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Digiuno intermittente: cos’è e come funziona?

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Bisogna sapere come mangiare ma anche come digiunare… Cosa c’è di difficile? Basta non mangiare!

In realtà, come tutto, non è semplice, riusciresti davvero a non mangiare per molto tempo? E soprattutto, non mangiare per giorni vuol dire perdere peso e guadagnare salute?

Scopri in questo articolo cos’è e come affrontare nel modo migliore il digiuno intermittente, se è utile e quando, se ci sono benefici, se serve per mettere massa o per dimagrire.

Che cos’è il digiuno intermittente? A cosa serve?

Il digiuno tutti sanno cos’è ma nessuno ci fa caso quando lo fa: il digiuno è semplicemente quando non mangi, quindi, per la maggior parte del tempo le persone stanno a digiuno.

Normalmente il periodo più lungo senza alimentarsi è tra la cena e la colazione, quindi 10-12 ore (e molti saltano anche la colazione); gli inglesi infatti chiamano la colazione breakfast: breaking a fast, cioè rompi digiuno.

Il digiuno intermittente (intermittent fasting – IF) non è una dieta, ma una modalità con cui la si può affrontare; prevede l’alternanza di fasi di digiuno (o sottoalimentazione) lunghe dalle 16 alle 36 ore a fasi di alimentazione e può comprendere qualsiasi scelta di cibo (paleo, mediterraneo, vegan, vegetariano, zona e chi più ne ha più ne metta).

Quindi niente di particolare e sconvolgente, si aggiunge semplicemente qualche ora al digiuno notturno.

Come funziona il digiuno intermittente? Schema di base

Un grande vantaggio dell’intermittent fasting è che è duttile: non impone uno schema rigido e prestabilito, ma lascia la possibilità di scegliere quanto e come applicarlo. Questo è un aspetto molto positivo per aumentare la compliance, cioè l’aderenza del soggetto al piano alimentare.

Di seguito ci sono alcune linee guida.

Quanto deve durare

Il digiuno intermittente non ha durata precisa, puoi sfruttarlo come metodica sul lungo periodo ma anche solo per qualche volta a settimana. È chiaro che per digiuno non bisogna intendere giorni o settimane senza mangiare o con poche calorie, entreresti in uno stato di malnutrizione e non fisiologico: per digiuno si parla di periodo in termine di ore senza mangiare, come illustrato precedentemente.

Quante volte a settimana? Quanti giorni?

Soprattutto per chi inizia è consigliabile un approccio graduale e non di punto in bianco imporre il digiuno 7 giorni su 7 o per un numero di ore eccessive (es. 24-36 ore), non sarebbe sostenibile. E’ meglio garantire un periodo di digiuno che permetta di mangiare ogni giorno (es. 16 ore).

Così, un buon metodo è alternare i giorni di restrizione calorica a giorni di alimentazione normale oppure imporre lo schema restrittivo per 4-5 giorni e lasciare 2 o 3 giorni in cui mangiare normalmente (ad esempio nel weekend).

Quanti pasti

Per chi è abituato a fare 5 o 6 pasti al giorno è difficile passare direttamente a tante ore senza mangiare: è necessario del tempo in cui, gradualmente, ti abitui a mangiare meno volte al giorno, ad esempio iniziando ad eliminare i pasti di metà mattina o pomeriggio.

Una volta raggiunto questo obbiettivo, puoi approcciare con più facilità al digiuno intermittente, in cui il numero di pasti è indifferente: l’importante è che venga mantenuto l’apporto calorico prestabilito e la finestra di alimentazione/digiuno.

Digiuno intermittente 16/8

Questo protocollo prevede 16 ore di digiuno e 8 ore di alimentazione: questo non significa che nelle 8 ore sia possibile mangiare a dismisura e qualsiasi cosa capiti, è importante mantenere il deficit calorico e un equilibrato apporto dei macronutrienti.

Infatti, se nelle 8 ore superi il fabbisogno calorico, nonostante il digiuno delle altre ore della giornata ingrasserai comunque.

Benefici e vantaggi del digiuno intermittente: fa bene?

Intermittent fasting

Il digiuno imposta un nuovo assetto metabolico e ormonale e, quando ben calibrato, è vantaggioso: aumentano i livelli di GH, il dispendio energetico, la lipolisi e si riesce a mantenere un buon controllo della fame.

Dopo un’abbuffata

“Se non mangio per un giorno dopo un’abbuffata è come se non l’avessi fatta?”

L’organismo non ragiona nel giro di 24 ore: abbuffarsi una volta non ti fa ingrassare così come non mangiare il giorno dopo non ti fa dimagrire. È quanto mangi nel lungo periodo quello che conta, perciò il digiuno post-abbuffata può contribuire al bilancio energetico.

Glicemia

In risposta alle ore prive di alimentazione, si instaurano livelli più bassi di glucosio nel sangue, anche se chiaramente per evitare l’ipoglicemia si attiva una risposta ormonale per mantenere comunque adeguati i livelli (come il calo dell’insulina e l’aumento di glucagone e catecolamine).

Cortisolo

Grazie al digiuno, c’è un incremento della resistenza allo stress a livello nervoso, cardiaco, muscolare.

Insulina

L’effetto positivo è duplice: si assiste ad una diminuzione dei livelli di insulina e allo stesso tempo un aumento della sensibilità insulinica, anche se non tutti i soggetti rispondono allo stesso modo e perciò è bene valutare questo parametro dopo un paio di settimane.

Sistema immunitario

Per quanto riguarda il sistema immunitario, si verifica una diminuzione dell’infiammazione sistemica cronica, quindi in tutto l’organismo, ma in particolare a livello nervoso, adiposo e del tratto gastro-intestinale.

Sonno

Sebbene il digiuno imposti uno schema ormonale diverso rispetto a chi non lo segue, non ci sono ripercussioni per quanto riguarda la qualità del sonno. Fatta eccezione per il caso in cui la finestra di alimentazione sia breve e concentrata nelle ore prima di andare a dormire.

Controindicazioni e svantaggi del digiuno intermittente

Se rispettato, il digiuno intermittente di per sé non ha particolari svantaggi: il vero problema sussiste quando non si conosce il digiuno e non si sa come impostarlo. Passare giorni senza mangiare non è sicuramente l’idea migliore per stare in salute; basti pensare che ad esempio in donne sane dopo 4 giorni di digiuno c’è un decremento del 40-50% dei marker (molecole segnale) che indicano la sintesi e il mantenimento del tessuto osseo.

Un altro problema che può verificarsi è il non riuscire a controllarsi nella fase di alimentazione, sfociando così in un eccesso alimentare dovuto allo stress durante il digiuno; in realtà, non è così frequente. Dall’altra parte, invece, potrebbe presentarsi il problema opposto: avendo poche ore a disposizione per i pasti, puoi tendere a mangiare di meno e quindi puoi rischiare di andare incontro ad un deficit calorico eccessivo.

Cosa mangiare e cosa bere nel digiuno intermittente? Quante calorie assumere? Linee guida

come funziona il digiuno intermittente

Durante il digiuno sono da escludere tutti gli alimenti che fanno alzare i livelli insulinici: non solo i carboidrati, ma anche proteine e lipidi. Sono quindi ammessi acqua, bevande prive di calorie (tè, caffè senza zucchero), integratori di micronutrienti.

Le calorie da assumere dipendono da qual è il tuo fabbisogno calorico settimanale e da quanto deficit devi mantenere: una volta stabilito questo, puoi distribuire le calorie nella settimana a seconda del protocollo del digiuno scelto.

In linea generale, puoi opzionare tra:

  • Digiunare o restringere di molto le calorie in alcuni giorni della settimana e mangiare normalmente nelle restanti giornate;
  • Inserire il digiuno all’interno della giornata (es. 16/8) e protrarre questo schema tutti i giorni della settimana.

Quello che importa è che alla fine della settimana il bilancio calorico impostato torni.

Esempi di digiuno intermittente: la giornata tipo

Decidere in quale fascia oraria mangiare e in quale digiunare dipende dal tuo stile di vita: è sicuramente più facile saltare la colazione o la cena, piuttosto che il pranzo.

Colazione vs saltare la colazione

Saltare la colazione è una delle opzioni migliori, in quanto più facile da sostenere, soprattutto per chi è già abituato a non farla o la mattina non ha fame. Fare o meno la colazione non ha ripercussioni negative, in questo articolo è approfondito il tema e viene sfatato il mito del “la colazione è il pasto più importante della giornata”.

Pranzo vs saltare il pranzo

Non fare il pranzo è sicuramente un’opzione più difficile da sostenere per chi non ha un lavoro con turni notturni: significherebbe limitare le ore dei pasti nelle prime ore della mattina e in tarda serata, ad esempio con la colazione alle 6 e la cena dopo le 22. Orari che possono non essere comodi, a cui si aggiunge il pensiero stressante durante il giorno del doversi trattenere dal mangiare.

Cena vs senza cena

Come la colazione, saltare il pasto vicino alle ore notturne è meglio perché più sostenibile nel tempo: le 8 ore in cui si può mangiare diventano così la colazione (ad esempio alle 8), lo spuntino di metà mattina, il pranzo, una merenda nel primo pomeriggio (entro le 16).

A giorni alterni

Uno dei protocolli del digiuno intermittente prevede l’assunzione di poche calorie (circa il 70-80% in meno del proprio fabbisogno giornaliero) nei giorni di digiuno, mentre negli altri giorni è possibile assimilare tutte le calorie di cui hai necessità, anche un po’ di più. L’obbiettivo è comunque mantenere il deficit settimanale, facilmente raggiungibile grazie alle giornate di (semi)digiuno.

È una buona strategia per chi ha la forza di volontà di resistere nelle giornate a bassissimo introito calorico e di non eccedere in abbuffate incontrollate nei giorni di normo- o leggera iper-calorica.

Digiuno intermittente per dimagrire e fare ricomposizione corporea

Ci sono più motivi per i quali l’intermittent fasting è un buon metodo per dimagrire e favorire la ricomposizione corporea:

  • Permette la diminuzione del grasso corporeo tramite lipolisi e quindi del peso
  • Incrementa il dispendio calorico perché stimola la proteina di disaccoppiamento mitocondriale
  • In una dieta ipocalorica, fa sì che ci sia una minor perdita di massa muscolare.

Digiuno intermittente, bodybuilding e palestra: come aumentare la massa muscolare?

Il filo conduttore tra palestra, digiuno e massa muscolare è l’ormone somatotropo, meglio conosciuto come GH o ormone della crescita.

Il GH, tra le altre funzioni, favorisce la crescita muscolare e quindi l’incremento della massa magra e un aumento della sua concentrazione è garantito proprio dal digiuno, a causa delle condizioni glicemiche che instaura.

Inoltre, l’aumento del GH dipende anche dall’allenamento, che stimola la sua secrezione sia in caso di allenamenti aerobici che anaerobici; in particolare, più acido lattico viene prodotto durante lo sforzo anaerobico più si alzano i livelli dell’ormone della crescita.

I miti del digiuno intermittente

Primo di tutti ma non scontato: il digiuno intermittente non è una dieta, ma una strategia e in quanto tale, così come tutti i metodi e le diete, non fa dimagrire di più.

Inoltre, “digiuno” non deve essere sinonimo di stanchezza e di privazione di energie: nell’organismo ci sono scorte energetiche che garantiscono il normale funzionamento delle attività e inoltre durante le ore di digiuno i livelli delle catecolamine sono più alti e contribuiscono a mantenere lo stato attivo.

Un altro concetto associato spesso al digiuno è che si abbassa il metabolismo: è parzialmente vero, ma solo quando diminuisce l’introito calorico e soprattutto i carboidrati; non è una conseguenza del digiuno in sé, quanto piuttosto della riduzione calorica nel lungo periodo.

Digiuno intermittente e allenamento: vantaggi e svantaggi

Anche agli sportivi il digiuno intermittente porta a più vantaggi che svantaggi se ben calibrato: il problema potrebbe sussistere se ti trovi ad affrontare l’allenamento dopo il digiuno, però è anche vero che non tutti devono per forza mangiare prima per rendere al meglio durante l’allenamento.

Ad esempio, considerando lo schema più sostenibile 16/8, potrebbe essere facile saltare la colazione, allenarsi e iniziare le ore di alimentazione con un primo pasto dopo l’allenamento.

Per quanto riguarda la massa magra, il digiuno in una situazione di deficit calorico non permette un eccessivo intaccamento del muscolo, che in una situazione di catabolismo è comunque inevitabile.

Sicuramente però, è meglio allenarsi nelle giornate di non restrizione calorica, ad esempio, come visto precedentemente, ci possono essere giorni con una riduzione calorica del 70-80%: basterà adattare il protocollo a te e alle tue esigenze per ottenere il meglio della prestazione ad allenamento, il rispetto dello schema del digiuno e l’assunzione dei nutrienti necessari.

Digiuno intermittente e metabolismo

Digiuno intermittente per dimagrire e mettere massa

Durante le ore in cui non mangi prevalgono le reazioni cataboliche, che vengono però supercompensate da quelle anaboliche nelle ore di alimentazione.

Uno degli obbiettivi del digiuno è riuscire a migliorare il metabolismo lipidico (e quindi consumare più grassi) rispetto a quello glucidico, aspetto permesso proprio dalle tante ore senza mangiare in cui c’è poca disponibilità di glucosio. Per sopperire a questa carenza di zuccheri, le cellule che possono farlo (non insulino-dipendenti) iniziano ad utilizzare i lipidi piuttosto che il glucosio per ricavare l’energia necessaria.

