento scapolare e permette ai muscoli che vi sono inseriti di eseguire le loro funzioni partendo da una base ossea solida. Queste caratteristiche rendono l’acromion fondamentale per i movimenti dell’arto superiore, come nel sollevare il braccio sopra la testa o afferrare oggetti davanti a noi, permettendo di esprimere il massimo del potenziale di movimento.
Lussazione dell’acromioclaveare
L’articolazione acromioclaveare è molto soggetta alla lussazione per la natura inclinata che la contraddistingue e l’elevata probabilità di ricevere importanti forze di taglio. Le lussazioni o sublussazioni di tale articolazione sono relativamente comuni negli sport da contatto come rugby e football americano, costituendo il 40% di tutti gli infortuni alla spalla in queste discipline sportive.
Sebbene la maggior parte dei danni a questa articolazione in questi sport sia rappresentata da distorsioni parziali, si verificano spesso anche lussazioni complete. Le forze di taglio orizzontali causate da urti tra la spalla e superfici esterne vengono contrastate principalmente dai legamenti capsulari superiori ed inferiori dell’articolazione, aiutati anche dal legamento coracoclaveare. Talvolta la forza applicata alla scapola supera la resistenza alla trazione dei legamenti, causandone la rottura. Un trauma all’articolazione acromioclaveare e ai suoi legamenti può determinare alterazioni del movimento e deviazioni posturali della scapola rispetto al torace, e questa instabilità può portare all’insorgere di artrosi post-traumatica.
Acromion e impingement subacromiale
Il termine impingement è di frequente utilizzato sia nel mondo clinico che in quello del fitness per descrivere le dinamiche sottese a un infortunio alla spalla, oppure per descrivere i possibili rischi di alcuni esercizi in palestra, come le alzate laterali eseguite in intrarotazione di omero e le tirate al mento. In questi casi per “impingement” generalmente intendiamo un “intrappolamento” dei tessuti molli, ossia tendini e borse, tra la testa dell’omero e l’arco coracoacromiale.
L’intimo rapporto tra le superfici articolari in questa zona prevede di default uno “schiacciamento” dei tendini e della borsa, ma nonostante ciò, in condizioni di salute e di efficiente funzionalità gli stress vengono dosati in maniera ideale, mantenendo la pressione a livelli fisiologici e ben compensati. I problemi a questo livello invece possono nascere a seguito di alterazioni strutturali tendinee o ossee, e a seguito di alterazioni funzionali nella sinergia di movimento tra omero e scapola. In questi casi le forze compressive tra omero e acromion possono aumentare, favorendo l’insorgenza di lesioni o infiammazioni.
In letteratura, tra i fattori predisponenti impingement e lesioni a carico dei muscoli della cuffia dei rotatori, sono stati identificati la forma dell’acromion di tipo 3 ( o ad uncino) e l’artrosi dell’articolazione acromioclaveare. Tali condizioni sono riportate tipicamente in soggetti sopra i 40 anni di età, e possono contribuire a restringere lo spazio sub-acromiale aumentando la pressione sui tessuti molli interposti.
Acromion e chirurgia: davvero utile?
A causa della correlazione riscontrata tra la forma dell’acromion e l’instasurarsi di impingement subacromiale e lesioni a carico della cuffia dei rotatori, per molto tempo è stato proposto un approccio chirurgico nominato intervento di “decompressione subacromiale” o “acromionplastica”, che prevede la rimozione chirurgica dello sperone osseo e dei tessuti molli del margine anteroinferiore dell’acromion, con l’obbiettivo di aumentare lo spazio subacromiale, riducendone la pressione interna.
Recenti studi tuttavia hanno messo in luce che l’efficacia di tale intervento non è verificata, poiché sono stati riscontrati i medesimi risultati in pazienti sottoposti ad intervento di acromionplastica e pazienti sottoposti ad intervento “sham” , ossia un intervento chirurgico finto. Tali conclusioni suggeriscono come problematiche legate ad impingement subacromiale e disordini della cuffia dei rotatori vadano affrontate utilizzando una visione più ampia e multifattoriale del soggetto, e non puramente meccanica.
Note sull’autore
Dott. Andrea Gargiulo
Fisioterapista laureato con 110 e lode all’università di Padova. Specializzato in riabilitazione dei disordini muscoloscheletrici e disfunzioni del movimento.
Lavoro a Mestre e Venezia.
Contatto mail: andrea.garg@hotmail.it
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Aumentare di peso è facile che problema c’è? Basta mangiare di più. Eppure, c’è chi è sottopeso e per stare meglio vuole raggiungere il normopeso, chi per motivi di prestazione o estetici vuole aumentare la massa muscolare e non ci riesce.
Come ingrassare?
Una dieta per ingrassare deve essere fondata su regime ipercalorico associato ad attività fisica con i pesi.
Così come chi vuole dimagrire spera di ottenere risultati in pochissimo tempo, allo stesso modo c’è chi cerca una dieta per ingrassare in poco tempo. Peccato che al nostro corpo i cambiamenti repentini non piacciano e che abbia bisogno di tempo per mantenere il nuovo peso desiderato stabile.
Come ingrassare velocemente in poco tempo?
Ingrassare velocemente (es. qualche giorno) non è sinonimo di aver raggiunto stabilmente un nuovo peso corporeo: si tratta solo di un temporaneo aumento di peso. Ad esempio, se mangi molti carboidrati e poi ti pesi, noterai subito che l’ago della bilancia indica un peso corporeo maggiore rispetto al solito: infatti, ad ogni grammo di glucosio immagazzinato sotto forma di glicogeno corrispondono circa 3 g di acqua.
Se il tuo obbiettivo è raggiungere un peso corporeo più alto per mantenerlo nel tempo, la velocità non è la strada migliore.
Il punto di partenza per impostare una dieta ingrassante è conoscere il proprio fabbisogno calorico, valore da aumentare progressivamente: ad un incremento dell’introito corrisponde un aumento di peso, variabile a seconda della propria genetica e dell’attività fisica svolta.
Per garantire il risultato è sempre meglio procedere un passo alla volta e con costanza: è inutile iniziare a mangiare in continuazione tutto il giorno, ma è sufficiente aumentare il proprio fabbisogno energetico del 10-15%. Ad esempio, se al giorno sei abituato a consumare 2000 kcal, potrai passare ad una ipercalorica di 2200-2300 kcal.
L’attività fisica consigliata è quella con i pesi perché un corretto allenamento fa sì che aumenti la massa muscolare (= chili di peso guadagnati).
Come ingrassare in modo sano? Come fare?
Per riuscire ad aumentare di peso in modo sano il grande goal è riuscire ad incrementare la quantità di muscolo e non di grasso. Sarebbe bello ma impossibile, in quanto processi mutuamente esclusivi: aumentare la massa muscolare significa che è necessario assumere un eccesso calorico; dall’altra parte voler diminuire la massa grassa presuppone un deficit calorico. Sarebbe quindi necessaria una dieta iper- e ipocalorica allo stesso tempo, che ovviamente non esiste.
Perciò, se vuoi aumentare di peso devi rassegnarti all’idea che una quota dei kg presi in più saranno dati dal grasso. Infatti, secondo uno studio, aumentando il tuo apporto calorico di 500-2000 kcal/giorno solo il 30-40% del peso guadagnato è dato dal muscolo: il restante 60-70% sarà tessuto adiposo (indesiderato e da eliminare gradualmente con una successiva e attenta fase di taglio calorico).
Per pesare di più e rimanere sani è fondamentale mantenere una buona composizione corporea, un aumento della massa grassa sarebbe pericolosa per l’organismo. I valori di riferimento di massa grassa da mantenere sono circa il 15% per gli uomini e il 22% per le donne.
Per persone sportive, atleti e per chi cerca una maggiore definizione corporea queste % vanno abbassate (senza esagerare, anche il tessuto adiposo è fondamentale!). Mantenere la salute tramite
Quindi, per favorire l’aumento ponderale a favore del muscolo scheletrico è assolutamente consigliato di associare alla dieta ipercalorica sana (no junk food) l’allenamento contro resistenze.
Oltre a questo, è fondamentale la gradualità: è consigliato un aumento di 200 g/450 g di peso a settimana, considerando che 450 g corrispondono ad un surplus calorico di 2300-3600 kcal. È poco, tanto? Dipende a che peso vuoi arrivare e quanta fretta hai.
Vado a correre 5 volte a settimana o faccio crossfit 4 volte a settimana e ad ogni seduta brucio 500 kcal (numero puramente inventato di fantasia da non prendere come riferimento). Il mio obbiettivo è accumulare calorie, non disperderle… Devo per questo motivo smettere di allenarmi? No, basta aggiungerle come ulteriori calorie alla dieta ipercalorica! Nonostante il “problema” del dover assumere più kcal, togliere l’attività fisica comunque non è un beneficio. Anche se sostituire gradualmente gli allenamenti di corsa con quelli con i pesi (se il fine è aumentare la massa) è una buona idea.
Qual è la dieta per ingrassare?
Ad ingrassare male sono bravi tutti: basta entrare nel loop del cibo spazzatura e sicuramente aumenterai di peso. Peccato che in contemporanea ad aumentare saranno anche i problemi di salute, dal momento che hai accumulato solamente grasso.
Il modo migliore per accumulare peso è seguire una dieta sana e ipercalorica che sia sostenibile nel tempo, dato che comunque anche ingrassare (bene) richiede tempo.
Alcuni consigli:
abituati a fare numerosi piccoli pasti e snack durante la giornata
bevi bevande o latte al posto dell’acqua
fai uno spuntino un’ora prima di andare a dormire
consuma alimenti energeticamente densi
utilizza sport drinkal posto dell’acqua durante l’allenamento
durante i pasti, bevi alla fine del pasto, in modo da evitare di riempirti di acqua
evita bevande gassate, che creano gonfiore e sensazione di pienezza
Come ingrassare senza mettere pancia?
Tenendo come presupposto quanto già detto, il modo migliore per incrementare la massa è cercare di limitare la deposizione di lipidi. L’eccesso calorico dato dalla apposita dieta iperproteica porterà però sicuramente anche ad un loro aumento; è quindi indispensabile associare al regime alimentare un corretto e proporzionale allenamento.
Anche perché è noto che l’eccesso adiposo non farà altro che portare ad ulteriori complicanze per la salute.
Diminuire la dispersione di energia (es. calorie bruciate con l’esercizio fisico) smettendo di fare attività fisica non è la soluzione migliore per aumentare di peso senza mettere pancia.
Dieta per ingrassare in palestra
Se ti alleni con i pesi e vuoi aumentare di peso probabilmente il tuo obbiettivo è estetico o diventare più forte. Infatti, più aumenta il muscolo scheletrico più si verifica un aumento di forza e potenza (sempre con il supporto di una dieta adeguata).
Se decidi di aumentare le calorie giornaliere, i carboidrati sono il macronutriente da aumentare principalmente, insieme alle proteine. Con quantità che variano in proporzione all’incrementare dell’allenamento: più l’allenamento diventerà pesante, più le quote glucidiche e proteiche vanno aumentate.
I carboidrati dovrebbero comprendere il 55-60% del fabbisogno calorico giornaliero, mentre per le proteine il valore consigliato è 1.4 – 2 g/kg di peso corporeo.
A questo aspetto nutrizionale, da un punto di vista di allenamento, per aumentare il volume della fibra muscolare, è ottimale un allenamento ipertrofico (es. 3-5 serie da 8-12 ripetizioni) che coinvolga muscoli grandi (es. glutei).
Questo perché un corretto allenamento con i pesi fa sì che aumenti la massa muscolare, che è più pesante rispetto alla massa grassa: 1 kg di muscolo pesa poco più di 1 kg, mentre 1 kg di grasso leggermente meno (0.9 kg). Lo stesso motivo per cui affidarsi esclusivamente alla bilancia per valutare la propria condizione e salute in base al peso non è corretto. Se dopo qualche mese di palestra e alimentazione sana pesi di più e ti vedi più tonico allo specchio, il peso aumentato è indice di una miglior composizione corporea: hai perso un po’ di tessuto adiposo (chili in meno), ma hai anche più tessuto muscolare (chili in più).
Quali sono i cibi migliori per ingrassare?
Come già accennato, alimenti ricchi di carboidrati e proteine a seguire sono da preferire. Per una questione di comodità, alimenti densamente calorici aiutano ad aumentare le calorie giornaliere, dal momento che ad una piccola e ‘tascabile’ quantità corrisponde un elevato apporto energetico: ad esempio una manciata di frutta secca.
Gli alimenti consigliati per aumentare di massa restano quelli che non dovrebbero mai mancare nei pasti di tutti: da ridurre sono i grassi saturi, gli zuccheri, il sale, i pasti poco prima di andare a dormire.
Per esclusione, da preferire e da introdurre nella dieta ingrassante sono: carboidrati complessi (meglio se integrali) e proteine (meglio animali per avere uno spettro amminoacidico completo) in maggior misura, e grassi (meglio polinsaturi come w-3). Macronutrienti che trovi ad esempio in pasta, riso, carni magre, olio extravergine di oliva, frutta secca, patate, uova.
Da non dimenticare il giusto apporto di micronutrienti, che deve andare di pari passo con le esigenze dell’organismo che aumenta di peso.
Si può ingrassare di 2-5 kg a settimana?
Per quanto detto finora la risposta è “stabilmente no”: è un cambiamento troppo repentino e a cui il corpo non è abituato. Anche assumendo il giusto quantitativo calorico che corrisponde teoricamente ad un aumento di 2-5 kg di massa, nella pratica bisogna considerare la fisiologia: il nostro organismo da un punto di vista metabolico, ormonale è abituato ad assimilare e depositare una certa quantità di nutrienti.
Ad una variazione graduale e costante l’assetto metabolico e ormonale si adatta portando ad un risultato tangibile, ma se è improvvisa (ad es. assumo il triplo delle calorie per aumentare di 4 kg in una settimana) il risultato non ci sarà.
Dieta per ingrassare di 10 kg
Se per un aumento di pochi chili è sufficiente applicare quanto detto finora, per i 10 kg in più da raggiungere valgono gli stessi principi, ma sicuramente è più difficile e richiede più tempo. Per questo motivo per un tale considerevole incremento di peso (pensiamo ad esempio ad una ragazza che da 50 kg deve passare a 60 kg per essere normopeso) è bene affidarsi ad un nutrizionista.
L’aumento dei 10 kg non sarà continuo, probabilmente ci saranno delle fasi di stallo o di mantenimento del peso e delle calorie, per poi continuare gradualmente ad aumentarle fino al peso desiderato.
Esistono integratori per ingrassare velocemente?
Come sempre essendo “supplementazioni” o “integrazioni” non sono indispensabili.
Ma parliamo della creatina, composto già presente nel nostro organismo e fondamentale a livello muscolare per rigenerare energia (ATP). Fisiologicamente al giorno abbiamo bisogno di 2 g di questa molecola; solitamente 1 g viene autonomamente prodotto dal nostro metabolismo, mentre 1 g viene assunto tramite la dieta.
Supplementazioni di creatina (tra poco analizzate con numeri alla mano) garantiscono un aumento di peso, dato principalmente dalla massa magra (muscolo) piuttosto che dalla massa grassa. Inoltre, il vantaggio di questa sostanza è che ha effetti a breve e lungo termine.
È consigliata un’assunzione di 3-7 g al giorno in modo costante, sia nei giorni in cui ti alleni sia in quelli di riposo. Meglio se assunta post-allenamento e/o quando mangi carboidrati.
Con la quantità appena indicata:
nel breve periodo (1 settimana) puoi aumentare di 8 – 1.7 kg;
nel lungo periodo (2 mesi) fino a 8 – 3.2 kg.
Come sempre, non siamo tutti uguali e il nostro organismo a seconda della genetica e dei fattori esterni (es. alimentazione, tipologia di allenamento) risponde in modo diverso alla supplementazione.
Oltre al garantire un aumento ponderale, l’assimilazione della creatina migliora gli sfori sub-massimale e lo stoccaggio dei carboidrati (glicogeno muscolare).
Inoltre, se raggiungere l’apporto proteico risulta difficile tramite gli alimenti puoi integrare tramite le proteine in polvere. Se non hai questo problema, gli alimenti proteici solidi sono da preferire.
Restando nell’ambito, assumere più proteine rispetto a quelle di cui hai bisogno ai fini della massa muscolare non cambia nulla: le proteine in eccesso andranno a formare solamente grasso.
Sperando sia scontato: assumere creatina e allo stesso tempo avere un piano alimentare e di allenamento sbagliato non serve.
Conclusioni su come ingrassare velocemente
Consigli pratici da portare a casa se vuoi aumentare di peso:
Aumenta gradualmente il tuo fabbisogno calorico (+10-15%);
Pratica attività con i pesi (meglio se mirata all’ipertrofia);
Prediligi le fonti glucidiche e proteiche, ottimi gli alimenti densamente calorici.
Note sull’autore
Dott.ssa Lucia Ienco
Laureata in Biotecnologie presso l’Università di Trieste e studentessa magistrale in Scienze dell’Alimentazione presso l’Università di Firenze. Certificata ISSA CFT3 ed esordiente di weightlifting a livello agonistico.
La prugna è il frutto del genere Prunus, a cui appartengono anche albicocche, ciliegie e pesche. Come tutti i frutti del suddetto genere è una drupa, caratterizzata quindi da una componente carnosa e succosa, la polpa, che circonda un unico e legnoso seme osseo centrale, il nocciolo. La non digeribilità di quest’ultimo è fondamentale per la diffusione della specie in quanto gli animali, dopo aver consumato il frutto, ne rilasciano con le feci il seme/nocciolo al suolo.
Come altri frutti quali fichi ed uva, resti di prugne sono stati trovati già in scavi neolitici. Le prime domesticazioni di cui abbiamo notizia risalgono tuttavia a “soli” 2500 anni fa, in Cina, ove Confucio ne decantò la bellezza dell’albero. Tali prugne non sono però quelle che vediamo regolarmente nei supermercati e l’albero in questione non è il “nostro”, è il Prunus Salicina. Le prugne “nostrane” si ritiene invece provengano dal Caucaso ed è incerto come siano giunte nel cuore dell’Europa.
Stagionalità e varietà
Le prugne sono un frutto tipicamente estivo.
Esistono decine di specie ma commercialmente la grossa distinzione è tra le prugne europee e quelle asiatiche. Se la specie asiatica è la suddetta Prunus Salicina, quella europea è la Prunus Domestica, da cui provengono le “damsons” (scure), le “greengages” (verde chiaro) e le “Victoria” (rosse fuori e gialle dentro).
Piccolo inciso: con “susine” ci riferiamo a tutte le prugne del ceppo europeo, con “prugne” a tutti i frutti del genere Prunus; il nome pare derivi da Susa, una città nell’attuale Iran, a suo tempo Persiana, possibile luogo di provenienza originario del frutto. Di fatto si tratta di sinonimi perché la stragrande maggioranza delle prugne commercializzate in Italia (susine è un termine solo nostro) sono del ceppo europeo.
Dal punto di vista dei nutrienti principali non ci sono comunque grandi differenze:
Calorie prugne
Calorie Prugne
100g
Energia (Kcal)
46
Carboidrati (g)
11
Zuccheri (g)
10
Proteine (g)
0,7
Grassi (g)
0,3
Fibre (g)
1,4
Ferro (mg)
0,2
Calcio (mg)
6
Sodio (mg)
0
Potassio (mg)
157
Fosforo (mg)
16
Magnesio (mg)
7
Vitamina A (IU)
345
Vitamina D (IU)
0
Vitamina E, α – tocoferolo (mg)
0,3
Vitamina K (µg)
6,4
Vitamina B1 (mg)
0,03
Vitamina B2 (mg)
0,03
Vitamina B3 (mg)
0,4
Vitamina B6 (mg)
0,03
Folati (µg)
5
Vitamina C (mg)
9,5
Vitamina B12 (µg)
0
Fonte dati: USDA
Considerato che il peso medio si aggira sui 60/70 grammi, il quantitativo calorico di un singolo frutto non raggiunge le 40 kcal. Per ottenere l’equivalente energetico di una mela o di una pera dovremmo consumarne due e mezzo. Una porzione moderata sono quindi due prugne.
Proprietà nutrizionali delle prugne
La prugna condivide molti dei benefici con i principali frutti. È un’importante fonte di acqua, ha un ottimo rapporto sodio/potassio, apporta rame, manganese ed una buona dose di vitamine idrosolubili, in particolare Vitamina C.
Degno di nota è sicuramente il contenuto in antiossidanti, in particolare di acidi clorogenici e neoclorogenici, sostanze fenoliche particolarmente efficaci nella battaglia ai radicali liberi, soprattutto nei confronti dello ione superossido e della perossidazione lipidica.
Come per la mela, ed in realtà quasi tutti i frutti, sarebbe buona norma consumare il frutto con tutta la buccia perché è proprio in essa che si concentrano la maggior parte dei composti benefici. Anche il colore è particolarmente indicativo del tipo di composto, teniamo presente che i pigmenti sono essi stessi antiossidanti. Per ottenere il massimo del beneficio sarebbe quindi l’ideale consumarne di diverso colore.
Prugna e regolarità intestinale
Le prugne sono note per il loro ruolo anti – costipazione.
Come mai? È vero?
Oltre alla personale esperienza che, per definizione, è soggetta a forti BIAS cognitivi, sono stati effettivamente condotti degli studi per investigarne l’efficacia ed uno in particolare, uno studio d’intervento1, ne ha dimostrato la superiorità nei confronti del psyllium nel trattare casi di costipazione moderata. Trattasi ovviamente di un singolo studio quindi da prendere con le pinze, sebbene sia stato citato addirittura da “Nature”.
Le possibili cause sono fondamentalmente tre:
presenza di sorbitolo, blandamente lassativo a basse dosi
presenza di acidi clorogenici (presenti anche nel caffè)
Attenzione, però, stiamo parlando delle prugne disidratate, le quali, reidratandosi nel tubo digerente, producono una viscosità che promuove il transito intestinale. A tal scopo è consigliabile l’ammollo per qualche ora per favorire una parziale reidratazione. Esempio classico è l’ammollo serale ed il consumo mattutino, a colazione.
Senza dimenticarsi, però, che, come tutta la frutta disidratata, è molto energetica.
Calorie prugne disidratate
Calorie prugne disidratate
100g
Energia (Kcal)
240
Carboidrati (g)
63,9
Zuccheri (g)
38,1
Proteine (g)
2,2
Grassi (g)
0,4
Fibre (g)
7,1
Ferro (mg)
0,9
Calcio (mg)
43
Sodio (mg)
2
Potassio (mg)
732
Fosforo (mg)
69
Magnesio (mg)
41
Vitamina A (IU)
39
Vitamina D (IU)
0
Vitamina E, α – tocoferolo (mg)
0,4
Vitamina K (µg)
59,5
Vitamina B1 (mg)
0,1
Vitamina B2 (mg)
0,2
Vitamina B3 (mg)
1,9
Vitamina B6 (mg)
0,2
Folati (µg)
4
Vitamina C (mg)
0,6
Vitamina B12 (µg)
0
Se una prugna fresca apporta 40 kcal e pesa 60/70 grammi, una prugna secca apporta sempre 40 kcal ma di grammi ne pesa meno di 20. È quindi molto semplice eccedere con le calorie se non si controlla l’intake, una porzione adeguata equivale a 2, massimo 3, prugne secche. A livello di nutrienti abbiamo una perdita di vitamine termolabili, soprattutto vitamina C, ed una concentrazione di minerali e nutrienti energetici.
In ultimo, le prugne disidratate si sono ritagliate in letteratura scientifica2 un ruolo anche nella salute dell’osso, in particolare come buona abitudine per donne in menopausa. Ovviamente non stiamo parlando di un alimento miracoloso (che non esiste) o di un effetto farmacologico, ma di un piccolo alleato.
Bibliografia
A Attaluri et al. Randomised Clinical Trial: Dried Plums (Prunes) vs. Psyllium for Constipation. Aliment Pharmacol Ther. 2011
Taylor C. Wallace. Dried Plums, Prunes and Bone Health: A Comprehensive Review. Nutrients. 2017
La pera è il frutto del pero, nome colloquiale con il quale intendiamo tutte le piante del genere Pyrus, della famiglia delle Rosaceae, alla quale appartengono anche le mele.
Dal punto di vista botanico il frutto sarebbe solo il torsolo, che è il vero e proprio “frutto” della fecondazione; polpa e buccia sono il ricettacolo fiorale, non derivano direttamente dall’impollinazione e non possono per questo definirsi frutto. A livello botanico la pera è, quindi, un pomo, come lo è anche la mela, di cui potremmo considerarla la “cugina”.
La pera è un “frutto” antico, domesticato da millenni sia in Asia che in Europa. Le prove della sua coltivazione risalgono a “solo” circa 3000 anni fa, grazie alle menzioni di Omero, ma resti del frutto furono trovati anche in scavi neolitici nelle zone lacustri dell’attuale Svizzera Tedesca.
L’origine esatta delle specie oggi consumate è incerta ma è sicuramente da ricercare nelle zone temperate di quello che oltreoceano definiscono “Old World”, ossia Europa, Asia ed Africa. Si lo so, non abbiamo ristretto di molto il cerchio…
Oltre a ciò sappiamo solo che il genere Pyrus è molto probabilmente originario delle zone montuose dell’attuale Cina occidentale, ed è lì che sono probabilmente avvenute le prime domesticazioni.
Stagionalità e varietà della pera
La pera condivide con la mela anche la stagionalità ed è, quindi, in stagione, alle nostre latitudini, da fine estate ad inizio inverno. La raccolta avviene a fine estate ma sono facilmente conservabili a freddo, ed il fatto che ne siano coltivate diverse varietà, le rende, di fatto, un frutto presente quasi tutto l’anno.
Ad oggi ne sono, infatti, coltivate circa 30 specie per un totale di circa 3000 varietà differenti.
La più diffusa da noi è senza dubbio la pera comune, frutto del Pyrus Communis, mentre in Asia la specie più coltivata è la Pyrus Pyrifolia, da cui deriva anche la Nashi, anche nota come la “pera mela”.
Dal punto di vista dei principali nutrienti le differenze tra esse non sono significative:
Calorie Pera
Pera valori nutrizionali
100g
Energia (Kcal)
57
Carboidrati (g)
15
Zuccheri (g)
10
Proteine (g)
0,4
Grassi (g)
0,1
Fibre (g)
3,1
Ferro (mg)
0,2
Calcio (mg)
9
Sodio (mg)
1
Potassio (mg)
116
Fosforo (mg)
12
Magnesio (mg)
7
Vitamina A (IU)
25
Vitamina D (IU)
0
Vitamina E, α – tocoferolo (mg)
0,12
Vitamina K (µg)
4,4
Vitamina B1 (mg)
0,01
Vitamina B2 (mg)
0,03
Vitamina B3 (mg)
0,2
Vitamina B6 (mg)
0
Folati (µg)
7
Vitamina C (mg)
4,3
Vitamina B12 (µg)
0
Fonte dati: USDA
A livello di macronutrienti la pera non è molto diversa dalla mela.
Considerando che una di medie dimensioni pesa circa 150 – 170 grammi, le calorie della pera sono di circa 100 kcal, provenienti quasi per la totalità da carboidrati, dei quali 3/4 fruttosio ed 1/4 glucosio.
Proprietà nutrizionali della Pera:
Iniziamo con una importante banalità: l’84% di una pera è acqua, questo significa che ad ogni pera corrisponde circa mezzo bicchiere d’acqua. Oltre all’azione idratante, spesso sottovalutata, un altro beneficio a livello vascolare è dato dall’eccezionale rapporto sodio/potassio a favore di quest’ultimo, utile a contrastare un frequentissimo disequilibrio a favore del sodio. Queste sono in effetti le motivazioni per le quali i frutti sono raccomandabili, ovviamente non come unica indicazione, per tenere sotto controllo la pressione arteriosa.
Altro minerale contenuto significativamente è il rame.
A livello vitaminico, contiene una discreta quantità di vitamine del gruppo B, di folati, di vitamina K ed è buona la quota di Vitamina C, sebbene molto lontana da quella di arancia o kiwi.
Oltre ai veri e propri nutrienti, nella pera abbondano composti benefici ad azione antiinfiammatoria ed antiossidante utili nella prevenzione delle patologie croniche.
I fitocomposti presenti sono:
acidi idrossibenzoici, tra cui l’acido clorogenico
acidi idrossicinnamici, tra cui l’acico cumarico
idrossiquinoni
flavanoli, tra cui catechina ed epicatechina
flovonoli, tra cui la quercetina
antocianine (nelle bucce delle pere rosse o comunque scure)
carotenoidi (nelle bucce delle pere rosse o comunque scure)
N.B. La maggior parte di questi composti sono contenuti nella buccia, sarebbe quindi un peccato non consumarla. Ricordiamo ancora una volta che tra i pro e i contro del consumare la buccia stravincono i pro: i residui di diserbanti o pesticidi, se presenti al momento del consumo, sono poco rilevanti se paragonati all’inquinamento atmosferico che ogni giorno respiriamo e sarebbe invece un peccato rinunciare a tutti i composti benefici.
Altra caratteristica, questa volta molto poco EBM ed invece molto “saggezza popolare”, riguarda la supposta facilità di digestione del frutto, in effetti riportata sovente sia da adulti che da piccini. Non a caso le puree di pera sono spesso le prime scelte a base di frutta nell’alimentazione infantile.
In attesa di studi su scala, che probabilmente non arriveranno, ci limitiamo a riportare la cosa.
La pera e le sue fibre
Circa la metà delle fibre alimentari si trovano nella buccia, altro motivo per il quale sarebbe meglio consumare il frutto nella sua interezza.
Le fibre della pera sono sia fibre solubili che fibre insolubili, rendendola di fatto un valido alleato sia dal punto di vista metabolico (eccesso di colesterolo nel sangue, tolleranza al glucosio) che dal punto di vista “meccanico”, favorendo la regolarità intestinale.
Grazie all’abbondante apporto di fibra ed acqua conferisce anche sazietà a breve termine, rivelandosi efficacie anche nell’ottica di una dieta dimagrante, senza ovviamente dimenticare che apporta comunque delle calorie che devono essere, ovviamente, conteggiate. Non è un alimento “dimagrante” semplicemente perché tali alimenti non esistono.
Pera in gastronomia
La pera viene consumata cruda ma anche cotta e in preparazioni dolciarie, spesso con il cioccolato.
Sappiamo tramite il “De re coquinaria”, un’antica raccolta di ricette, che veniva consumata sia cotta che cruda già dai Romani e che le combinazioni con altri alimenti sono note da secoli, basti pensare a tutti gli aforismi che associano, solitamente, pera e formaggi (entrambi in passato consumati tipicamente a fine pasto e per questo associati).
Tra i prodotti a base di pera più consumati ci sono, però, senza dubbio i succhi di frutta.
In tal senso è bene fare un distinguo, valido per i succhi di frutta in genere. Ne esistono di vari tipi, da quelli super zuccherati, che di fatto sono junk food, a quelli composti interamente da frutta che hanno un aura di alimento super “healthy”.
Ebbene, anche in quest’ultimo caso dobbiamo tenere ben presente che non è l’equivalente che mangiare un frutto; il contenuto energetico, a parità di volume, è il medesimo ma lo stesso non possiamo dire di vitamine e, soprattutto, fibre, con tutto il discorso legato alla sazietà che si porta dietro. Due bicchieri belli pieni di succo posso berli senza problemi, se assetato, e difficilmente mi faranno sentire sazio, mentre tre pere, l’equivalente energetico, difficilmente le avrei consumate.
I succhi di frutta sono quindi più indicati per coloro che faticano a raggiungere un fabbisogno energetico particolarmente alto, ad esempio sportivi di endurance, molto meno per diete isocaloriche e sconsigliati in diete ipocaloriche.
Per usufruire di tutte le proprietà benefiche della pera occorre consumare il frutto fresco, nella stagione giusta e con tutta la sua buccia.
Il coccige (dal greco kòkkyx, ossia “cuculo”, per via della somiglianza con il becco di tale uccello), è una struttura ossea impari, composta generalmente da 4 vertebre fuse insieme, che contribuisce a comporre il complesso anatomico della colonna vertebrale, costituendone l’ultimo tratto.
È un osso piccolo e simmetrico dalla forma piramidale situato sotto alla base inferiore dell’osso sacro. Vista la sua localizzazione fornisce con la sua estremità superiore la superficie di contatto per l’articolazione sacro-coccigea, grazie alla quale va a costituire, insieme all’osso sacro, la parete posteriore della pelvi. Il coccige ospita l’inserzione di diversi muscoli aventi un ruolo nei movimenti dell’anca e nelle funzioni sfinteriche. Analizziamo ora la morfologia del coccige in maniera più specifica, così da comprenderne l’importanza e le funzioni.
Anatomia del coccige
Per descrivere l’anatomia dobbiamo necessariamente comprendere dove si trova il coccige.
Il coccige è un osso che insieme al sacro, alle vertebre lombari, toraciche e cervicali forma la colonna vertebrale, o rachide, struttura anatomica fondamentale che garantisce stabilità e movimento. Nell’essere umano il coccige può essere formato da 3 fino a 6 piccole vertebre saldate tra loro, ma nella maggioranza dei casi ne sono presenti 4.
Le dimensioni di questi “abbozzi vertebrali” vanno a diminuire dall’alto verso il basso, di conseguenza la vertebra più caudale è quella dalle dimensioni minori. La prima vertebra coccigea è l’unica a mantenere alcune caratteristiche tipiche delle vertebre: essa, nel coccige, è la più grande di dimensioni, e presenta ai suoi lati due protuberanze ossee dette “processi trasversi”, caratteristici della morfologia delle vertebre di tutto il rachide.
A differenza di queste, tuttavia, le vertebre del coccige sono prive di lamine, peduncoli e processi spinosi. Nei soggetti giovani sono presenti piccole articolazioni fra le vertebre coccigee, dette articolazioni inter-coccigee, tuttavia, in età adulta queste vanno incontro a un processo di fusione, che le va a saldare completamente.
Il coccige viene generalmente suddiviso in 6 regioni anatomiche: una base, un apice, una superficie anteriore o ventrale, una superficie posteriore o dorsale, e due superfici laterali.
Parti anatomiche del coccige
La base del coccige, piatta e posta sul margine coccigeo superiore, possiede una faccetta articolare piana che permette a quest’ultimo di articolarsi con l’ultima vertebra dell’osso sacro attraverso l’articolazione sacro-coccigea. Questa articolazione è dotata di un sottile disco fibrocartilagineo, ed è stabilizzata da numerosi piccoli legamenti, detti legamenti sacro-coccigei, che si dividono in anteriore, posteriore profondo e superficiale, laterali, e legamenti inter-articolari. I movimenti dell’articolazione sacro-coccigea sono minimi, permettendo piccolissime escursioni in flessione ed estensione al coccige rispetto al sacro; questa articolazione, inoltre, spesso si salda completamente nell’età adulta. Lateralmente e dorsalmente alla superficie articolare della base del coccige si sollevano verso l’alto due prominenze ossee, dette “corni del coccige”, che corrispondono ai processi articolari superiori delle altre vertebre del rachide, e si articolano con i corni del sacro, posti sulla superficie dorsale di questo, con un orientamento caudale.
L’apice del coccige rappresenta la parte più caudale del coccige, è una piccola protuberanza ossea che può presentarsi sulla linea mediana, o lievemente inclinato a destra o a sinistra. È orientato in basso e in avanti e ospita l’inserzione del muscolo sfintere anale esterno.
La superficie anteriore, o ventrale, si presenta con una lieve concavità, è rivolta verso il bacino e possiede tre solchi trasversali che corrispondono alla fusione delle vertebre coccigee. Ospita l’inserzione del muscolo elevatore dell’ano.
La superficie posteriore, o dorsale, si presenta invece con una lieve convessità, è rivolta posteriormente ed è rivestita dalla cute. Anch’essa, come la superficie anteriore, presenta tre solchi trasversali.
Le due superfici laterali, viste dall’alto verso il basso, sono oblique in senso latero-mediale e terminano a livello dell’apice. Qui sono situati i processi trasversi coccigei, caratteristici prevalentemente della base della prima vertebra coccigea, ma presenti, seppur in dimensioni minime e decrescenti dall’alto verso il basso, anche nelle altre vertebre coccigee.
Nella sua porzione superiore il coccige fornisce inserzione ai muscoli sacrococcigei anteriore e posteriore, piccoli residui atrofici di muscoli che nei mammiferi governano i movimenti della coda. Anteriormente è invece situata l’inserzione del muscolo ischiococcigeo, mentre sulla sua superficie posteriore il coccige ospita una porzione dell’inserzione del muscolo grande gluteo.
Funzioni del coccige
Il coccige rappresenta l’ultimo “residuo evolutivo” della coda presente nei nostri lontani antenati, ed ha essenzialmente tre funzioni principali: fornisce la superficie articolare per l’articolazione sacro-coccigea e i legamenti che la sostengono, si presta come punto di inserzione ossea di muscoli che muovono l’anca e di piccoli muscoli utili nella funzionalità sfinterica e del pavimento pelvico, e possiede infine un importante ruolo nel supporto del peso corporeo in posizione seduta, quando il baricentro del corpo è spostato posteriormente.
L’articolazione sacro-coccigea, con i suoi minimi movimenti di flessione ed estensione del coccige sul sacro, fornisce aiuto durante movimenti particolari che avvengono durante il travaglio e la defecazione. Queste caratteristiche rendono il coccige una struttura anatomica che, seppur non di fondamentale importanza, possiede un ruolo chiaro e distinto, utile nel supporto e nella funzionalità del corpo umano.
Frattura del coccige
A causa della sua posizione come tratto terminale della colonna vertebrale, il coccige risulta particolarmente esposto a traumi, e quando gli stress esterni sono talmente elevati e violenti da superare la soglia di resistenza dell’osso, questo può andare incontro a frattura. Questo può avvenire in situazioni come cadute a sedere violente, incidenti automobilistici e forti impatti negli sport da contatto come rugby e football americano.
La sintomatologia tipica è un forte dolore in zona peri-coccigea, esacerbata dalla stazione eretta, dagli sforzi fisici intensi e durante la defecazione. Il trattamento è nella maggior parte dei casi di tipo conservativo, con una completa risoluzione dei sintomi. Solo in rari casi, dovuti ad alterazioni del corretto riconsolidamento dell’osso, è necessario ricorrere all’intervento chirurgico, con l’asportazione completa del coccige.
Dolore al coccige: cause e trattamento
Il dolore al coccige, detto coccigodinia, rappresenta un problema scarsamente diffuso nella popolazione affetta da disordini muscoloscheletrici, con una prevalenza di circa l’1%.
La sintomatologia di solito è data da dolore localizzato in zona peri-coccigea, che tende ad aggravarsi con la compressione diretta di questa regione, o nell’alzarsi dalla posizione seduta. Può essere presente difficoltà e dolore nel mantenere a lungo la posizione seduta, nel flettere la colonna vertebrale, durante la defecazione e durante i rapporti sessuali, a causa dello stretto rapporto fra coccige e nervo pudendo, nervo sensori-motorio che innerva la zona dei genitali e del perineo.
Considerando che, potenzialmente, qualsiasi parte anatomica come osso, legamenti, muscoli e tendini in questa zona è in grado di provocare dolore, esattamente come accade per le problematiche di dolore lombare (o lombalgia), molto spesso non è possibile attribuire con totale sicurezza la causa del dolore coccigeo ad una determinata struttura; parliamo in questi casi di coccigodinia idiopatica.
Fra le possibili cause di coccigodinia troviamo traumi locali, spesso dovuti a cadute violente all’indietro con impatto diretto sul coccige, capaci talvolta di danneggiare legamenti e disco articolare con possibile sublussazione del coccige; lesioni da sforzo ripetitivo, presenti in sport come ciclismo, canottaggio, equitazione, che prevedono una continua pressione a carico del coccige; tumori o infezioni, molto rari, tra i quali troviamo il teratoma sacro-coccigeo, tumore benigno nella maggioranza dei casi, e l’osteosarcoma. Un’altra possibile causa infine può essere rappresentata da lesioni osteo-legamentose avvenute durante il parto, momento in cui la testa del neonato passa appena sopra la parte superiore del coccige, provocando su di esso una pressione a carico di disco e legamenti potenzialmente stressante, soprattutto considerando che durante la gravidanza questi sono dotati di maggiore flessibilità rispetto al fisiologico, a causa dell’importante rilascio nella donna dell’ormone ossitocina.
Oltre alle cause appena elencate, alcuni fattori contribuenti nello sviluppo di coccigodinia possono essere qualsiasi attività lavorativa o sportiva che preveda prolungate pressioni a carico del coccige come la guida di mezzi; il mantenimento per molto tempo di una postura seduta con il baricentro spostato posteriormente e allineamento scorretto, la sovrappesità e obesità, appartenere al sesso femminile (le donne riportano statisticamente una percentuale maggiore di dolore al coccige) e il fisiologico invecchiamento. Diversi autori riportano come alcune particolari morfologie congenite del coccige, come il coccige arcuato congenito, seppur asintomatiche nella maggioranza dei casi, possano a loro volta avere un ruolo nella patogenesi della coccigodinia, ma a tal riguardo non vi è un comune accordo in letteratura.
Il trattamento del dolore al coccige sarà dunque rivolto alla eliminazione o riduzione delle cause e dei fattori contribuenti ad esso, per quanto possibile. A tal fine risulterà importante curare l’allineamento posturale durante la posizione seduta, cambiando spesso posizione e inserendo periodici intervalli con brevi camminate , in modo da evitare di rimanere seduti per troppo tempo; evitare di mantenere il baricentro troppo posteriorizzato mentre si è seduti ( evitare dunque di “stravaccarsi” all’indietro) e sposare uno stile di vita sano e attivo, soprattutto nei casi di eccesso ponderale.
In alcuni casi possono risultare utili alcuni ausili per ridurre la pressione diretta sul coccige durante la posizione seduta, come dei cuscinetti morbidi a ciambella. Alcuni studi mostrano come anche la terapia manuale, effettuata da un fisioterapista abilitato, può avere un ruolo importante nella riduzione della sintomatologia. In caso di fallimento del trattamento conservativo, o in caso di casi gravi come tumori o infezioni, si può optare per un approccio chirurgico, che prevede la totale rimozione del coccige, e talvolta anche di una piccola parte del sacro.
Dott. Andrea Gargiulo
Fisioterapista laureato con 110 e lode all’università di Padova. Specializzato in riabilitazione dei disordini muscoloscheletrici e disfunzioni del movimento.
Lavoro a Mestre e Venezia.
Contatto mail: andrea.garg@hotmail.it
Bibliografia
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La colazione è il pasto più importante della tua giornata? O puoi saltare la colazionesenza conseguenze irreparabili? Fa bene, fa male? Come sempre, dipende.
Preferisci fare colazione altrimenti non ti senti attivo? Falla.
Riesci ad essere produttivo ed energico senza fare colazione? Non farla.
Vuoi approcciarti al digiuno intermittente (saltando la colazione) per dimagrire ma sei abituato a farla? Inizia gradualmente.
Ottenere benefici dalle tue abitudini dipende sempre dal contesto in cui le inserisci. Ad esempio: salti la colazione controvoglia e lo fai perché ti aiuta a creare un deficit calorico, ma poi durante la giornata hai più fame e recuperi tutte le calorie di deficit che avresti guadagnato non facendo colazione. E’ utile saltare la colazione per dimagrire? In questo caso assolutamente no, anzi è controproducente.
Che cosa succede se non fai colazione? Che cosa provoca?
In questo articolo cercheremo di far comprendere una volta per tutte se e come saltare la colazione. Quando è importante farla e quando potrebbe essere utile saltarla, partendo dai principi di biochimica e fisiologia cerchiamo di fare chiarezza sull’argomento colazione.
Riassumendo degli aspetti che saranno meglio sviscerati nel resto dell’articolo, sottolineiamo che saltare la colazione:
Non porta ad ipoglicemia
Non abbassa il metabolismo
Non fa soffrire la fame
Non manda in chetosi (stato metabolico spesso confuso con la chetoacidosi diabetica che si instaura dopo giorni di digiuno e non ore)
Chiarire questi quattro punti era essenziale per poter proseguire nell’articolo. Nota che questi non sono pareri personali ma concetti biochimici e fisiologici assodati. Non troverete in altri libri di biochimica o fisiologica altri concetti. Qui non stiamo parlando di uno studio che mostra una cosa e uno studio successivo mostra l’esatto opposto: stiamo esponendo la biochimica di base, universale per tutti gli esseri umani.
Saltare colazione fa bene o fa male? Quali sono i benefici?
Fare colazione è una cosa di buon senso: non si arriva alle 11 affamati e non ci si precipita al bar a mangiare qualsiasi cosa si trovi, non si sviene, non si abbassa il metabolismo, non si soffre la fame. Insomma, giustamente il vostro medico non vi dirà mai di saltare la colazione.
Cosa succede all’uomo comune dopo che salta la colazione? Si sente stanco, svuotato, affamato e gli gira la testa. Questo avviene perché in un’alimentazione normale e sana (60% delle calorie derivanti da carboidrati) noi diventiamo dipendenti da essi. Lo stato energetico del corpo è regolato dalla disponibilità esogena degli zuccheri, se non li mangiamo avvertiamo un malessere.
Ora questa dipendenza dal cibo non è una cosa cattiva, in atleti magri, con un’alta massa contrattile e che praticano sforzi glicolitici, una dieta fortemente glucidica permette d’aumentare la performance senza affaticare i sistemi metabolici. Gli zuccheri sono un carburante pulito per il nostro corpo e non lo affatica.
Nei sedentari (spesso in sovrappeso) questa dipendenza non è sempre ottimale. Com’è possibile che persone grasse con scorte energeticamente elevatissime (potrebbero stare mesi senza mangiare e non morirebbero di fame) se provano a saltare la colazione si sentono male?
Bastano poche ore di digiuno per mandare in crisi un sistema progettato per resistere settimane e mesi senza cibarsi. C’è sicuramente qualcosa che non va. Qui la dipendenza esogena dai carboidrati prende il sopravvento sui sistemi metabolici naturali. Abbiamo le riserve piene ma continuiamo a dipendere da fonti esterne, un po’ come se in Sicilia smettessero di mangiare le loro arance e comprassero solo quelle spagnole: ha senso?
Per dimagrire aiuta saltare la colazione?
Di per sé saltare la colazione non fa dimagrire, se poi con gli altri pasti della giornata assumi tutte le calorie che ti servono.
Certamente se siete in regime normocalorico e passate dal fare la colazione al non farla (mantenendo tutti gli altri pasti della giornata inalterati da un punto di vista calorico), questo passaggio può aiutarvi a farvi dimagrire perché entrerete in ipocalorica.
Ma bisogna essere molto attenti, iniziare a saltare la colazione di punto in bianco potrebbe portarvi ad avere più fame e quindi mangiare di più, recuperando le calorie “perse” non facendo colazione!
Invece, dopo la prima fase di assestamento ed il ritrovato equilibrio metabolico/energetico, il quadro ormonale produce un effetto anoressizzante diminuendo il senso della fame: non soffrirete la fame! Inoltre, in questo modo il metabolismo shifterà verso quello lipidico, bruciando grassi (fattore non determinante per una garantita pancia piatta ma che può contribuire).
Saltare la colazione fa ingrassare?
No, non influenza l’aumentare del tessuto adiposo, anzi! Nelle giuste condizioni (esplicitate tra poco) aiuta non fare colazione aiuta a dimagrire, ovviamente a seconda della persona e delle sue abitudini.
Prendete soggetti in sovrappeso abituati a saltare la colazione, fategliela fare e vedrete che dimagriranno.
Prendete soggetti in sovrappeso abituati a fare colazione, fategliela saltare e vedrete che dimagriranno.
In tutti e due i casi sono avvenuti adattamenti metabolici che hanno spezzato l’omeostasi che si era creata con le consuetudini alimentari.
Partite sempre dalla persona, in un soggetto diabetico tutto quello che abbiamo scritto non ha senso, ma nello stesso tempo partite anche dai principi biochimici e fisiologici.
Per quanto riguarda bambini ed adolescenti, saltare la colazione potrebbe più facilmente indurre obesità perché si innesca un circolo vizioso garantito dall’avere fame fuori casa e ricercare gli alimenti più palatabili, zuccherosi, grassi e calorici alle macchinette o al bar all’uscita da scuola. Che occasionalmente non ha alcun effetto, ma se un’abitudine sì.
Il metabolismo rallenta se salto la colazione?
Non fare colazione non vi abbassa il metabolismo: quando gli zuccheri scendono leggermente la glicemia viene sostenuta dalle catecolamine e dal cortisolo (ormoni che aumentano il metabolismo e la lipolisi) e dal glucagone. Il GH (in seguito al picco notturno) rimane ELEVATO, questo avviene perché il corpo sta lentamente shiftando il proprio metabolismo dagli zuccheri ai grassi.
Meno zuccheri sono disponibili più grassi utilizza per preservarli.
Se salto la colazione, aumenta la glicemia?
Per quanto riguarda il rapporto tra colazione e glicemia, saltare la colazione non vi manda in ipoglicemia, solo persone con gravi problemi di salute rischiano un abbassamento eccessivo degli zuccheri (questo è uno dei motivi per cui generalmente non sapendo chi abbiamo di fronte non possiamo consigliargli di saltare la colazione). In soggetti sani saltarla migliora i parametri glicemici e migliora la sensibilità all’insulina. Gli zuccheri nel sangue calano leggermente (quindi non aumenta la glicemia) portando le cellule muscolari ed adipocitarie ad aumentare i recettori cellulari all’insulina. IL VOSTRO CORPO IMPARA A NUTRIRSI ANCHE SENZA PICCHI GLICEMICI POSTPRANDIALI.
Saltare la colazione per disintossicarsi
Hai mangiato troppo e male per un paio di settimane e per recuperare pensi già ad una triste settimana di dieta restrittiva liquida, semi-liquida senza colazione e a base di frutta, verdura per disintossicarti: grazie a questo sicuramente il tuo corpo si disintossicherà. Idea triste e non necessaria: il nostro corpo è già programmato per detossificarsi da sostanze indesiderate o di rifiuto, grazie alla funzione metabolica del fegato.
Perciò, saltare la colazione non può “disintossicare” il tuo organismo.
Allo stesso modo assumere integratori o alimenti “detox” è inutile.
Saltare la colazione con il digiuno intermittente?
Saltare la colazione (e arrivare a fare 16-18 ore di digiuno) insegna al corpo a sfruttare le proprie riserve energetiche, con la costanza imparerete a non avvertire nessuna stanchezza, non sentirete nessuna fame o esigenza di mangiare, l’organismo imparerà ad autoregolarsi sfruttando al meglio i depositi di grassi e preservando il glicogeno epatico.
È consigliato non iniziare da zero a saltare la colazione, ci vuole gradualità. Iniziate a modificare la vostra colazione prediligendo frutta al posto dei cereali, yogurt magri rispetto a quelli con la frutta (questi ultimi hanno moltissimi zuccheri aggiunti), introducendo magari qualche noce o mandorla, o delle fonti proteiche come le uova (sul discorso colesterolo ne parleremo in un altro articolo).
Già così facendo i benefici saranno enormi, successivamente se avrete voglia di iniziate 2-3 giorni a settimana a saltarla per poi arrivare a stare 16-18 ore a digiuno sempre. Con un po’ di costanza (almeno 3 settimane) vi accorgerete che starete in piedi lo stesso, che quello che reputavate il pasto più importante della giornata forse non lo era.
Conclusioni: quando vale la pena saltare la colazione?
Saltare la colazione è una buona strategia per individui sovrappeso che sono abituati a farla: potrebbe aiutarli a dimagrire! O sostanzialmente per chi è già abituato a non farla.
Negli altri casi fare colazione ti consentirà di sentirti più attivo e carico per iniziare la giornata!
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Si tratta di una famiglia di molecole i cui effetti sull’organismo sono in realtà ben noti alla maggior parte delle persone. E forse dovrei dire che sono proprio loro, le nostre care catecolamine, che ci aiutano a comportarci di fronte a un brutto guaio, o che ci salvano letteralmente la vita in malaugurati incidenti. In realtà, queste molecole sono nostre compagne in situazioni molto più banali del quotidiano, come vedremo.
Le catecolamine sono una famiglia di molecole derivanti dall’amminoacido tirosina. Le classifichiamo come ormoni amminoacidici, ma anche come sostanze ad azione “simpaticomimetica”: come vedremo, sono importanti molecole la cui azione simula gli effetti del sistema nervoso simpatico. Parleremo pertanto di tre ormoni:
Adrenalina;
Noradrenalina;
Dopamina.
Vedremo come queste piccole molecole svolgono un ruolo essenziale nella fisiologia dell’organismo, portando avanti svariati meccanismi di regolazione: in particolare, provocano un incremento del metabolismo energetico e sono protagoniste nella definizione delle risposte dell’organismo allo stress psichico e fisico (con una risposta sinergica col cortisolo). Bisogna considerare che il corpo mette in atto quotidianamente, almeno una volta al giorno, complessi meccanismi di “difesa” in tutti gli individui.
Ogni giorno l’organismo si ritrova a registrare centinaia di stimoli esogeni e/o endogeni, alcuni dei quali vengono considerati “stressogeni” (ossia fattori che inducono un danno, effettivo o potenziale); ma perché ciò avviene? Perché’ solo così l’organismo sarà in grado di reagire prontamente ogni qualvolta si presentano situazioni realmente pericolose, al fine di non danneggiarsi e di mantenere il suo stato di equilibrio, o comunque una condizione quanto più vicina all’equilibrio.
Situazioni più o meno “alterate” (si pensi a un periodo di digiuno, il passaggio ad una attività lavorativa/sportiva/ambientale più faticosa fisicamente e/o mentalmente, condizioni climatiche estreme ecc.…) metteranno a dura prova il nostro sistema nervoso. I nostri cari ormoni simpaticomimetici verranno stimolati per ripristinare in tempi quanto più rapidi possibili una condizione effettiva stabilità. Per questa ragione è per noi tutti possibile condurre una vita normale, anche quando siamo particolarmente stanchi, nervosi o colpiti da una influenza. In questo articolo approfondiremo cosa è alla base di tutto ciò.
Sinetesi delle catecolamine
Come dicevamo, le catecolamine sono sostanze chimiche derivanti da un amminoacido non essenziale, la tirosina. La composizione molecolare di queste sostanze vede la presenza di un gruppo amminico (un gruppo basico) e un anello fenolico, il didrossibenzene (un anello benzenico con due gruppi alcolici).
La tirosina, sebbene non sia un amminoacido essenziale, viene sintetizzata nei mammiferi (e dunque nell’uomo) a partire della fenilanina, amminoacido talvolta essenziale e introdotto con una normale alimentazione. La reazione chimica che dalla fenilanina forma la tirosina, vede la comparsa del gruppo OH in posizione 6, nell’anello aromatico della fenilanina.
In generale, la sintesi, l’immagazzinamento e lo stoccaggio delle catecolamine, avviene a livello della midollare del surrene, dove abbiamo un gruppo di cellule definite “cellule cromaffini”, entro le quali si realizza tale processo. Le ghiandole surrenali sono due piccoli organi posti sulla sommità dei reni, comunemente paragonati a dei berretti per la loro peculiare forma.
La tirosina, prodottasi dall’idrossilazione della fenilanina, verrà, inoltre, utilizzata anche come substrato per la sintesi di altre molecole, come gli ormoni tiroidei e la melanina.
Adrenalina, Noradrenalina e Dopamina non si comportano soltanto come ormoni, ma vengono sintetizzate anche a livello del Sistema Nervoso Centrale e nelle terminazioni sinaptiche, dove svolgono un ruolo di neurotrasmettitori. Le catecolamine rientrano infatti nella categoria delle amine biogene, un gruppo di neurotrasmettitori comprendenti anche serotonina e istamina.
Facciamo un passo indietro per ricordare cosa sono questi neurotrasmettitori (NT): si tratta di molecole coinvolte nella comunicazione tra 2 o più neuroni su base chimica: le cosiddette “sinapsi chimiche”, comunicazioni polineuronali mediate da neurotrasmettitori. Un NT viene sintetizzato e immagazzinato nelle vescicole sinaptiche del primo neurone, e, una volta liberato, verrà riconosciuto e legato dai recettori appositi presenti nella membrana postsinaptica del secondo neurone, trasportando lì una informazione che determinerà l’avvio di una risposta eccitatoria, o inibitoria, da parte del neurone o della catena di neuroni a valle. Una sola molecola è cosi capace di innescare una cascata di eventi o, al contrario, bloccarla. Tornando alle catecolamine, esse si comportano da neurotrasmettitori prevalentemente eccitatori, responsabili di effetti notevoli per quanto riguarda il funzionamento del sistema nervoso.
La noradrenalina, detta anche norepinefrina, è contenuta nelle cellule neuronali di una regione pigmentata del tronco encefalico, il locuscoeruleus, il quale eccita diffusamente ampie aree del sistema nervoso centrale, ovvero l’ippocampo, il cervelletto, il midollo spinale e la corteccia encefalica. Come leggiamo in “Filologia Medica” (vol. 1, pag., a cura di F. Conti):
“[…] Dopamina, Noradrenalina e Adrenalina sono neurotrasmettitori di grande importanza nel SNC; sono responsabili dello stato diffuso di attivazione da parte dei neuroni adrenergici e noradrenergici del tronco encefalico (a seguito di un trauma o altre cause patologiche questa attività può venire a mancare determinando il coma) e hanno un ruolo fondamentale nella regolazione dell’attività del sistema nervoso autonomo.
La dopamina è il principale neurotrasmettitore dei gruppi neuronali del mesencefalo: la sostanza nera, che proietta ai gangli della base e interviene nella regolazione dei movimenti, e l’area ventrotegmentale, che proietta alle regioni limbiche (implicate nella valutazione emotiva e nei meccanismi neuronali della gratificazione) e alla corteccia frontale (implicata nella attivazione e programmazione dei comportamenti) […]”
Sarà nella midollare del surrene che la noradrenalina verrà convertita in adrenalina (o epinefrina), poi liberata in circolo nel sangue, in risposta all’attivazione dell’ormone a partire da uno stimolo. È interessante notare come, durante lo sviluppo embrionale dell’uomo, le cellule della midollare del surrene, nonostante l’evidente distanza anatomica con le altre strutture del sistema nervoso periferico, abbiano la stessa origine del sistema simpatico. Come quest’ultimo, inoltre, vengono innervate da neuroni colinergici, la cui stimolazione induce la liberazione di catecolamine.