Sostanzialmente, aumenta il catabolismo lipidico.

Conseguentemente, proprio per questo aspetto, il digiuno intermittente è utile per chi è metabolicamente inflessibile, cioè un soggetto che sfrutta più i carboidrati rispetto ai grassi e che non ha un buon metabolismo lipidico.

Digiuno intermittente, autofagia e chetosi

L’autofagia e la chetosi sono due meccanismi biologici e fisiologici collegati all’intermittent fasting. Che cosa sono e a cosa servono?

L’ autofagia è un meccanismo catabolico che avviene tramite i lisosomi, dei componenti della cellula deputati alla distruzione di componenti cellulari (ad esempio di organuli danneggiati). Questo processo è anche spinto dalla restrizione calorica e non è selettivo, riguarda l’organismo nella sua interezza.

In particolare, il processo favorisce la distruzione dei mitocondri danneggiati, allo stesso modo dell’allenamento, e la possibilità della loro rigenerazione, con un potenziamento delle attività metaboliche e un impatto positivo sulla salute.

La chetosi, invece, è un meccanismo fisiologico sfruttato principalmente nelle diete low-carb/chetogeniche, ma che è presente anche nel digiuno: dopo 8-12 ore senza cibo iniziano ad instaurarsi degli adattamenti alla chetosi, la quale comporta la formazione dei corpi chetonici, substrato energetico per il sistema nervoso quando il glucosio scarseggia.

Conclusioni: digiuno intermittente sì o no?

Il digiuno intermittente non è una dieta ma una strategia: puoi scegliere per quanto tempo adottarlo, quali alimenti preferire, la ripartizione dei macronutrienti. Tutti aspetti che possono aumentare la sostenibilità della dieta vera e propria, in quanto adatti lo schema del digiuno alle tue esigenze nutrizionali, al tuo modo di vivere e, perchè no, agli alimenti che preferisci e che ti garantiscono maggior gratificazione.

Non fa certamente dimagrire di più rispetto ad altre strategie o particolari diete, ma sicuramente è efficace per perdere peso quando ci sono compliance e l’immancabile deficit calorico.

 

Co-autore: dott. Fabrizio Gasbarri, tesi “Digiuno intermittente: tra miti e realtà”.

 

Bibliografia

Bahammam et al. (2013). “The effect of Ramadan fasting on sleep patterns and daytime sleepiness: an objective assessment”. J Res Med Sci.

Brad Pilon “Eat stop eat expanded”.

Burke & Deakin (2015). “Clinical Sports Nutrition”. Mc Graw Hill.

Leangains.com

Patterson et al. (2017). “Metabolic Effects of Intermittent Fasting”. Annu Rev Nutr.

Qasrawi et al. (2017). “The effect of intermittent fasting during Ramadan on sleep, sleepiness, cognitive function, and circadian rhytm”. Sleep Breath.

Tinsley et al. (2015). “Effects of intermittent fasting on body composition and clinical health markers in humans”. Nutr Rev.

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Dieta personalizzata: come crearla?

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dieta personalizzata

Come creare una dieta personalizzata? In questo articolo scopri come impostare in modo pratico un regime alimentare su misura. Se ancora non hai letto gli articoli dieta e dieta ipocalorica ti consiglio di iniziare da questi, in modo da avere il supporto teorico per capire meglio questo sulla dieta personalizzata, anche per chi va in palestra!

Ricorda che questi articoli non sono mai il sostituto di un vero professionista riconosciuto dalla legge italiana (biologo nutrizionista, dietologo, medico nutrizionista), ma servono per aumentare la tua conoscenza in questo campo di pubblico dominio.

Che cos’è una dieta alimentare personalizzata?

piramide composizione corporea

Una dieta personalizzata è l’unico tipo di dieta che dovrebbe esistere, chi seguirebbe una dieta che non risponde alle sue esigenze?

Ad oggi c’è una vasta, forse eccessiva, proposta di diete, ognuna con un fondamento (più o meno valido) sul quale si basa. Il presupposto su cui deve fondarsi la dieta personalizzata è prima di tutto la biochimica e la fisiologia, se non le tieni in considerazione già parti con il piede sbagliato.

Cosa vuol dire? Che se, ad esempio, pensi che i grassi non servano a niente e che, quindi, eliminarli dalla faccia della Terra sia l’opzione migliore, un inizio potrebbe essere informarsi sulla loro funzione per l’organismo.

Detto ciò, i parametri per una dieta personalizzata da tenere in considerazione sono molti, ma più riesci a considerarne più avrai un quadro completo per la stesura di un piano alimentare: stilare una dieta basata solo sul peso corporeo sarà sicuramente meno personalizzata di una che considera il tuo peso, la tua massa magra, l’attività fisica che svolgi, eventuali patologie, lo stile di vita, ecc.

Come funziona una dieta personalizzata?

Indipendentemente dalla persona, prima di seguire un regime ipocalorico è importante verificare che i parametri della salute siano a posto e che si assumano sufficienti calorie per poter attuare un taglio calorico. Altrimenti, prima di iniziare bisogna impiegare almeno 2-4 settimane di break diet: prima di metterti a dieta conviene investire un mese per creare i presupposti per seguirla con successo.

Se la dieta poi impostata tiene davvero conto dell’individualità (cosa che dovrebbe sempre essere alla base di un piano alimentare degno di questo nome) e di principi validi e sostenibili nel tempo il gioco è fatto.

E se poi qualcosa non funziona…? Sarà sufficiente rivedere qualche parametro e aggiustarlo, anche in base a come il soggetto risponde alla dieta. E così via, in base ai miglioramenti, agli errori, alle nuove esigenze il piano dietetico andrà corretto e rivisto in corso d’opera per essere ancor meglio personalizzato.

Come creare la dieta personalizzata?

Come creare la dieta personalizzata per la palestra

Qui trovi un esempio pratico per come impostare le calorie per capire come funziona il procedimento. La qualità e la quantità dei singoli pasti andrà stabilita successivamente.

  1. Decidere quanti kg vogliamo perdere e calcolare quanto ci metteremo. Marco pesa 85kg e vuole scendere a 80kg > 5kg di grasso sono 35.000kcal. Con un deficit calorico di 3500kcal a settimana (-500kcal al giorno) impiegherà 10 settimane. Calcoliamo 4 settimane (2+2) di break diet da inserire durante il percorso. Avremo così 14 settimane per togliere 5kg di grasso (e non di acqua o glicogeno).
  2. Rispetto al nostro TDEE sottrarre le calorie del deficit e bilanciare i macro. Marco ha un TDEE di 2700kcal (si allena 3 volte a settimana), dovrà così mediamente assumere 2200kcal al giorno. Il martedì, venerdì e sabato decide di mangiare normalmente (2700kcal) mentre gli altri 4 giorni tiene un deficit di 1825kcal.  Nei giorni di normocalorica assume: 175g di proteine (2,2x80kg del peso ideale), 45g di grassi e 400g di carboidrati. Nei giorni d’ipocalorica assume: 200g di proteine (2,5x80kg), 55g di grassi e 120g di carboidrati.
  3. Valutare gli andamenti di settimana in settimana, guardando alla bilancia ed alle circonferenze. Marco vede che il piano va bene ma decide di diminuire leggermente i carboidrati il mercoledì e venerdì e di ridistribuirli nei giorni di ipocalorica. Verso la fine delle 4 e della 9 settimana decide di inserire la break diet di due settimane. Vedendo che i risultati tendono a diminuire a partire dalla 6 settimana abbassa le calorie ulteriormente di 250kcal.

App (programmi) utili per creare una dieta personalizzata

Avere un’app con cui monitorare l’introito calorico è utile, soprattutto perché molto spesso non ti rendi conto di quanto effettivamente stai mangiando. Tuttavia, devi considerare che c’è una buona percentuale di errore e proprio per questo non bisogna diventarne dipendenti o dare la colpa all’app se non stai raggiungendo i risultati sperati.

Consideralo uno degli strumenti che possono aiutarti a monitorarti ma non l’unico a cui riporre la propria totale fiducia.

Alcune app in cui puoi impostare calorie, tenere traccia dei macronutrienti e avere anche una visuale sull’andamento dell’alimentazione sul lungo periodo sono, ad esempio, FatSecret, YAZIO, Lifesun, myFitnessPal.

Qui trovi un articolo di approfondimento.

Variabili per impostare una dieta personalizzata:

Obiettivo: dimagrire o mettere massa muscolare?

Per dimagrire è fondamentale “consumare più di quello che mangi” e instaurare così un deficit calorico, presupposto alla base di tutte le diete dimagranti che funzionano. Per aumentare di peso, invece, il surplus calorico è necessario per sottostare al bisogno di crescita dell’organismo e alle sue richieste anaboliche.

In entrambi i casi si tratta di processi lenti e graduali, la filosofia del “tutto e subito” non funziona. Per rispettare i tempi dell’organismo è consigliato:

  • perdere 0.5-1% del proprio peso corporeo a settimana per dimagrire;
  • aumentare di 200-450 g/settimana per mettere massa.

Peso e altezza

Il peso è la variabile più importante, infatti la maggior parte delle formule che permettono di stimare il fabbisogno energetico tengono in considerazione sempre il peso e solo alcune, oltre al peso, anche altre variabili.

In generale, chi pesa di più, consuma di più, sia a riposo che durante l’attività fisica. Anche se, per avere una stima più precisa, è meglio conoscere come il peso è distribuito tra massa magra e massa magra: è evidente che a parità di peso ma composizione corporea differente i risvolti metabolici e le necessità sono diametralmente opposti.

L’altezza, invece, è un parametro meno considerato e che sicuramente chi è sovrappeso sarà più contento di utilizzare.

Di seguito trovi alcune formule per il calcolo del fabbisogno basale.

Consumo calorico basale giornaliero – UOMO

Formula MET peso x 23
Formula di Harris & Benedict 66.47 + (13.75 x peso) + (5 x altezza) – (6.76 x età)
Formula di Schoefield 18-30 anni [(63 x peso) + 2.896] : 4.186
Formula di Schoefield 30-60 anni [(48 x peso) + 3.653] : 4.186
Formula di Owen – soggetti attivi 290 + (22.3 x peso)
Formula di Owen – soggetti inattivi 879 + (10.2 x peso)

 

Consumo calorico basale giornaliero – DONNA

Formula MET peso x 0.9 x 23
Formula di Harris & Benedict 655.1 + (9.56 x peso) + (1.85 x altezza) – (4.68 x età)
Formula di Schoefield 18-30 anni [(62 x peso) + 2896] : 4.186
Formula di Schoefield 30-60 anni [(34 x peso) + 3538] : 4.186
Formula di Owen – soggetti attivi 50.4 + (21.1 x peso)
Formula di Owen – soggetti inattivi 795 + (7.18 x peso)

Stile di vita

Lo stile di vita è un importante fattore, che influisce sul metabolismo basale, principale responsabile della quantità di calorie che consumi ogni giorno (60-70% del totale). Se hai un lavoro dinamico e attivo il tuo metabolismo basale, e quindi il consumo calorico totale, sarà spontaneamente più alto di chi invece ha un lavoro sedentario e meno fisicamente impegnativo.

In generale, chi ha uno stile di vita sedentario consuma di meno: sia perché si muove di meno, ma anche perché la sedentarietà può essere associata anche ad altri aspetti che contribuiscono a peggiorare la condizione fisica, come la scelta di alimenti non sani o un consumo calorico eccessivo.

Calorie

Il totale calorico che deriva dalle variabili considerate sarà il tuo punto di riferimento. Al calcolo teorico, però, necessita una verifica nella pratica: se, ad esempio, hai stimato un deficit calorico di 400 kcal al giorno ma dopo una settimana il peso non scende, è meglio rivalutare i calcoli o, in modo più pragmatico, aumentare leggermente il deficit. Idem nel caso in cui volessi aumentare di peso.

Alimenti preferiti

Includere alimenti che piacciono è molto importante per fare sì che sia facile seguire la dieta nel lungo periodo (aspetto a cui bisogna puntare). Non serve rinunciare ai cibi che ti piacciono di più, a seconda del loro potere calorico puoi valutare quante volte puoi inserirli nella settimana.

Per molti gli alimenti preferiti saranno dolci, cibi super calorici o alimenti solitamente “proibiti” dalle diete: vale comunque lo stesso concetto, non eliminare ma limitare.

Tipi di dieta personalizzata

In questo capitolo sono prese in considerazione alcune tipologie di diete e, per ciascuna, trovi un articolo di rimando per un eventuale approfondimento specifico.

Ipercalorica (ingrassante)

Non è facile e immediato dimagrire ma non lo è neanche mettere su peso, soprattutto massa magra. Per incrementare il peso, aumenta le calorie del 10-15% rispetto a quelle che già assumi e associa un allenamento con i pesi. Per più dettagli vedi questo articolo.

Ipocalorica

piatto unico

Come già accennato, per la dieta ipocalorica il deficit del 15-20% delle calorie è da mantenere, al di là di altre problematiche specifiche come l’insulino resistenza.

Un taglio troppo drastico è da evitare principalmente per due motivi: il primo è che non può essere sostenibile nel lungo periodo, mentre il secondo riguarda la comparsa di uno stallo del peso, dovuto ad un blocco metabolico che impedisce la perdita di peso.