Capiamo bene, dunque, perché gli effetti sistemici indotti dalle catecolamine surrenaliche nell’organismo risultino pressoché identici agli effetti scatenati da una attivazione simpatica. A scopo didattico, ricordiamo che nella midollare surrenalica prevale l’adrenalina, nelle terminazioni periferiche del sistema simpatico la noradrenalina, mentre nel sistema nervoso centrale avremo più dopamina e noradrenalina.
Azione delle catecolamine
Come abbiamo accennato all’inizio, elevati livelli di catecolamine nel sangue si registrano come risposta fisiologica a elevati livelli di stress psicofisico, e portano all’attivazione di un quadro di reazioni tradizionalmente definito come il meccanismo del “combatti o fuggi”, in quanto racchiude tutte le reazioni fisiche, biochimiche e metaboliche degli stati di allerta e di emergenza che contraddistinguono gli animali (esseri umani compresi). Le reazioni innescate dalle catecolamine hanno senza dubbio consentito all’uomo di resistere di fronte alle avversità ambientali nel corso della storia, tanto nel passato quanto nel presente. Facciamo dei semplici esempi che, pur bizzarri e distanti tra loro, rimandano alla stessa situazione-tipo:
A: In epoca preistorica, un uomo in fuga da un feroce branco di lupi, poteva trovarsi nell’immediata necessità di correre rapidamente, o di arrampicarsi, se necessario, anche a costo di ferirsi, e i suoi muscoli dovevano rispondere e sostenere questo inaspettato sforzo estremo, altrimenti un qualsiasi cedimento gli sarebbe costato la vita.
B: Un tipico studente, di fronte ad un esame particolarmente difficile, teme di non aver studiato a sufficienza. Nel momento di sedersi ed essere interrogato, colto dall’ansia, si guarda intorno, tremante, come se, da un momento all’altro, potesse davvero “fuggire” da una situazione che lo sta mettendo emotivamente a dura prova…
Ebbene, cos’hanno in comune? In entrambe le situazioni il protagonista sta “reagendo” a un elemento di disturbo, incarnato prima dal branco di lupi, poi dall’eventuale bocciatura, ed entrambi innescano uno stato di allarme generalizzato. Dopotutto, chi non ha mai sperimentato una bella “scarica di adrenalina”? Un improvviso stato di agitazione, che provoca forti palpitazioni al petto, fiato corto e accelerato, macchie di sudore… ci siamo ‘cascati’ tutti, forse proprio nei panni del malcapitato studente.
Dunque, il rilascio di catecolamine ha lo scopo di preparare l’organismo ad uno sforzo psicofisico importante in tempi brevissimi. Cosa dovrà avvenire affinché ciò si realizzi? Un corollario di reazioni, proprio grazie alle catecolamine. Prima di tutto, la disponibilità di substrati energetici propri del muscolo dovrà essere incrementata, assieme alla rimozione di sostanze di scarto (attraverso l’incremento del tasso di filtrazione renale), altrimenti il catabolismo generalizzato (dovuto al fatto che l’organismo inizia a “consumare” di più) porterebbe in tempi rapidi a un drammatico accumulo di fastidiose sostanze tossiche (cataboliti, per l’appunto).
Inoltre, tutti gli organi vitali (cuore, cervello, fegato, polmoni) dovranno essere riforniti rapidamente di energia di pronto utilizzo, poiché verrà loro richiesta la migliore delle performance, anche a costo di trascurare altri distretti non propriamente vitali per la sopravvivenza del soggetto (intestino, vescica, organi riproduttivi…). Insomma, il tasso metabolico aumenterà fortemente.
Differenza tra adrenalina e noradrenalina
L’aumentata secrezione delle catecolamine è più comunemente definita come attivazioneadrenergica. In definitiva, però, adrenalina e noradrenalina non hanno gli stessi effetti. Oltre ad illustrare le differenze, ci soffermeremo un minimo anche a ragionare anche sul perché delle stesse.
L’adrenalina viene prodotta maggiormente quando siamo di fronte a stimoli di intensità bassa, e raggiungerà il suo picco al 60% circa dello sforzo. E fin qui tutto bene. L’adrenalina, a questo punto, causerà gli effetti noti: immediate saranno le conseguenze sul sistema cardio circolatorio con aumento della gittata cardiaca (volume di sangue eiettato dai ventricoli in un minuto) e della pressione arteriosa sistolica, e la diminuzione della pressione arteriosa diastolica; si realizza l’aumento del flusso ematico nel compartimento muscolare, renale e cutaneo. Come accennato nell’esempio di prima, infatti, l’efficienza del muscolo e del rene sono molto importanti in vista dei grossi sforzi fisici che il corpo “prevede” di sostenere, e dell’enorme quantitativo di cataboliti che lo stesso si prepara a eliminare.
E la cute, in tutto ciò? La vasodilatazione aiuterà a dissipare l’elevata quantità di calore generata dai vari processi metabolici evidentemente accelerati.
Da un punto di vista squisitamente metabolico, assisteremo all’ incremento della glicogenolisi e della lipolisi. Ebbene sì, ho un catabolismo generalizzato: lo stoccaggio di energia avverrà grazie alla demolizione di glicogeno epatico e muscolare, e di grassi dal tessuto adiposo, ossia le principali fonti di immagazzinamento di energia (purtroppo, alla lunga vengono aggredite anche le proteine muscolari). La vasodilatazione e l’aumento del flusso ematico negli organi principali si accompagnerà a vasocostrizione periferica (pensiamo alle nostre povere dita delle mani pallide e fredde dopo una corsa sostenuta all’aperto in pieno inverno…).
In generale, l’adrenalina in circolo accelera il metabolismo energetico e stimolal’attività respiratoria (incrementando la dilatazione dei bronchioli). Durante una corsa intensa, noteremo i bei respiri profondi che riusciamo a fare man a mano che l’attività si fa più impegnativa. Ultimo, ma non meno importante, è l’aumento dello stato di vigilanza: pensiamo a quante volte ci siamo svegliati di soprassalto in piena notte a causa di un forte tuono nel bel mezzo di un temporale… agitazione, battito cardiaco accelerato, paura… sbaglio o riusciamo a recuperare il sonno solo dopo esserci accertati che si tratti davvero una banale pioggia?
Poiché’ l’adrenalina è la prima ad essere rilasciata in presenza di uno stimolo di bassa intensità, capiremo come durante un esercizio fisico blando/moderato, o statico, la secrezione dell’adrenalina prevale su quella della noradrenalina.
La secrezione della noradrenalina inizia in presenza di un esercizio fisico di elevata intensità, con un picco secretorio attorno al 70-75% dello sforzo. Tale sostanza si rende prevalentemente responsabile delle manifestazioni cardiovascolari compensatorie fondamentali ad un esercizio intenso, come l’incremento del battito cardiaco e dell’irrorazione sanguigna squisitamente cardiaca (con dilatazione delle arterie coronarie) ed un ulteriore incremento della pressione arteriosa.
Come avremmo intuito, l’organismo vede l’esercizio fisico come una causa di stress notevole, tanto da innescare un vero e proprio modello metabolico del “combatti o fuggi”. Dunque, l’esercizio intenso in generale è percepito come una situazione evidentemente più impegnativa, se non dannosa, tanto da attivare una reazione adrenergica proporzionale all’intensità dell’esercizio stesso. Stiamo parlando di un meccanismo di “difesa”, assolutamente fisiologico, e a dir poco impeccabile.
Come la maggior parte dei composti biologicamente funzionali del nostro corpo, le catecolamine, al termine della loro attività biologica, vengono metabolizzate e rese composti inattivi. Tali composti inattivi (cataboliti) prendono il nome di metanefrina e normetanefrina, e si ottengono rispettivamente a partire da adrenalina e noradrenalina. Le catecolamine e i loro corrispondenti cataboliti si ritrovano fisiologicamente in piccole concentrazioni nel plasma sanguigno. Poiché’ le metanefrine sono sostanze di scarto biologicamente inattive, dovranno essere eliminate attraverso le urine. Anche nelle urine è dunque possibile rilevare tali composti ed effettuare il loro dosaggio.
Catecolamine urinarie: perché effettuare il dosaggio delle catecolamine urinarie?
Non si tratta di un esame “di routine”, dunque lo si richiede solo in presenza di determinati sintomi, ad esempio nei soggetti ipertesi, con valori pressori scarsamente sotto controllo o che presentano inspiegabili e preoccupanti picchi pressori. In particolare, l’esame si effettua in presenza di chiari segni di una iperattivazione adrenergica inspiegabile: il quadro clinico è quello tipico di un soggetto che accusa forti cefalee, sudorazione profusa, palpitazioni, battito cardiaco percepito come inspiegabilmente “forte”, stati di angoscia immotivati.
È bene sottolineare come i sintomi descritti siano sicuramente comuni a molte altre condizioni (stati di ansia senza cause apparenti o problemi cardiaci primitivi sono alcuni esempi). Di fondamentale importanza per il medico sarà escludere altre condizioni preesistenti, non necessariamente patologiche.
Un eccesso di catecolamine potrà essere totale o riguardare solo adrenalina o noradrenalina, pertanto il medico effettuerà una misurazione differenziata di metanefrina e normetanefrina. Tuttavia, piccole differenze sono molto difficili da individuare a causa dei limiti di sensibilità dell’indagine strumentale stessa. In ogni caso, tali sostanze quando in eccesso si rileveranno inevitabilmente fuori dal range di concentrazione considerato normale nelle urine.
Sarà possibile fare una diagnosi corretta soltanto dopo aver eseguito la raccolta e l’analisi delle urine nelle 24 ore; un singolo campione urinario infatti potrebbe non essere sufficientemente accurato poiché’ la secrezione di catecolamine è soggetta a variazioni nelle 24 ore. Il test urinario delle 24 ore è più approfondito e ci aiuta ad individuare anche eventuali ipersecrezioni non rilevabili nel dosaggio plasmatico delle catecolamine.
Se abbiamo valori troppo elevati, cosa significa?
Nelle 24 ore, valori normali di catecolamine urinarie sono compresi nell’intervallo: 0-320 microgrammi
Valori particolarmente superiori a tale intervallo sono considerati patologici.
Una ipersecrezione di metanefrine indirizza subito il medico al surrene, poiché’ potrebbe essere la conseguenza di un feocromocitoma, un tumore secernente catecolamine. Inoltre, il dosaggio delle catecolamine viene richiesto anche per monitorare un paziente dopo che egli ha subito un intervento di rimozione di tale tumore, al fine di valutare se le terapie sono state efficaci e non vi sia stata una recidiva.
Tuttavia, esistono anche altre cause di ipersecrezione di catecolamine. Ad esempio, una iperattivazione cronica del sistema simpatico causa ipersecrezione adrenergica ed è la conseguenza di alcune patologie cardiache croniche importanti come lo scompenso cardiaco.
Risultati anomali del test urinario e plasmatico possono effettivamente essere causate anche da stati di ansia eccessiva (ad esempio dopo traumi o situazioni particolarmente stressanti nell’ambiente lavorativo)
Un’altra causa importante è da ricercare nell’abuso di sostanze voluttuarie: nicotina, caffeina, alcol e alcuni tipi di sostanze stupefacenti (amfetamina, cocaina, efedrina).
Per escludere cause diverse da un tumore della ghiandola surrenale, il medico spesso sceglie di eseguire il test urinario utilizzando una sostanza che inibisce il tono del simpatico, la clonidina. In questo modo, le catecolamine rilevate nelle 24 ore saranno solo quelle di origine surrenalica e, se presenti in concentrazioni eccessive, saranno indicative di un problema del surrene.
Valori bassi di catecolamine fortunatamente sono considerati clinicamente irrilevanti.
Catecolamine plasmatiche
Reazione attacco/fuga
Come accennato prima, le catecolamine e le metanefrine sono dosabili nel plasma sanguigno, e in condizioni normali sono presenti in piccole concentrazioni. Il dosaggio delle catecolamine plasmatiche viene eseguito normalmente quando si sospetta un feocromocitoma, assieme al dosaggio che si effettua nelle urine. Il dosaggio delle catecolamine plasmatiche viene solitamente effettuato assieme al dosaggio delle catecolamine urinarie. Come precedentemente accennato, il dosaggio plasmatico è un esame molto utile ma soltanto il test urinario nelle 24 ore permetterà di individuare eventuali variazioni patologiche sfuggite al dosaggio plasmatico.
Per effettuare l’esame delle catecolamine plasmatiche occorre un prelievo di sangue venoso (solitamente dal braccio). È necessariamente richiesto il digiuno nelle precedenti 8/10 ore e sarà importante evitare alimenti o bevande che potrebbero falsare il risultato dell’indagine. Dunque, il soggetto in esame eviterà alimenti contenenti caffeina (caffè, cioccolato), tè, tabacco, epinefrina o analoghi e alcuni farmaci segnalati dal medico come l’acetaminofene, nei giorni precedenti al test.
Valori di catecolamine plasmatiche normali sono:
metanefrine < 90 picogrammi/ml
normetanefrine < 180 picogrammi/ml
Si considera anche un piccolo margine di variabilità individuale e correlata ad età e sesso dell’individuo.
Il test delle metanefrine plasmatiche risulta avere una grande sensibilità e un buon valore predittivo. Ciò significa che il test è positivo in quasi la totalità dei malati (abbiamo pochi falsi negativi), ed è molto probabile che chi risulta positivo al test sia davvero malato (il numero di falsi positivi è ridotto).
Le condizioni associate a valori troppo elevati di catecolamine plasmatiche sono le stesse che abbiamo descritto in merito a valori elevati di catecolamine urinarie. Se presenti delle anomalie nella concentrazione di catecolamine, tali anomalie si traducono in un risultato anomalo di entrambi i test (plasmatico e urinario).
Dunque, in presenza di un leggero eccesso di catecolamine, normalmente il medico effettua altre indagini; verrà valutato lo stile di vita del paziente (livello di stress, dieta, consumo abituale di sostanze voluttuarie) e saranno effettuati altri esami clinici e strumentali al fine di escludere eventuali malattie cardiache come lo scompenso cardiaco.
Il medico indagherà repentinamente lo stato di salute del surrene qual ora venga rilevato un valore di catecolamine particolarmente elevato, soprattutto in un paziente che ha avuto un precedente feocromocitoma poiché’ tale patologia può recidivare. Le patologie tumorali più comuni responsabili dell’ipersecrezione di catecolamine sono il feocromocitoma o il paraganglioma (raro tumore extra-surrenalico). Lo stato del surrene verrà valutato attraverso una ecografia e, in seguito, se necessario, una risonanza magnetica.
Allenamento e catecolamine: accoppiata vincente
Ci sono 4 fattori principali che influenzano l’intensità della risposta adrenergica (oltre, logicamente, alle variabili individuali). Caratteristicamente, l’attivazione di tale meccanismo si riduce con l’allenamento. Che significa? Vuol dire che la risposta adrenergica subisce un’evoluzione nel tempo, in relazione alla frequenza dell’esercizio stesso, o meglio, in relazione all’abitudine all’esercizio. Siamo di fronte a uno dei meravigliosi pilastri su cui si fonda il concetto stesso di allenamento, ma non ci dilungheremo troppo; limitiamoci ad un esempio.
Mario è un nuotatore alle prime armi. Una volta imparata la tecnica dello stile libero, egli decide di cimentarsi nell’allenamento della resistenza aerobica, e inizia a nuotare e percorrere un piccolo numero di vasche. Inizialmente sente che quest’attività sia estremamente faticosa e innaturale (ha il respiro corto dopo pochi metri, difficoltà ad entrare in acqua all’inizio dell’allenamento, movimenti rigidi e difficoltà nella respirazione…). Dunque, nelle prime fasi di questo nuovo allenamento intrapreso in acqua, Mario si sentirà letteralmente a disagio, e tale disagio sarà fortemente dovuto alla grande quantità di catecolamine che egli si ritrova in circolo quando si tuffa in acqua. Ma, se torniamo al nostro Mario dopo qualche anno di allenamento progressivo e regolare, vedremo come i suoi livelli di catecolamine siano decisamente diminuiti durante il nuoto, e Mario nuota con grande fluidità senza più alcun disagio, percorrendo un buon numero di vasche.
Il sistema adrenergico dunque, percepisce quanto siamo allenati? Presumibilmente sì: l’abitudine a una certa attività porta il nostro sistema nervoso a reagire meno intensamente. Il nostro bravo nuotatore non ha più bisogno di adrenalina e noradrenalina in esubero per organizzare al meglio i suoi movimenti: il suo cervello si è abituato all’ambiente acquatico, che non è più percepito come potenzialmente pericoloso. La reazione adrenergica, pertanto, decresce con l’allenamento regolare, ma nello stesso tempo aumenta con l’aumentare della durata dell’esercizio. Se il nostro caro nuotatore si abitua a nuotare per 1 ora 3 volte a settimana, nel tentativo di portare a 2 ore lo stesso allenamento da un giorno all’altro, vedrà aumentare i suoi cari ormoni dello stress (è chiaro: l’aumento dello stato di fatica si traduce nell’ aumento dello stato di stress psicofisico).
Altri importanti fattori stressogeni che comportano una aumentata reazione adrenergica saranno il digiuno (che porterebbe all’ipoglicemia, e dunque a una richiesta ulteriore di substrati energetici anche in condizioni di riposo, oltre che durante un esercizio fisico qualsiasi) e la temperatura a livelli estremi (se troppo alta o troppo bassa mette a dura prova il nostro sistema nervoso, oltre che l’organismo intoto).
Cosa portarsi a casa
la reazione adrenergica che accompagna l’esercizio fisico ha lo scopo di preparare l’organismo a condizioni di stress psicofisico elevate, causando:
broncodilatazione e aumento della frequenza respiratoria
glicolisi e gluconeogenesi e glicogenolisi, con aumento della glicemia per aumentata liberazione di glucosio a partire da substrati di natura glucidica e non (vedi grassi)
inibizione della glicogeno sintesi (non avrebbe senso produrre scorte energetiche di glicogeno in condizioni di aumentata richiesta di energia prontamente disponibile)
aumentata lipolisi
riduzione dell’insulina e aumento del glucagone (ormone agonista delle catecolamine, ma che agisce in maniera preferenziale attaccando le scorte di glicogeno epatico)
Abbiamo parlato di lipolisi? Le catecolamine sono ormoni brucia grassi?
Una piccola osservazione sul ruolo delle catecolamine nell’incremento della lipolisi e del metabolismo basale: senza dubbio, una quantità normale (ossia, soggetta a variazioni fisiologiche) di catecolamine nel corso della giornata regola i processi di biosintesi e di stoccaggio di riserve energetiche particolarmente rappresentate dal glicogeno e dai grassi. I livelli di catecolamine aumentano come conseguenza immediata dell’esercizio fisico, accompagnato da una dieta ipocalorica (o anche, semplicemente, mentre si segue una dieta che prevede un deficitcalorico) nei soggetti che desiderano perdere peso.
Nello stesso tempo, condizioni di elevato stress psicofisico e soprattutto persistente in un arco di tempo lungo (tropo a lungo per l’organismo) non portano a conseguenze desiderabili. Ecco perché diete estreme e stili di vita al limite sono insostenibili nel lungo periodo, nella stragrande maggioranza dei casi. Il nostro consumo energetico a riposo può aumentare, in condizioni normali, fino a un certo punto, poiché il corpo dovrà necessariamente mantenere un suo equilibrio e garantire la propria sopravvivenza: il corpo sa che ad un certo punto le riserve energetiche scarseggeranno (percepisce uno stato di “carestia”), dunque deve correre ai ripari prima che ciò si realizzi. Grazie ai meticolosi modelli di regolazione a feedback negativo, il corpo impedisce un’eccessiva perdita di substrati energetici nel lungo periodo, e lo fa a spese del metabolismo basale.
Molto semplicemente: abbiamo troppe catecolamine in giro? Il surrene lo percepisce, e smetterà di rilasciarne in circolo. Conseguenze? Stop alla perdita di peso, alterazioni dei parametri del sangue, persistente stato di spossatezza, difficoltà di concentrazione e molto altro. Alcune di queste condizioni si verificano durante diete estreme, mal controllate e protratte a lungo, ma non solo; anche nei cali di performance, gli infortuni inspiegabili e l’iperreattività fisica tipici del sovrallenamento.
Quindi?? Attenzione, attenzione: è necessario conoscere e sapere come utilizzare al meglio le risorse del nostro corpo, ma mai portarsi a ciò che per noi percepiamo come il nostro eccesso, per non ottenere conseguenze indesiderate. Scegliere uno stile di vita e prefissarsi degli obiettivi deve sempre verificarsi nell’ottica di un benessere psicofisico che tolleri condizioni di stress comprese nei limiti del buonsenso.
Malattie e catecolamine
Ci sono anche altre condizioni meno comuni che portano ad un aumento di catecolamine nel sangue, ovvero patologie tumorali e malattie genetiche rare, caratterizzate dall’aumento dei livelli di catecolamine assieme ad un ventaglio di manifestazioni cliniche. Tra le forme tumorali nominiamo:
Il neuroblastoma, un tumore solido infantile;
Il feocromocitoma, un tumore benigno della midollare surrenalica, che iperproduce catecolamine;
Poi, esistono altre condizioni, come ildeficit della beta idrossilasi, il deficit della tetraidrobiopterina e la carenza della beta idrossilasi, sindromi genetiche che provocano la mancanza di importanti enzimi e/o cofattori coinvolti nella sintesi delle catecolamine o di loro precursori.
Conclusioni
Abbiamo trattato gli aspetti principali di queste interessanti molecole, le catecolamine. Riporto, in queste ultime righe, il contenuto di recenti studi che rilevano come le modificazioni metaboliche indotte da adrenalina, noradrenalina e in particolare la dopamina nelle strutture del sistema nervoso centrale si traducano col tempo in vere e proprie modificazioni plastiche del tutto positive per l’organismo in toto.
Un occhio di riguardo è stato posto agli effetti dell’attività fisica nelle persone sane, e delle sostanze liberate in circolo durante e dopo l’esercizio fisico nell’individuo (tra cui, ovviamente, le nostre catecolamine, chiamate anche con il termine di neurotrofine).
L’attività fisica, le modificazioni e gli effetti a lungo termine sulla pressione arteriosa e sulla glicemia indotte dall’esercizio fisico, vengono ormai considerate come una forma di prevenzione nei confronti di malattie neurodegenerative (Parkinson, Alzheimer, Sclerosi Multipla…) e metaboliche (diabete, aterosclerosi…), se non una vera e propria opzione terapeutica, al pari di trattamenti farmacologici. Insomma, sembra proprio che l’attività fisica faccia tanto bene anche al cervello. Questa è solo una delle tante affascinanti conferme di quante potenzialità possiede il corpo, e all’unità indissolubile tra corpo e mente.
M. Di Liegro, review da PhisicalActivityandBrainHealth, Genes (Basel), 2019 – consultabile dalla piattaforma PubMed
Note sull’autrice
Susanna Travaglini, classe ’98, nata ad Ascoli Piceno, studia medicina e chirurgia presso l’universita’ degli studi dell’Aquila. Da sempre appassionata di allenamento e fitness.
Non puoi vivere senza carboidrati, senza grassi e nemmeno senza proteine: la quota proteica giornaliera è importante da raggiungere per il mantenimento della tua salute.
Il fabbisogno proteico non è uguale per tutti, dipende da più fattori ma in questo articolo puoi trovare delle indicazioni per orientarti e capire meglio qual è il tuo reale fabbisogno proteico giornaliero, tramite un semplice calcolo della proteine.
Fabbisogno proteico giornaliero: quante proteine devo assumere al giorno?
La risposta non può essere immediata ed univoca. E come in ogni cosa, eccedere non è mai la strategia più intelligente.
Le stime “standard” riguardo al fabbisogno proteico, che sentirai pronunciare più o meno da ogni medico, corrispondono sempre a circa 0.8 g/kg peso corporeo. Ad esempio, per un individuo di 80 kg corrisponderebbero circa 65 g di proteine.
Questo valore non è casuale, ma corrisponderebbe a stime ricavate misurando e comparando l’escrezione urinaria di azoto: un fattore di indice del turnover proteico, cioè il “ricambio” e il “consumo” protidico giornaliero. Ricordiamo che il bilancio azotato è un test quantitativo ma non qualitativo, perché tiene in considerazione solo la qualità di proteine assunte ma non lo spettro amminoacidico.
Fabbisogno proteico giornaliero secondo l’OMS
Nelle tabelle indicate dall’OMS per una persona adulta (> 18 anni) sono indicati 0.66 g proteine per ogni chilo di peso corporeo, sia per gli uomini che per le donne. Questo valore vale se sei un soggetto sedentario, all’aumentare del livello di intensità dell’attività fisica aumenta anche il fabbisogno proteico (parte meglio analizzata successivamente).
Per gli anziani l’intake proteico consigliato è 0.8 g/kg peso corporeo, che associato ad un programma adatto di allenamento contro resistenze si traduce in un aumento della massa muscolare e della forza.
Quali sono i LARN sulle proteine
Il fabbisogno proteico non è uguale per tutti, varia a seconda dell’età, del sesso e del peso corporeo. Nella tabella sono indicati i livelli di assunzione di riferimento per la popolazione italiana (LARN).
Età soggetto
Peso corporeo (kg)
g di proteine/kg peso corporeo/giorno
6-12 mesi
8.6
1.11
1-3 anni
13.7
0.82
4-6 anni
20.6
0.76
7-10 anni
31.4
0.81
Maschi 11 – 17 anni
49.7 – 66.6
0.79
Femmine 11 – 14 anni
50.7
0.77
Femmine 15 – 17 anni
55.7
0.72
Maschi > 18 anni
70
0.71
Femmine > 18 anni
60
0.71
https://sinu.it/2019/07/09/proteine/
Nel caso di donne in gravidanza o in fase di allattamento, il fabbisogno proteico aumenta. A riguardo, valori più precisi sono analizzati nel paragrafo dedicato al fabbisogno proteico per le donne.
Fabbisogno proteico nel bodybuilding
Per il o la bodybuilder l’apporto proteico è essenziale per supportare la massa muscolare in termini di adattamento e recupero. Se la quota di proteine assunta è insufficiente in associazione ad una dieta ipocalorica, il risultato è una riduzione del muscolo, una compromissione degli adattamenti all’allenamento e della funzione immunitaria.
Il range proteico per chi fa bodybuilding è abbastanza ampio, tra 1.4 e 2.4 g/kg/giorno per gli uomini. Per le donne invece, essendo anche minore il numero di studi a riguardo, è indicato arrivare anche fino a 2.8 g/kg/giorno.
Assumere una buona quota proteica del peri-workout (prima e/o dopo l’allenamento) insieme ad una fonte di carboidrati favorisce una miglior sintesi proteica.
Fabbisogno proteico in fase di massa
Durante la fase di massa è indispensabile incrementare la densità calorica dei pasti per assumere più calorie e favorire i processi anabolici.
Secondo uno studio effettuato su chi fa bodybuilding, per incrementare la crescita in questa fase, la ripartizione dei macronutrienti è la seguente:
25-30% proteine: per ottimizzare la crescita muscolare
55-60% carboidrati: per fornire un sufficiente apporto energetico agli allenamenti
15-20% grassi: per garantire il mantenimento di adeguati livelli di testosterone nel sangue
Fabbisogno proteico per lo sportivo e l’atleta
Al crescere dell’intensità dello sport praticato o della seduta di allenamento, aumenta il fabbisogno proteico: le esigenze sono differenti rispetto ad un sedentario.
Ormai numerosi studi hanno dimostrato come non solo l’attività sportiva agonistica, ma anche quella che potremmo inquadrare nel fitness aumenterebbe la richiesta di assunzione proteica, rendendo non più soddisfacente il valore indicato dalla RDA.
Qui i dati che si possono estrapolare sono senz’altro che interessanti e tendono a far variare l’assunzione tra i 1.4 g/kg/giorno per atleti di endurance a 1.8 – 2 g/kg/giorno per atleti di sport di forza.
Mentre per le richieste proteiche dell’utente medio di fitness o quelle di sport cosiddetti ‘aciclici’ sembrerebbero incrementare fino a 1g/kg/giorno nel primo caso e1.6 g/kg/giorno nel secondo.
Qual è il fabbisogno proteico per le donne?
Sostanzialmente non c’è una differenza di apporto proteico consigliato tra uomo e donna adulti, come si può anche evincere dalla tabella soprastante, nonostante sicuramente il metabolismo basale più basso e la maggior quantità di percentuale di tessuto adiposo.
Chiaramente, quando la donna entra in uno stato di gravidanza o allattamento le esigenze del corpo cambiano: aumentano.
Durante il primo trimestre di gravidanza c’è un incremento del fabbisogno proteico di 0.5 g/giorno, valore che aumenta fino a + 21 g/giorno nel terzo trimestre. Invece, a partire dal primo semestre di allattamento i grammi in più sono 17, mentre durante il secondo 11 g.
Con l’avanzare dell’età per le donne è bene aumentare l’apporto proteico: da circa 0.70 g/kg peso corporeo passiamo a una dose consigliata maggiore di 0.84 g di proteine. Questo perché con la menopausa e il normale invecchiamento, è fisiologico il deterioramento della massa ossea, che si indebolisce. Ma, con una dieta ricca di proteine, si può cercare di limitare il danno: un alto apporto amminoacidico porta alla stimolazione del fattore di crescita insulino-simile, che promuove la crescita ossea.
Calcolare il fabbisogno proteico in base allo stile di vita
Una persona che pratica attività sportiva “altera” in questo modo il suo normale fabbisogno di macronutrienti (principalmente carboidrati e proteine) e ha bisogno di una maggiore quantità per mantenere il peso corporeo, ricaricare le scorte di glicogeno epatico e fornire un adeguato in-take proteico per la sintesi di nuovo tessuto muscolare, per ripristinare le microlacerazioni tissutali dovute agli sforzi meccanici e per tamponare la maggiore ossidazione di amminoacidi.
Anche qui va detto che si tratta di stime e valori medi, che possono variare in base a soggettività, abitudini, capacità di adattamento biologico ed esigenze del singolo individuo.
Lyle McDonald (uno dei massimi ricercatori di fama mondiale) per calcolare il proprio fabbisogno proteico suggerisce di utilizzare la seguente tabella e di applicare un semplice calcolo (esempi nei paragrafi successivi).
Livello di attività
Grammi di proteine (g)
Sedentario
0.75
Attività aerobica
1
Attività contro resistenze (pesi)
1.5
Calcolo fabbisogno proteico per la palestra e il bodybuilding
Il calcolo prevede: massa magra in libbre (peso totale – massa grassa) x il coefficiente proteico della tabella.
Per calcolare il peso da kg a libbre basta moltiplicare per 2.2.
Un uomo di 80 kg che fa palestra seriamente 3-4 volte a settimana col 15% di massa grassa quante proteine deve assumere secondo Lyle? Per prima cosa calcoliamo la sua massa magra, che corrisponde all’85% del peso totale à 68 kg (80 x 0.85). Moltiplichiamo 68 x 2.2 = 150 libbre e poi 150 x 1.5 = 225 à 225 sono i grammi di proteine da assumere (pari a circa 1.6-1.7g/kg di peso corporeo).
Calcolo proteine giornaliere per un sedentario
Per il calcolo basta semplicemente seguire il procedimento indicato nel paragrafo precedente, facendo attenzione a sostituire 1.5 con 0.75 (come indicato nella tabella soprastante).
Dove sta la verità sul fabbisogno proteico?
Probabilmente l’individualità biochimica è la miglior risposta. Studiate, leggete la bibliografia scientifica a riguardo ma poi provate nel pratico la miglior combinazione. Sicuramente molti soggetti che assumono buoni quantitativi glucidici (carboidrati) hanno bisogno di meno proteine.
Proteine o carboidrati?
Un altro parametro importante da tenere in considerazione quando parliamo di fabbisogno delle proteine è proprio ‘il resto’ dell’alimentazione: quanti carboidrati e proteine sto assumendo?
Nel corpo umano troviamo delle cellule glucosio-dipendenti, come i globuli rossi e i neuroni del sistema nervoso. In qualche modo, in caso di digiuno prolungato o di carenza di glucosio nel torrente ematico, il nostro corpo ha ideato diversi meccanismi che permettono la formazione di glucosio a partire da composti non glucidici. Questo processo si chiama gluconeogenesi.
Per semplificare, potremmo dire che durante il digiuno, quando il livello ematico di glucosio scende sotto ad una certa soglia, il glucagone (un ormone peptidico) viene rilasciato dal pancreas e “sposta l’attenzione” del nostro organismo dai carboidrati ai grassi e alle proteine per produrre energia.
Alcuni consigli sulle proteine
Il muscolo scheletrico è composto da circa il 30% dagli amminoacidi ramificati (leucina, isoleucina e valina, detti anche BCAA). Recentemente in letteratura scientifica la leucina sembra avere un ruolo significativo nella sintesi proteica, cosa che potrebbe suggerire a coloro che intendono richiedere dal loro allenamento un aumento di massa muscolare supplementare con BCAA.
Va tuttavia ricordato che l’effetto anabolico dei BCAA e nello specifico della leucina si esaurisce con 2.5-3 g/pasto. Se attraverso l’alimentazione o altri integratori (Whey, amminoacidi essenziali) hai già raggiunto questa quota, non avrai ulteriori benefici. A questo punto conviene prendere tutti gli amminoacidi assieme o almeno quelli essenziali per sfruttare la spinta anabolica completa e non solo quella selettiva della leucina & Co.
Infine, qualche rassicurazione per tutti coloro che hanno spesso sentito voci riguardo alla pericolosità di una dieta che preveda relativamente alti apporti proteici e che nello specifico vedrebbero questo macronutriente come pericolo per i reni oppure per il cosiddetto potenziale acidificante che avrebbero.
Nel primo caso, l’equivoco (se così si può chiamare) nascerebbe da alcuni studi che mostrerebbero come un eccesso di assunzione rispetto al RDA promuoverebbe patologie renali croniche, dovute all’aumento della pressione dei glomeruli dovuto ad un incremento della loro attività di filtraggio.
Anche in questo caso gli studi sarebbero stati effettuati su soggetti con patologie renali già esistenti, e dunque poco applicabili ad individui sani, che invece non presenterebbero differenze nelle funzioni renali tra diete ipoproteiche ed iperproteiche, scagionando apparentemente questo nutriente dalle accuse, anzi occorre ricordare che fornendo substrati azotati parrebbe migliorare le capacità renali e la sua funzione tampone.
Riguardo all’assunzione proteica e alla perdita di calcio anche qui ad una prima occhiata puoi cadere in equivoco. Le proteine alimentari aumentano l’assorbimento intestinale di calcio ed è palese comprendere come in tal caso ci sarà una maggiore escrezione reale, assolutamente slegata a una demineralizzazione ossea (della quale nei vari studi non sono mai stati trovati i marker caratteristici).
Differente è il rapporto tra proteine e tumori. O per meglio dire, molto più complesso e controverso. Alcuni studi sembrerebbero aver trovato una correlazione tra eccesso caseine e proliferazione di tumori del colon, anche se la cosa è decisamente in fase di studio e sinora si è trovato un riscontro soltanto in vitro e non in vivo.
D’altra parte, altri studi sembrerebbero (condizionale d’obbligo) indicare proprio le caseine come un fattore in grado di esercitare parziale funzione di soppressore e di prevenzione per il tumore al seno.
Menzione a parte merita il discorso sulle proteine animali, poiché difficilmente può essere svincolato dalle metodologie di cottura e conservazione che in alcuni casi genererebbero agenti cancerogeni (le cosiddette ammine eterocicliche).
Questa breve dissertazione non ha altra funzione che illustrarti come sia estremamente complesso il campo, da rendere impossibile ai non specialisti del settore (ma anche a loro) pronunciare sentenze estreme e allarmistiche su determinati cibi.
Speriamo dunque di aver fornito qualche spunto e dato utile, inquadrando le varie raccomandazioni che spesso sentiamo pronunciare da riviste più o meno qualificate e medici, che spesso troviamo contrastanti, generando confusione e spaesamento in alcuni casi, o sensi di colpa e allarmismo in altri.
Proteine vegetali: le devo contare oppure no nel fabbisogno?
Tra le proteine vegetali ed animali ci sono delle differenze (in termine di composizione aminoacidica), ma arrivare a demonizzare le prime come se “non contassero” è sicuramente un’esagerazione.
Sebbene molti vegetariani e vegani si riescano ad organizzare ed orientare, in termini pratici, mangiando anche solo da fonti vegetali tutti gli aminoacidi di cui hanno bisogno (vedi Dieta vegana e bodybuilding), pochi hanno chiara la base teorica che c’è sotto. Dove sta la differenza nell’assumere un pool di amminoacidi incompleto o meno ma soprattutto cosa vuol dire che un pool di aminoacidi sia incompleto? Perché le proteine animali son considerate migliori e lo sono veramente? Secondo quali criteri e metodologie viene calcolata la qualità delle proteine?
Come funziona con le proteine che ingeriamo
Questa parte è abbastanza banale, ma credo che per qualcuno possa essere necessaria quindi tanto vale fare un breve ripasso.
Dunque, noi parliamo di quantitativo proteico, ma non sono di fatto le proteine che ci interessano, almeno non direttamente. Quello che a noi (e al nostro organismo) interessa, sono gli amminoacidiche le compongono. Il giochetto è semplice, introduci degli amminoacidi legati in un determinato ordine, il corpo li slega e li ricompone nell’ordine che serve a lui (anticorpi, enzimi, ormoni, trasportatori o anche proteine con funzioni strutturali). Tutto questo banalizzato, e senza considerare eventuali altre destinazioni degli aminoacidi (per esempio come fonte energetica che segue la separazione del gruppo amminico), però tieni per buono questo quadro.
Ora, che succede se manca uno degli amminoacidi che servono per una determinata proteina? Ebbene in questo caso la sintesi proteica si blocca e possono avverarsi due scenari:
Si tratta di un amminoacido essenziale, il corpo quindi non può produrlo a partire da altri amminoacidi, la sintesi proteica non ha modo di avvenire (a meno di non pescarlo dal turnover proteico andando così a catalibolizzare alcune proteine del nostro corpo).
Si tratta di un amminoacido non essenziale, il corpo può produrlo convertendo altri amminoacidi (transaminazione) e quindi continuare la sintesi proteica.
In tutto questo si inserisce un ulteriore problematica, ossia che il tuo organismo non è in grado di conservare gli amminoacidi in eccesso che verranno dunque convertiti in riserve o trasformati in glucosio per essere utilizzati a scopi energetici (a tal proposito si rimanda all’articolo su: le proteine fanno ingrassare?).
In termini pratici come comportarsi con le fonti proteiche
Chiariamo un primo punto che ti aiuterà successivamente. Non interessa la composizione amminoacidica degli alimenti che mangiamo, quanto piuttosto la composizione del nostro pasto o della sequenza dei pasti (gli aminoacidi hanno emivita ematica di diverse ore).
Da qui, come vedremo, nascono delle linee guida di abbinamento di fonti incomplete (ovvero mancanti di uno o più amminoacidi essenziali) al fine di ottenere un pool completo. L’esempio classico è quello dell’abbinamento legumi–cereali, i primi ricchi di lisina ma poveri degli amminoacidi solforilati (cisteina e metionina) e i secondi, viceversa, poveri di lisina ma ricchi di metionina e cisteina. Così, un’assunzione nello stesso pasto permetterà di avere un pool completo (n.b. la soia è un legume, ma ha un pool piuttosto bilanciato al punto che può essere considerata una fonte completa, la frutta secca invece è si piuttosto bilanciata ma manca un minimo di lisina analogamente ai cereali).
Conclusioni sul calcolo del fabbisogno proteico
A seconda della tua età, del sesso e dell’attività fisica che svolgi (facciamo sempre riferimento ad un individuo sano) avrai una precisa quantità di proteine di cui hai bisogno. C’è un range indicativo molto ampio all’interno del quale puoi muoverti, a partire dai 0.66 g proteine/kg massa corporea.
Se la risposta fosse semplice e uguale per tutti, sicuramente l’articolo si sarebbe riassunto in una riga e non ci sarebbero troppi dubbi a riguardo.
Laureato in Dietistica presso l’Università degli Studi di Siena, atleta agonista di Jiu Jitsu Brasiliano. Da sempre appassionato di movimento umano, allenamento e nutrizione. Tra le varie qualifiche istruttore di CrossFit e Z-Health Trainer. Lavora come Personal Trainer.
fabio_campisi@hotmail.com
Ludovico Lemme (parte sulle proteine vegetali)
Personal Trainer certificato ISSA e studente SaNIS (scuola di nutrizione e integrazione sportiva). Segue diversi atleti, sia dal vivo che online nel campo del Bodybuilding e del fitness in generale. Nel 2015 avvia il progetto Rhinocoaching con il quale si propone di creare una piattaforma di riferimento per i suoi atleti e per gli appassionati in generale.
Contatti: rhinocoachingofficial@gmail.com
Pagina FB: https://www.facebook.com/ludovicolemmemygrowth/
Sito Web: www.rhinocoaching.it
“Protein and amino acid requirements in human nutrition – Report of a Joint WHO/FAO/UNU Expert Consultation” (2007), World Health Organization. United Nations University.
“NSCA’s Guide to Sport and Exercise Nutrition” (2011). Campbell & Spano. Human Kinetics.
La pianta del mirtillo, anzi le piante di mirtillo appartengono alla famiglia botanica delle Ericaceae, genere Vaccinium.
Le specie più conosciute e acquistate, sono essenzialmente, nelle diverse varietà, il mirtillo nero, il mirtillo americano e il mirtillo rosso.
Il mirtillo nero (Vaccinium myrtillus), possiede una polpa molto dolce di colore viola-blu ed è la specie più diffusa in Europa settentrionale dove la pianta cresce spontaneamente nei boschi di castagno, faggio e abete rosso tra i 900 e i 1.800 metri d’altitudine; in Italia lo troviamo sull’arco alpino e sugli Appennini.
Il mirtillo americano (Vaccinium corymbosum) è la specie spontanea nata e diffusa in Nord America e solo successivamente importata in Europa. Ha una polpa verdognola ed è più resistente del mirtillo nero, tanto da crescere anche a temperature inferiori ai -30° C.
Il mirtillo rosso (Vaccinium macrocarpon), conosciuto anche come cranberry o ossicocco americano, è un frutto dalla buccia rossa e dal sapore più acidulo rispetto ai precedenti.
Proprietà nutrizionali mirtillo
Il consumo di questi piccoli frutti sta aumentando di anno in anno anche in Italia, sia sotto forma di prodotto fresco, sia nelle forme lavorate come surgelati (prevalentemente in un mix di frutti di bosco), succo, confettura o disidratati.
I mirtilli hanno 47 Kcal ogni 100g (sia freschi che surgelati) e rappresentano una buona fonte di vitamine e minerali e la loro porzione consigliata è di 150g di prodotto fresco. (LARN)
Grazie alla loro componente acquosa, che supera l’85% del loro peso ed al quantitativo di fibre alimentari contenute, sono considerati un alimento mediamente saziante in rispetto al loro limitato apporto calorico.
Calorie mirtilli
Mirtilli
Valore per 100g
Acqua (g)
85.0
Energia (Kcal)
49
Energia (kJ)
207
Proteine (g)
0.9
Lipidi (g)
0.2
Colesterolo (mg)
0
Carboidrati disponibili (g)
10.1
Amido (g)
0
Zuccheri solubili (g)
10.1
Alcool (g)
0
Fibra totale (g)
3.1
Sodio (mg)
2
Potassio (mg)
160
Calcio (mg)
41
Fosforo (mg)
31
Ferro (mg)
0.7
Tiamina (mg)
0.02
Riboflavina (mg)
0.05
Niacina (mg)
0.5
Vitamina C (mg)
15
Vitamina A retinolo equivalente (μg)
13
Fonte Inran
Le calorie del mirtillo sono 49kcal/100g.
I mirtilli, per il loro profilo di micronutrienti come polifenoli, vitamina C e minerali, sono sponsorizzati come superfood, ovvero alimenti particolarmente ricchi di presunte proprietà nutrienti, che li porta ad essere utilizzati in modo sempre maggiore nella nutraceutica ma l’EFSA non ha ancora autorizzato nessun claim nutrizionale per i prodotti a base di mirtillo.
La capacità antiossidante dei mirtilli
I mirtilli sono tra i frutti con la più alta quantità di antiossidanti naturali la cui attività è svolta principalmente dalla vitamina C e dai polifenoli; si suppone che responsabile di circa l’84% dell’attività antiossidante sia una particolare classe di polifenoli: le antocianine.
Contenuto medio di diverse classi di flavonoidi in 100 g di mirtilli, more, lamponi, fragole:
Classe di polifenoli (mg)
Mirtilli
More
Lamponi
Fragole
Antocianine
163,3
101,2
48,6
27,1
Flavan-3-oli
6,7
42,5
5,8
4,5
Flavonoli
10,7
4,6
1,2
1,6
Proantocianidine
182,1
19,6
26,9
105
Revisione USDA 2018
Mirtilli e Vitamina C
Le proprietà della Vitamina C sono tra quelle più riconosciute e studiate; tra le sue funzioni ricordiamo quella del mantenimento dell’attività del collagene, di conversione dell’acido folico nella sua forma biodisponibile e come coadiuvante al mantenimento dell’attività biologica di altre vitamine come la vitamina A ed E.
Gli studi (3) hanno inoltre osservato che la vitamina C è coinvolto nella riduzione dei livelli di proteina C-reattiva (CRP), un marker indice di malattie cardiovascolari e nella rimozione dei radicali superossido e idrossilico (4).
Mirtilli e Polifenoli
L’interesse verso queste molecole si è sviluppata grazie alla ricerca epidemiologica che ha correlato il beneficio di consumare alimenti ricchi di polifenoli con una minor incidenza di malattie infiammatorie e croniche tra cui anche il diabete ed allo sviluppo di alcuni tipi di cancro (5,6,7,8), ma non emergono evidenze circa la correlazione tra il consumo di una singola fonte di polifenoli ed un miglior stato di salute, questo ci porta a raccomandare semplicemente di condurre una dieta ricca e varia di tali fonti.
Particolare attenzione si è data alla ricerca su una determinata classe di polifenoli, le antocianine, di cui sono ricchi i mirtilli, che oltre a donare il colore caratteristico al frutto hanno dimostrato un effetto antiossidante, antibatterico, antinfiammatorio e ipoglicemizzante.
È stato segnalato che questo composto fitochimico contenuto ha un impatto farmacologico sui disturbi oftalmologici, migliorando l’afflusso di sangue ossigenato alla retina e induce un miglioramento delle funzioni cognitive, tuttavia molte delle prove portate dall’industria nutraceutica sono basate su indagini effettuate su modelli animali e in vitro, con dosi molto superiori a quelle contenute negli alimenti ed in una forma che non rappresenta quella naturale (5,6,7,8).
La ricerca scientifica presenta due ulteriori problemi nel dare risposte sul quantitativo di mirtilli, da consumare per avere effetti benefici sullo stato di salute ovvero la variabilità del quantitativo di polifenoli contenuti nel prodotto e la loro biodisponibilità.
La maturazione, le condizioni di coltivazione, i passaggi di lavorazione e la distribuzione incidono fortemente sul contenuto di polifenoli presente nei mirtilli. Le fasi di maturazione aumentano il contenuto di antocianine, in media del 34% rispetto alle fasi precedenti mentre nei mirtilli trattati termicamente, deidratati o essiccati all’aria a 70° C, il contenuto è diminuito del 30%, come anche nella liofilizzazione (9).
Anche se la ricerca dimostra che una determinata molecola possiede una particolare attività biologica, questa potrebbe non avere lo stesso impatto nell’ambito della più complessa alimentazione umana. La sua azione potrebbe essere inibita o aumentata in base ad altre molecole assunte contemporaneamente, essere metabolizzata troppo velocemente o non raggiungere il tessuto bersaglio.
Di conseguenza, non è solo importante conoscere la quantità di un composto presente in un alimento specifico o supplemento dietetico, ma è ancora più importante avere studi su quanto esso sia biodisponibile e a quali condizioni (11).
Fattori esterni
Fattori Ecologico/ambientali (disponibilità
nell’alimento a seconda delle condizioni di
coltura/crescita)
Fattori legati alla processazione dell’alimento
Trattamenti termici; Omogeneizzazione;
Liofilizzazione; Sistemi di cottura e conservazione;
Fattori legati all’alimento
Matrice alimentare; presenza di fattori che
migliorano o riducono l’assorbimento (es: grassi, fibra etc.)
Interazione con altri composti
Legame con proteine (albumina) o con altri
polifenoli aventi medesime proprietà di
assorbimento (cfr. fenomeno del fitocomplesso: ruolo reciprocamente antiossidante e quindi preservante l’attività tra i vari polifenoli o molecole ad azione simile).
Fattori legati ai polifenoli
Struttura chimica, concentrazione — iniziale nell’alimento e quantità introdotta
Fattori legati all’ospite
Intestinali (es: Attività enzimatica tempo di transito intestinale, flora batterica etc.). Fattori legati a sesso e età, condizioni fisiologiche o patologie, fattori genetici etc.
Fonte: Polifenoli, biodisponibilità e nutrizione; Alessandro Grosso – Mauro Marra – Università Tor Vergata (10)
Stress ossidativo derivante dall’attività fisica e integratori a base di antocianine
L’aumento dei radicali liberi osservati durante l’attività fisica è oggetto di studi da lungo tempo, ciò ha portato alla presenza sul mercato di numerosi integratori a base di antocianine per velocizzare la riparazione del danno muscolare.
Nell’ambito dell’attività sportiva le concentrazioni di radicali liberi sono tollerabili e stimolano delle reazioni adattive dell’organismo che permettono di sopportare stimoli allenanti crescenti.
Gli studi su animali (12), riguardanti il mix di polifenoli presenti nei mirtilli hanno dimostrato un aumento della performance e del VO2Max oltre ad individuare che l’assunzione all’interno della dieta di alimenti ricchi in polifenoli, possa attuare meccanismi antinfiammatori che hanno effetti benefici nel recupero muscolare, ma non sono stati trovati effetti nell’integrazione di sole antocianine.
Gli studi sull’uomo non hanno confermato i benefici di un’integrazione a base di questi nutrienti in persone sane e con un’alimentazione completa, sul recupero muscolare o aumento delle performance atletiche (13).
Note sull’autrice
D.ssa Sara Latini Laureata in dietistica all’Università “La Sapienza” di Roma. Certificata Personal trainer grazie al Project Invictus e Insegnante di 1° livello di Pole Dance
Bibliografia
LARN. Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti ed energia per la popolazione italiana
Plasma C-reactive protein concentrations in active and passive smokers: influence of antioxidant supplementation. Block et all 2004
Plant L-ascorbic acid: Chemistry, function, metabolism, bioavailability and effects of processing, Davey et. All (2000)
Koide T, Hashimoto Y, Kamei H, Kojima T, Hasegawa M, Terabe K. Antitumor effect of anthocyanin fractions extracted from red soybeansandred beans in vitro and in vivo. Cancer Biother Radiopharm. 1997;
Wang LS, Stoner GD. Anthocyanins and their role in cancer prevention. Cancer Lett. 2008;.
Davis JM, Murphy EA, Carmichael MD, Davis B. Quercetin increases brain and muscle mitochondrial biogenesis and exercise tolerance. Am J Physiol Regul Integr Comp Physiol. 2009;
Belwal T, Nabavi SF, Nabavi SM, Habtemariam S. Dietary Anthocyanins and Insulin Resistance: When Food Becomes a Medicine. Nutrients. 2017;
Bioactive Compounds of Strawberry and Blueberry and Their Potential Health Effects Based on Human Intervention Studies: A Brief Overview
Katharina Miller,1 Walter Feucht,2 and Markus Schmid
Lohachoompol V, Srzednicki G, Craske J. The Change of Total Anthocyanins in Blueberries and Their Antioxidant Effect After Drying and Freezing. J Biomed Biotechnol. 2004;
Polifenoli, biodisponibilità e nutrizione; Alessandro Grosso – Mauro Marra – Università Tor Vergata
Consumption of cherries as a strategy to attenuate exercise-induced muscle damage and inflammation in humans Leonardo Coelho Rabello de Lima1 , Claudio de Oliveira Assumpção2 , Jonato Prestes3 and Benedito Sérgio Denadai1 1 Department of Physical Education, São P
Quercetin increases brain and muscle mitochondrial biogenesis and exercise tolerance- Davis et all. 2009
Yarahmadi M, Askari G, Kargarfard M, et al. The effect of anthocyanin supplementation on body composition, exercise performance and muscle damage indices in athletes. Int J Prev Med. 2014;
In questo articolo andremo a conoscere ed analizzare lo Squat Bulgaro, ponendo particolare attenzione su come si esegue e quali sono gli errori più comuni da evitare durante la sua esecuzione, ma sopratutto andremo a capire quali muscoli vengono coinvolti e risponderemo alla famosissima domanda: “Ma lo Squat Bulgaro serve per i glutei?”.
Come si esegue lo Squat Bulgaro?
La corretta esecuzione dell’esercizio prevede la presenza di una panca, di un box di medie dimensioni, di un rialzo in generale che sia all’altezza delle ginocchia.
Mi posiziono con i polpacci adiacenti al rialzo ed eseguo 3/4 passi in avanti, distanziandomi dalla panca. La lunghezza dei passi è soggettiva e va regolata in modo tale da rendere la discesa quanto più fluida a livello articolare, generalmente lo stinco deve risultare perpendicolare al pavimento.
Porto un piede in appoggio al rialzo, avendo cura di appoggiare solamente la punta e lasciando il collo del piede libero durante la discesa
Il busto è leggermente inclinato in avanti, come se fosse un prolungamento della coscia posteriore.
Il piede avanti, ben adeso al pavimento, gestisce il peso corporeo distribuendolo equamente sulla sua superficie.
La fase eccentrica del movimento prevede una flessione delle ginocchia, sopratutto di quello posto in avanti, che deve terminare quando scendiamo con l’anca sotto al ginocchio. Non è necessario che quest’ultimo tocchi il pavimento, basta scendere sotto al parallelo per lavorare bene coi glutei.
Errori da non fare durante l’esecuzione
Perdere le curve fisiologiche della colonna vertebrale → Non è raro vedere un “colpo di schiena” nella fase concentrica del movimento, il corpo si solleva grazie alla spinta del piede e NON grazie alla schiena.
Posizionare i piedi sulla stessa linea → Con la conseguenza di mancanza di equilibrio
Distanziare troppo, o troppo poco, i due piedi → Avremo una flessione del ginocchio non fisiologica e la discesa risulterà poco fluida e con molti compensi!
Bloccare il collo del piede sul rialzo → La caviglia viene premuta contro il rialzo e può causarci dolori o comunque pregiudicare il movimento
Durante il Set-Up posizionare la schiena con il bacino e le spalle perpendicolari tra loro → Cosi facendo, al termine della fase eccentrica, la regione lombare subisce un’eccessiva estensione.
Quali muscoli vengono coinvolti nello squat bulgaro?
Più nel dettaglio, in questo studio si evince come l’attività elettromiografica, dei muscoli citati poco sopra, cambi a seconda se ci troviamo su una superficie stabile, instabile o vibrante. (Muscle activity of Bulgarian squat. Effects of additional vibration, suspension and unstable surface.” Aguilera-Castells J et al. – 2019)
Squat vs Squat Bulgaro
Lo Squat Bulgaro è un ottimo esercizio per i glutei, sopratutto se lo eseguiamo con questi tre semplici accorgimenti:
Busto inclinato avanti → Maggior flessione dell’anca e maggior ROM per Femorali e Glutei
“Spinta con il tallone” → Focus sullo spingere con il tallone in concentrica
Distanziare bene i piedi → Creando una minor flessione del ginocchio
In questo modo rispetto al classico squat, andiamo ad attivare di più la catena posteriore. Attenzione che attivare di più i muscoli non vuol dire allenarli meglio, perchè a differenza dello squat classico dove siamo molto più stabili e possiamo caricare, gli stimoli del bulgaro sono molto più limitato e lo inquadrano, infatti, come un ottimo complementare.
Lo puoi inserire come secondo o terzo esercizio, dopo i fondamentali (squat, hip thrust, stacchi, leg press) con uno scheda che va dal 3×8 al 2×15.
Con il piede in appoggio su tavoletta propriocettiva / Bosu / Meduse (focus propriocezione)
Meglio con manubri o bilanciere?
Lo Squat Bulgaro può essere eseguito inizialmente con i manubri, in modo da introdurre in maniera graduale un po’ di sovraccarico.
Lo step successivo sarà il passaggio al bilanciere il quale ha due grossi vantaggi:
ci permette di gestire carichi più alti
il suo posizionamento ci permette una maggior antero versione del bacino e, di conseguenza, una maggior allungamento del gluteo in eccentrica.
Meglio gli Affondi o lo Squat Bulgaro?
Se da fuori possono sembrare due esercizi simili tra loro, lo Squat Bulgaro è molto più complesso nella sua esecuzione e nelle accortezze che dobbiamo tenere!
Non esiste un meglio o peggio, ma dipende dal nostro obiettivo e a chi lo proponiamo. Anche gli affondi possono incentrare il lavoro di più sul quadricipite (accorciando il passo), o il gluteo (allungandolo e/o mettendo un rialzo sotto al piede che sta in avanti).
Take home messages
Lo posso usare per sviluppare i glutei? SI
Lo posso usare ad alte/basse ripetizioni? SI
Lo posso usare come esercizio complementare? SI
Lo posso usare a per stimoli metabolici/meccanici? SI
Lo posso inserire in una programmazione sportiva? SI
Infine concludiamo l’articolo con un po’ di storia
Squat Bulgaro: Chi è e da dove viene?
Quanti di voi durante una serie di squat bulgaro, magari pesante o ad alte ripetizioni, ha mai imprecato contro il “creatore” di questo esercizio? Le sue origini possono risalire ai tempi della II° Guerra Mondiale, più precisamente come esercizio accessorio ad alcuni gesti olimpici. Il “colpevole” della sua diffusione è il bulgaro Angel Spassov, coach di Weightlifting, che nel 1980 propose questo esercizio e ne fece apprezzare la sua utilità e duttilità.