Iperproteica

Per dieta “iperproteica” si intende un regime alimentare in cui più del 35% del fabbisogno calorico derivi dalle proteine o che, in g di proteine/kg peso corporeo superi il valore di 0.8.

Facile trovare qualcuno che troppe proteine siano dannose per la salute: è vero, lo sono, ma solo per chi ha qualche patologia, come ad esempio l’insufficienza renale. In un soggetto sano e soprattutto se sportivo un in-take proteico maggiore rispetto a quello classico consigliato dei 0.8g/kg non fa male, quando dosato correttamente: le proteine non sono quindi causa di danni renali o ossei.

Mediterranea

La dieta mediterranea di per sé è una buona scelta, anche se in realtà sarebbe più corretto dire “stile di vita” mediterraneo piuttosto che “dieta”. Oltre agli alimenti da consumare più o meno frequentemente, infatti, ci sono anche altri accorgimenti che contribuiscono a rendere il modello mediterraneo un esempio di stile di vita sano:

  • fare esercizio fisico moderato e costante (anche ogni giorno),
  • ricercare gli alimenti di qualità e di stagione,
  • preferire gli alimenti naturali e non industriali.

Questi aspetti (insieme ai carboidrati almeno al 50%, frutta e verdura, grassi insaturi) fanno tutti parte dell’equilibrato stile di vita mediterraneo, perciò non è sufficiente mangiare la pizza margherita napoletana ogni giorno per potersi vantare di seguire l’esempio mediterraneo.

Vegetariana

Seguire uno stile di vita vegetariano (ma lo stesso problema è estensibile agli onnivori) può comportare degli scompensi nella dieta, in quanto potrebbero verificarsi delle carenze.

Il primo “punto debole” che può venire in mente è la carenza di proteine di origine animale e quindi l’assenza di un miglior profilo amminoacidico. Per sopperire a questo, si possono abbinare fonti proteiche vegetali (legumi) a cereali per ottenere un profilo amminoacidico completo o ad altre fonti proteiche animali che non siano carne. Tuttavia, le proteine vegetali vanno considerate allo stesso livello di quelle animale nella quota proteica giornaliera, in quanto sempre di proteine si tratta.

Un punto più critico per chi segue la dieta vegetariana è l’assunzione del ferro, in quanto l’organismo fa più difficoltà ad assimilare il ferro dalle fonti vegetali rispetto a quelle animali.

Un aspetto che va sicuramente a favore riguarda i grassi, dal momento che i vegetariani hanno un ridottissimo apporto di grassi saturi (cattivi) e più facilmente rispetto agli onnivori ricavano la quota lipidica dai grassi polinsaturi (buoni), come quelli della frutta secca.

Esempio di dieta dimagrante personalizzata equilibrata

Di seguito trovi un esempio di alimenti da inserire in una settimana tipo; le quantità e quindi l’apporto calorico non sono considerati, il focus è sulla qualità degli alimenti e non sulla quantità.

Considera di aggiungere verdure a pranzo e a cena e/o spuntini a metà mattina e pomeriggio. Nei pasti liberi è importante l’autoregolazione: se si eccede in modo sregolato è facile recuperare le calorie che, con fatica, non hai assunto nel resto della settimana, vanificando così gli sforzi e rispondendo alla domanda “perché non dimagrisco?”.

  • Lunedì

Colazione: frutta fresca e yogurt magro

Pranzo: pasta col tonno

Cena: pollo con patate

  • Martedì

Colazione: avena con latte scremato

Pranzo: riso coi gamberi

Cena: minestrone di legumi ed un pesce magro

  • Mercoledì

Colazione: yogurt greco (2%), fette biscottate con marmellata

Pranzo: insalatona

Cena: uova con asparagi

  • Giovedì

Colazione: latte di soia con cereali

Pranzo: pasta con legumi

Cena: seppie coi piselli

  • Venerdì

Colazione: yogurt magro con frutta secca

Pranzo: pasta al pomodoro e uova

Cena: coniglio con patate

  • Sabato

Colazione: avena col latte scremato

Pranzo: insalatona

Cena: pasto libero

  • Domenica

Colazione: pasto libero

Pranzo: pasto libero

Cena: minestrone di legumi

Alcuni degli alimenti più utilizzati nei regimi dietetici, grazie al loro rapporto tra calorie e sazietà, sono: yogurt greco/magro, albume, petto di pollo/tacchino, merluzzo, funghi (senza esagerare), patate bollite con la buccia (senza esagerare), legumi (senza esagerare), pesce, verdura (compresa quella zuccherina).

Dieta personalizzata nel bodybuilding per aumentare la massa muscolare

partizionamento dei macronutrienti

Per avere risultati tangibili, in linea con una dieta personalizzata anche il programma di allenamento deve esserlo.

I macronutrienti impostati devono essere in grado di sostenere la fase anabolica di costruzione del tessuto muscolare, di ripristinare le scorte energetiche e di fornire il materiale di base per la formazione e la riparazione del muscolo.

Per ottenere questo, il primo passo è aumentare la normocalorica di un 10-15% (con eventuali lievi incrementi nel caso in cui non fosse sufficiente o si verifichi uno stallo) e poi ripartire le calorie tra i tre macronutrienti:

  • Proteine6 g/kg di peso corporeo fino a 2.2 g/kg, meglio se assunte divise in più aliquote nel corso della giornata.
  • Grassi: 20-30% dell’introito calorico, senza scendere al di sotto dei 0.5g grassi/kg di peso corporeo, da consumare preferibilmente lontano dall’allenamento.
  • Carboidrati: per sottrazione costituiscono il resto delle calorie, con soglia minima 1g/kg. I glucidi, oltre alla funzione energetica, sono un mezzo importante per la fase di costruzione, in quanto incrementano nei soggetti allenati la velocità delle reazioni metaboliche. La maggior quota glucidica (50-70%) è meglio consumarla nelle ore vicine all’allenamento.

Dieta personalizzata in base alla genetica: la nutrigenetica

Cosa c’è di più personale e con più informazioni se non il proprio DNA? Tutte, ma proprio tutte, le informazioni su di te sono racchiuse nel tuo materiale genetico.

Dato che hai un patrimonio genetico unico e inimitabile, ad ogni stimolo (come possono essere le molecole di un alimento) reagisci in modo diverso rispetto ad un’altra persona. Per rendere il concetto, un esempio evidente di questo è che qualcuno è intollerante al lattosio mentre altri no: i primi hanno scritto nel loro DNA che non devono avere l’enzima lattasi in grado di rompere il lattosio o di averlo non efficiente, mentre i secondi ce l’hanno e che funziona.

Questo significa che ognuno ha un’alimentazione che gli calza a pennello: grazie alla nutrigenetica, scienza relativamente nuova e in via di sviluppo, puoi sapere se un alimento ti fa bene o ti fa male, se un determinato cibo può prevenire alcune malattie o quanto la dieta può influire sul decorso di una patologia a cui potresti andare incontro.

Come diceva Ippocrate più di duemila anni fa e che di nutrigenetica non ne sapeva proprio nulla: “se fossimo in grado di fornire a ciascuno la giusta dose di nutrimento ed esercizio fisico, né in difetto né in eccesso, avremmo trovato la strada per la salute”.

Conclusioni sulla dieta personalizzata

La dieta personalizzata è la miglior dieta che potrai mai seguire. Il motivo per il quale fallisci una dieta è che non è cucita su misura per te: non riesci a rispettare le quantità, ti sei privato di tutte le cose che ti piacciono, hai perso motivazione perché non vedi risultati, c’è un gap troppo grande tra quello che eri abituato a mangiare e quello che mangi, ecc.

Per avere la dieta (stile di vita) dei sogni è opportuno che ci sia una piena collaborazione con un capace medico/biologo nutrizionista, dietista (uniche figure che possono dare una dieta), in modo da venire incontro alle tue esigenze, nei limiti di una dieta sana, e rendere sempre più adatto il piano alimentare.

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La dieta iperproteica per il dimagrimento

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La dieta iperproteica ipocalorica per il dimagrimento, chi non ne ha mai sentito parlare? Tanto disdegnata e criticata da alcuni dottori, dietologi e nutrizionisti, quanto propagandata nel mondo delle palestre dai vari “guru” del settore. È pertanto opportuno fare chiarezza.

La questione fabbisogno proteico e quante proteine è bene consumare su base giornaliera, è un argomento in continuo dibattito. Nonostante le evidenze scientifiche ad oggi riscontrate, troviamo persone che ancora portano avanti la tesi sui danni generati da un consumo proteico eccessivo nel tempo (problematiche, patologie, ecc.).

Innanzitutto, l’apporto proteico è un fattore di assoluta rilevanza sia sotto il profilo salutistico, sia sotto quello più mirato alla performance sportiva in palestra e non e al raggiungimento di una certa estetica e composizione corporea. Lo scopo di questo articolo non è quello di trattare il ruolo delle proteine e di quali sono i diversi pro e contro, di un regime ad alto tenore proteico, ma è quello di fornire tutti quegli accorgimenti pratici che, se applicati correttamente, possono portare vantaggi rilevanti durante una dieta proteica atta al dimagrimento.

A cosa serve una dieta iperproteica? Funziona?

dieta iperproteica fa male

La dieta iperproteica è una dieta come un’altra?

Sì, cioè funziona o meno a seconda di come la gestisci e se segui il buon senso, senza estremizzare. Prima però devi conoscerla per poterla mettere in pratica.

Cos’è la dieta iperproteica? Quando le proteine ricoprono almeno il 35% dell’introito calorico totale consumato o che la quota proteica superi il valore RDA di 0.8 g proteine/kg peso corporeo; questo secondo parametro è preferibile: per esempio un 35% di proteine su un soggetto che assume 2000 kcal corrisponde a 175 g, mentre per uno che ne assume 4000 sono 350 g, la differenza è notevole, mentre il considerare i g/kg permette di avere un range di riferimento dedotto da diversi studi sul campo e dunque con un fondo di validità e logica maggiore rispetto a percentuali grossolane.

A livello fisiologico, le proteine vengono scomposte in amminoacidi, i quali interagiscono principalmente con la massa magra per consolidare le proprie funzioni plastiche, energetiche e strutturali. Perché quindi si prende in considerazione solitamente il peso corporeo totale? Semplicemente perché la maggior parte delle persone non conosce realmente il proprio quantitativo di massa magra, ottenibile (con un margine di errore a volte anche non indifferente) tramite varie tecniche di misurazione della composizione corporea (plicometria, bia, dexa ecc.).

Dato che per persone con % di grasso diciamo accettabili, quindi non oltre la soglia del 19-20% per gli uomini e 29-30% per le donne, la differenza fra peso corporeo totale e massa magra non è così incredibilmente alta, qualche grammo di proteine extra non darà luogo a sostanziali differenze da un punto di vista pratico. Essendo il peso corporeo facilmente rilevabile da chiunque, anche su base quotidiana, per praticità si utilizza come riferimento quest’ultimo piuttosto che la massa magra.

Per i soggetti invece in sovrappeso, con % di BF elevate (dal 19-20% in su per gli uomini e dal 29-30% in su per le donne), è più logico prendere in considerazione la massa magra piuttosto che il peso corporeo totale. Questo perché l’eccesso di grasso corporeo farà quasi da scudo al catabolismo muscolare e una volta entrati in un regime ipocalorico, questi soggetti saranno tendenzialmente molto più propensi a mantenere intatta la propria massa muscolare (avendone si spera un buon quantitativo nel caso siano soggetti allenati) e quindi la richiesta proteica sarà minore, dato che la perdita di peso sarà a carico quasi esclusivamente di acqua e grasso (questo solo nelle prime fasi del dimagrimento).

Famose diete iperproteiche sono:

Benefici e vantaggi della dieta iperproteica

Le proteine hanno una funzione protettiva e di longevità per la salute dell’osso; numerosi studi hanno dimostrato come variazioni dell’in-take proteico durante l’infanzia e l’adolescenza possono influenzare la crescita e il raggiungimento dell’ottimale massa ossea. Specialmente per persone anziane, un basso apporto proteico è associato a problematiche di densità minerale ossea in particolare a livello del tratto prossimale del femore e del rachide lombare.

Inoltre, nel contesto più prettamente ipocalorico, le proteine rispetto agli altri macronutrienti garantiscono una maggior sazietà e quindi una chance in più per l’aderenza alla dieta.

A vantaggio delle proteine ci sono anche il mantenimento di un effetto termogenico indotto dal cibo alto e il contributo a mantenere la massa magra nonostante il deficit. In quest’ultimo caso non significa che una dieta iperproteica renda l’organismo immune alla perdita di muscolo, ma solamente che la minimizza rispetto ad altre diete povere di proteine: infatti, quando sei in ipocalorica i processi catabolici prevalgono in generale e non solo in modo specifico sulla massa grassa.

Controindicazioni, rischi e svantaggi: fa male la dieta iperproteica?

Anche le proteine non sono esenti da falsi miti e allarmismo: se iniziassi ad ascoltare tutti i “sentiti dire” l’alimento più sano potrebbe essere quello che non ha glucidi perché fanno ingrassare, lipidi perché alzano il colesterolo, protidi perché causano danno renale ed epatico. Resta quindi solo l’acqua, che è di certo necessaria ma allo stato grado di importanza non sufficiente. I “sentiti dire” è meglio lasciarli da parte oppure ascoltarli e capire se sono validi o meno, anche se (spoiler) tendenzialmente no.