Note sull’autore
Dott. Marco Ruozi
Personal Trainer certificato, laureando in Scienze motorie presso l’università San Raffaele. Amante ed appassionato del movimento e della cultura sportiva’.
Lavora a Parma presso Evolve Fitness
Se ti alleni la mattina in palestra, vuoi iniziare la giornata con una sana colazione o ti serve qualche spunto per una colazione per il bodybuilding, fare una colazione proteica (o iperproteica a seconda delle tue esigenze) è la scelta migliore.
In questo articolo troverai esempi di colazioni che ti permetteranno di limitare l’introduzione di grassi e zuccheri, sostituendoli con una maggior quota di proteine ma senza rinunciare ad un primo pasto della giornata che ti soddisfi.
Che cosa si intende per colazione proteica?
Da anni i nutrizionisti insistono col ribadire l’importanza della prima colazione. Il problema, tuttavia, sorge quando il primo pasto della giornata è spesso quello qualitativamente più scarso e meno sano, ricco di zuccheri.
Per questo spesso una colazione che contenga proteine può essere una buona soluzione per introdurre alimenti di qualità, che forniscano energia per più ore ed aiutino il senso di sazietà fino a pranzo.
Esempi di colazione proteica
Negli ultimi anni è stata proposta anche in Italia la colazione proteica. Una colazione che preveda…
… può apportarti fin dalla mattina un buon apporto proteico, aiutando così a migliorare il senso di sazietà, il controllo glicemico e soprattutto portando ad un miglior partizionamento calorico dei nutrienti verso i muscoli e non le cellule grasse.
Colazione proteica con il latte
100 g latte di
Kcal
Proteine
Grassi
Carboidrati
Acqua
Vacca intero
64
3.3
3.6
4.9
87
Vacca parzialmente scremato
46
3.5
1.5
5
88.5
Vacca scremato
36
3.6
0.2
5.3
90.5
Capra
76
3.9
4.8
4.7
86.3
Pecora
103
5.3
6.9
5.2
82.7
Cocco
240
2.3
23.8
3.3
67.6
Soia
32
2.9
1.9
0.8
89.7
Mandorle
56
1.3
3.3
5.5
89.2
Come possiamo vedere dalla tabella, ad eccezione del latte di cocco che conta una grande frazione lipidica (e di conseguenza un apporto calorico molto più elevato rispetto agli altri a parità di peso), i macronutrienti sono più o meno presenti nelle stesse percentuali. Le proteine sono poche, perciò a parità di introito proteico e glucidico meglio scegliere il latte a più basso contenuto lipidico.
Infatti, considerando una tazza di latte da 200 ml, sia che si scelga il latte di cocco piuttosto che quello parzialmente scremato, l’apporto proteico sarà rispettivamente 10.6 g e 7 g, una differenza minima e un piccolo apporto per raggiungere il fabbisogno giornaliero.
Solo il latte di soia si discosta per i bassi valori dei carboidrati (0.8 g contro una media di 5 g) e dei grassi, infatti è il meno calorico.
Per bere comunque il latte la mattina (ottima fonte di calcio, indispensabile per le ossa), puoi aggiungerci le proteine in polvere per renderlo più proteico.
Colazione proteica con albume (uova)
L’albume è costituito esclusivamente da proteine, in 100 g di albume circa 11 g sono proteine (i restanti grammi sono di acqua).
A colazione puoi usarlo per preparare dei pancake proteici o fare una frittata di albumi. È infatti importante mangiarlo cotto, perché con la temperatura della cottura si inibisce la proteina avidina, che altrimenti attiva (albume crudo) impedirebbe l’assorbimento di una vitamina del gruppo B.
Proteine in polvere a colazione
Assumere proteine in polvere garantisce una loro immediata disponibilità e inoltre non affaticano la digestione (quindi ottime nel pre-workout).
Per un approfondimento a riguardo, trovi informazioni qui.
Colazione dolce
Yogurt greco 0% o 2% con frutta secca o fresca, a cui puoi aggiungere qualche goccia di cioccolato, un cucchiaino di miele o marmellata per rendere la colazione più palatabile (piacevole).
Pancake proteici con frutta fresca e/o sciroppo a basso contenuto calorico.
Fette di pane integrale (anche tostate) / fette biscottate con marmellata a ridotto contenuto di zuccheri.
Frullato con proteine e frutta
Porridge di avena con albumi e frutta secca
Colazione con pancake proteici
Cucinati con i preparati proteici o con un semplice mix a base di albume e farina, i pancake proteici richiedono 5 minuti e nessuna particolare abilità in cucina.
Puoi arricchirli con frutta fresca, frutta secca, marmellata o quello che preferisci.
Colazione proteica salata
Pane integrale con affettati magri (come petto di pollo, fesa di tacchino, bresaola – anche se quest’ultima contiene molto sale).
Toast salutare (affettati magri, verdure)
Uova o fiocchi di latte con fette di pane integrale tostato
Colazione vegana
Una dieta vegana deve ovviamente basarsi su un apporto proteico da parte di proteine vegetali (che sappiamo avere uno spettro amminoacidico incompleto rispetto a quelle di origine animale) e quindi su bevande vegetali (cocco, riso, mandorle, soia), che però abbiamo visto contribuire poco al fabbisogno proteico.
Un supporto per la colazione vegana proteica sono i legumie l’hummus, crema a base di ceci. Per farlo è meglio usare i ceci secchi o la farina di ceci, non quelli in scatola, in quanto hanno una frazione proteica molto minore rispetto agli altri due,
Colazione proteica vegetariana
Se un onnivoro considera restrittiva la dieta di un vegetariano, per la colazione questa definizione non vale: sostanzialmente potrebbero fare la stessa colazione proteica, a chiara eccezione dell’iniziare la giornata con carne e affettati.
Perciò se sei vegetariano o hai ospite un amico vegetariano, potrete fare la stessa colazione, in cui puoi inserire uova, pancake, yogurt a tuo piacimento.
Colazione proteica per la palestra
E’ importante mantenere la giusta quota di proteine, senza eccedere in una colazione iper-proteica: non tutti gli alimenti proteici che si mangiano a colazione vanno bene. Il bacon tanto utilizzato in alcuni paesi è sicuramente da evitare: il suo contenuto di acidi grassi saturi (tra cui alcuni acidi grassi come il miristico in alte %) fanno sì che sia un alimento poco salutare. Anche il salmone affumicato, per il suo alto contenuto di sale, andrebbe limitato.
Se mangiamo i formaggi, conviene scegliere quelli con un basso apporto di grassi come i fiocchi di latte.
Al mattino cercate di limitare anche la bresaola, che anche se magra, rimane un prodotto ricco di conservanti e con un contenuto di sale eccessivo.
Esempio di colazione prima della palestra
Pancake salutari a base di albumi e farina di avena e un frutto (es. banana), per garantire apporto proteico, glucidico e di micronutrienti. Non esagerare con le quantità per limitare i tempi di digestione.
Esempio di colazione dopo la palestra
Dopo la palestra puoi assumere proteine in polvere disciolte in cosa preferisci (in modo da integrare rapidamente sia gli amminoacidi che i liquidi persi con l’attività fisica), pane integrale e affettati magri.
Colazione proteica al bar: come farla?
A malincuore il classico cornetto appena sfornato con cappuccino di proteico ha ben poco, come in realtà la maggior parte dei prodotti presenti in un classico bar. Tra cornetti farciti di creme o zuccherose marmellate, pasticcini, biscotti, toast burrosi o ricchi di formaggio, fare una colazione proteica al bar è abbastanza un’impresa.
Se riesci a trovarne uno in cui hanno yogurt fresco greco a cui aggiungere frutta secca o un piatto salato con uova e pane tostato, è il bar che fa per te.
Colazione proteica per dimagrire
La colazione proteica è uno strumento utile per chi vuole perdere peso, quando mangiare yogurt greco e frutta secca al posto di pane e nutella diventa una buona abitudine protratta nel tempo: è indice di una miglior distribuzione dei macronutrienti e di una scelta di vita più sana, che si rispecchierà non solo nella scelta della colazione ma anche degli altri pasti della giornata.
Inoltre, in associazione esclusiva ad una dieta ipocalorica, è strumento utile perché inserire proteine a discapito di zuccheri supporta la sazietà e il controllo glicemico.
Colazione proteica senza zuccheri
Se vai a fare la spesa, ti sarai sicuramente accorto che gli alimenti sani che per ora abbiamo citato occupano decisamente pochi scaffali rispetto ai numerosi pieni di svariate tipologie di biscotti e merendine proposte per la colazione, ricche di zuccheri e grassi.
È per questo che la dieta inizia al supermercato: comprare qualcosa ricco di zuccheri è decisamente più facile e veloce.
Per fare una colazione proteica senza zuccheri dovrai fare questo sforzo al momento della spesa e focalizzarti sugli scaffali delle uova, degli yogurt magri, della frutta secca.
È possibile fare una colazione proteica senza glutine?
Anche se sei celiaco o soggetto sensibile al glutine puoi fare una colazione proteica: sostanzialmente devi eliminare dalla dieta alimenti che contengono frumento, kamut, segale, orzo e farro, dal momento che potrebbero causare effetti spiacevoli (gonfiore, diarrea, dolori addominali).
Perciò un’idea per la colazione può essere unire alla bevanda che preferisci (latte, tè, caffè – non d’orzo) uno yogurt greco, frutta secca, uova, pancake (facendo attenzione alla composizione della farina!).
In conclusione: è realmente necessaria una colazione proteica
La colazione non è il pasto più importante della giornata, ricordiamoci sempre di non guardare al singolo pasto, che in sé dice poco, ma al complesso di tutto quello che mangiamo nel corso della giornata o meglio della settimana!
Scegliere la colazione proteica è sicuramente una scelta sana e che ti porta vantaggi, a livello di:
sazietà,
controllo glicemico,
supporto all’anabolismo.
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Di mattina hai proprio fame, ti piace fare colazione (anche abbondante) e con molti buoni propositi hai deciso di iscriverti in palestra e iniziare a mangiare bene, a partire dalla colazione.
Devi sacrificare la felicità della colazione a favore di tristi albumi cotti e 2 gallette ogni mattina? Per fortuna no! O, meglio, potresti, ma la colazione per la palestra non è necessariamente così restrittiva. Anzi, è una colazione sana utile anche ai sedentari.
Sicuramente però il bodybuilder o il frequentatore della palestra potranno permettersi quantità maggiori data la maggior necessità di nutrienti.
Qual è la colazione ideale per chi fa bodybuilding e palestra?
Il primo pasto della giornata ideale dovrà essere sano, energizzante, con micronutrienti presenti e in relazione ai macronutrienti del resto della giornata. Perciò sicuramente alimenti come cereali integrali, uova, frutta fresca e frutta secca, yogurt a ridotto contenuto di zuccheri, spremuta, caffè,… sono validi per fare una buona colazione.
Da limitare sono i prodotti confezionati come biscotti, merendine, corn-flakes, yogurt alla frutta: sono tutti alimenti molto ricchi di zuccheri. Certamente, qualche biscotto o una merendina confezionata ogni tanto non fanno nulla di male.
Colazione bodybuilding in fase di massa
In fase di massa la distribuzione dei macronutrienti è completamente rivolta ad un maggiore consumo di carboidrati (50-60% del fabbisogno), la restante quota è data da grassi al 15-25% e da un buon apporto proteico (20-25%, l’aumento delle proteine non porta ad un aumento della massa muscolare).
Se vuoi mantenere queste percentuali anche a colazione, il consiglio è quello di prediligere un toast di pane integrale, pancake salutari a basso contenuto di zuccheri, porridge a base di avena in quanto alimenti ricchi di carboidrati che ti aiutano a raggiungere la loro elevata richiesta giornaliera.
Colazione per un bodybuilder in definizione
In fase di definizione c’è un deficit calorico ma non per questo devi saltare la colazione: inserita in modo corretto per calorie e nutrienti resta comunque un pasto importante se sei abituato a farla.
Solitamente ad essere tagliata è la quota di carboidrati o di lipidi, mentre i grammi di proteine restano alti per preservare al meglio il muscolo. Per questo motivo una colazione proteica (qui più nel dettaglio) può essere la miglior soluzione.
In particolare, se scegli di togliere maggiormente i carboidrati, puoi orientarti di più su frutta secca, burro di arachidi, uova, frullati proteici, affettati.
Colazione perfetta prima di andare in palestra
La colazione ideale prevede una buona fonte proteica (rendendo così anche non necessaria l’immediata assunzione di proteine nel post-allenamento) e un buon quantitativo di carboidrati, per dare energia. Grassi meglio evitarli o assumerli in piccola quantità, anche per non prolungare i tempi di digestione.
È ottimale andare ad allenarti una volta che la tua colazione (ma vale anche per pranzo, cena, spuntino pre-workout) è digerita, perché durante la digestione il sangue è veicolato a livello degli organi addominali per permettere l’assorbimento dei nutrienti. Quindi, se vai in palestra quando hai appena finito di mangiare, i tuoi muscoli non avranno a disposizione tutto il sangue (con ossigeno e fonti di energia) di cui hanno bisogno per permetterti di allenarti, proprio perché il sangue è già “impegnato” a livello degli organi coinvolti nella digestione.
Qui sotto troverai qualche esempio per le tue colazioni.
Esempi di colazione per la palestra e il bodybuilding
Yogurt greco 0% o 2% con frutta secca o fresca
Yogurt greco con cereali
Fette di pane integrale (anche tostate) / fette biscottate con marmellata a ridotto contenuto di zuccheri o miele.
Pane integrale con affettati magri (come petto di pollo, fesa di tacchino, bresaola – anche se quest’ultima contiene molto sale).
Toast salutare: evita formaggi e affettati ricchi di grassi, se ti piace aggiungici pure delle verdure.
Da bere:
Caffè
Tè o infusi
Latte parzialmente scremato o scremato
Succo di arancia
Proteine in polvere da aggiungere ad acqua o al latte
Colazione con le uova
kcal
Carboidrati
Zuccheri
Proteine
Grassi
Uova
143
0,7
0
12,5
9,5
Le uova sono un’ottima scelta alimentare, soprattutto a colazione. Il loro contenuto di colesterolo non le rende adatte a chi soffre di ipercolesterolemia familiare e non è in grado di regolare la propria produzione interna, in rapporto al colesterolo che introduce con la dieta.
Per gli altri casi sono una scelta sana e salutare, anche tutti i giorni.
Per cuocerle correttamente è meglio se le fai all’occhio di bue o alla coque. Infatti, se lasci il tuorlo liquido resta attiva la proteina lecitina che rende il colesterolo contenuto nello stesso tuorlo poco biodisponibile (ne assorbi di meno). Con questa cottura inoltre l’albume verrà cotto e l’avidina, una proteina del bianco dell’uovo, si inattiva: se restasse attiva impedirebbe l’assorbimento della biotina (vitamina del gruppo B).
Colazione con l’avena
Le scatole classiche dei cereali sono ricche di zuccheri, farine raffinate e molto spesso anche grassi. Al contrario, l’avena è un cereale naturalmente integrale, con un alto contenuto di fibre alimentari, proteine ed un buon bilanciamento tra carboidrati e grassi.
Tra tutti i cereali con cui fare colazione, i fiocchi d’avena sicuramente dovrebbero avere una posizione di rilievo.
Marmellata in palestra
kcal
Carboidrati
Zuccheri
Fibre
Grassi
Proteine
Marmellata
220-260
50-70
46-64
0,4-1,8
0
0,3-0,4
Marmellata senza zucchero
68-180
19-42
19-42
1,2-2,4
0
0,6-0,9
Le marmellate, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono meno caloriche delle fette biscottate. Sono costituite quasi interamente da zuccheri semplici ed a seconda di quanto zucchero o pectina viene aggiunto, il contenuto calorico varia sensibilmente.
Se il pane con la marmellata sono la tua colazione da quando sei bambino, non puoi farne a meno ma la situazione si è evoluta in un “marmellata con pane”, per abbassare un po’ le calorie assunte ma mantenere comunque questa tradizione, puoi ripiegare sulle marmellate più light a basso contenuto di zuccheri.
Yogurt a colazione
Yogurt
kcal
Carboidrati
Zuccheri
Proteine
Grassi
Alla frutta
109-134
13,8-19,4
13,8-19,4
3,2
4,1
Greco
96
3,8
3,8
07/11/20
5
Greco 0%
57
4
4
07/11/20
0
Magro
41
5,6
5,6
4,3
0,1
Gli yogurt sono degli alimenti poco densi caloricamente, tuttavia spesso alla versione magra vengono aggiunti zuccheri per renderlo più appetibile. Gli yogurt alla frutta sono pieni di zuccheri aggiunti (nel vasetto c’è più zucchero che yogurt).
La versione dello yogurt greco è molto più proteica (a seconda della marca va da 7 g a 11 g/100g). lo yogurt senza zuccheri aggiunti rimane una buona soluzione per una sana colazione in cui abbiamo un moderato apporto di proteine.
Colazione con le fette biscottate
Alimento
kcal
Carboidrati
Zuccheri
Fibre
Grassi
Proteine
Le Dorate Mulino Bianco
391
72
6,8
6,2
5
11,5
Le Integrali Mulino Bianco
384
63
6
12
6
13,5
Misura Dolce e Senza
391
73
5,8
4,7
4,2
13
Colussi integrali
387
67
7
8,3
6
12
Anche le fette biscottate integrali sono un alimento molto calorico, con un quantitativo di grassi e zucchero rilevante (ricordiamoci che la distinzione tra cereali integrali e raffinati non è così rilevante per la perdita di peso). Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un alimento che possiamo benissimo mangiare ma sempre con moderazione, non pensando che la scritta integrale ti permetta di abbondare e mangiarne di più.
I migliori cereali a colazione per la palestra
Cereali
kcal
Carboidrati
Zuccheri
Fibre
Grassi
Proteine
Fiocchi d’avena
389
66
0
10,6
7
17
Cheerios
375
75
24
7,4
2,9
8,4
Kellog’s Special K
379
74
13
8,5
2
18
Coco pops
383
83
34
3
3
6
Vitalis light croccante
437
57
14
13
15
11
Vitalis muesli croccante chocolate
477
60
25
6,6
21
9,5
Come possiamo vedere i cereali della colazione sono alimenti molto calorici, ricchi di carboidrati (e per alcuni anche di zuccheri e grassi), con un buon quantitativo di fibre.
L’avenaresta il cereale migliore per la mattina, anche grazie alle sue particolari fibre alimentari solubili (betaglucani). I weetabix pur avendo molti carboidrati possiedono pochi zuccheri e lipidi.
In definitiva, quando mangiamo i cereali della colazione, per quanto ci sia scritto light o fitness, stai mangiando degli alimenti molto calorici che probabilmente rispondono di più al gusto che alla linea.
Colazione senza latte
Escludere il latte dalla colazione per motivi di salute porta a dover eliminare dalla propria colazione il latte, gli yogurt, i biscotti, i cornetti e a ripiegare su prodotti alternativi: non che sia un male se quindi ti rivolgi ad alimenti più sani e naturalmente privi di lattosio.
Se passi dal fare colazione con un cornetto farcito di crema al pistacchio e una cioccolata calda a delle uova e affettati accompagnate da una spremuta di arancia, la salute ne gioverà.
Colazione vegan
Restringiamo un po’ le opzioni passando alla colazione per chi segue una dieta vegana: sebbene uova, affettati, latte e derivati siano da escludere, ci sono altre opzioni valide per non rinunciare al primo pasto della giornata.
Ad esempio, da bere al mattino puoi sostituire al latte di mucca le bevande vegetali come il latte di cocco, di soia, di riso o un semplice infuso.
Di più solido restano validi i cereali (avena), le marmellate, la frutta. Per una colazione più proteica e più insolita, rispetto agli standard della classica colazione a cui siamo abituati, puoi considerare l’hummus a base di ceci, che puoi preparare anche la sera prima.
Pasta a colazione
Scelta sicuramente impegnativa, comporta un alto contenuto di carboidrati (in media 80g per 100 g di pasta) e un modesto apporto di proteine vegetali (circa 11g/100g).
Nulla vieta di mangiare la pasta la mattina, se è quello di cui hai bisogno. Anche vero che nessuno sente l’esigenza di farsi un piatto di spaghetti a colazione (anche se è un buon italiano) o ha il tempo per prepararlo.
Iniziare la giornata con un alto carico di carboidrati per poi mangiarne di meno (o non mangiarne) durante la giornata non avrà comunque un impatto sul dimagrimento, se non mantieni l’ipocalorica.
Miele a colazione
Il miele un alimento calorico e dolce, privo di grassi e anche di proteine: in media (esistono varie tipologie di miele) ci sono 80.3 g carboidrati/100 g prodotto.
In piccola dose, ad esempio un cucchiaino nel tè caldo o spalmato su una fetta di pane integrale tostato, sicuramente non fa male e aiuta a sopperire alla “voglia di dolce” senza troppi danni: meglio un cucchiaino di miele che 7 biscotti e 2 merendine ricche di grassi e zuccheri.
Colazione per le donne che fanno bodybuilding e vanno in palestra
Spesso tante ragazze decise a migliorare la propria forma fisica iniziano ad andare in palestra, ad eliminare i carboidrati e a cercare di mangiare il meno possibile. Bene, è una scelta sbagliata: sia perché il tuo corpo ne risulterà solo che stressato sia perché sicuramente non otterrai i risultati sognati.
Ad un’adeguata attività fisica va affiancata una dieta sana ed equilibrata, a partire dalla colazione. Non eliminare i carboidrati (prova a preparare dei porridge o dei pancake sani), soprattutto quando ti alleni sono indispensabili come fonte di energia e per il successivo recupero!
Colazione low carb bodybuilding
Se stai seguendo un regime alimentare con pochi carboidrati, non significa che per questo mangiare qualsiasi tipo di alimenti ricco di lipidi sia la strada migliore da seguire: seguire uno stile sano è comunque possibile.
Tra le opzioni già elencate precedentemente è meglio evitare gli alimenti ricchi di carboidrati, naturalmente ne esistono alcuni costituiti da grassi e proteine, su cui quindi puoi contare, come frutta secca, burro di arachidi, uova, yogurt greco.
Anche importante ricordare, però, che se segui una dieta low-carb (es. dieta chetogenica) inserire la tua quota di carboidrati a colazione se ti alleni di mattina ti migliora la forza e la resistenza durante l’allenamento.
Colazione in palestra con i carboidrati
Se vai in palestra, anche in più giorni consecutivi allenando diversi gruppi muscolari, un alto quantitativo di carboidrati alto ogni giorno non è necessario.
Fare una colazione ricca di carboidrati prima di allenarti non influenza la tua performance, a meno che tu non stia seguendo una dieta chetogenica standard: in questo caso la quota di carboidrati a colazione prima di allenamento ti darà una marcia in più.
Questo per quanto riguarda i carboidrati prima; ma se fai colazione dopo? Consumare carboidrati è fondamentale, tra le 2 e le 4 ore dalla fine dell’allenamento i muscoli sono molto più propensi a catturare il glucosio per ripristinare i depositi di glicogeno muscolare. Perciò avrai un ottimale recupero; se li inserisci più tardi il recupero avviene, ma ridotto del 50%.
La colazione per chi fa palestra e bodybuilding è realmente fondamentale?
La colazione non è realmente indispensabile a fini di dimagrimento, miglioramento della composizione corporea o aumento della massa muscolare, ma se ti piace farla e sei abituato ad iniziare la giornata mangiando, la colazione diventa fondamentale.
Approfondisci l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, con /landing/guida-base-nutrizione/”>la nostra guida gratuitang> per cominciare a farti delle solide basi su cui poi approfondire:
Gli stacchi rumeni sono una variante degli stacchi da terra tra le più utilizzate per dare enfasi a glutei e femorali (e a tutta la catena cinetica posteriore). Sono di più facile apprendimento rispetto agli stacchi da terra e questo li rende, assieme al minor impatto sistemico (cioè meno fatica accumulata rispetto agli stacchi da terra), un eccezionale strumento per chi ricerca obiettivi estetici.
Che cos’è lo stacco rumeno?
Il nome dell’esercizio deriva molto probabilmente dal pesista rumeno Nic Vlad che utilizzava una variante di stacco priva di dead stop per rinforzare la catena posteriore.
Lo stacco rumeno si differenzia dallo stacco da terra per la presenza di una fase eccentrica (la discesa) e l’assenza di uno dead stop (appoggio del bilanciere a terra). Queste differenze all’apparenza banali sono invece i punti di forza di questo esercizio che consente, rispetto al ‘fratello maggiore’, un lavoro muscolare più mirato, una miglior percezione del movimento dell’anca, un maggior allungamento dei femorali e l’utilizzo del riflesso di stiramento.
Corretta esecuzione dello stacco rumeno
L’esecuzione dell’esercizio parte in piedi (potete aiutarvi staccando il bilanciere da dei supporti abbastanza alti e facendo un passo indietro).
Bloccate (=piegate leggermente) le ginocchia e, mantenendo il più possibile le curve fisiologiche, flettete l’anca immaginando di andare indietro con il sedere e inclinate il busto in avanti piegando anche le ginocchia. Il peso deve essere distribuito il più possibile su tutta la pianta del piede, al massimo un leggerissimo sbilanciamento verso il tallone, nel tentativo di portare il sedere più indietro possibile ma solo se questo non compromette la vostra capacità di esprimere forza (serve essere stabili per generare la massima espressione di forza).
Scendete fino a poco sotto il ginocchio (fase eccentrica). Il punto esatto dipende molto dalla vostra mobilità e dalla vostra bravura nel mantenere i corretti rapporti tra i vari segmenti corporei.
Tornate su (fase concentrica) con una decisa estensione dell’anca ripercorrendo la stessa strada fatta in discesa. Idealmente, in ogni punto dell’alzata dovete avere la stessa posizione sia in discesa che in risalita.
Fermatevi quando siete tornati alla posizione eretta. Un’eccessiva estensione non sarà più a carico dell’anca ma della colonna e sarà inoltre inutile ai fini dell’esercizio (oltre che potenzialmente dannosa se la vostra schiena non è in ottima salute).
Cercate di mantenere il bilanciere vicino a voi per tutta l’esecuzione, immaginate di farlo scorrere lungo le cosce.
Quali sono i muscoli coinvolti nello stacco rumeno?
Poiché il carico tende a fare flettere la colonna, vi sarà un coinvolgimento (sempre più marcato al salire dei carichi) di tutta la muscolatura profonda della colonna, che ne consente l’estensione (multifido, lunghissimo del dorso, ileocostale, interspinosi, ecc.).
Infine, dato che il bilanciere tenderà ad allontanarsi dalle cosce, per mantenerlo in posizione sarà necessario l’intervento del gran dorsale ed in generale degli estensori del braccio. Con un’esecuzione che prevede una corretta gestione del bacino, che viene ‘spinto indietro’, tuttavia l’azione di questi muscoli non è tale da poter considerare lo stacco rumeno un esercizio allenante per questi gruppi muscolari (a meno di varianti che vadano ad enfatizzare particolarmente questo aspetto che però esulano degli obiettivi dell’articolo).
Varianti Stacchi rumeni
Stacchi rumeni con il bilanciere
È la variante principale descritta nell’articolo. Il bilanciere ha il vantaggio di consentire l’utilizzo di grossi carichi in stabilità e sicurezza.
Stacchi rumeni con i manubri o kettlebell
Questa variante prevede l’utilizzo di due manubri o due kettlebell al posto del bilanciere. Ha dalla sua l’estrema comodità (basta prendere due manubri senza caricare e scaricare il bilanciere) ed è, ad esempio, molto utile qualora si volesse fare un drop set. A mio parere, la differenza tra kettlebell e manubri, in questo caso, è davvero minima dato che gli strumenti del ghiri sport danno il loro meglio altre occasioni.
Variante a gambe tese
Questa variante prevede di mantenere le ginocchia completamente estese. In linea teorica ci sarebbe un maggior allungamento dei femorali, tuttavia, la maggior difficoltà a mantenere la colonna nella giusta posizione ed il bacino antiverso, spesso vanificano i benefici di questa variante. Gli stacchi a gambe tese sono una variante che a mio modo di vedere, si adatta bene solo ad alcuni soggetti con un’ottima mobilità ed un’ottima consapevolezza del proprio corpo.
Stacco unilaterale a gamba singola.
Variante monolaterale che pone l’enfasi sull’aspetto coordinativo ed equilibrio. Viene eseguita lavorando con un arto alla volta e mantenendo l’altro teso in linea con la schiena. Grossi carichi sono impediti sia dal lavoro monolaterale, sia dalla maggior richiesta in termini di equilibrio.
Utile per lavorare su eventuali asimmetrie, per migliorare le abilità coordinative o qualora fosse impossibile avere a disposizione abbastanza kg per rendere allenanti le altre varianti.
Variante al multipower
Se la variante di prima poneva l’accento sull’equilibrio, con l’utilizzo del multipower (che vincola e guida il bilanciere lungo una traiettoria verticale) otteniamo l’esatto opposto: la maggiore stabilità ci permette di avere più focus sui muscoli motori primari del movimento, sollecitando di meno tutti gli stabilizzatori. È una variante utile in un contesto abbastanza avanzato quando già si possiede dimestichezza con il gesto e si può decidere volontariamente di limitare l’aspetto coordinativo.
A mio parere, utilizzarla come soluzione ‘facile’, porta non solo a non imparare un corretto hip hinge ma di conseguenza a non poter sfruttare a pieno questa variante in futuro.
Stacchi rumeni con loop band per i glutei
La curva di forza dello stacco rumeno è tale che la maggior tensione sui muscoli coinvolti sia in massimo allungamento (fine fase eccentrica, inizio concentrica), infatti, più si è verticali e minore è la componente della forza peso (il bilanciere che pesa) che tende a far flettere l’anca, con conseguente minor coinvolgimento dei suoi estensori.
L’utilizzo di una loop band attorno alla vita posta in modo che ‘tiri’ indietro il bacino e si opponga all’estensione dell’anca, permette di porre maggior tensione proprio nell’ultimo tratto di concentrica. Ottima variante che unisce il lavoro in allungamento del semplice stacco rumeno ad un maggior stress in contrazione di picco. Come le altre varianti però dovrebbe essere presa in considerazione solamente dopo aver preso confidenza con l’esecuzione ‘base’.
Quali sono gli errori più comuni negli stacchi rumeni?
La difficoltà dello stacco rumeno è quella di tutti gli esercizi che allenano/enfatizzano il cosiddetto hip hinge (ovvero l’estensione dell’anca): imparare a coordinare correttamente ginocchio ed anca e mantenere il bacino antiverso.
Questa difficoltà porta spesso ad un errore: buttarsi avanti con le spalle, stendere le ginocchia e nei peggior casi anche flettere la colonna. La flessione della colonna sotto carico non è di per sé una cosa mortale, tuttavia questo porta a perdere tensione a glutei e femorali.
Questo avviene perché si interpreta la flessione dell’anca come un movimento a carico della colonna (<<voglio ‘chiudere’ l’anca quindi inclino la schiena portando le spalle in avanti>>) mentre dovete concentrarvi nello spingere indietro il sedere e far scorrere il bilanciere/manubrio/kettlebell/altro lungo le cosce.
Anche la posizione del bacino è spesso un punto critico. Una retroversione del bacino porta ad un accorciamento del grande gluteo compromettendo il suo completo allungamento e contrazione (e quindi lo stimolo a carico di questo muscolo).
La flessione della colonna, spesso, più che un errore a sé stante è conseguenza di qualcuno degli errori precedenti o di un carico eccessivo. Nel secondo caso abbassate il carico, nel primo caso lavorate sulla causa.
Per chi avesse grossi problemi in uno o più punti ecco una semplice routine:
Mettetevi contro un muro (con un bastone di legno o un bilanciere leggerissimo) e distanziatevi di pochissimi centimetri. Seguendo tutte le indicazioni date per il corretto svolgimento dello stacco rumeno andate a toccare il muro con il sedere e fermatevi. L’escursione sarà piccolissima, non preoccupatevi. Fate 20/30 ripetizioni così.
Ora fate mezzo passo (anche meno) in avanti per distanziarvi un altro po’ dal muro. Ripetete la stessa identica esecuzione di questo che potremmo chiamare un ‘mezzo stacco rumeno’. Altre 20/30 ripetizioni.
Continuate a distanziarvi dal muro di qualche cm per volta, facendo ogni volta una serie da molte ripetizioni, fino ad arrivare ad un punto in cui siete troppo distanti dal muro per poterlo toccare con il sedere. Ora fate quello che avete fatto finora ed avrete ottenuto un buon stacco rumeno in cui si ha una corretta gestione del bacino/anca che va indietro, senza ‘tuffarsi’ in avanti con le spalle.
Questa breve routine è troppo leggera per essere considerata allenante quindi potete eseguirla anche ad ogni allenamento (come riscaldamento), finché non avrete imparato a gestire correttamente l’hip hinge.
Una nota sulla presa.
Nello stacco da terra viene spesso utilizzata la presa mista (una mano prona e una supinata) che permette di non perdere la presa anche a carichi molto elevati. Non vi sono prove o studi che mostrino come quest’asimmetria porti a problemi di varia natura. Tuttavia, essendo lo stacco rumeno un complementare, spesso utilizzato ad alte ripetizioni e con fini di muscolazione, credo sia preferibile la doppia prona. Questo eviterà rotazioni e vi permetterà di concentrarvi meglio su tutti gli aspetti detti prima. Quando questa (la presa doppia prona) dovesse diventare impossibile, dati i carichi elevati, potrete usare tranquillamente un paio di fascette per la presa e risolvere definitivamente il problema.
Stacchi rumeni o good morning?
Posizionando il bilanciere sulle spalle come nell’esecuzione di uno squat ed eseguendo i movimenti di un normale stacco rumeno, avremo l’esecuzione di quello che viene chiamato good morning. Il good morning rispetto allo stacco rumeno è più tassante per tutta la catena cinetica posteriore e, in particolare, per gli estensori della colonna.
La posizione del bilanciere, inoltre, rende spesso più difficile la coordinazione ai soggetti meno avanzati. Anche il fattore psicologico del bilanciere che ‘schiaccia’ è da prendere in considerazione quando si valuta quale dei due esercizi inserire. Il good morning è un esercizio con molto più transfert sullo squat rispetto allo stacco rumeno, per questo è sicuramente una delle prime scelte in fatto di complementari nelle programmazioni di powerlifting.
Il maggior stress sistemico e la maggior difficoltà esecutiva (è molto facile sotto fatica ‘infilarsi’ sotto il bilanciere e fare un mezzo squat invece che un good morning corretto) lo rendono tuttavia un esercizio di complessa gestione. Se volete una catena cinetica posteriore forte e un ottimo transfert su squat e stacco allora il good morning è sicuramente una scelta da prendere in considerazione. Se però pensate di non avere abbastanza tempo ed energie mentali da dedicarci, allora meglio uno stacco rumeno ben eseguito che un good morning fatto male.
Come inserire lo stacco rumeno in una scheda
Gli stacchi rumeni come detto prima pongono molta enfasi sull’allungamento del muscolo target permettendo al tempo stesso di utilizzare carichi interessanti. Per queste caratteristiche possiamo (in una semplificazione estrema) trovare tre utilizzi:
Come esercizio leggero di allungamento per la catena cinetica posteriore in un programma che preveda un grosso stress per essa. Utilizzeremo quindi alte ripetizioni, poche serie, un’eccentrica molto controllata e ampio buffer. Dato l’utilizzo leggero è possibile utilizzare una frequenza elevata e varianti con manubri. [es Stacco rumeno manubri 3×15@RPE6 discesa 3”, fermo in basso 2”, 3 volte a settimana a fine sessione di stacco/squat pesante]
Come esercizio principale in una seconda sessione settimanale di glutei/femorali. In questo caso utilizzeremo carichi elevati e ripetizioni medie, molte serie per terminare con poco o zero buffer. [es. Stacco rumeno bilanciere 6×8@RPE8/9 discesa controllata, salita esplosiva, 2’ recupero]
Come finisher, dopo una sessione pesante di femorali/glutei, dopo alcuni esercizi pesanti (squat, stacchi, stacchi sumo) e alcuni esercizi di pompaggio (leg curl, hip thrust o varianti). Utilizzeremo un range di ripetizioni medio-alto, recuperi brevi e porremo enfasi sull’allungamento. Qui si inseriscono bene sia la variante al multipower (che riducendo l’intervento degli stabilizzatori ci permetterà di concentrarci ancora di più sul ‘finire’ i muscoli target) sia quella con loop band (permettendo un maggior stress su tutto il rom e non perdendo l’effetto pump tipico dei lavori in contrazione di picco). Qui volendo possiamo tranquillamente arrivare a cedimento ed aggiungere delle tecniche di intensità. [es. Stacco rumeno al multipower/Stacco rumeno con loop band per glutei 4×10+10(stripping) discesa e salita lenta, 45” recupero]
Ovviamente queste 3 sono solo semplificazioni ed esempi, la programmazione dell’allenamento è un processo delicato che non può prescindere dal valutare l’atleta che si ha di fronte.
Conclusione sullo stacco rumeno
Lo stacco rumeno è un esercizio eccezionale per stimolare glutei e femorali. Le sue particolarità lo rendono versatile sia come complementare, sia come stimolo principale per questi muscoli. Le numerose varianti, inoltre, consentono di avere sempre nuovi stimoli (sia muscolari che mentali) e di adattarsi a diversi contesti. È inoltre uno degli esercizi che meglio in assoluto insegna a gestire l’hip hinge, movimento fondamentale sia coi pesi che in ambito sportivo in generale.
Conoscerlo e saperlo eseguire correttamente vi permetterà di avere un’arma in più nel vostro arsenale dell’allenamento.
Note sull’autore
Giacomo Ugolini Personal trainer certificato ISSA (CFT3), laureando in scienze motorie all’Università degli Studi Torino.
Atleta e coach di powerlifting presso i Silverbacks Torino.
Mail: giacomo.ugolini.coaching@gmail.com
Cosa sono le allergie alimentari e come si manifestano?
Ad oggi circa il 20% della popolazione italiana dichiara di soffrire di qualche allergia o intolleranza alimentare, mentre la percentuale reale degli individui realmente allergici non supera il 4,5% negli adulti e il 10% nei bambini.
La causa di ciò potrebbe essere legata a molteplici fattori: molte persone, infatti, non riescono ancora a distinguere l’allergia dall’intolleranza alimentare; a ciò si aggiunge anche la mancanza di procedure diagnostiche idonee e validate scientificamente per determinare una reale avversione ad un cibo.
Ma cosa sono realmente le allergie alimentari?
Le allergie alimentari sono delle patologie correlate al consumo di alcuni alimenti (grano, uova, crostacei, molluschi, arachidi, cc…) che portano a delle manifestazioni principalmente a carico dell’apparato gastrointestinale, ma possono verificarsi anche disturbi cutanei (eritemi, rossori, pruriti, ecc..) e respiratori (costrizione dei bronchi e difficoltà respiratoria).
Le allergie scatenano una risposta immuno-mediata (produzione di anticorpi IgE) negli individui geneticamente sensibili all’alimento ingerito. È proprio la risposta a carico del sistema immunitario a provocare le tipiche manifestazioni correlate ad un’allergia alimentare.
La maggior parte dei sintomi legati ad una qualsiasi allergia compare entro due ore dall’ingestione; spesso, però, sono sufficienti solo pochi minuti o secondi. In alcuni casi la reazione può essere tardiva e comparire anche dopo quattro o sei ore dall’ingestione dell’alimento a rischio. Riporto qui sotto una tabella che riassume i sintomi clinici legati al consumo di un alimento “pericoloso” associati al distretto corporeo intaccato.
Distretto colpito
Sintomi
Apparato neurologico
Capogiri e vertigini
Cefalee
Svenimenti
Apparato respiratorio
Broncospasmo e tosse
Naso gocciolante
Difficoltà respiratoria
Cavo orofaringeo
Gonfiore labbro
Secchezza fauci e gola
Voce rauca
Apparato circolatorio
Aritmie
Pressione bassa
Apparato gastro intestinale
Nausea, vomito e diarrea
Crampi e gonfiore addominale
Cute
Angioedema
Orticaria
Dermatite
Eczema
L’anafilassi è la conseguenza più grave di una qualsiasi allergia alimentare e nelle forme più gravi può condurre all’occlusione delle vie respiratorie, al coma e persino alla morte.
I sintomi associati allo shock anafilattico sono:
costrizione delle vie respiratorie e difficoltà nel respirare
caduta della pressione arteriosa e pallore
sudorazione, palpitazioni e stato di ansia.
vertigini, svenimento, coma.
Le intolleranze alimentari possono essere considerate allergie?
Le intolleranze sono del tutto differenti dalle allergie.
Le prime fanno parte delle ipersensibilità di tipo non allergico e sono la conseguenza di un difetto metabolico o enzimatico del soggetto; non provocano una reazione di tipo immuno-mediata come nel caso delle allergie.
L’intolleranza al lattosio ne è un esempio. Quest’ultima è dovuta ad una deficienza dell’enzima lattasi che non riesce a scindere il lattosio, uno zucchero formato da due unità: una di glucosio e un’altra di galattosio. Questo disaccaride (chiamato così perché formato da due monomeri) oltrepassa inalterato la barriera intestinale e la sua fermentazione, effettuata dai batteri “buoni” del colon, porta alla produzione di gas e sgradevoli sintomi intestinali quali gonfiore e diarrea.
Il test per verificare se si è intolleranti al lattosio si chiama “breath test” o “test del respiro” e misura la capacità da parte dell’individuo di metabolizzare il lattosio e, di conseguenza, la sua capacità di produrre o meno l’enzima lattasi dopo l’ingestione di questo zucchero.
Se sei quindi positivo al test del respiro potrai quindi affermare: “sono intollerante al lattosio” ma non allergico!
Farmaci contro la reazione allergica: quali sono?
L’epinefrina iniettabile è un farmaco prescritto dal medico per contrastare l’evolversi di uno shock anafilattico. Allergie con un più basso grado si severità possono invece essere attenuate con l’utilizzo di antistaminici dopo l’esposizione all’allergene.
Quali sono gli alimenti a rischio?
Gli alimenti a rischio sono molteplici e per la maggior parte ben conosciuti dagli assidui frequentatori delle palestre.
Latte vaccino. È uno dei primi alimenti consumati dal bambino dopo il latte umano materno ed è quindi il principale responsabile dell’allergia nell’infanzia. Il latte vaccino contiene circa 20 proteine in grado di indurre una risposta allergica. Esiste un grado di allerginicità differente tra le diverse proteine: la caseina (che costituisce circa l’80% delle proteine del latte) risulta essere la più incriminata, troviamo poi la lattoalbumina e la sieroalbumina che danno risposte allergiche più di rado.
Uova. I maggiori allergeni presenti nelle uova di gallina sono gli ovomucoidi considerando la loro stabilità al calore. Troviamo poi anche l’ovoalbumina e la conalbumina.
Pesce, più precisamente nel merluzzo. Nel merluzzo troviamo un allergene chiamato parvalbumina che è molto resistente al calore e alla digestione enzimatica. Ma anche nei crostacei possiamo trovare diversi allergeni.
Soia. Quattro sono i principali allergeni della soia: il serum, l’alfa glicina, la glicina e gli aggregati della glicina.
Arachidi/anacardi/burro di arachidi: Questi allergeni sono molto pericolosi visto che possono indurre sintomatologie molto potenti e che possono, oltretutto, essere mantenute per tutta la vita senza una riduzione di quest’ultime.
Alimenti a rischio
Allergeni
Latte vaccino
Caseina, Lattoalbumina, Sieroalbumina
Uova
Ovomucoidi, Ovoalbumina, Conalbumina
Merluzzo
Parvalbumina
Soia
Serum, Alfa gligina, Glicina, Aggregati della glicina
Arachidi o burro di arachidi
Proteine Ara h1, Ara h2, Ara h3
Per quanto riguarda i prodotti a base di proteine del latte vaccino usate molto dagli sportivi (come nel caso delle whey protein) dovrebbero essere del tutto evitati dai soggetti allergici; non a caso, sulle etichette di questi prodotti, la parola “LATTE” è scritta in grassetto per evidenziarlo come possibile allergene.
La letteratura scientifica recente, dimostra, però, come il trattamento termico dovuto alla produzione di queste proteine in polvere sia efficiente e sicuro per la prevenzione della maggior parte delle allergie da latte vaccino. L’utilizzo di calore induce, infatti, una parziale modificazione delle proteine alterandone la via di assorbimento ed influenzando negativamente la loro stessa allerginicità.
Vari studi hanno evidenziato anche un ulteriore approccio per ridurre le problematiche legate ad un’esagerata risposta immunitaria in questi individui attraverso un processo chimico chiamato “glicazione”. Quest’ultimo è eseguito in soluzione acquosa con l’obiettivo di ridurre la risposta allergologica attraverso l’unione delle proteine del siero con un polimero ramificato dello zucchero chiamato “destrano”.
Nonostante ciò, sempre più frequente è l’utilizzo di proteine di origine non casearia. Esse sono destinate a tutte le persone che volontariamente hanno sposato modelli dietetici basati su alimenti provenienti esclusivamente dal regno vegetale ma che vogliono, allo stesso tempo, soddisfare il loro fabbisogno proteico giornaliero. L’utilizzo delle alternative alle classiche whey in polvere a favore delle proteine vegetali o dell’uovo è sempre maggiore: ci sono quelle a base di proteine di piselli, di soia, di albume o di riso integrale, molto usate dagli atleti che seguono una dieta vegana per sportivi.
Quindi, se anche tu hai deciso di escludere dalla tua alimentazione tutti i prodotti di origine animale e non riesci a raggiungere con il cibo solido il tuo target proteico, le proteine isolate derivate dalla soia saranno per te la miglior soluzione; ma non dimentichiamoci che anche la soia può essere un potenziale allergene.
Fattori di rischio per le allergie alimentari
Negli ultimi decenni le allergie alimentari sembrano essere cresciute sempre di più andando a colpire soprattutto i Paesi occidentalizzati e più industrializzati. I bambini sono i soggetti più sensibili, ma ad aggravare tutto il quadro allergologico ci sono fattori legati all’esposizione dietetica, al sesso, all’etnia (aumentano le allergie nei soggetti asiatici rispetto agli Europei) e alle variazioni geografiche.
La nocciola, per esempio, risulta essere l’alimento più incriminato in Europa, mentre le allergie alla noce e all’anacardio risultano essere le più comuni negli Stati Uniti. Come tutte le malattie croniche, la loro insorgenza è data da una forte interazione tra genetica ed ambiente.
I fattori di rischio che possono contribuire alla loro insorgenza sono vari:
un’alterazione del nostro microbioma, ovvero l’insieme di tutti quei microorganismi buoni che convivono nell’intestino senza danneggiarlo. Questi nostri piccoli ed utili coinquilini riescono ad apportare grandissimi benefici nei processi di digestione e di assorbimento degli alimenti che andiamo ad ingerire.
precoce esposizione all’allergene (per esempio il glutine nel caso della celiachia) durante l’età evolutiva attraverso inalazione o attraverso somministrazione orale.
Diagnosi e test per le allergie alimentari
Una corretta storia clinica sarà essenziale per evidenziare una qualsiasi allergia alimentare. Prima ancora di tutti quei test cutanei che le farmacie ci propongono ogni giorno, poniamoci alcune domande per scoprire se siamo affetti da una qualche allergia alimentare:
Il cibo che ho consumato era cotto o crudo?
Quanto è stato il tempo trascorso tra l’ingestione del cibo e la comparsa dei sintomi?
Era la prima volta che mi succedeva?
Il cibo era processato oppure no?
Le risposte saranno fondamentali visto che la diagnosi per una qualsiasi allergia alimentare deve essere sempre verificata in base ai sintomi fisici e alle manifestazioni cliniche del soggetto dopo l’ingestione dell’alimento considerato a rischio. Solo dopo aver appurato che ci potrebbe essere una qualche correlazione tra l’alimento e la sintomatologia si passa alla diagnostica vera e propria.
Per la diagnosi di allergia alimentare possono essere effettuati vari tipi di test per le allergie alimentari:
PRICK TEST: uno dei test più comunemente usato è il “prick test”. Quest’ultimo viene eseguito pungendo la pelle dell’avambraccio con un estratto dell’allergene da valutare attraverso una lancetta sterile. È un test poco invasivo e a basso costo e permette di testare più allergeni in 15/20 minuti. Se la reazione è positiva, dopo pochi minuti nella sede del test, si forma un pomfo (piccolo rigonfiamento del tutto simile ad una puntura di zanzara), circondato da una zona arrossata (eritema) più o meno ampia.
RAST TEST O TEST DI RADIO-ALLERGO-ASSORBIMENTO: in alcuni casi specifici, quando i test cutanei non sono affidabili o non possono essere eseguiti, l’allergene può essere individuato con esami di laboratorio tramite un’analisi del sangue per la ricerca di anticorpi specifici per gli allergeni, definiti immunoglobuline E (IgE) specifiche.
PRICK BY PRICK: Un altro test che si può effettuare ma che è allo stesso tempo anche molto pericoloso è il test di provocazione. Esso ha lo scopo di riprodurre, in circostanze controllate e solitamente in “ambiente protetto”, la reazione che si presenta al contatto tra allergene e sistema immunitario del paziente. A tal fine si pone una piccola quantità di allergene a contatto con la mucosa del paziente (ad es. sulle mucose nasali o nel sacco congiuntivale), oppure lo si fa respirare in soluzione acquosa attraverso un nebulizzatore (come aerosol) o lo si fa assumere per bocca (nel caso delle allergie alimentari). In questo modo si cerca di provocare una vera e propria reazione allergica: se il risultato del test è positivo è stato trovato l’allergene a cui il paziente è sensibile.
DIETA A ELIMINAZIONE: totale eliminazione dell’alimento considerato incriminato dalla propria dieta che, dopo un certo periodo di tempo, verrà reintrodotto poco alla volta dando la possibilità al medico di collegare la sintomatologia ad esso.
Diffidate da tutte quelle metodiche diagnostiche alternative non validate scientificamente, come ad esempio: il test del capello, il test della forza, il test del gruppo sanguigno, il test che ricorre all’uso di elettrodi o la biorisonanza.
Come si curano le allergie alimentari
La terapia dell’allergia alimentare si basa sull’esclusione dalla dieta dell’alimento a cui il soggetto è sensibile. Il regime dietetico è cosiddetto “di esclusione” ma non deve necessariamente durare tutta la vita, in quanto, soprattutto nell’infanzia, la sintomatologia tende a scomparire con il trascorrere degli anni.
Il nostro consiglio è quello di richiedere l’aiuto di uno specialista in ambito alimentare per cercare di reintrodurre l’alimento nella propria dieta senza incorrere in alcun tipo di rischio.
Cosa portare a casa
L’intolleranza al lattosio è un difetto enzimatico e non un’allergia: la prima è un deficit enzimatico, la seconda è legata ad un meccanismo immuno-mediato.
Sono gli allergeni contenuti in determinati alimenti che scatenano le reazioni di ipersensibilità e non l’alimento in toto.
Un’alterazione del nostro microbioma, l’insufficienza di vitamina D, un ridotto consumo di acidi grassi omega-3, un ridotto consumo di antiossidanti, condizioni di obesità, vari stati infiammatori ed esposizione precoci ad un allergene sono fattori di rischio per le manifestazioni di allergie alimentari.
Diversi studi dimostrano come la riduzione delle proprietà allergeniche del latte vaccino possono essere effettuate utilizzando una serie di metodi quali il trattamento termico e la glicosilazione con polimeri di glucosio.
Importante per la diagnostica è la valutazione del soggetto che abbiamo di fronte: non siamo tutti uguali ed ogni individuo ha una risposta diversa ad un determinato alimento. Il mondo è bello perché è vario, come si suol dire!
Gli isolati di soia sono delle ottime alternative per gli atleti vegani ma non dimentichiamoci che ci sono allergeni anche in questo legume.
Nelle allergie la storia clinica della persona è essenziale per la diagnosi.
I test validati scientificamente sono: il prick test, il rast test, il prick by prick test e la dieta ad eliminazione. Diffidate da tutti gli altri test.
La cura si basa sull’esclusione dalla dieta dell’alimento considerato dannoso.
Bibliografia:
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Note sull’autrice
Elisa Mancini dott.ssa in biologia e scienze dell’alimentazione/ nutrizione umana (SANU) presso l’Università degli studi di Perugia.
Appassionata di fitness, dopo il superamento dell’esame di stato presso l’Università di Camerino ha effettuato l’iscrizione all’albo dei Biologi e dal luglio 2019 collabora come nutrizionista in alcune palestre della zona di Perugia.
È la molecola che non ti fa avere risultati dopo estenuanti allenamenti in palestra? Ti impedisce di raggiungere l’ipertrofia muscolare?
È importante per il bodybuilding? Ci sono integratori per non farla funzionare?
Che cos’è la miostatina?
La miostatina è una proteina che trovi principalmente a livello del muscolo scheletrico e in minori quantità nel tessuto adiposo e muscolare cardiaco, sia nell’uomo che negli animali.
Come altre proteine prodotte dal muscolo scheletrico fa parte della grande famiglia delle miochine, anche se la miostatina tra tutte è l’unico inibitore della crescita muscolare per ora conosciuto.
È una molecola coinvolta nell’equilibrio dello sviluppo muscolare: regola sia la dimensione delle singole fibre muscolari sia la loro numerosità, anche se i meccanismi tramite i quali agisce non sono ancora del tutto identificati.
A cosa serve la miostatina? Che funzioni ha?
Come già accennato, questa molecola tiene sotto controllo la crescita muscolare, limitando il numero e la grandezza (in termini di volume) delle fibre muscolari: potenzialmente, altrimenti, il muscolo potrebbe crescere senza limiti.
Il nostro corpo è una macchina perfetta, ma basta un infinitesimale errore (a livello del DNA) per avere conseguente a livello macroscopico. Nel caso di non funzionamento della miostatina (es. struttura sbagliata, meccanismo alterato), l’alterazione che noi percepiamo ad occhio nudo è un aumento evidente della massa muscolare, che va oltre alla normalità.
Dall’altra parte, invece, se la proteina funziona troppo la situazione si capovolge e ci sarà una riduzione della crescita muscolare che nel peggiore dei casi porta ad atrofia.
Miostatina e ipertrofia muscolare nel bodybuilding
In generale, l’aumento della massa muscolare può essere determinato da:
Iperplasia: aumenta il numero delle cellule muscolari, in seguito ad un vero danno muscolare;
Ipertrofia: come avviene nel bodybuilding, il muscolo diventa più grande perché le cellule satelliti (staminali) del muscolo si fondono con le fibre muscolari già esistenti. Sostanzialmente c’è una fusione di più cellule che porta quindi alla formazione di un’unica cellula di volume maggiore.
La miostatina per il bodybuilder può sembrare il peggior nemico, riuscire a bloccarla renderebbe più facile le cose, ma si può fare? Nei prossimi capitoli le considerazioni per rispondere!
Miostatina, doping e massa muscolare: che relazione c’è?
Vuoi pesare di più, vuoi più muscoli, ti alleni ma non hai risultati. Adesso che conosci la miostatina sembra proprio di avere la soluzione facile in tasca: basta non farla funzionare!
In realtà, non è così semplice: le sostanze che modificano il funzionamento della miostatina (quindi sostanzialmente i suoi inibitori) sono considerate dopanti e quindi proibite allo sportivo durante la sua competizione, in quanto la loro assunzione non avrebbe fondamenta terapeutiche.
Questo perché chiaramente l’utilizzo di queste sostanze modifica il metabolismo e agevola il miglioramento della prestazione per un atleta e della forma fisica per un bodybuilder.
Come aumentare o abbassare la miostatina?
Modificare i livelli di miostatina è possibile, anche se sicuramente è più una pratica indispensabile per chi soffre di determinate patologie (es. distrofia muscolare) piuttosto che per il bodybuilder che cerca qualche kg o grammo di massa magra in più.
Nel primo caso si utilizzano specifici farmaci, nel secondo le stesse sostanze sono considerate doping. Quindi in quanto bodybuilder devi rinunciare ad abbassare i livelli di miostatina?
In realtà no, tramite determinati alimenti (analizzati tra poco) puoi influenzare il suo livello.
Quali sono gli inibitori della miostatina?
L’azione della miostatina è contrastata dalla follistatina: questa impedisce alla miostatina di funzionare e, di conseguenza, promuove la crescita muscolare.
Quindi, da una parte abbiamo la miostatina che blocca lo sviluppo, dall’altra a contrastare la follistatina che lo promuove: questa interazione determina l’equilibrio del muscolo.
Più follistatina è presente, più sarà favorita la crescita del muscolo, sostanzialmente in termini di ipertrofia.
Miostatina e integratori
La presenza di miostatina nel muscolo può essere influenzata dall’alimentazione tramite l’assunzione di particolari sostanze nutritive, che indirettamente modificano la sua concentrazione. Chiaramente considerando un lasso di tempo considerevole, non qualche giorno.
È il caso dell’epicatechina, della creatina, della vitamina D: le ultime due le hai già sicuramente sentite nominare, la prima probabilmente no.
Vediamo di conoscerle meglio e in particolare che relazione hanno con la miostatina.
Epicatechina
Questa molecola la trovi ad esempio nel tè verde e nel cacao (di più nel cioccolato fondente rispetto al cioccolato al latte).
L’epicatechina migliora le funzioni del muscolo scheletrico: è in grado di attenuare la perdita di tessuto magro perché limita la degradazione proteica. Infatti, in parallelo, stimola la produzione di fattori anabolici.
Creatina
La supplementazione di creatina (sostanza che è già presente naturalmente nei muscoli) ha effetti favorevoli sulla crescita della massa muscolare, in quanto stimola processi anabolici. La creatina, infatti, agisce direttamente:
alterando la secrezione della miostatina e di altre miochine, come il fattore di crescita insulino-simile 1;
aumentando la proliferazione delle cellule satelliti (progenitrici di nuove cellule muscolari).
Non sono ancora ben chiari i meccanismi, ma la creatina nei confronti della miostatina ha funzione di inibizione.
Vitamina D
La maggior parte della popolazione è carente di vitamina D, alcune strategie per aumentare i livelli sono:
esposizione al sole 15 minuti ogni giorno, anche solo di viso e mani;
bere latte;
consumare cereali fortificati;
scegliere il salmone fresco al posto del tonno.