Fegato

Il fegato possiede tutte le vie metaboliche per l’utilizzazione degli aminoacidi, che possono derivare dalla dieta ma anche da uno sforzo fisico intenso o dal digiuno prolungato.

Potrebbe essere che più proteine inducano il fegato a lavorare di più e quindi che l’organo sia più “stressato” e probabile soggetto di un danno. In realtà, il fegato si adatta: ad un introito proteico incrementato risponde con un aumento degli enzimi deputati al metabolismo aminoacidico e non è assolutamente verificata la teoria secondo la quale più un organo lavora intensamente più è probabile che si danneggi.

Non ci sono ancora evidenze che una dieta iperproteica sia responsabile di un danneggiamento epatico, anche se, per completezza di informazione, studi sul lungo periodo in questo ambito non sono ancora stati compiuti.

Ritenzione idrica

Quando l’apporto proteico è alto e ben accompagnato da carboidrati e lipidi le proteine aiutano a contrastare la ritenzione idrica, soprattutto se abbini un allenamento con i pesi. Se l’alto in-take protidico non è supportato dagli altri macronutrienti ottieni l’effetto opposto ed indesiderato: la ritenzione idrica aumenta.

Reni

Le proteine non generano problemi di affaticamento renale a meno che il soggetto non abbia già una predisposizione di corredo genetico o patologie pregresse/attuali.

Tutti gli studi che hanno dimostrato che un eccesso di proteine rispetto all’ RDA di 0.8 gr/kg promuoverebbe patologie renali croniche, dovute all’aumento della pressione dei glomeruli, per via di un incremento della loro attività di filtraggio sono stati svolti su persone con patologie renali già in corso.

Tutti gli studi svolti con in-take proteici che superavano anche del doppio il quantitativo RDA, su soggetti sani, non hanno dato luogo a variazioni nelle funzioni renali.

Schema dieta iperproteica ipocalorica

Piuttosto che assimilare tutta la quota proteica in un’unica soluzione è meglio suddividere il totale proteico giornaliero in almeno 3-4 assunzioni similari, eventualmente un po’ di più nei pasti vicini all’allenamento. In questo modo, l’organismo avrà meno difficoltà ad espletare un eventuale eccesso di azoto, mantenendo così un bilancio più equilibrato durante le 24 ore.

Non c’è un limite certo di quante proteine il tuo corpo è in grado di assimilare per volta, infatti nei protocolli del digiuno intermittente la quota protidica è consumata tutta in un range temporale ristretto con comunque significativi miglioramenti.

Quali alimenti inserire in una dieta iperproteica ipocalorica? Cosa mangiare?

Come per qualsiasi dieta, variare le fonti durante l’arco della giornata e della settimana è la scelta migliore, senza limitarsi al classico “riso e pollo” 7 giorni su 7, che non ha nulla in più rispetto ad altri alimenti.

Infatti, ruotare gli alimenti è in generale un fattore importante per migliorare le varie funzioni enzimatiche, abituando l’organismo a gestire correttamente le varie sostanze. L’unica restrizione sussiste nel caso in cui ci sia un’intolleranza alimentare conclamata o se frequentemente accusi problemi a livello digestivo con un particolare cibo: evita o limita questo alimento e preferisci gli altri.

Gli alimenti proteici non sono sole le carni magre come il pollo e il tacchino, ma anche la soia, tutti i legumi, i latticini magri. Questo in termini generali, per più dettagli vai a questo articolo.

Nel totale proteico giornaliero conteggia anche le proteine “non nobili” (cereali, legumi) che sebbene non possiedano uno spettro amminoacido completo, sempre proteine sono e come tali incidono sull’introito energetico, sul bilancio azotato e sul turnover proteico.

Dato che non è sempre semplice riuscire a raggiungere la quota proteica giornaliera solo tramite gli alimenti, le proteine in polvere sono un ausilio valido: non fanno diventare più forti o ti alzano il metabolismo ma semplicemente raggiungi la quota prefissata.

Esempio di dieta iperproteica

Dieta iperproteica ipocalorica per la palestra e il bodybuilding

Quelli che seguono sono solo ESEMPI per niente personalizzati e che vogliono solo dare un’idea di quali alimenti potresti scegliere e come distribuirli nella giornata.

Colazione iperproteica

Le proteine a colazione aiutano a mantenere un buon senso di sazietà durante la mattinata e puoi anche opzionare tra dolce e salato. Alcune idee: yogurt magro o greco, toast salutare con affettati magri, pancake proteici, avena, uova, proteine in polvere, frutta secca.

Se sei interessato, leggi anche questo articolo.

Dieta iperproteica da 800 kcal

  • Colazione: 2 uova all’occhio di bue, 40 g pane integrale tostato, caffè è tè senza zucchero
  • Pranzo: 60 g pasta integrale, 80 g tonno al naturale, 100 g pomodori da insalata
  • Cena: 200 g petto di tacchino alla griglia, 100 g rucola
kcal g proteine g grassi g carboidrati
totale 826 94 19 66

Dieta iperproteica da 1400 calorie

  • Colazione: 200 g latte di vacca scremato, 3 gallette di riso integrale, 50 g marmellata di fragole light, 150 g spremuta di arancia
  • Spuntino: 20 g anacardi
  • Pranzo: 100 g riso, 50 g funghi secchi, 50 g grana, 100 g pomodori da insalata
  • Cena: 230 g pollo, 10 g olio evo, 100 g peperoni gialli, 50 g pane di segale
kcal g proteine g grassi g carboidrati
totale 1396 115 33 90

Dieta iperproteica da 1800 calorie

  • Colazione: 170 g yogurt greco 2%, 20 g pinoli, 10 g miele
  • Spuntino: frullato proteico (1 banana, 30 g proteine in polvere, 100 g latte scremato)
  • Pranzo: 100 g pasta integrale, 60 g lenticchie secche, 100 g broccoli
  • Spuntino: 20 g cracker senza sale, 100 g bresaola
  • Cena: 200 g patate, 100 g sgombro, 1 mela
kcal g proteine g grassi g carboidrati
totale 1752 138 37 212

Quante proteine assumere al giorno?

“Di più non è sempre meglio”. Voler eccedere a tutti i costi con l’in-take proteico non ti porterà migliori vantaggi ma potenzialmente solo degli svantaggi. Le proteine vanno conteggiate ovviamente nell’introito calorico giornaliero e quindi nel caso si decida di aumentarle, nonostante si stia già consumando un quantitativo considerato sufficiente, si dovrà andare poi a tagliare sugli altri macronutrienti, scelta che in linea di massima non è molto sensata.

I range sotto riportati sono basati su studi ed evidenze scientifiche ad oggi constatate; potreste trovare indicazioni con valori leggermente più alti o più bassi ma grosso modo questo è quanto. Per soggetti:

  • sedentari i quali non hanno mire di alcun tipo a livello di composizione corporea, il valore consigliato è di minimo 0,8g/kg di peso corporeo.
  • che svolgono attività fisica come corsa o affini o che sono molto attivi durante il giorno o che vogliono cercare di perdere grasso corporeo, preservando al meglio la massa magra, il range consigliato è di 1,2-1,5 gr/kg di peso corporeo.
  • che svolgono attività contro resistenze e che hanno l’obiettivo di aumentare la propria massa magra, il range consigliato è di 1,6-2,2 gr/kg di peso corporeo.
  • che svolgono attività contro resistenze e che vogliono cercare di perdere grasso corporeo, preservando al meglio la massa magra, il range consigliato è di 2,3-3 gr/kg di peso corporeo.

Il consiglio è quello di partire vicini all’estremo più basso dei range sopra riportati, per poi nelle fasi finali del dimagrimento, spingersi eventualmente verso quello più alto o anche superarlo leggermente in alcuni casi. Ciò sembra possa avere un impatto positivo nel mantenimento della massa magra.

Quanto bere al giorno

composizione corporea

Un aumento proteico implica un maggior lavoro di filtrazione e riassorbimento proteico a livello renale, un apporto idrico insufficiente non supporta al meglio questo meccanismo fondamentale.

Molto spesso le persone si pongono quesiti e si scervellano per capire quale sia lo split ideale di macronutrienti e il miglior timing dei pasti e gli integratori più efficaci, ecc. e non prendono in considerazione (o non danno la dovuta importanza) al loro consumo giornaliero di acqua.

Quante volte hai sentito la frase hai sentito che sei fatto per almeno il 70% da acqua? Bene, i tuoi muscoli sono formati da oltre il 70% di acqua perciò è lampante quanto un corretto apporto idrico sia di fondamentale importanza per tanti, troppi aspetti a livello muscolare ma anche a livello ormonale e fisiologico.

Una buona regola generale è quella di consumare almeno 1 litro di acqua ogni 20 kg di peso corporeo (per soggetti sportivi che si allenano).

Scegli inoltre un’acqua a basso residuo fisso (<50), questo agevolerà l’organismo nella demineralizzazione di quest’ ultima e ad una corretta diuresi.

Quanti kg si perdono?

dieta iperproteica integratori

I chili che perdi non sono né più né meno nel caso in cui tu scegliessi un’altra dieta: l’aderenza al regime alimentare e il deficit calorico sono gli unici due fondamenti che ti permettono di perdere peso.

Di certo la dieta iperproteica rispetto ad altre tipologie dietetiche può contare su un maggior senso di sazietà e su un supporto al mantenimento della massa magra nonostante la prevalenza dei processi catabolici, che fisiologicamente si instaurano per tutti i tessuti quando l’apporto calorico è minore rispetto al necessario.

Dieta iperproteica ipocalorica per la palestra e il bodybuilding

Le diete iperproteiche sono consigliate più per gli sportivi che svolgono allenamenti intensi piuttosto che per il sedentario, dato che hanno un

Se sei uno sportivo che va in palestra e che fa allenamenti intensi, sicuramente la dieta iperproteica ti è più utile rispetto a chi invece non si allena: hai un fabbisogno proteico più alto e una massa magra maggiore che va mantenuta.

L’in-take minimo consigliato è 1.6 g di proteine per kg di peso corporeo, da consumare preferibilmente nelle ore vicino all’allenamento.

Perché non dimagrisco e non perdo peso con una dieta iperproteica ipocalorica?

Tra i tanti “perché” della vita c’è anche questo, un grande classico nell’ambito del dimagrimento: “mangio “poco” e non dimagrisco… Perché?”. Probabilmente quel “poco” non è davvero “poco”.

Mangi ed accumuli calorie, digiuni (qualsiasi momento in cui non mangi) e spendi calorie, è garantito che se le calorie accumulate sono più di quelle spese: l’energia assunta non svanisce nel nulla, ma resta nel corpo; proprio lei e tutti i processi biochimici che regolano il metabolismo sono la causa del non perdere peso.

Cosa significa? Che sebbene la tua dieta contenga meno carboidrati e meno grassi rispetto ad altre diete, puoi ingrassare ugualmente. Il corpo guarda principalmente il bilancio calorico: troppe calorie rispetto al necessario? Ingrassi, a prescindere che queste derivino da carboidrati, grassi o proteine (o alcol). Così poi sdoganare anche il concetto del “i carboidrati fanno ingrassare” e “i grassi fanno ingrassare”.

Durata dieta iperproteica

La dieta iperproteica è da vedere come un periodo temporale che non deve sostanzialmente rappresentare l’abitudine alimentare “vita natural durante”. Ancora non è chiaro se nel cronico (molti anni) consumare fabbisogni proteici importanti generi realmente negatività concrete.

Il consiglio è quello di alternare fasi ad alti quantitativi durante periodi di dimagrimento, a fasi con apporti più morigerati, soprattutto in periodi di surplus calorico dove la quota proteica assume un’importanza meno rilevante.

Un altro motivo per cui non seguire la dieta iperproteica ipocalorica per molto tempo è che spesso con questa tipologia dietetica non vengano date indicazioni in merito al consumo calorico, ma vale semplicemente il motto “mangia proteine finché non sei sazio”. Inizialmente questo funziona: le proteine saziano di più e dimagrisci perché mangi di meno. A lungo andare però il corpo si adatta, hai meno senso di sazietà e inizi a mangiare di più, non dimagrendo più.

Conclusioni sulla dieta iperproteica

A meno che tu non abbia patologie, la dieta iperproteica per un tempo determinato non apporta a nessun tipo di problema. Anzi, se sei uno sportivo ti aiuta a mantenere una buona dose proteica come supporto alla massa muscolare e al turnover proteico, mentre se cerchi di dimagrire i protidi ti garantiscono un buon senso di sazietà e un minor consumo di alimenti ricchi di grassi e carboidrati, dal momento che preferirai alimenti con una maggior frazione proteica.

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Alimenti senza glutine: quali sono

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Senza glutine è meglio?

Perchè i celiaci devono mangiare alimenti senza glutine

La malattia celiaca (MC) o celiachia, definita anche sprue celiaca o enteropatia da glutine, è una malattia immunomediata di origine genetica scatenata dall’ingestione di glutine, che, in soggetti geneticamente predisposti, genera un’infiammazione cronica a livello dell’intestino tenue. Ciò porta al danneggiamento dei tessuti a livello dell’apparato digerente e alla conseguente scomparsa dei villi intestinali, essenziali per l’assorbimento di tutti i nutrienti. Un celiaco, quindi, oltre al danno diretto all’intestino tenue, subisce un consistente danno indiretto perché non è in grado di assorbire tutte le sostanze nutritive tramite il cibo, rischiando, per questo motivo, la malnutrizione.