La somministrazione di vitamina D incrementa la performance muscolare e l’ipertrofia. Ma attenzione che un suo eccesso risulta dannoso all’organismo, ci vuole equilibrio.
Miostatina e alimenti
Come hai appena visto, alcuni alimenti contengono elementi che possono interagire con la miostatina.
Ovviamente, come sempre, si tratta di sostanze che hanno solo un’influenza, che possono quindi aiutare in un contesto di allenamento e alimentazione corretto.
Se invece non ti alleni e la miostatina (ora che la conosci) è appena diventata la causa (o la scusa) dei tuoi mali, non sperare di diventare muscoloso grazie al tè verde.
Miostatina e vitamina D
La vitamina D, così come la follistatina, contrasta la miostatina abbassandone i livelli. Azione che comporta un meno limitato sviluppo muscolare.
Ma attenzione: assumere più vitamina D del dovuto non corrisponde ad un’azione di inibizione più marcata della miostatina e quindi una crescita muscolare, anzi! Troppa vitamina D porta all’effetto opposto rispetto a quello desiderato: indebolimento muscolare e nessun miglioramento della performance.
Miostatina e tè verde
Nel tè verde trovi l’epicatechina (o il suo analogo 3-epigallocatechina gallato). Grazie a questa, il tè verde aiuta a preservare la massa muscolare scheletrica in una situazione di catabolismo e atrofia muscolare, come nel caso di disuso muscolare, sarcopenia, cachessia.
Ha quindi funzione inversa rispetto alla miostatina.
Miostatina e vitamina D: che relazione c’è?
Avrai già sicuramente sentito parlare della relazione tra vitamina D e il tessuto osseo (regolazione dell’omeostasi del calcio), ma probabilmente no del rapporto tra questa vitamina e il tessuto muscolare.
La vitamina D diminuisce la concentrazione di miostatina e aumenta quella della follistatina. O, più in generale, aumenta la presenza di tutti i fattori che promuovono lo sviluppo della cellula muscolare.
Risultato? Dalla combinazione sinergica di questi due eventi la crescita muscolare è meno limitata, anzi: è favorita la genesi di nuove cellule muscolari.
Che ruolo ha la miostatina nella sarcopenia?
A causa di determinate patologie (es. distrofia muscolare) e invecchiamento vai incontro alla sarcopenia, cioè alla perdita di tessuto muscolare e relative conseguenze.
Non è ancora ben chiara la relazione tra invecchiamento e attività della miostatina: un motivo potrebbe essere (attenzione al condizionale, non è certo) l’aumento della concentrazione della miostatina con l’avanzare dell’età.
Questo incremento sarebbe, inoltre, inversamente proporzionale alla massa muscolare: più muscoli hai da anziano, meno la miostatina aumenta e quindi avrai meno perdita muscolare. Un ragionamento che fila liscio ma che necessita di ulteriori studi per confermare o smentire questa ipotesi.
Il ruolo della miostatina è di rilevante interesse in questi casi per il trattamento di questa malattia e la rigenerazione muscolare: l’inattivazione della miostatina può essere una strada terapeutica da seguire per incrementare la costruzione di muscolo e di forza per chi è soggetto ad una condizione di perdita muscolare.
Come e quando è stata scoperta la miostatina?
È stata scoperta nel 1997 da un gruppo di scienziati che sono riusciti a produrre topi con una massa muscolare doppia rispetto al normale: i topi più muscolosi erano quelli in cui la miostatina era difettosa e quindi non più in grado di limitare la crescita muscolare.
Si era verificata una situazione sia di ipertrofia che di iperplasia miocitica, ma anche una contemporanea diminuzione del tessuto adiposo.
Ci sono poi stati successivi studi, sempre su animali, che hanno confermato la funzione della miostatina.
Conclusioni sulla miostatina
E’ un importante elemento di regolazione della crescita muscolare, l’unico per ora conosciuto in grado di inibire lo sviluppo del muscolo.
Per chi cerca un miglioramento dei risultati far funzionare di meno questa molecola è possibile tramite determinati nutrienti, che non sono da considerare “magici” o sostanze che portano ad ipertrofia. La base sulla quale questi alimenti possono contribuire ad aiutare resta comunque un buon allenamento.
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Le braccia sono sicuramente uno degli argomenti più discussi nelle palestre e nei centri fitness, uno di quei distretti anatomici che più attrae gli uomini, che aspirano al cosiddetto “braccio grosso”,e le donne, che vogliono ridurre o prevenire l’effetto “tendina” dato dall’accumulo di grasso in queste zone.
Quando si parla di braccia in palestra tendenzialmente ci si riferisce a due muscoli principali: il bicipite brachiale ed il tricipite brachiale. Prima di addentrarci nel discorso allenamento, andiamo a conoscere l’anatomia dei distretti muscolari che interessano le braccia e scopriamo a quali funzioni assolvono.
Muscoli flessori del gomito
I muscoli flessori del gomito non si esauriscono con il bicipite brachiale ma comprendono anche il brachioradiale ed il brachiale. Il bicipite coinvolgendo due articolazione (spalla e gomito) viene definito un muscolo biarticolare e partecipa sia nella flessione del gomito che in quella della spalla. Questa funzione la ritroviamo anche in esercizi che apparentemente non hanno nulla a che vedere con l’allenamento del bicipite, come i dip alle parallele o la panca piana presa stretta.
Come allenare i bicipiti? (o meglio i flessori del gomito)
Vediamo ora i principali esercizi per le braccia nella flessione del gomito e la loro corrette esecuzione.
Analizzeremo prima gli esercizi con l’omero in posizione neutra, poi quelli con l’omero flesso (svantaggio muscolare del bicipite brachiale a favore del brachiale) ed infine quelli con l’omero esteso (bicipite in allungamento).
Curl con bilanciere
Si esegue in piedi con la possibilità di eseguirlo con bilanciere dritto o sagomato; la differenza fra le due tipologie di bilanciere non sta sull’attivazione muscolare, che risulta pressoché identica (sagomato attiva leggermente di più il brachioradiale), ma sulla sicurezza articolare, la quale mediante il bilanciere sagomato risulta essere più rispettata. Consigliamo quindi di optare per questa scelta.
Nel curl con bilanciere impugnatelo circa alla larghezza delle spalle, la presa deve essere comoda e non risultare forzata; la ripetizione inizia con i gomiti estesi (o semiestesi se vogliamo mantenere la tensione muscolare) e si conclude con i gomiti in massima flessione.
Non vincolate del tutto i gomiti lungo i fianchi, consentitegli di fare piccoli movimenti che garantiranno l’incolumità del gomito. Ricordate che l’esercizio coinvolge solo l’articolazione del gomito, evitate quindi di effettuare movimenti di spalla o di schiena per vincere la resistenza di pesi eccessivi o per colmare l’affaticamento nelle ultime ripetizioni.
Curl con manubri
Il curl manubri può essere eseguito in piedi o seduto, senza nessuna differenza di attivazione muscolare e senza nessun rischio per l’incolumità della vostra schiena. La posizione iniziale prevede il gomito esteso e l’avambraccio in posizione intermedia (pollice in avanti), iniziate la flessione del gomito e man mano che salite (a circa 90° di flessione) supinate l’avambraccio (pollice all’esterno). La ripetizione si conclude col gomito completamente flesso e manubrio davanti la spalla.
Potete eseguirlo in contemporanea con tutte e due le braccia o alternandole. La variante “curl a martello” si differenzia per la posizione dell’avambraccio che in questo caso resterà in posizione neutra per tutto il movimento; il muscolo brachioradiale risulterà più coinvolto.
Sia il Curl con bilanciere che il curl con manubri possono essere eseguiti ai cavi bassi con le stesse modalità esecutive.
La versione che non prevede la supinazione, ma che rimane col pollice rivolto verso l’alto è chiamato curl a martello. In questa variante abbiamo un intervento maggiore del brachioradiale e minore del bicipite. Il curl a martello è un buon esercizio di rifinitura soprattutto per chi ha avambracci carenti.
Spider curl
Il spider curl può essere eseguito con manubri o bilanciere (sempre meglio utilizzare quello sagomato), sistematevi proni (pancia in giù) su una panca inclinata di circa 45°,spalle che escono dalla panca, gomiti estesi e braccia perpendicolari al terreno, (45° è perciò un’angolazione di riferimento, trovate l’angolazione che vi permetta di eseguire correttamente l’esercizio senza discostarvi troppo da questa indicazione), da questa posizione iniziale flettete i gomiti portando le mani davanti le spalle.
Nell’esecuzione con manubri la posizione iniziale prevede gli avambracci pronati e una graduale supinazione durante il movimento di flessione del gomito. Le spalle devono restare ferme durante tutto l’esercizio.
Curl ai cavi alti
Prevede una posizione iniziale con spalla flessa a circa 90°, gomiti estesi e avambraccio pronato o in posizione intermedia, l’esercizio prevede una flessione di gomito mantenendo l’omero fermo e supinando gradualmente l’avambraccio.
Curl su panca Scott
Consiste nell’eseguire un curl con gomito e omero poggiati su di una panca inclinata (panca Scott). Può essere eseguito con manubri o con bilanciere dritto o sagomato. Viene sconsigliato nella versione con bilanciere per via della sua natura “rischiosa” a livello dell’articolazione del gomito che risulta soggetta a forze di taglio derivanti dal vincolo imposto dalla panca, che alla lunga potrebbe portare problemi e infortuni. Inoltre la particolarità dell’esercizio è data dall’eseguire un curl con spalla flessa, dunque, essendoci delle valide alternative che prevedono le stesse dinamiche ma non comportano alcun rischio è meglio optare per esse (manubrio, spider curl e curl ai cavi alti).
Curl concentrato
È un esercizio di rifinitura, adatto per concludere l’allenamento. Da seduti appoggiamo il gomito al ginocchio ed effettuiamo una flessione del gomito. Si può eseguire anche in piedi col busto flesso, ma risulta molto più difficile da eseguire e di solito si ricerca il cheating per andare oltre il cedimento muscolare.
Curl con manubri su panca inclinata
Posizionatevi supini (pancia in su) su una panca inclinata a circa 45°, gomiti estesi e avambracci pronati o in posizione intermedia. Flettete i gomiti e supinate gradualmente l’avambraccio. Durante curl con manubri su panca inclinata l’omero resta perpendicolare al terreno durante tutto il movimento.
Curl ai cavi bassi con spalla estesa
L’esecuzione prevede una posizione iniziale con spalla estesa (visto di profilo i gomiti vanno dietro la linea del corpo), gomiti estesi e avambraccio pronato o in posizione intermedia, si flette il gomito e gradualmente si supina l’avambraccio portando il palmo della mano di fronte la spalla mantenendo l’omero fermo durante tutto il movimento.
Muscoli estensori del gomito
Gli estensori del gomito sono composti principalmente dal muscolo tricipite brachiale. È presente anche un altro muscolo l’anconeo che partecipa leggermente all’estensione del gomito ma che può essere considerato, a livello funzionale, un proseguimento del tricipite.
Come per il bicipite anche il tricipite è un muscolo biarticolare che estende gomito ma anche la spalla. Per questa ragione partecipa in esercizi che apparentemente coinvolgono il suo antagonista come le trazioni o il rematore con manubrio. I muscoli biarticolari del braccio, sono spesso sinergici nei movimenti multiarticolari (spalla + gomito) ed antagonisti nei monoarticolari (solo gomito).
Anche gli estensori del gomito a seconda se l’omero è in posizione anatomica (lungo il tronco) o in flessione, cambia l’intervento muscolare, non in relazione ad altri muscoli ma tra il capo lungo del tricipite e gli altri due capi. Più l’omero è in flessione e più il capo lungo parte preallungato.
Push down
L’esercizio va eseguito ai cavi alti, con la possibilità di scegliere fra 4 diverse varianti: barra dritta, barra inclinata, corda o cavi singoli.
La posizione iniziale del push down prevede il gomito flesso a circa 90°, il movimento da eseguire è una completa estensione di gomito. I gomiti vanno tenuti fissi lungo i fianchi, sono permessi leggeri movimenti ad “allargare” solo nella variante con la barra dritta per compensare l’impossibilità di una leggera supinazione dell’avambraccio che renderebbe il movimento più naturale e sicuro a livello articolare.
Inoltre con la barra dritta c’è la possibilità di lavorare anche in presa supina per cambiare gli stimoli.
Nella variante con la corda e ai cavi singoli il movimento inizierà con il gomito flesso e l’avambraccio in posizione neutra e terminerà con gomito esteso e avambraccio pronato. Escludendo la variante con i cavi singoli, si consiglia di chinare il busto leggermente in avanti e tenerlo fisso durante tutto il movimento per permettere una completa estensione di gomito senza che questa sia bloccata dallo scontrarsi della barra/corda col nostro corpo.
Estensioni con busto a 90°
Si esegue in appoggio su una panca o in piedi, col busto parallelo al terreno e omero lungo il fianco, gomito flesso a circa 90° e avambraccio in posizione neutra perpendicolare al terreno. Il movimento consiste in una completa estensione di gomito e pronazione dell’avambraccio che verrà gradualmente ruotato durante l’esecuzione.
French press
Viene generalmente proposto da eseguire supino (pancia in su) su una panca piana con bilanciere sagomato, spalle flesse a 90°, dunque omero perpendicolare al terreno e gomito flesso di circa 90° con le mani che si ritroveranno dunque all’altezza delle tempie. Da questa posizione portare il gomito in massima estensione.
Esistono diverse varianti di french press: con manubri, che prevede una partenza con avambraccio in posizione neutra e avambraccio pronato alla fine del movimento; ai cavi su panca piana e ai cavi alti in piedi con la corda, che va eseguito in piedi con spalla flessa e omero parallelo al terreno col busto leggermente piegato in avanti per permettere al cavo di passare sopra la testa. Anche in questo caso si parte da una posizione neutra degli avambracci e gomito flesso di circa 90° e si concluderà con gli avambracci pronati e gomiti estesi.
In tutte le varianti i gomiti vanno tenuti fermi per evitare compensi che andrebbero a trasformare l’esercizio in multi articolare coinvolgendo altri muscoli.
Estensioni dietro la testa
Da in piedi o da seduti, con la spalla completamente flessa e il gomito flesso a circa 90° con le mani dietro la testa, iniziare la ripetizione ed arrivare a fine esercizio con il gomito completamente esteso. Durante l’esercizio l’omero resta fermo a 180° circa, i gomiti non vanno allargati eccessivamente ma quel poco che basta per rendere il movimento il più naturale possibile e sicuro per la salute del gomito.
Può essere eseguito con manubrio, bilanciere sagomato o ai cavi.
Dip fra le panche
Principalmente proposto per i tricipiti, il dip tra panche differisce dagli altri per essere un esercizio multiarticolare dato il coinvolgimento del deltoide anteriore ed in parte del gran pettorale.
Sistematevi fra due panche con i piedi su di una e le mani pronate sull’altra a una distanza pari a quella del vostro busto, scapole addotte (vicine tra loro), spalle estese, gomito esteso e avambraccio pronato; scendete giù tra le due panche flettendo i gomiti fin dove la vostra spalla ve lo permette senza forzare il movimento; da questa posizione tiratevi su estendendo i gomiti. Sono assolutamente da evitare compensi con i gomiti e movimenti della scapola.
Sono importanti gli esercizi multiarticolari per le braccia?
Abbiamo finora analizzato esercizi che coinvolgono solo l’articolazione del gomito e perciò chiamati esercizi monoarticolari. Ma quanto è rilevante il lavoro svolto da bicipiti e tricipiti in esercizi multiarticolari?
Uno dei capisaldi della fisiologia riguardo la potenziale espressione di forza di un muscolo è il diagramma tensione-lunghezza, secondo il quale, un muscolo eccessivamente allungato o eccessivamente accorciato non potrà esprimere appieno il suo potenziale.
Se invece, si trova ad una lunghezza ottimale, cioè non troppo allungato e non troppo accorciato, sarà in grado di esprimere la sua massima forza. Questo è il caso di esercizi multi articolari come trazioni, rematori, pulley, panca piana, spinte e dip alle parallele, nei quali la flessione o estensione di gomito viene sempre accompagnata da una estensione o flessione di spalla.
Queste particolari accoppiate di movimento (flessione di gomito ed estensione di spalla, estensione di gomito e flessione di spalla) tendono a non far né allungare né accorciare eccessivamente i bicipiti ed i tricipiti, portandoli ad una lunghezza ottimale per poter esprimere forza.
Per questo, un buon lavoro su esercizi multi articolari sarà di fondamentale importanza per poter migliorare la dimensioni dei muscoli delle tue braccia e incrementarne la forza che ti permetterà di svolgere in seguito delle progressioni sui volumi.
Inoltre, alcuni ipotizzano addirittura che l’aggiunta di esercizi monarticolari in un programma con soli esercizi multiarticolari non sia fondamentale per ottenere dei buoni risultati. Essendo questo un argomento molto discusso dagli esperti del settore, è stata condotta una revisione di 23 diversi studi nei quali venivano presi in esame gruppi di soggetti che si allenavano con: soli esercizi multiarticolari, solo monoarticolari, oppure con esercizi multiarticolari abbinati a esercizi monoarticolari.
Nel lungo periodo è risultato che, per gli arti superiori, non vi erano differenze sostanziali in termini di guadagno di forza e dimensione muscolare. Questo non significa che non bisogna eseguire esercizi monoarticolari ma, se vuoi allenare i muscoli delle braccia, ma non hai abbastanza tempo per completare tutta la sessione d’allenamento, rinuncia ad esercizi monoarticolari in favore di esercizi multiarticolari e non viceversa, in questo modo, non solo allenerai le braccia, ma anche altri distretti muscolari, ed il tuo fisico ne beneficerà globalmente.
Quali sono i principali esercizi multi articolari che coinvolgono le braccia?
Abbiamo appena visto che gli esercizi multi articolari svolgono un ruolo fondamentale nel miglioramento dei muscoli delle braccia, andiamo allora ad analizzare i 2 principali esercizi che coinvolgono i tricipiti ed i bicipiti fra quelli generalmente inseriti nelle schede di allenamento.
Dip e trazioni prevalgono rispetto alla panca piana ed al rematore. Nei dip l’estensione del gomito ha un ROM maggiore ed è meno sinergico con tutti i fasci del gran pettorale, cosa che viene limitata nella panca a presa stretta, che può essere considerato un esercizio per i tricipiti e la parte alta del petto. Le trazioni prevalgono nel coinvolgere il bicipite rispetto al rematore, perchè in quest’ultimo esercizio se l’avambraccio rimane a 90° rispetto al terreno, la flessione del gomito avviene naturalmente, anche senza la contrazione del bicipite.
Quindi possiamo dire che i grandi multiarticolari che coinvolgono in modo importante le braccia sono: dip, panca presa stretta, trazioni + (lento in piedi e pulley dove il coinvolgimento del bicipite è maggiore rispetto al rematore).
Quali esercizi deve fare una donna? E quali un uomo?
In realtà non esiste alcuna differenza fra quali esercizi eseguire in base al genere. Che tu sia un uomo o una donna gli esercizi proposti, se correttamente eseguiti, sono adeguati per entrambi i sessi. L’unica differenza sta nell’impostazione dell’allenamento che per le donne dovrà essere orientato più verso i volumi e la densità (alte ripetizioni e pause più brevi); mentre per gli uomini dovrà essere orientato verso l’intensità (meno ripetizioni e carichi più elevati).
Esercizi per rassodare e dimagrire le braccia
Tantissime donne eseguono esercizi con pesetti ed elastici per rassodare le braccia. Alla base di questo c’è l’idea del dimagrimento localizzato, ovvero di dimagrire dove si lavora. Questa teoria non è mai stata dimostrata, anzi. Tuttavia è bene che le donne allenino anche gli arti superiori, non tanto perchè esistono esercizi per dimagrire, ma piuttosto perchè tutto il corpo va allenato per ottenere i migliori risultati, anche in ambito della perdita di peso.
Conclusioni-Come tonificare le braccia?
Vuoi diminuire la percentuale di tessuto adiposo nelle braccia? O sei già magro/a e vorresti semplicemente aumentare il volume dei tuoi muscoli? In entrambi questi casi dovrai concentrati su 3 punti fondamentali:
Allenati con esercizi multi articolari! Come hai visto hanno un’importanza per niente trascurabile, tieni conto che oltre agli effetti sulle braccia, allenerai altri muscoli e questo porterà a miglioramenti del tuo stato metabolico.
Dai enfasi con esercizi monoarticolari! Adesso sai come poterti focalizzare su tricipiti e bicipiti, crea delle progressioni sui carichi e sui volumi, varia gli esercizi per cambiare gli stimoli e gli angoli di lavoro.
Segui un’alimentazione corretta! Trova quello che fa per te, se sei sovrappeso o presenti zone con eccesso di grasso crea un deficit calorico, se sei sottopeso o vuoi prendere massa muscolare crea un surplus calorico.
Armati di buona volontà e facendo le cose per bene i risultati non tarderanno ad arrivare.
Bibliografia:
-“A review of the Acute Effects and Long-Term Adaptations of Single-and Multi-Joint Exercises During Resistance Training”.[Sports Med. 2017]
-Project exercise-volume 1-arto superiore. Andrea Roncari.
Note sull’autore
Davide Ventura. Studente di Scienze motorie. Da sempre appassionato di resistance training e all’approccio scientifico inerente all’allenamento e tutto ciò che lo riguarda.
La vitamina C, nota anche come acido L-ascorbico, è una vitamina idrosolubile. Gli esseri umani, a differenza della maggior parte degli animali, non sono in grado di sintetizzare la vitamina C in modo endogeno (da soli), quindi è un componente dietetico essenziale. In questo articolo evitiamo di scendere nel dettaglio di tutte le funzioni della vitamina C e ci concentreremo su quelle che potrebbero supportare il ruolo di questa vitamina come panacea per le malattie infettive e per potenziare il sistema immunitario.
La vitamina C è un importante antiossidante fisiologico e svolge un ruolo importante nella funzione immunitaria¹ Per questo motivo è lecito aspettarsi che l’assunzione insufficiente di vitamina C può associarsi a una riduzione della funzionalità immunitaria. È in effetti noto che le carenze evidenti (cliniche) di micronutrienti influenzano negativamente il sistema immunitario e predispongono le persone alle infezioni²³4
Ad esempio, è riconosciuto dalla comunità scientifica che il deficit di micronutrienti aumenta il rischio di morbilità e mortalità associate a morbillo, polmonite e malattia diarroica 56.
Appare quindi importante capire quando c’è una carenza e quando no. Bene, ogni qual volta parliamo di “assunzione insufficiente” o di “carenza” di vitamina C ci viene in mente dello scorbuto, una malattia caratterizzata da affaticamento, debolezza diffusa e fragilità capillare. Tuttavia, per evitare lo scorbuto basta un’assunzione di 10 mg / die di vitamina C, ovvero una quantità estremamente bassa in assoluto, e anche in rapporto a quelle che sono le RDA nazionali, internazionali e mondiali per la vitamina C7.
Dobbiamo quindi capire una cosa molto importante: non basta assumere 10 mg / die di vitamina C per stare in salute e ottimizzare tutte le funzioni della vitamina C, anche quelle riguardanti il rafforzamento del sistema immunitario. Infatti, 10 mg / die è solo la quantità minima per prevenire lo scorbuto, ma ci possono essere assunzioni maggiori di 10 mg che creano comunque le condizioni per carenze subcliniche che, come abbiamo visto, hanno un effetto di riduzione della risposta immunitaria e aumentano il rischio di morbidità e mortalità di alcune infezioni.
Raccomandazioni ufficiali per l’assunzione di vitamina C
Invece, per quanto riguarda le raccomandazioni sull’assunzione di vitamina C, prendendo in considerazione le RDA, ovvero, il livello medio giornaliero di assunzione sufficiente a soddisfare il fabbisogno nutrizionale del 97,5% degli individui sani, la RDA è intorno a 90 mg per gli adulti maschi e 75 mg per gli adulti femmine.
Le RDA per la vitamina C si basano proprio sulle sue note funzioni fisiologiche e antiossidanti nei globuli bianchi e sono molto più elevate della quantità richiesta per la protezione da carenza di vitamina C per lo scorbuto. Come potete vedere dalla tabella, chi fuma ha una RDA aumentata di circa il 30% rispetto a chi non fuma.
Età
Maschio
Femmina
Gravidanza
Lattazione
0–6 mesi
40 mg *
40 mg *
/
/
7-12 mesi
50 mg *
50 mg *
/
/
1-3 anni
15 mg
15 mg
/
/
4-8 anni
25 mg
25 mg
/
/
9-13 anni
45 mg
45 mg
/
/
14-18 anni
75 mg
65 mg
80 mg
115 mg
19+ anni
90 mg
75 mg
85 mg
120 mg
I fumatori
Gli individui che fumano richiedono 35 mg / die di
vitamina C in più rispetto ai non fumatori.
Dunque, in sostanza, dobbiamo fare di tutto per assumere 100 mg di vitamina C se non fumiamo, e 130 mg se fumiamo. Non ci interessa molto eccedere, perché assumerne 150 o 200 o 250 non ci crea alcun danno, quindi possiamo tranquillizzarci e concentrarci nel come fare per assumere abbastanza vitamina C.
Come possiamo fare?
Cibo e vitamina C
Frutta e verdura sono le migliori fonti di vitamina C (vedi tabella). Considerate però che il contenuto di vitamina C negli alimenti può essere ridotto dalla conservazione prolungata e dalla cottura poiché l’acido ascorbico è solubile in acqua e viene distrutto dal calore. La cottura a vapore o al microonde può ridurre le perdite di vitamina C con la cottura, quindi sarebbe da preferire.
Fortunatamente, molte delle migliori fonti alimentari di vitamina C, come frutta e verdura, vengono solitamente consumate crude. Si stima che consumare cinque diverse porzioni di frutta e verdura al giorno può fornire più di 200 mg di vitamina C. Del resto, potete fare da soli i calcoli, utilizzando i cibi presenti in tabella.
Qualcuno mi dirà che non assorbiamo tutta la vitamina C che assumiamo. Bene, andiamo a vedere.
Assorbimento della vitamina C
L’assorbimento intestinale di vitamina C è regolato da almeno un trasportatore attivo dose-dipendente specifico. La vitamina C orale produce concentrazioni di tessuto e plasmatiche che il corpo controlla strettamente, ecco perché è assolutamente inutile esagerare con le dosi di vitamina C. Circa il 70% -90% di vitamina C viene assorbito a dosi moderate di 30-180 mg / giorno. Tuttavia, a dosi superiori a 1 g / die, l’assorbimento scende a meno del 50% e l’acido ascorbico non assorbito viene escreto nelle urine. Man mano che si alzano le dosi l’assorbimento è sempre minore10.
Adesso facciamo 2 conti: assumo “sulla carta” 150 mg di vitamina C dal cibo, ne assorbo “solo” l’80%, ovvero 120 mg, e ho raggiunto (e generalmente superato) la mia RDA. Cosa devo mangiare per assumere 150 mg di vitamina C? In genere mi basterebbe consumare 2 arance al giorno. Non molto difficile vero?
Ho assolutamente bisogno degli integratori! Non riuscirò mai a mangiare ben 2 arance…
Ma perché la gente è così convinta che dosi massicce di vitamina C prevengano raffreddore, influenza e addirittura polmoniti?
L’origine del mito è sicuramente attribuibile al famoso scienziato Linus Pauling, la cui autorevolezza è inscalfibile perché ha vinto ben due premi Nobel (sebbene poco attinenti all’applicazione pratica clinica della vitamina C, ma questo poco importa alle persone, che hanno un bisogno psicologico, ben documentato, di eleggere sempre un luminare, che gli dica cosa fare).
Secondo Pauling, la vitamina C era la sostanza più importante per la vita, e incoraggiava tutti ad assumere da 3 a 18 g di vitamina C per prevenire il raffreddore. C’è tuttavia da dire che non ha mai condotto studi controllati adeguati per poter veramente dimostrare che l’integrazione di dosi così elevate di vitamina C fossero utili per il raffreddore o, ancora, per malattie più gravi11.
Assenza di evidenza non significa evidenza di assenza, ci direte voi. E avete ragione: attualmente la comunità scientifica è concorde nel dire che la vitamina C non è efficace per ridurre il raffreddore o l’influenza e non lo fa mica per il semplice fatto che Pauling non ha mai condotto studi controllati sull’argomento, ma lo fa basandosi sugli studi che, successivamente, sono stati condotti, e hanno riscontrato un’assenza di efficacia nella popolazione generale.
Cosa dice la letteratura scientifica
Secondo questa revisione Cochrane del 201312la supplementazione di vitamina C non ha effetto sulla popolazione generale che soddisfa le RDA per la vitamina C (che abbiamo visto essere rispettabili facilmente con una buona alimentazione che comprenda frutta e verdura). Anche con l’aggiornamento della revisione Cochrane nel 201713 si ottengono gli stessi risultati: la supplementazione di vitamina C non è utile per ridurre l’incidenza del raffreddore nella popolazione comune. In uno studio la supplementazione di vitamina C ha ridotto dell’8% la durata del raffreddore (ovvero circa 10 ore per un raffreddore medio che guarisce spontaneamente dopo 5 giorni).