Per questo motivo i celiaci devono escludere dalla propria dieta tutti gli alimenti contenenti glutine: questo termine è genericamente utilizzato per indicare alcune proteine del grano e di altre graminacee come ad esempio l’orzo, la segale, l’avena ed il farro. Questa proteina è contenuta anche nella maggior parte di tutti gli alimenti amidacei che consumiamo quotidianamente, come ad esempio: la pasta, il pane, i biscotti, i prodotti da forno, farine, e così via… Il glutine causa nel soggetto sensibile un’abnorme risposta immunitaria a livello intestinale vista la sua evidente incapacità di digerirla ed assorbirla.

Terapia post diagnosi, dieta senza glutina

Il criterio fondamentale del trattamento dopo una diagnosi di celiachia rimane la dieta priva di glutine, la quale deve essere rigorosa e continuata indefinitivamente. La dieta senza glutine deve essere mantenuta per tutta la vita, non solo nelle forme francamente sintomatiche, ma anche in quelle subcliniche e silenti. Vanno quindi evitati tutti i cereali potenzialmente lesivi (frumento, orzo, segale ed avena); tale presidio terapeutico è di difficile attuazione nei paesi occidentali, in particolare nella nostra cara ed amata Italia, patria della dieta mediterranea. Quest’ultima, infatti, si basa principalmente sull’assunzione di cereali integrali come ad esempio la pasta, il pane, frumento, ecc… Tutti sicuramente dannosi per l’individuo che deve seguire questo regime alimentare di esclusione.
(Per approfondire leggi il nostro articolo se il glutine fa male a tutti)

Alimenti senza glutine

Cereali senza glutine

Secondo l’associazione italiana celiachia (AIC) un alimento, per poter essere definito senza glutine non deve contenere più di 20 mg di glutine per Kg (20 ppm-ovvero parti per milione). A fianco degli alimenti naturalmente privi di glutine come ad esempio il riso, il sorgo, la tapioca ed il mais ci sono altri tipi di alimenti che rientrano nella categoria “prodotti speciali”, i quali possono essere facilmente reperibili in tutte le farmacie e supermercati. Troviamo quindi pane, pizza, pasta e cracker preparati con farine deglutinate o che per loro natura non contengono glutine (come ad esempio biscotti a base di mix di farine di riso e mais).

La spigola sbarrata

Ad oggi, in tutti i supermercati e in tutti i menù dei ristoranti in cui andiamo si ritrovano alimenti con sopra il simbolo della “spiga sbarrata”. Questo disegno ritrae una spiga di grano con sopra una specie di segmento obliquo che rappresenta un vero e proprio certificato di idoneità all’assunzione di quel determinato cibo da parte del celiaco.  Questo simbolo è sicuro visto che è il frutto della sottoscrizione di un contratto tra AIC (Associazione Italiana Celiachia) ed azienda produttrice. Tutti i prodotti a “marchio spiga sbarrata” vengono in automatico inseriti nel “prontuario degli alimenti”, una pubblicazione con frequenza annuale rivolta a tutti soggetti sensibili al glutine. Essa raccoglie tutti quei prodotti che risultano idonei al consumo da parte di un soggetto che deve necessariamente seguire una dieta priva di glutine.

Ciò permette al consumatore celiaco di dividere facilmente gli alimenti in:

  • Alimenti permessi: alimenti che possono essere consumati liberamente, in quanto naturalmente privi di glutine o appartenenti a categorie alimentari non a rischio per i celiaci, poiché nel corso del loro processo produttivo non sussiste rischio di contaminazione. Essi non sono presenti nel prontuario.
  • Alimenti a rischio: alimenti che potrebbero contenere glutine in quantità superiore ai 20 ppm o a rischio di contaminazione e per i quali è necessario conoscere e controllare l’ingredientistica ed i processi di lavorazione. I prodotti di queste categorie che vengono valutati come idonei dall’AIC vengono inseriti nel Prontuario AIC degli Alimenti. L’AIC consiglia il consumo di questi alimenti se presenti in Prontuario o riportanti la dicitura «senza glutine».
  • Alimenti vietati: alimenti che contengono glutine e pertanto non sono idonei ai celiaci. Tali alimenti, ovviamente, NON sono inseriti nel Prontuario.

Prodotti senza glutine

Oltre agli alimenti specificatamente formulati per celiaci come ad esempio biscotti, pane, pizza, cereali, muesli, cracker e quant’altro (che vanno a sostituire i prodotti tradizionali) qui di seguito riporto una tabella che contiene tutti gli alimenti naturalmente privi di glutine che possono essere quindi tranquillamente consumati da questi soggetti. (N.B. li ho divisi per famiglie alimentari).

Cereali, farine e derivati Carne, pesce, uova Latte e latticini Verdura Legumi Frutta
Riso Carne, pesce, molluschi Latte fresco pastorizzato e UHT Tutti i tipi di verdure Fagioli Frutta fresca di tutti i tipi
Mais Uova (intere ed albumi) Formaggi freschi e stagionati Verdure sottaceto Fave Frutta a guscio
Grano saraceno Tonno in scatola Yogurt e derivati Verdure sott’olio Lenticchie Frullati
Manioca e miglio Prosciutto crudo Panna fresca / Piselli /
Quinoa / / / Soia /
Sorgo e Teff / / / Preparati con solo legumi /
Caffè, The, Tisane Alcolici Dolciumi Grassi Spezie e condimenti
Tutti i tipi di caffè Vino Miele Burro strutto e lardo Aceto balsamico
Camomilla Distillati alcolici Zucchero bianco e di canna Olii vegetali Lievito di birra non fresco
Tutti i tipi di The / Radice di liquirizia  Margarine Pepe
/ / Destrosio / Zafferano
/ / Dolcificanti / Spezie varie

Prodotti a rischio e prodotti vietati

Farine senza glutine

Contengono direttamente il glutine, oppure sono a rischio contaminazione diversi prodotti dove troviamo:

Tra i cereali contengono direttamente glutine il: frumento, grano, farro, orzo, avena, segale, kamut e tutti i prodotti da forno come pane, pizza, biscotti, merendine, couscous, bulgur, seitan, cereali da prima colazione ecc. Potrebbero essere contaminati alimenti come polente istantanee che potrebbero contenere addensanti contenenti glutine. Il nostro consiglio è sempre quello di controllare gli ingredienti per vedere se sussiste la dicitura “può contenere tracce di frumento/glutine…”

Attenzione a tutti quegli alimenti come carne e pesce che sono impanati o che contengono gelatine contenenti glutine. La stessa cosa vale per wurstel, hamburger, conserve di carne e secondi surgelati già pronti.

Yogurt con tracce di malto o addensanti, formaggi spalmabili e latte addizionati possono essere alimenti a rischio. Attenzione anche a tutte quelle zuppe pronte surgelate: potrebbero essere costituite anche da cereali contenenti glutine. Da escludere la frutta disidratata infarinata

A rischio potrebbe esserci invece la frutta glassata, caramellata o candita. Bevande al gusto di caffè al ginseng e bevande a base di avena sono invece da escludere completamente. Così come anche il caffè d’orzo.

Per quanto riguarda gli alcolici è da evitare totalmente la birra da malto d’orzo e/o di frumento. Occhio anche a cioccolati con cereali, torte, biscotti e preparati per dolci con farine non idonee.

Il lievito naturale/lievito madre/lievito acido sono totalmente da escludere.

Senza glutine, moda o necessità?

Come abbiamo visto la dieta senza glutine è l’unica alternativa terapeutica a tutti quei soggetti affetti da MC, anche se ultimamente, sempre più persone (ma soprattutto atleti e sportivi) nonostante non soffrano di quest’allergia, si orientano lo stesso verso prodotti “gluten free” perché considerati più “light” e meno calorici. Insomma, i prodotti senza glutine vengono visti come alimenti che possono contribuire a migliorare la qualità alimentare di un qualsiasi individuo.

C’è anche chi afferma, senza basi scientifiche, che possano aumentare la performance sportiva di un’atleta: un po’ anche perché la parola “senza”, nel contesto alimentare, attira sempre il consumatore medio (senza grassi, senza olio di palma, senza glutine, ecc..). Se però andiamo a confrontare le tabelle nutrizionali di un alimento senza glutine ed uno con il glutine vediamo la cruda e triste realtà! Nella tabella possiamo vedere le differenze bromatologiche di due alimenti: a sinistra troviamo il classico frollino con il glutine e a destra quello senza glutine.

100 g Frollino con glutine Frollino senza glutine
Calorie 462 429
Proteine 7,2 4,8
Lipidi 13,80 17,80
Carboidrati 73 70

Cosa notate? Guardate i lipidi! Notate come sono elevati nel biscotto senza glutine? Altro che prodotti light! Gli alimenti “gluten free”, visto che sono privi di quest’importante proteina che contribuisce a fare da collante, vengono addizionati con tantissimi altri macronutrienti come grassi, zuccheri, additivi e dolcificanti proprio per renderli più compatti ed appetibili. Ecco il motivo per cui i lipidi nel prodotto senza glutine arrivano a toccare circa 17,80 g per 100 g di prodotto.

È quindi consigliabile orientarsi sempre verso cibi che naturalmente non contengono glutine come ad esempio tutti quegli pseudocereali che oggi si stanno sempre più riscoprendo, come ad esempio: quinoa, sorgo, teff, grano saraceno e così via.
Se amate fare una colazione salata potete consumare gallette di riso o di grano saraceno, pane di teff o di sorgo, prosciutto crudo o cotto, bresaola, uova e così via. Se invece preferite orientarvi verso una colazione dolce, bè…avete l’imbarazzo della scelta!!

Via libera con del porridge ai fiocchi di avena certificati senza glutine, frutta fresca e secca, yogurt magro o greco, pancake alla farina di riso o tortini a base di farina di cocco o di tapioca. Come si può ben vedere le alternative a tutti questi prodotti chimici preconfezionati esistono e dovrebbero rappresentare la prima scelta nell’alimentazione di una persona che segue una dieta gluten free.

Con l’aumentare delle diagnosi di celiachia, la sensibilizzazione da parte di ristoranti e supermercati è aumentata a vista d’occhio. Il celiaco ha, ad oggi, una maggiore possibilità di seguire una dieta varia e allo stesso tempo salutare attingendo con relativa semplicità ad una scelta di prodotti pressoché illimitata, come ad esempio: latte, formaggi stagionati e morbidi, pasta di legumi, dolci a base di farina di riso, carne bianca e rossa, uova, affettati magri certificati AIC, pseudocereali, riso, teff e così via!

Ci sono tantissime tipologie di, pasta in commercio non esiste solo la pasta di semola! Ed è bene ricordarselo, anche per chi non è celiaco!

Le regole fondamentali per una sana dieta senza glutine

farro senza glutine

  1. La maggior parte degli alimenti sono naturalmente privi di glutine: fa che quelli siano alla base della tua piramide alimentare. Scegli come fonte glucidica riso, mais, grano saraceno, avena senza glutine, miglio, ecc…
  2. Prima di acquistare un prodotto leggi attentamente tutti gli ingredienti. Cerca se sulla confezione è presente il marchio “spiga sbarrata”, osserva se può contenere tracce di glutine o frumento o se è stato confezionato in ambienti dove ne è stata possibile la contaminazione.
  3. Se sei un celiaco ufficialmente diagnosticato puoi godere di un buono mensile per comprare i prodotti senza glutine in farmacia. Il nostro consiglio è quello di non prendere prodotti già pronti come pizza, pane, biscotti e secondi surgelati. Opta per farine a base di cereali naturalmente senza glutine e comincia a dilettarti in cucina!
  4. Frutta fresca, verdura, ortaggi, carne, pollame, formaggi, ecc.. sono alimenti del tutto permessi. Fa sì che i tuoi pasti quotidiani si basino principalmente su di essi.
  5. Scambiate il pangrattato con le briciole di polenta o la farina di mais.
  6. Evita tutti gli alimenti che possono contenere glutine occulto. Un sacco di prodotti (come ad esempio le salse) contengono degli addensanti a base di frumento. Quindi attenzione! (la salsa di soia del ristorante cinese ne è un esempio).
  7. Cerca su internet “ricette senza glutine”. Ti si aprirà un mondo! Leggi, cucina e sperimenta! Ma soprattutto divertiti a far assaggiare quello che prepari anche a tutta la tua famiglia!
  8. Non rinunciate alla convivialità. Seguire una dieta senza glutine non significa essere strani. Non sentitevi in imbarazzo nel dover parlare della vostra problematica e proponete ristoranti dove anche voi potete mangiare. Il cibo è vita, ma soprattutto si basa sull’amore: le persone che ti vogliono veramente bene saranno le prime a preoccuparsi per te!

Note sull’autrice 

Elisa Mancini

Dott.ssa Elisa Mancini
Dott.ssa in biologia e scienze dell’alimentazione/ nutrizione umana
(SANU) presso l’Università degli studi di Perugia.
Appassionata di fitness, dopo il superamento dell’esame di stato presso l’Università di Camerino ha effettuato l’iscrizione all’albo dei Biologi e dal luglio 2019 collabora come nutrizionista in alcune palestre della zona di Perugia.

Bibliografia:

Farrel RJ, celiac spruen N engl J Med. (2002), 346,180-8
Lajos Okolicsanyi, malattie dell’apparato gastrointestinale, 4 edizione. Pag 123-127
Harrison: i principi di medicina interna. Vol2 pag. 2444-2446
Mazzone, compliance gluten-free children with celiac disease: an evolution of psychological distress, 2011 May 27
it (AIC)

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Menù della dieta proteica: cosa mangiare?

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menu dieta proteica

Riso e pollo sono un must nella dieta di chi fa bodybuilding e va in palestra, se non mangi così non ha neanche senso che ti alleni.

Davvero ci credi ancora?

Con questo articolo dovresti cambiare idea, infatti il menù della dieta proteica non prevede solo il famoso petto di pollo: le proteine sono presenti in molte fonti alimentari e permettono così anche a chi preferisce una dieta proteica di avere un menù variegato e saziante, anche se un po’ più limitato.

Cosa mangiare in un menù proteico?

alimenti proteici

Nel menù proteico sono incluse sia le fonti animali che quelle vegetali: sebbene le seconde non abbiano uno spettro aminoacido completo per le esigenze dell’uomo, sono comunque da conteggiare come risorsa protidica e calorica, che incide rispettivamente sul bilancio azotato e sul fabbisogno calorico totale.

Esempio di colazione proteica

  • Una tazza di latte scremato, caffè con dolcificante
  • Yogurt greco e frutta secca
  • Uova strapazzate, all’occhio di bue o alla coque
  • Salmone affumicato, yogurt greco 0-2-5%.
  • Fiocchi d’avena, frutti di bosco o un frutto

Esempio di cena proteica

  • Carne magra (pollo, tacchino, coniglio, tagli magri anche di carne rossa)
  • Pesce (branzino, orata, trota, salmone, ecc.), uova
  • Formaggi magri come la ricotta o i fiocchi di latte (occhio ai formaggi che sono buoni ma calorici)
  • Legumi, avocado, funghi e verdure a volontà (attento al condimento)

Esempio di menù dieta proteica dimagrante (per dimagrire)

Qualsiasi dieta per dimagrire che sia al di sotto del tuo fabbisogno calorico ti farà perdere peso, quindi anche quella proteica. Solitamente, la dieta proteica ha effetto soprattutto nel primo periodo, quando “mangi proteine a sazietà” e quindi riesci facilmente a mantenere il deficit calorico. Poi, in una seconda fase, l’organismo si abitua e sente di meno l’effetto saziante, perciò potenzialmente tenderai a mangiare di più, riducendo o annullando il deficit e quindi il dimagrimento.

Alimenti da inserire nella dieta settimanale sono:

  • Petto di pollo, fesa di tacchino, bresaola o prosciutto cotto con del pane integrale (occhio a limitare o evitare le carni lavorate)
  • Legumi (ceci, fagioli, lupini, lenticchie, ecc.)
  • Tonno o sgombro preferibilmente al naturale, altri pesci anche grassi come il salmone
  • Verdure a volontà (occhio al condimento)
  • 2-3 volte a settimana puoi mangiare un primo (70-100g)

Menù proteico per la massa muscolare in palestra

Dato che ti alleni e dovresti vorresti avere più massa muscolare rispetto a chi non si allena in palestra e quindi hai necessità di un maggior importo protidico. Il segreto non è assumere solo proteine in polvere, ma preferire cibi solidi proteici e saper gestire il fabbisogno calorico, sia totale che proteico, in abbinamento ad un adeguato allenamento con i pesi.

La dieta proteica ipercalorica da seguire deve essere varia, preferire le proteine di origine animale e non escludere i carboidrati o i grassi, che anche se in percentuale minore rispetto ad altre diete devono essere presenti.

Nel menù proteico includi frutta e verdura sia cruda che cotta, preferisci i tagli di pesce e carne magri, i cereali integrali, i legumi. Anche le proteine in polvere sono da considerare, infatti in un regime alimentare ad alto contenuto proteico non è sempre facile riuscire a raggiungere il fabbisogno proteico prefissato tramite alimenti solidi.

Prima di pensare a quando è preferire assumere le proteine, è meglio essere sicuri che la quota venga raggiunta: prima la quantità e poi il timing, come regola di base. Infatti, il timing non è così rilevante a meno che tu non sia un atleta di alto livello e in cui, quindi, ogni minimo dettaglio può contribuire nel suo piccolo a fare la differenza.

Menù dieta iperproteica ipocalorica

alimenti proteici vegetali

Un esempio di dieta potrebbe essere questa:

  • Colazione: uova all’occhio di bue, affettati magri, latte scremato con proteine in polvere
  • Pranzo: branzino, insalatona con tonno
  • Spuntino: yogurt greco con frutta fresca
  • Cena: fegato di vitello, patate

Per più informazioni teoriche e pratiche sulla dieta iperproteica per dimagrire leggi questo articolo.

Esempi di menù dieta proteica

Menu dieta proteica mediterranea

  • Colazione: latte parzialmente scremato, yogurt greco con cereali, 1 frutto
  • Spuntino: gallette di riso con burro di arachidi
  • Pranzo: pasta col tonno, affettati magri, pomodori
  • Cena: grigliata di carne magra e verdure, patate al forno

Vegetariana

  • Colazione: latte scremato, porridge di avena
  • Pranzo: pasta e fagioli, hamburger di soia, insalatona
  • Spuntino: 1 frullato proteico (es. proteine in polvere, frutta fresca)
  • Cena: risotto ai funghi, radicchio rosso, uova all’occhio di bue

A zero carboidrati

Una doverosa premessa è che una dieta senza nessuna fonte glucidica non è sana, completamente sbilanciata e che potrebbe avere serie ripercussioni sulla salute. Infatti, non saresti carente solo di carboidrati, ma anche di micronutrienti: tutta la frutta e la verdura contengono sia glucidi che vitamine e minerali. Bandire i carboidrati dal regime alimentare è quindi doppiamente rischioso. Se non sei convinto della loro utilità, leggi questo articolo.

Considera quindi comunque una dieta che preveda una minima quota di carboidrati (almeno da frutta e verdura), come ad esempio la dieta chetogenica.

Gli alimenti che andrebbero inclusi in questo tipo di dieta proteica, sono, ad esempio:

  • Colazione: frittata di albumi, una manciata di frutta secca
  • Spuntino: proteine in polvere
  • Pranzo: taglio di carne magra, uova, verdura
  • Spuntino: bresaola
  • Cena: pesce magro/grasso, verdura

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Fagioli: calorie, proprietà e valori nutrizionali

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Fagioli valori nutrizionali

Il Fagiolo è il seme commestibile dell’omonima pianta, il Fagiolo comune, nome botanico Phaseolus vulgaris, appartenente alla famiglia delle Leguminose.

Contrariamente agli altri legumi della tradizione mediterranea, che provengono dall’antica mezzaluna fertile, i fagioli sono originari delle Americhe e giunsero in Europa solo successivamente alla “scoperta” di Colombo. Nel continente americano sono stati per secoli la base dell’alimentazione e dell’agricoltura con zucca e, soprattutto, mais, tanto da meritarsi l’appellativo di “tre sorelle”. Oggigiorno, ai fini agricoli, sono stati parzialmente sostituiti dalla soia, anch’essa fissatrice di azoto e quindi fertilizzante.

Dal punto di vista dei macronutrienti il fagiolo è molto simile a fave e lenticchie, ossia è ricco in carboidrati e proteine e povero in grassi. Leggermente diversa la composizione di ceci e, soprattutto, soia e arachidi.

Calorie fagioli secchi

Fagioli e calorie

Fagioli calorie 100g
Energia (Kcal) 326
Carboidrati (g) 47,5
Zuccheri (g) 3,5
Proteine (g) 23,6
Grassi (g) 2,0
Fibre (g) 17,5
Ferro (mg) 8
Calcio (mg) 135
Sodio (mg) 4
Potassio (mg) 1445
Fosforo (mg) 450
Magnesio (mg) 170
Vitamina A (IU) 3
Vitamina D (IU) 0
Vitamina B1 (mg) 0,4
Vitamina B2 (mg) 0,1
Vitamina B3 (mg) 2,3
Vitamina C (mg) 3
Vitamina B12 (µg) 0

Fonte dati: CREA (aggiornato 2019)

Da notare che i dati potrebbero lievemente differire consultando altre banche dati a causa della molteplicità delle varietà consumate, in Italia ed oltreoceano.

Questi valori si riferiscono ai fagioli secchi. Con la bollitura incamerano acqua ed arrivano anche a triplicare il loro peso in grammi, ragion per cui 100 grammi di fagioli freschi, o cotti e inscatolati, apportano circa 125 calorie.

Proprietà nutrizionali del fagiolo

 I macronutrienti più rappresentati sono senza dubbio proteine e carboidrati.

Il profilo proteico è in linea con altri legumi della tradizione mediterranea come lenticchie e ceci. Ottima la quantità ma “solo” buona la qualità poiché, come tutte le proteine vegetali, rimane incompleto lo spettro amminoacidico, a causa del deficitario contenuto in aminoacidi solforati metionina e cisteina. In una alimentazione equilibrata non è, tuttavia, un problema grazie alla complementarietà proteica con i cereali. Vedasi ad esempio il classico della tradizione napoletana: “pasta e fasul”. L’adeguatezza proteica non dipende, infatti, dal singolo alimento ma da tutte le proteine introdotte nell’arco della giornata.

La componente glucidica è ragguardevole ma non deve spaventare. Il carico glicemico è, infatti, medio -basso grazie all’elevato quantitativo di fibra, sia solubile che insolubile, di cui conosciamo bene l’importanza in ottica di prevenzione cardiovascolare e tumorale. Tra le fibre solubili sono tipiche dei legumi i galattomannani, polimeri di mannosio e galattosio.

Dal punto di vista vitaminico sono una eccellente fonte di vitamine B, in particolare di tiamina (b1), piridossina (b6) e folati (b9). Sul fronte minerale sono tra le principali fonti vegetali di ferro, apportano buone quantità di magnesio e fosforo ma soprattutto manganese e potassio. La ricchezza di quest’ultimo, e la concomitante carenza di sodio, aiuta a riequilibrare il rapporto sodio/potassio spesso sbilanciato nella nostra dieta a favore del sodio. Buona è anche la presenza di calcio ma, essendo meno rappresentato del fosforo, non possiamo considerare il fagiolo come una delle fonti più interessanti di questo minerale.

Varietà di fagiolo

 Le varietà coltivate nel mondo sono moltissime. Le più diffuse in Italia sono borlotti e cannellini ma, nei secoli, si sono sviluppate moltissime specialità regionali, diventate poi eccellenze e protette da certificazioni di qualità. Le variabili principali sono forma, aroma, grandezza e colore del seme. Tra queste, dal punto di vista nutrizionale, il colore è la più interessante perché si associa alla presenza di micronutrienti ad azione favorevole. A tal proposito, sta aumentando la richiesta di fagioli neri, popolari nella cucina sudamericana, proprio per la spiccata presenza di antocianine.

Fatta eccezione per il colore, le differenze a livello nutrizionale e botanico sono minime.

Ci sono, però, alcuni fagioli che non sono propriamente…fagioli!

Il fagiolo di Lima possiamo considerarlo il fratello del fagiolo in quanto appartenente allo stesso genere ma di specie diversa; le varianti non americane appartengono, invece, proprio ad un altro genere, il Vigna. Questi sono:

  • fagioli mung, dal tipico color verde, originari dell’India e da millenni nella tradizione culinaria asiatica, oggi noti anche per i loro germogli
  • fagioli azuki, rossi, originari anch’essi dell’Asia orientale
  • fagioli dall’occhio, di origine Africana, noti da millenni alle popolazioni del mediterraneo

FAGIOLO E ANTI NUTRIENTI

Varietà di fagioli

 La presenza di fattori anti nutrizionali è arcinota nei legumi ed è la ragione per la quale non possiamo consumare crudi né i fagioli secchi né la versione giovane, consumabile con tutto il baccello (o frutto), ossia i fagiolini.

I principali fattori anti nutrizionali riguardanti i fagioli sono:

  • lectine, potenzialmente lesive nei confronti delle cellule del sangue mediante agglutinazione
  • saponine, anch’esse potenzialmente lesive per le cellule ematiche via emolisi
  • inibitori delle proteasi, in grado di ridurre digestione ed assorbimento delle proteine
  • acido fitico, in grado di ridurre l’assorbimento di alcuni minerali

Tutti i sopracitati valgono in generale per i legumi ma, nel caso dei fagioli, è la fitoemoagglutinina, una lectina, il fattore anti nutrizionale più caratterizzante. Presente soprattutto nei fagioli rossi, questa proteina è in grado di provocare sintomi quali nausea, vomito e diarrea a poche ore dall’assunzione anche dopo il consumo di solo 5 fagioli.

Detto ciò, non dobbiamo preoccuparci perché la cottura è in grado di distruggere la proteina. A tal proposito, riferendosi in particolare ai “Kidney Beans”, i fagioli rossi, l’USDA suggerisce di bollire per almeno 30 minuti i fagioli in via precauzionale.