In questa revisione del 2019 si conferma che la vitamina C ha un ruolo importante sul sistema immunitario ma che nella popolazione generale che soddisfa le RDA la supplementazione di vitamina C (dA 0,2 a svariati grammi di vitamina C, fino a 6-8 g) non ha sortito effetti benefici sulla prevenzione del raffreddore o delle polmoniti.
A onor di cronaca, chiarisce anche che gli atleti e chi pratica elevati livelli di attività fisica possono forse beneficiare di una supplementazione di vitamina C, in virtù del loro fabbisogno aumentato (si noti che gli studi parlano di maratoneti, triatleti e militari in condizioni climatiche e geografiche avverse, non di chi fa 4×8 di squat in palestra per 30 minuti).
In questo studio in cui si indagavano gli effetti sulla supplementazione di vitamina C e riduzione del rischio di polmonite non si sono osservati effetti benefici14.
Rischi per l’assunzione eccessiva di vitamina C
Le assunzioni elevate di vitamina C hanno il potenziale di aumentare l’escrezione di ossalato urinario e acido urico, che potrebbe contribuire alla formazione di calcoli renali, specialmente in soggetti con pregressi disturbi renali e una storia di calcoli. In particolare, soggetti con iperossuria non devono superare l’assunzione di 500 mg di vitamina C. Ciò viene affermato non solo dalla National Institutes of Healt (NIH)15 ma anche da una review molto recente che tratta degli aspetti nutrizionali circa i calcoli renali 16
Assunzioni superiori a 2 g di vitamina C sono correlati con il maggior rischio di disturbi gastrointestinali e diarrea. Del resto, c’è un motivo se è stata elaborata una UL (livelli massimi tollerabili di assunzione) per la vitamina C. l’UL è di circa 2 g per gli adulti e si riferisce anche all’assunzione di vitamina C con gli integratori17.
Livelli tollerabili di assunzione superiore (UL) per la vitamina C
Non è molto famoso sulle tavole degli italiani, ma il burro di arachidi è un alimento valido per la palestra e il bodybuilding?
Analizziamo i suoi nutrienti e le sue caratteristiche per scoprire:
se, quando e quanto inserire il burro di arachidi nella tua dieta;
se è meglio che in Italia questo alimento continui a non essere famoso.
Che cos’è il burro d’arachidi?
Il burro di arachidi è una crema vegetale e spalmabile a base di arachidi macinati, semi che fanno parte del grande gruppo della frutta secca, categoria caratterizzata da un buon profilo lipidico e densità calorica.
È un alimento ipercalorico, non per questo da escludere dalla dieta ma sicuramente da tenere sotto controllo: data la densità calorica è facile far salire rapidamente le calorie assunte e sforare, quindi, da quelle necessarie per il fabbisogno giornaliero. Idem per il quantitativo di grassi.
Le arachidi fanno parte degli alimenti (insieme ad esempio a latte, uova, soia) definiti allergeni, cioè che possono non essere tollerati dall’organismo, che si difende dalla sostanza ingerita scatenando una reazione allergica. Per chi, quindi, è allergico alle arachidi, il burro di arachidi è da evitare.
A livello industriale molto spesso vengono aggiunti alla crema grassi idrogenati, che vengono sintetizzati a partire dai grassi polinsaturi (molto presenti nel burro di arachidi) per dare più consistenza e conservabilità al prodotto ad un minor costo. Questi grassi però sono meno qualitativi rispetto agli insaturi e sono da limitare, perché in quantità sono dannosi per la salute.
Per non rinunciare al burro di arachidi ci sono due opzioni: la prima è produrlo in casa; la seconda acquistare un burro di arachidi senza grassi idrogenati, che si può riconoscere anche ad occhio nudo perché nel vasetto la fase più superficiale sarà più liquida.
Calorie e proprietà nutrizionali del burro d’arachidi
Kcal
Proteine (g)
Lipidi (g)
Carboidrati (g)
Zuccheri (g)
Colesterolo (mg)
100 g di burro di arachidi
623
22,6
53,7
13,1
6,7
0,0
I valori della tabella sono medi e possono variare, ma sostanzialmente la distribuzione dei macronutrienti resta simile. La grande densità calorica è dovuta alla massiccia presenza (circa il 50%) di grassi, che rispetto a proteine e carboidrati, a parità di quantità, hanno il doppio delle calorie.
Gli amminoacidi che costituiscono le proteine presenti sono principalmente: glutammato, aspartato, arginina, leucina, serina e fenilalanina.
27,2 g di acidi grassi monoinsaturi (in particolare acido oleico);
13,5 g di acidi grassi polinsaturi (che corrispondono sostanzialmente all’acido linoleico).
Quindi, la composizione lipidica è buona, perché la quota dei saturi (che consumati in eccesso fanno male) è ridotta rispetto a quella degli insaturi, che invece sono grassi che non danneggiano la salute. Inoltre il contenuto di colesterolo è pari a zero, un punto in più per questo alimento da un punto di vista salutare.
Gli zuccheri presenti (6,7 g) corrispondono al disaccaride saccarosio, cioè il comune zucchero da cucina.
Nel burro di arachidi troviamo anche molti micronutrienti: i più rappresentati sono alcuni minerali (come il potassio, il sodio, il fosforo, il cloro, lo zolfo) e tra le vitamine trovi soprattutto la B e la E. I minerali presenti sono tutti elementi già presenti nell’organismo perché ne ha bisogno per svolgere e mantenere le sue funzioni.
Per completezza di informazione riguardo alle proprietà nutrizionali, in questo alimento trovi anche una piccola quantità di fibra alimentare: 6,8 g su 100 di prodotto.
Quando assumere il burro d’arachidi per la palestra?
Non è consigliato mangiarne tanto tutti i giorni, ma in modeste quantità e in una dieta varia può essere tranquillamente inserito.
Considera il burro d’arachidi dal punto di vista dei nutrienti: molti grassi, un po’ di proteine, pochi carboidrati. Data la sua composizione, è meglio se lo consumi nei giorni in cui non ti alleni: infatti, nei giorni in cui vai in palestra, i macronutrienti da preferire sono i carboidrati e le proteine. I primi ti consentono di avere a disposizione energia e una risorsa per la ri-sintesi del glicogeno, mentre le seconde contribuiscono al recupero muscolare e alla sintesi proteica.
Inserire il burro d’arachidi nella dieta è utile anche per chi ha bisogno di aumentare il proprio fabbisogno calorico: in una dieta ipercalorica è necessario incrementare l’in-take calorico e puntare sull’aumentare la quota lipidica può essere una strategia (non l’unica). Bastano un paio di cucchiaini in più di burro di arachidi a colazione o un cucchiaio d’olio extravergine di oliva a pranzo e le calorie aumentano con facilità.
Non che per una corretta ipercalorica cominciare a mangiare solo tanti grassi sia la strada da seguire, ma, in un bilanciato quadro alimentare che comprende anche l’aumento dei grassi, il burro di arachidi è uno degli alimenti che può rispondere a questa esigenza.
Infatti, una dieta troppo ricca di grassi contribuisce a far aumentare di peso, ma i chili presi saranno di tessuto adiposo: il grasso per uno sportivo è un “peso morto” perché non aiuta il movimento e inibisce la performance nella maggior parte dei casi, oltre che essere un elemento da evitare per chi – oltre che la salute – ricerca anche l’estetica.
Burro di arachidi a colazione per la palestra e il bodybuilding
Avendo molti grassi, il burro di arachidi a colazione farà sì che la digestione durerà più tempo rispetto alla stessa colazione senza la fonte lipidica. Puoi usare questo a tuo vantaggio: se la digestione dura di più, anche il senso di sazietà sarà più lungo.
Quindi, fare una colazione con una fonte lipidica ti può aiutare a risparmiare calorie perché ti sarà più facile rinunciare alla merenda di metà mattina.
Se ti alleni di mattina, invece, è meglio evitare il burro di arachidi e scegliere alimenti a base di carboidrati e proteine.
Burro di arachidi prima e dopo la palestra
Quando ti alleni in palestra il substrato energetico prevalentemente utilizzato è il glucosio, perciò alimenti grassi (come il nostro burro di arachidi) sono da inserire non in prossimità di un allenamento ma nel resto della giornata.
Questo perché nel peri-workout (prima, durante, dopo l’allenamento) è meglio consumare fonti glucidiche e protidiche per promuovere il recupero muscolare e, quindi, ottimizzare l’allenamento che hai appena fatto e quello che farai.
Consumare grassi nelle 4 ore prima di un allenamento di qualsiasi tipo appesantisce la digestione, a discapito della performance. Dopo la palestra, come già detto, integrare alimenti lipidici non è indispensabile, ma inserire una piccola quota può contribuire al senso di sazietà.
Sebbene i grassi non siano molto utilizzati quando ti alleni, non vuol dire che chi va in palestra non deve consumare fonti lipidiche: infatti, i lipidi (così come i carboidrati, le proteine e i micronutrienti) sono componenti indispensabili per l’organismo.
Pensa, ad esempio, che la membrana di tutte le tue cellule è costituita da lipidi, che molti ormoni derivano da grassi, che il tessuto adiposo è funzionale anche alla protezione dei tuoi organi interni. Perciò escludere totalmente i grassi della dieta non è proprio il massimo se vuoi stare in salute.
Conclusioni sul burro d’arachidi
Il burro di arachidi è un buon alimento da inserire nella dieta per raggiungere soprattutto la quota di grassi nell’arco della giornata, per il sedentario e per chi va in palestra. Nel secondo caso, data la sua composizione in termini di macronutrienti, è meglio inserirlo nei giorni di riposo o in una fase di regime alimentare ipercalorico, a distanza rispetto all’orario in cui ti alleni.
Bibliografia
Fink & Mikesky (2015). “Practical Applications in Sports Nutrition”. Jones & Bartlett Learning.
La caviglia (dal latino cavìcla, ossia “cavicchia”, che indicava un grosso chiodo), anche detta “tibio-tarsica” o “talo-crurale”, è un’articolazione sinoviale che unisce la parte inferiore delle ossa tibia e perone con l’astragalo, l’osso più prossimale del piede. Rappresenta la regione di raccordo tra la gamba e il piede, contribuendo di conseguenza a comporre il complesso anatomico dell’arto inferiore, nella sua parte più distale.
La caviglia, con la sua morfologia, permette al corpo di eseguire movimenti fondamentali nella locomozione e nelle attività quotidiane, oltre a fornire un sostegno passivo importante nel mantenimento della stazione eretta. È sostenuta da un complesso sistema legamentoso ed ospita l’inserzione di diversi muscoli fondamentali per i movimenti di gamba e piede. Analizziamo ora l’anatomia della caviglia in maniera più specifica, così da comprenderne l’importanza e le funzioni.
Anatomia della caviglia
Dal punto di vista anatomico la caviglia comprende un’articolazione funzionale: l’articolazione tibio-tarsica, composta da tre componenti ossee: tibia, perone (o fibula) e astragalo (o talo).
Ognuna di queste contribuisce con la propria morfologia a formare il complesso articolare della caviglia, andiamo a vedere in che modo.
La tibia, la cui estremità distale si allarga per consentire una maggiore area di contatto per il trasferimento del carico corporeo, fornisce con il suo lato mediale una prominenza ossea detta “malleolo mediale” (dal latino malleus, ossia “martello”), nella cui superficie laterale si trova la faccetta articolare tibiale dell’astragalo, con la quale la tibia si articola con l’omonimo osso, componendo una piccola parte dell’articolazione tibio-tarsica.
Il perone, o fibula, posto lateralmente alla tibia, forma nella sua epifisi distale il “malleolo laterale”, parte ossea acuminata e facilmente palpabile, che funziona come una puleggia per i tendini dei muscoli peroneo lungo e peroneo breve. Sulla superficie mediale del malleolo laterale si trova la faccetta articolare peroneale dell’astragalo.
L’astragalo, infine, possiede una superficie dorsale (o trocleare) a forma di cupola arrotondata, convessa antero-posteriormente e leggermente concava medio-lateralmente, coperta da cartilagine, con cui fornisce una superficie articolare liscia per l’articolazione della caviglia.
L’articolazione tibio-tarsica si instaura quindi tra la troclea (cupola) e i lati dell’astragalo con la cavità rettangolare formata dall’estremità distale della tibia e da entrambi i malleoli. Questa articolazione viene spesso chiamata “mortaio” a causa della sua somiglianza con la giunzione a mortaio del carpentiere. La forma concava del lato prossimale del mortaio è mantenuta da legamenti che connettono la tibia con il perone, e fornisce un’importante fonte di stabilità naturale alla caviglia.
La struttura del mortaio deve essere sufficientemente stabile da accettare le forze che passano tra la gamba e il piede; mentre si è in stazione eretta, infatti, dal 90% al 95% (con un’ampia variabilità) delle forze compressive passa attraverso la tibia e l’astragalo, con il restante 5-10% che passa attraverso la regione laterale dell’astragalo e del perone. La cartilagine articolare posta tra tibia, perone e astragalo è spessa circa 3 mm in media, e può essere compressa dal 30% al 40% in risposta a picchi di carichi fisiologici, proteggendo l’osso subcondrale da stress potenzialmente lesivi.
Esiste una sorta di terzo malleolo, detto “malleolo di Destot”, costituito dal margine posteriore della superficie tibiale, posta inferiormente rispetto al margine anteriore, la quale crea una simulazione di un malleolo con la sua prominenza ossea.
La caviglia possiede una struttura di protezione detta capsula articolare, rinforzata da diversi legamenti collaterali che aiutano a mantenere la stabilità tra l’astragalo e la concavità rettangolare del mortaio. Poiché la maggior parte dei legamenti si sviluppa obliquamente in diverse direzioni anteriori o posteriori, la maggior parte di questi limita anche le traslazioni antero-posteriori dell’astragalo all’interno del mortaio. Oltre a conferire resistenza meccanica al mortaio, i legamenti possiedono molti meccanocettori ( piccoli recettori sensoriali deputati alla percezione di stimoli meccanici), principalmente terminazioni nervose libere e corpuscoli di Ruffini, i quali aumentano la capacità dei muscoli di stabilizzare inconsciamente la regione della caviglia.
Il legamento collaterale mediale della caviglia, chiamato legamento deltoideo, a causa della sua forma triangolare, ha la funzione di rinforzare il lato mediale della caviglia, limitando gli estremi del movimento di eversione del piede, e fornendo stabilità rotatoria multidirezionale al mortaio. Questo legamento si inserisce con il suo apice lungo il malleolo mediale, mentre con la sua base, ispessita ed espansa, forma un gruppo superficiale di quattro fasci di fibre, e un gruppo profondo di fibre verticali più corte. Queste ultime si dividono in fibre tibio-talari profonde anteriori e posteriori , e sono poste su un piano separato, posto tra il malleolo mediale e l’astragalo.
Il legamenti collaterali laterali della caviglia includono invece i legamenti peroneo-astragalico anteriore, posteriore e peroneo-calcaneare. A differenza dei legamenti deltoidi, intrecciati fra loro, i legamenti laterali esistono come entità anatomiche separate, e rappresentano le strutture che nella maggioranza dei casi vengono lesionate nelle distorsioni di caviglia. Il legamento peroneo-astragalico anteriore (o tibio-fibulare anteriore) origina dal malleolo laterale, per poi inserirsi anteriormente e mediamente al collo dell’astragalo.
Il legamento peroneo-calcaneare (o calcaneo-fibulare) si estende inferiormente e posteriormente dall’apice del malleolo laterale alla superficie laterale del calcagno e fornisce resistenza all’inversione eccessiva, specialmente quando la caviglia è completamente dorsiflessa. Come coppia, questi due legamenti forniscono resistenza passiva all’inversione durante la maggior parte del range di flessione dorsale e plantare.
Il legamento peroneo-astragalico posteriore nasce dal lato postero-mediale del malleolo laterale e si inserisce sul margine laterale dell’astragalo, con le fibre che decorrono in direzione quasi orizzontale. La sua funzione principale è di stabilizzare l’astragalo all’interno del mortaio, limitando in particolare la sua eccessiva abduzione quando la caviglia è completamente dorsiflessa.
Il legamento trasversale inferiore è un piccolo fascio spesso di fibre, considerato parte del legamento peroneo-astragalico posteriore. Molte componenti dei legamenti che stabilizzano la caviglia passano a ponte anche su altre articolazioni del piede, come le articolazioni sotto-astragalica e astragalo-navicolare, fornendo stabilità passiva anche ad esse.
L’astragalo possiede la particolare caratteristica di non ospitare alcuna inserzione muscolare; tuttavia la caviglia riceve il supporto di numerosi tendini che decorrono vicino ad essa. Fra questi troviamo i tendini di muscoli posteriori della gamba come il gastrocnemio e soleo (uniti insieme nel tendine di Achille), tibiale posteriore, estensore comune delle dita, estensore proprio dell’alluce, e di muscoli anteriori e laterali della gamba, ossia il muscolo tibiale anteriore, peroneo lungo e breve e peroneo terzo (o anteriore).
Un’importante componente strutturale della caviglia, infine, è fornita dalle articolazioni tibio-peroneali prossimali e distali, e dalla membrana interossea, struttura della gamba che contribuisce a tenere unite la tibia e il perone. Per tale ragione alcuni autori includono queste articolazioni nel complesso articolare della caviglia.
Funzioni e movimenti della caviglia
La caviglia ha essenzialmente quattro funzioni principali: fornisce una superficie articolare in grado di mettere in rapporto la gamba con il piede, permette al piede di effettuare due movimenti fondamentali ( ossia flessione plantare e flessione dorsale), si presta come punto di inserzione ossea di diversi legamenti, ed è infine determinante come struttura portante nel supporto del peso corporeo in stazione eretta.
L’articolazione tibio-tarsica possiede un basilare grado di libertà, con un movimento che avviene sul piano sagittale, intorno ad un asse di rotazione che passa attraverso il corpo dell’astragalo e le estremità di entrambi i malleoli. Poiché il malleolo laterale è inferiore e posteriore al malleolo mediale, come si può notare mediante palpazione, l’asse di rotazione non è puramente medio-laterale, ma lievemente inclinato. Per questo motivo, il movimento di dorsiflessione (movimento che consente di sollevare il piede verso l’alto e di camminare sui talloni) è associato a una leggera abduzione e all’eversione, mentre la flessione plantare (movimento che permette di puntare il piede verso il pavimento e di sollevarsi sulle punte) ad una leggera adduzione e inversione.
Per una rigorosa definizione, pertanto, l’articolazione tibio-tarsica genera un movimento di pronazione e supinazione, ma poiché l’assa devia solo in minima parte dall’asse medio-laterale puro, i componenti principali della pronazione e della supinazione della caviglia sono la dorsiflessione e la flessione plantare, che vengono quindi considerati i principali movimenti a carico della tibio-tarsica, mentre le componenti sul piano trasversale e frontale sono minime e non rilevanti.
La posizione di 0 gradi (neutra) nella caviglia è definita quando il piede è tenuto a 90 gradi rispetto alla gamba. Da questa posizione l’articolazione tibio-tarsica consente circa 15-25 gradi di flessione dorsale e 40-55 gradi di flessione plantare, con un’ampia variabilità nella popolazione. Questi due movimenti possono essere analizzati quando il piede è sollevato da terra e libero di ruotare, o quando è fissato a terra , come durante la fase di appoggio nella deambulazione, quando la caviglia è chiamata a dorsiflettersi per favorire l’avanzamento della tibia sul piede. I movimenti di flessione plantare e dorsiflessione sono cinematicamente legati alla traslazione anteriore e posteriore dell’astragalo.
Durante la flessione plantare, infatti, l’astragalo rotola posteriormente e scivola anteriormente, mentre durante la dorsiflessione rotola anteriormente e scivola posteriormente. Una limitazione di alcuni di questi movimenti accessori dell’astragalo può portare ad una caviglia bloccata (qui inserite il link al vostro articolo sulla caviglia bloccata), molto spesso con limitazioni nel movimento di dorsiflessione.
Distorsione di caviglia
La distorsione laterale della caviglia, chiamata volgarmente “storta alla caviglia”, è definita come la perdita parziale e momentanea, più o meno grave, dei rapporti articolari nell’articolazione tibio-tarsica, tra la pinza malleolare e l’astragalo. È una delle lesioni più comuni negli sport (soprattutto nella pallavolo, calcio e nelle discipline relative alla corsa) e rappresenta una grande percentuale di lesioni ortopediche nella popolazione.
La meccanica della tipica distorsione di caviglia di solito coinvolge una componente di inversione eccessiva, non sorprende quindi che circa l’80% di tutte le distorsioni di caviglia sia associato a lesioni a uno o più legamenti collaterali laterali. L’alta frequenza relativa alle distorsioni da inversione può essere parzialmente spiegata dalla leggera inversione del calcagno presente nel momento in cui il tallone entra in contatto con il terreno durante la deambulazione, insieme all’incapacità del malleolo mediale di bloccare adeguatamente il lato mediale del mortaio.
Il legamento peroneo-astragalico anteriore è il più frequentemente danneggiato nelle distorsioni di caviglia. La lesione è spesso causata da una inversione di entità troppo elevata o da un’adduzione sul piano orizzontale della caviglia, specialmente se combinata con una flessione plantare, come per esempio quando si cade inavvertitamente in una buca, o quando si atterra sul piede dopo un salto. La sintomatologia tipica è caratterizzata da dolore e gonfiore nella zona della caviglia, con presenza o meno di impotenza funzionale, in base all’entità dell’infortunio.
Uno studio ha mostrato che i muscoli tibiale anteriore e peroneo lungo proteggono la caviglia dalle distorsioni, decelerando in modo riflesso l’inversione improvvisa e limitando gli estremi di un movimento dannoso. Tuttavia è interessante notare che l’attivazione del muscolo tibiale anteriore, sebbene possa limitare una eccessiva flessione plantare, può contribuire a un eccessiva inversione.
Se gravi, le distorsioni da inversione possono causare lesioni significative a diversi tessuti, più frequentemente coinvolgendo i legamenti peroneo-astragalico anteriore e peroneo-calcaneare.
Distorsione caviglia inversione
Meno conosciute e sicuramente meno frequenti sono le distorsioni da eversione, che possono implicare lesioni al legamento deltoideo e una compressione o lesione ossea basata su uno sforzo tangenziale tra l’astragalo e il malleolo mediale. Una lesione del legamento deltoideo è tuttavia poco comune, in parte a causa della elevata resistenza dei fasci che lo compongono, e anche perché il malleolo laterale funge da blocco osseo contro l’eccessiva eversione.
Distorsione caviglia eversione
Instabilità cronica di caviglia
Tra il 30% e il 70% delle persone che sperimentano una distorsione di caviglia da inversione isolata che richiede un intervento medico sarà soggetto successivamente a distorsioni della caviglia allo stesso piede ed a instabilità articolare generalizzata. Persone con instabilità cronica di caviglia (identificata con la sigla “CAI”, ossia chronic ankle instability) in genere riportano che la loro caviglia frequentemente “cede” mentre sono coinvolte in eventi sportivi o anche durante attività relativamente non stressanti.
Oltre alla perdita della funzionalità, le persone con CAI sono soggette ad un maggior rischio di sviluppare artrosi alla caviglia, rispetto alla media. L’ampia gamma di frequenza segnalata di CAI riflette la mancanza di accordo su ciò che costituisce effettivamente la condizione. In generale, la CAI ha caratteristiche sia meccaniche sia funzionali: le caratteristiche meccaniche possono includere un’eccessiva lassità anteriore dell’astragalo rispetto al mortaio (che potrebbe riflettere un legamento peroneo-astragalico anteriore lacerato o lasso), restrizioni nello scivolamento astragalico posteriore e cambiamenti degenerativi all’interno della caviglia.
Le caratteristiche funzionali possono includere dolore cronico, debolezza, sensazione soggettiva di “cedimento” della caviglia, riduzione dell’equilibrio e alterazione del senso di posizione o di propriocezione dell’articolazione della caviglia. Non è ben compreso il motivo per cui solo alcune persone sviluppino CAI. Molte evidenze indicano che la sua patogenesi coinvolga una percezione ridotta causata da lesioni ai meccanocettori presenti nei legamenti lesionati e nella capsula della caviglia.
Un’alterazione della percezione degli stimoli afferenti nel sistema nervoso riduce la capacità del corpo di generare una risposta muscolare protettiva efficace e tempestiva per proteggere la caviglia, soprattutto dopo una inversione inaspettata. A conferma di ciò, diversi studi hanno dimostrato che le persone con CAI presentano un’alterata propriocezione della caviglia (consapevolezza posizionale), maggiore instabilità posturale o riduzione dell’equilibrio (soprattutto in piedi su un arto), tempi di reazione ritardati nei muscoli locali (in particolare nei muscoli peronei lungo e breve) e alterati pattern di reclutamento muscolare in tutto l’arto inferiore.
L’analisi della deambulazione ha rivelato che le persone con CAI entrano nella fase di appoggio del piede con un’inversione del piede da 6° a 7° in più rispetto ai soggetti normali. Una deviazione muscolare dell’inversione durante la camminata può riflettere l’incapacità dei soggetti di percepire correttamente la posizione della caviglia, un ritardo nell’attivazione dei muscoli peronei, o una combinazione di questi fattori.
Si ritiene che entrambe queste risposte anomale siano il risultato di un danno ai meccanocettori situati all’interno dei legamenti lesi. Uno studio ha dimostrato che le persone con CAI, in media, presentano un’anomala posizione del perone distale, spostato più anteriormente, probabilmente come risultato di una tensione del legamento peroneo-astragalico anteriore eccessivamente stirato, o a causa di un aumento del tono dei muscoli peronei provocato dell’aumentata attività nel sistema dei motoneuroni gamma, a sua volta causata da stimoli sensoriali alterati provenienti dai meccanocettori danneggiati dei legamenti lesionati della caviglia.
Indipendentemente dalla causa, un’eccessiva migrazione anteriore della fibula distale altererà la cinematica e probabilmente aumenterà lo stress all’interno dell’articolazione tibio-tarsica.
La valutazione e il trattamento delle persone con CAI dovrebbero affrontare non solo l’instabilità alla caviglia (attraverso il rinforzo muscolare progressivo e l’allenamento del controllo motorio dei muscoli peronei eversori), ma anche il deficit di equilibrio e la forza corporea generale nel suo insieme, specialmente quando il soggetto si trova appoggiato su un solo arto o passa da un sostegno a doppio appoggio a un sostegno a singolo appoggio.
Frattura di caviglia
Le fratture di caviglia possono verificarsi con la rottura di uno, due, o di tutti e tre i malleoli, oppure del solo astragalo. In base a questo fattore queste si dividono in frattura unimalleolare, caratterizzata dalla lesione di un malleolo (mediale o laterale), bimalleolare, con la rottura del malleolo mediale e laterale, trimalleolare, con la frattura di tutti e tre i malleoli, e frattura dell’astragalo, con lesione dell’omonimo osso.
Le fratture di caviglia hanno un’incidenza annua dello 0,18% circa nella popolazione, e nella maggior parte dei casi avvengono in atleti o anziani, coinvolgendo anche uno o più legamenti della caviglia. La tipologia di frattura alla caviglia più comune è quella unimalleolare, presente nel 60-70% dei casi, mentre nel 15-20% dei casi si riscontrano fratture bimalleolari, 7-12% trimalleolari, e solo nel 4-7% dei casi coinvolge l’astragalo.
Molto spesso queste fratture sono la conseguenza di una rotazione eccessiva della caviglia, di violente cadute da elevate altezze, o di incidenti stradali. Fattori contribuenti possono essere rappresentati dal fumo di sigaretta, sovrappesità e obesità, uso prolungato di corticosteroidi, ed infine dall’ osteoporosi.
I sintomi tipici di una frattura di caviglia consistono in dolore, ematoma, ecchimosi, impotenza funzionale e la non tolleranza del carico sull’articolazione.
La diagnosi è tipicamente basata su una radiografia che può mettere in luce il livello e la gravità della frattura; esiste tuttavia una sorta di linea guida in grado di permettere con certezza quasi totale (sensibilità del 98.5%) di escludere una frattura di caviglia immediatamente dopo l’evento traumatico acuto, le cosiddette “Ottawa Ankle Rules”, molto note nell’ambito delle pratica fisioterapica evidence-based. Per quanto riguarda la caviglia, queste linee guida suggeriscono che vada eseguita una radiografia alla caviglia per sospetta frattura, solo in presenza di dolore localizzato nella zona malleolare, e in presenza di almeno uno dei seguenti elementi:
Dolore alla palpazione nei 6 cm distali della parte posteriore di tibia o sul malleolo mediale;
Dolore alla palpazione nei 6 cm distali della parte posteriore di tibia o sul malleolo laterale;
Impossibilità di caricare il peso sull’arto interessato ed eseguire 4 passi (anche zoppicando).
Il trattamento dipenderà dall’entità della lesione; per le fratture lievi e composte, la terapia prevista sarà conservativa, mentre per le fratture più gravi e/o scomposte, l’approccio previsto sarà di tipo chirurgico.
Note sull’autore
Dott. Andrea Gargiulo
Fisioterapista laureato con 110 e lode all’università di Padova. Specializzato in riabilitazione dei disordini muscoloscheletrici e disfunzioni del movimento.
Lavoro a Mestre e Venezia.
Contatto mail: andrea.garg@hotmail.it