Saponine, acido fitico ed inibitori delle proteasi vengono in gran parte neutralizzate o comunque ridotte tra l’ammollo dei legumi e la successiva cottura. Al fine di rendere proficuo l’ammollo occorre ovviamente eliminare l’acqua almeno un paio di volte. Nella fase di ammollo, tuttavia, non avviene solo la dispersione di tali sostanze in acqua, ma anche l’iniziale germinazione del legume, la quale inattiva mediante reazioni biochimiche la maggior parte degli anti nutrienti. Nella germinazione si attivano, infatti, enzimi idrolitici che, operando come i nostri enzimi digestivi, da un lato ci facilitano la digestione, dall’altro “digeriscono” anche sostanze come l’acido fitico. Se l’acqua di ammollo è bene cambiarla, l’acqua di cottura sarebbe invece meglio conservarla per non perdere i minerali che vi si sono dispersi.

Oggi sappiamo, ad ogni modo, che questi cosiddetti anti nutrienti apportano anche dei benefici per la salute. L’acido fitico, ad esempio, è protettivo nei confronti del tumore al colon, saponine e lectine sono ipocolesterolemizzanti.

Fagioli e meteorismo

Flatulenza dopo aver consumato i fagioli? È un classico.

I principali responsabili sono gli oligosaccaridi raffinosio, stachiosio e verbaschiosio, non digeribili dall’intestino tenue e quindi presenti nel colon alcune ore dopo il pasto, ove vengono fermentati con produzione di gas.

Come per tutta la fibra, perché è di questo che parliamo, la causa principale è il consumo sporadico, il quale non consente alla microflora residente nel colon di abituarsi a gestire una certa quantità di indigerito. Il fastidio è, infatti, più frequente nei consumatori occasionali ed è sempre per questo motivo che si consiglia di aumentare il consumo di fibra con gradualità, dando tempo al microbiota intestinale di attrezzarsi.

Anche in questo caso un lungo ammollo è sicuramente d’aiuto ma per soggetti particolarmente sensibili è consigliabile la versione decorticata o l’alternativa domestica, ossia il consumo previa rimozione delle bucce con passaverdura.

Per finire un piccolo trucchetto, secondario rispetto a quanto già detto, che non fa di certo miracoli, ma a basso costo e con zero rischi. Si tratta dell’alga Kombu, un’alga molto utilizzata in Giappone, che, se aggiunta nell’acqua di ammollo, aiuta a diminuire il contenuto di oligosaccaridi mediante l’azione idrolitica dei suoi enzimi.

Conclusioni e domande ricorrenti sui Fagioli 

Alimenti miracolosi non ne esistono ma un gruppo alimentare da valorizzare è senza dubbio quello dei legumi, meno frequenti nelle nostre tavole di quanto sarebbe opportuno. I fagioli, al netto di pochissimi grassi, apportano proteine dal buon valore biologico, fibra, ferro, potassio e molte vitamine, in particolar modo quelle del gruppo B. La presenza di fibra sia solubile che insolubile rende i fagioli anche degli ottimi prebiotici.

Ma…

I fagioli sono un primo o un secondo? in linea di massima sarebbe bene considerarli come un secondo, in questo modo avremmo un pasto vegetariano e povero di grassi saturi. Tuttavia sono anche ricchi di carboidrati e, nel contesto di una dieta ipocalorica ipoglucidica, potrebbero essere utilizzati anche come unica portata proteica, in combinazione con la verdura (fagioli all’uccelletto) o in abbinamento con una proteina animale (fagioli e tonno). Dipende dalla dieta nel suo complesso, pasta integrale e fagioli rimane una ottima soluzione anche in una dieta ipocalorica.

Vanno bene anche i fagioli in scatola? Si, bene però controllare che siano senza sale aggiunto. Dal punto di vista della digeribilità potrebbe essere, tuttavia, meglio ricorrere a quelli secchi, dove possiamo agire maggiormente tramite ammollo e cottura.

Faccio fatica a digerirli, cosa posso fare? (STEP 1) Se non si è abituati a consumarli meglio iniziare con piccole porzioni, per consentire all’intestino di attrezzarsi a dovere. Nel caso in cui si rimanga comunque sensibili, (STEP 2) possiamo:

  • allungare il tempo di ammollo per consentire l’iniziale germinazione del seme
  • cambiare più volte l’acqua per eliminare gli anti nutrienti passati in acqua
  • cuocere infine a lungo.

Se nemmeno così possiamo gustarci i fagioli senza fastidi gastrointestinali ed anche, ehm, fastidi “sonori”, (STEP 3) possiamo effettuare la stessa operazione ma su fagioli decorticati o a cui abbiamo rimosso la buccia con un passaverdura.

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Dieta ipocalorica per dimagrire: la guida completa

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dieta ipocalorica

“Da domani dieta e palestra”: tutti i buoni propositi di solito iniziano “domani”, il miglior giorno per non cominciare qualcosa! E questo principio vale anche per la dieta ipocalorica e chi vuole dimagrire e cambiare il proprio stile di vita per migliorare.

Quante calorie, quali e quanti macronutrienti e il tipo di allenamento sono fondamentali per chi vuole raggiungere una forma fisica migliore (e non solo nell’ambito del bodybuilding) e un conseguente guadagno di salute.

In questo articolo scopri quali sono gli unici principi su cui si basa una dieta che funziona, quali diete funzionano e perché e in più trovi degli esempi. Forse capirai anche perché non riesci a dimagrire.

Che cosa significa dieta ipocalorica? Cosa vuol dire regime ipocalorico e in cosa consiste?

Quando mangi di meno rispetto a quello che ti serve sei in un regime ipocalorico: il numero di calorie che introduci è minore rispetto a quelle di cui il tuo corpo necessita per svolgere tutte le attività della giornata, dal respirare all’ora di allenamento in palestra, dal digerire la colazione al lavorare al computer.

La differenza tra le calorie di cui necessiti e quelle che assumi è il deficit calorico, che instauri mangiando di meno e/o muovendoti di più. Queste calorie “risparmiate” sono alla base di tutte le diete che fanno dimagrire: non è il non mangiare carboidrati la sera o mangiare solo verdure e proteine ogni giorno che fa perdere peso, ma è il deficit calorico. I modi per raggiungerlo sono tanti, ma l’importante è arrivarci! Altrimenti sopperire alla pizza del sabato sera con una triste insalata non serve esattamente a nulla.

Di solito tutte le diete che vietano intere categorie di alimenti non si basano su nessun reale principio scientifico riconosciuto. Tuttavia, limitare la scelta degli alimenti o la finestra temporale per mangiare ti porta, inconsapevolmente, a mangiare di meno.

Questo per dire che qualsiasi dieta miracolosa ti venga proposta SE comporta un deficit calorico funziona; poi sta a te scegliere se soffrire con diete drastiche e che ti privano di tutti gli alimenti che ti piacciono (fallendo così sul lungo periodo) o se usare il buon senso e instaurare un regime ipocalorico sostenibile.

A cosa serve una dieta ipocalorica? Quali sono i benefici e i vantaggi? Funziona?

Per chi non è normopeso raggiungere il proprio peso ideale vuol dire migliorare la funzionalità del proprio organismo: i valori ematici si avvicinano a quelli normali, il corpo è più “in equilibrio” e anche il punto di vista estetico migliorerà. Se gestita bene in base alle tue necessità, funziona!

È brutto da dire, ma un segnale del dimagrimento è sentire la fame: il corpo percepisce che non riceve energie sufficienti e segnala al cervello a livello ipotalamico che c’è una carenza di nutrienti (voluta e indispensabile però!) tramite gli ormoni oressigeni, come il neuropeptide Y (NPY) e le orexine, responsabili della sensazione della fame. Sei così ufficialmente entrato in una dieta dimagrante, ma non devi cedere al raggiungimento dei primi risultati, altrimenti riprenderai in fretta il peso perso!

La costanza sul lungo periodo è fondamentale per il funzionamento della dieta.

Effetti collaterali e rischi della dieta ipocalorica: può provocare danni?

La dieta potrebbe essere troppo restrittiva: molto spesso chi vuole perdere peso fa una dieta molto drastica e riduce di molto la quantità di cibo che mangia, convinto che grazie a questo otterrà un beneficio. In realtà, questo “metodo” funziona nel breve periodo, infatti il peso cala, ma i chili persi non corrispondono ad altrettanti chili di grasso, dato che la prima ad essere persa è l’acqua, anche fino a 2 kg.

Per questo “dimagrire” e “perdere peso” non sono sinonimo di “ho meno grasso”: il grasso lo elimini sul lungo periodo, cioè in settimane e mesi.

Inoltre, in un percorso di perdita di peso c’è il rischio di andare incontro ad un blocco metabolico: hai perso peso, continui a mantenere lo stesso deficit ma il peso non cala più. Situazione reversibile e risolvibile, ma come? La prima cosa da fare è non cedere mentalmente abbandonando la dieta “perchè non funziona”: è assolutamente normale che il percorso di dimagrimento non sia lineare. La seconda è capire come sbloccare il metabolismo.

Quante calorie ha una dieta ipocalorica? Come calcolarle?

rapporto dieta attività fisica

Prima di metterti a dieta devi assicurarti di mangiare abbastanza e di assumere sufficienti calorie, altrimenti non puoi iniziare a diminuirle, perché sono già troppo basse! Per scoprirlo:

  • gli uomini devono moltiplicare il peso x 28-32. Un uomo di 80 kg avrà così 2240-2560 kcal (2400 in media).
  • le donne devono moltiplicare il peso x 26-30. Una donna di 60 kg avrà così 1560-1800 kcal (1680 kcal in media).

Raggiunto questo punto imprescindibile, sarà il deficit energetico a decretare la perdita di peso: senza deficit a meno di casi specifici (cambio del rapporto tra sensibilità insulinica/insulino resistenza), sarà impossibile dimagrire.

Le diete ipocaloriche dovrebbero mediamente creare un deficit calorico del 15-20% rispetto al tuo fabbisogno. Se per mantenere uno stato stazionario assumevi 2500 kcal, dovrai ora assumere 2000-2125 kcal: in una settimana avrai creato un deficit di 2625-3500 kcal.

Con questo deficit ti puoi aspettare di perdere 350-500 g di grasso a settimana; se vuoi dimagrire più rapidamente devi mangiare di meno e/o muoverti di più. In ogni caso, è consigliato perdere a settimana circa lo 0.5-1% del tuo peso corporeo, quindi, se pesi 60 kg, 300-600 g/settimana.

Ritorna così importante capire quanto tempo ci vorrà per perdere i kg decisi. È fondamentale avere un’idea del tempo, altrimenti o ci bruciamo subito (perdendo peso rapidamente ma poi stallando), oppure rimaniamo delusi del tempo che occorre per raggiungere i risultati. Bisogna imparare a ribaltare la prospettiva del futuro. Non devi perdere peso ora, ma hai N settimane per farlo. Il tempo dà speranza d’aggiustare tutte le cose, la fretta ti logora nella frenesia d’ottenere subito il risultato.

In questo articolo sulla ricomposizione corporea trovi delle ottime strategie (con degli esempi pratici reali), per accelerare i tempi nella perdita di peso, ma che si adattano solo a chi le segue alla lettera.

Ora, ricordati che se sei intorno al 15% di FM (uomo) o 25% (donna), per perdere 500g di grasso a settimana ci vogliono mediamente 3500 kcal di deficit. Se non sei partito con un buon metabolismo e una condizione in cui mangiavi tanto, questo deficit è spesso eccessivo, sarà necessario un approccio ancora più graduale.

Esempio dieta di 800 calorie

Esempi dieta ipocalorica con quante calorie

  • Colazione: caffè/tè senza zucchero ma con eventuale dolcificante (0 kcal), 2 fette biscottate integrali (68 kcal) + 30 g marmellata senza zuccheri aggiunti (15 kcal)
  • Pranzo: 200 g patate (160 kcal) + 70 g prosciutto cotto (140 kcal) + 1 quadratino di cioccolato fondente (6g – 30 kcal)
  • Cena: 80 g insalata (15 kcal) + 100 g pomodori (19 kcal) + 200 g tonno (320 kcal) + 10 g grana (40 kcal)

Esempio dieta ipocalorica a 1200 calorie

  • Colazione: 2 uova (170 kcal) + 2 fette biscottate (68 kcal) + 200 g latte scremato (72 kcal) + 1 caffè (0 kcal)
  • Spuntino: 1 mela (200 g – 80 kcal)
  • Pranzo: 100 g pasta integrale (347 kcal) + 50 g lenticchie secche (170 kcal) + 200 g carote (78 kcal)
  • Cena: 200 g merluzzo (140 kcal) + 150 g patate (120 kcal)

A 1400 calorie

Come la precedente, ma con uno spuntino in più: una buona strategia per incrementare le calorie della giornata non è aumentare le quantità dei pasti ma aumentarne il numero.

  • Colazione: 2 uova (170 kcal) + 2 fette biscottate (68 kcal) + 200 g latte scremato (72 kcal) + 1 caffè (0 kcal)
  • Spuntino: 1 mela (200 g – 80 kcal)
  • Pranzo: 100 g pasta integrale (347 kcal) + 50 g lenticchie secche (170 kcal) + 200 g carote (78 kcal)
  • Spuntino: 1 banana (80 kcal) + 20 g mandorle (120 kcal)
  • Cena: 200 g merluzzo (140 kcal) + 150 g patate (120 kcal)

A 1600 calorie

  • Colazione: 2 fette di pane integrale tostate (130 kcal) + 50 g prosciutto cotto (107 kcal) + 1 uovo (85 kcal) + 200 g latte scremato (72 kcal)
  • Spuntino: 1 mela (200 g – 80 kcal)
  • Pranzo: 200 g salmone (360 kcal) + 50 g spinaci da cuocere (17 kcal) + 200 g carote (78 kcal)
  • Spuntino: 3 gallette (100 kcal) + 20 g burro di arachidi (120 kcal)
  • Cena: 80 g cous-cous (300 kcal) + 1 zucchina (150 g – 20 kcal) + 100 g petto di pollo (120 kcal) + 70 g cavolfiore (30 kcal)

A 1800 calorie

  • Colazione: 2 fette di pane integrale tostate (130 kcal) + 50 g prosciutto cotto (107 kcal) + 1 uovo (85 kcal) + 200 g latte scremato (72 kcal)
  • Spuntino: 1 mela (200 g – 80 kcal)
  • Pranzo: 200 g salmone (360 kcal) + 50 g spinaci da cuocere (17 kcal) + 200 g carote (78 kcal)
  • Spuntino: 3 gallette (100 kcal) + 20 g burro di arachidi (120 kcal)
  • Cena: 80 g cous-cous (300 kcal) + 1 zucchina (150 g – 20 kcal) + 100 g petto di pollo (120 kcal) + 70 g cavolfiore (30 kcal)
  • Spuntino: 20 g mandorle (120 kcal) + 100 g yogurt greco 0% (100 kcal)

Esempio di dieta ipocalorica bilanciata ed equilibrata: cosa mangiare?

Il problema delle diete è che hai fame e che vorresti mangiare qualcosa che “non puoi”. Devi quindi cercare, a parità di calorie, di sentirti più sazio… Come?

  • Proteine medio-alte.
  • Quantità di fibre (principalmente solubili) medio-alta.
  • Iniziare a mangiare partendo dalla verdura cruda e poi passare a quella cotta.
  • Fare un numero di pasti che ti è congeniale per avvertire meno la fame (da 2 a 6); mediamente più le calorie sono alte, più conviene suddividerle in tanti pasti. Al contrario se ne assumi poche, limita i pasti e concentra così le calorie.
  • Limita: dolci e cibi densamente energetici (come i formaggi grassi), carni rosse, condimenti e l’olio.

Colazione

Una buona colazione saziante può contenere: avena (un cereale integrale fibroso e proteico rispetto ad altri), uova, pane o fette biscottate integrali, marmellata a basso tenore di zuccheri, gallette, affettati, yogurt a basso tenore di zuccheri, toast integrale salutare con verdure crude e affettati magri.

Qui trovi un articolo più specifico sulla colazione per dimagrire.

Pranzo

Un pasto completo ed equilibrato a pranzo contiene verdure crude poco condite, un cereale integrale accompagnato da una fonte proteica come tonno, uova, carne magra, formaggio grana, ricotta o verdure cotte, legumi. Solitamente i sughi confezionati sono molto calorici e ricchi di grassi.

Cena

Anche a cena non può mancare una fonte di verdure, sempre ricche di fibre e micronutrienti, una zuppa di legumi con crostini, o un piatto unico con pesce/carne e patate, spinaci o altre verdure che ti piacciono di più.

Esempi di dieta ipocalorica e alimenti consentiti

meccanismo della fame specifica

Se per dimagrire basta un deficit calorico, il rapporto tra i macronutrienti aiuta a perdere peso correttamente seguendo i gusti e la fisiologia: consumerai così la massa grassa e non quella muscolare.

La qualità del cibo non è importante solo perché ti aiuta a stare in salute e a vivere meglio, ma anche perché mediamente gli alimenti più salutari hanno a parità di peso meno calorie (maggior senso di sazietà). È fondamentale tuttavia non cadere nel tranello psicologico per cui se fa bene lo posso mangiare (in quantità). La dieta fallisce anche perché esageri con una serie di cibi salutari dimenticandoti delle loro calorie. Una mela in più al giorno, se il deficit è moderato fa la differenza sulla perdita di peso.

Molte persone smettono di dimagrire, perché si concedono di più il cibo salutare, pensando che a livello calorico conti meno. Purtroppo, una caloria è una caloria, che venga dalla mela o dalle patatine fritte. Se ti fa abbassare il deficit energetico, dimagrisci di meno.

Prediligi cotture che richiedono più lavoro all’apparato digerente: è meglio la pasta al dente e la carne al sangue. Evita calorie liquide e alcol.

Alla fine, conviene mangiare il giusto quantitativo, con la giusta qualità!

Dieta ipocalorica a base di proteine (iperproteica)

Ha senso fare una dieta ipocalorica iperproteica?

Soprattutto se ti alleni, la risposta è sì. Le proteine vanno mantenute alte per preservare la massa magra ed il metabolismo, oltre che per aumentare il senso di sazietà.

In un regime ipocalorico le proteine dovrebbero andare da 1,6 -2,7g/kg (sul peso ideale). Se pesi 90 kg e vuoi dimagrire fino ad 80 kg sono 80 × 1,6-2,7 = 128 – 216 g.

Valori più bassi sono indicati se:

  • sei molto in sovrappeso,
  • il deficit calorico è moderato,
  • sei sedentari,
  • sei una donna.

Mentre valori più alti sono indicati se:

  • ti alleni,
  • sei magro,
  • il taglio calorico è importante.

Prendi ogni settimana le circonferenze, come indicato su questo articolo sulla plicomentria, se perdi di più sugli arti, rispetto che alla vita ed ai fianchi, stai bruciando troppa massa magra e conviene alzare le proteine.

Dieta a basso contenuto di grassi

Come anticipato, in un regime ipocalorico tenere alte le proteine è consigliato, non rimanere quindi che tagliare i carboidrati e i grassi. Diminuire la quota lipidica (low-fat) è meglio per chi ha una buona sensibilità insulinica e che è, quindi, in grado di gestire un’alta quota di carboidrati, come ad esempio soggetti che devono perdere gli ultimi chili o gli sportivi con una buona massa muscolare.

In ogni caso, non scendere mai sotto i 30-40 g negli uomini e i 45-60 g nelle donne, per evitare ipovitaminosi e cali ormonali.

Dieta a basso contenuto di carboidrati

Al contrario, per soggetti che non hanno una buona sensibilità insulinica, meglio optare per il taglio glucidico.

Su soggetti in sovrappeso conviene tagliare mediamente di più i carboidrati, mettendo 2 ricariche glucidiche a settimana (una a metà, una durante il weekend), perché facilmente l’eccesso di peso porta ad una leggera insulino-resistenza.

Come regola generale suddividi i giorni in cui mangiare più carboidrati e pochi grassi (quando ti alleni) e altri in cui invece tagliare i glucidi e preferire i grassi (nei giorni off). Ottima strategia per insegnare al corpo a gestire gli zuccheri è quella di concentrarli 50-70% tra le 3 ore prima dell’allenamento e le 2 ore dopo.

Dieta ipocalorica vegetariana

La dieta vegetariana è difficile che sia ipercalorica: molti alimenti densamente energetici vengono esclusi, però è anche vero che altri rimangono inclusi, come i cereali, la frutta secca, gli oli. A questi ultimi è da porre maggior attenzione nel consumo, per evitare di incorrere in un eccesso calorico e mandare all’aria la dieta ipocalorica.

Per sopperire alla carenza di proteine animali è sufficiente incrementare la quota proteica e sfruttare la combinazione cereali + legumi che assicurano un profilo amminoacidico completo.

Vegana

Con i suoi pro e i suoi contro la dieta vegana può essere utili in un contesto ipocalorico. Tra i pro ci sono il basso contenuto di grassi, l’assenza di colesterolo, la grande quantità di fibre, tra i contro la stessa abbondanza di fibre (in quanto in un singolo pasto potrebbero essere difficili da gestire), l’assenza di proteine animali (da risolvere come nel caso della dieta vegetariana), la carenza di alcuni micronutrienti.

In un contesto ipocalorico, quindi, la dieta vegana potrebbe essere facile da seguire grazie al senso di sazietà, ma da valutare con l’integrazione delle sostanze assenti (ma fondamentali).

Per più informazioni, leggi questo articolo.

Senza glutine

Servono gli alimenti senza glutine per dimagrire? A chi è celiaco sì, per tutti gli altri no! Il “senza glutine” non è sinonimo di “meno calorico”, “più sano” o “lo mangio e mi brucia i grassi quindi ne posso mangiare 1 kg”.

Gli alimenti “senza qualcosa” (gluten-free, sugar-free, senza lattosio, ecc.) hanno sicuramente il loro fascino di alimento rivoluzionario che ti salva la vita (in ogni senso) ma l’utilità nutrizionale è da valutare: in questo caso, se non sei intollerante al glutine, puoi consumare benissimo tutti i prodotti che lo contengono, il potere calorico di un prodotto con il glutine è sostanzialmente lo stesso del corrispondente senza glutine. Inoltre, quello con il glutine ha più proteine (il glutine è una proteina) e meno grassi, i quali in piccola quantità vengono aggiunti ai prodotti gluten-free.

A basso indice glicemico (ipoglicemica)

Sebbene alcune diete sostengano un meccanismo di causa-effetto tra alimenti a basso IG e dimagrimento, la scienza non è da questa parte: in generale l’indice glicemico e il carico glicemico non sono elementi sufficienti per predire il successo o il fallimento di un percorso di perdita di peso.

Perché non dimagrisco in ipocalorica?

Dieta ipocalorico, calorie e perchè non funziona

Forse non sei davvero in ipocalorica, perché stai sottovalutando l’introito calorico che introduci ogni giorno o perché ti muovi di meno e quindi il dispendio energetico diminuisce: cala il consumo dell’attività fisica non indotta dall’allenamento (NEAT). È importante così prima di seguire un regime ipocalorico calcolare con un contapassi (vedi le varie app conta calorie) quanto cammini e mantenere quel numero anche durante il regime alimentare. Rimanere attivi quando sei a dieta è essenziale per continuare a perdere peso.

Inoltre, la perdita di peso non è un percorso lineare in cui continui a perdere sempre gli stessi grammi ogni settimana.

Quando i risultati rallentano, piuttosto che continuare a soffrire e rinunciare improvvisamente alla dieta, conviene fare 2 settimane di break diet, in cui torni al tuo TDEE (il fabbisogno energetico giornaliero) e “interrompi” il regime ipocalorico.

È importante in questa fase tornare a mangiare un buon quantitativo di carboidrati senza esagerare con le calorie. Devi smettere di mangiare poco, non iniziare a mangiare troppo. In media ogni 4-6 settimane conviene farne seguire 2 di break diet. Anche quando per 2 settimane non perdi più di 400g (in totale 200+200), conviene iniziare subito una break diet.

Più sei magro e più conviene interromperla spesso, al contrario se devi perdere molto peso puoi continuare finché i risultati o la motivazione non stallano.

Dieta ipocalorica e allenamento

Cosa conta per perdere peso

L’allenamento consente di aumentare la spesa energetica della giornata: bruci più calorie rispetto a chi non si allena, se fai attività di resistenza anche più rispetto a chi si allena con i pesi. Tuttavia, il consumo energetico dovuto all’esercizio fisico ha solo una piccola parte nel consumo totale della giornata.

In un contesto ipocalorico l’allenamento è comunque molto utile: da una parte, con un’incidenza più o meno marcata, aumenta la spesa calorica, mentre dall’altra, quando ti alleni con i pesi, aiuta a preservare la massa magra.

Attenzione, però, a non fare l’errore di essere ligi con l’attività fisica e poi esserlo meno con l’alimentazione: anche se ti alleni l’alimentazione svolge sempre un ruolo principale sulla perdita di peso.

Dieta ipocalorica dissociata

La dieta dissociata fa dimagrire quando è ipocalorica. Se non la conosci, questa dieta prevede che i macronutrienti (carboidrati, proteine e grassi) non vengano assunti contemporaneamente ma in pasti separati sulla base che, date le diverse caratteristiche chimiche, questi sono soggetti a differenti processi digestivi, che il corpo non sarebbe capace di gestire al meglio allo stesso tempo.

In realtà, non ci sono dimostrazioni che il sistema gastro-intestinale non sia in grado di assimilare differenti nutrienti nello stesso momento; senza poi considerare il fatto che nella maggior parte dei casi uno stesso alimento è costituito da più macronutrienti (es. pasta, legumi: carboidrati + proteine, frutta secca: grassi + proteine).

Dieta ipocalorica e longevità

La ricerca dell’elisir di lunga vita ha da sempre affascinato l’uomo, sarà la volta buona che tramite l’alimentazione si può vivere di più? Si potrebbe dare ancora più senso alla frase “mangiare per vivere”. È così?

Il tuo stato di salute è sempre il risultato della genetica e della tua interazione con l’ambiente, che include l’alimentazione che puoi controllare. Una dieta ipercalorica e un eccessivo peso corporeo inducono un peggioramento delle condizioni di salute e un invecchiamento, anche in termini di patologie che insorgono, precoce. In questi termini, una dieta ipocalorica per raggiungere il peso ideale e mantenerlo può essere associata al concetto di longevità. Pensa anche a chi è sovrappeso e che quando dimagrisce ha un miglioramento dei valori ematici.

Conclusioni sulla dieta ipocalorica

perchè le diete falliscono

In conclusione, qualche stratagemma psicologico per aderire meglio al piano alimentare. Gli psicologi del comportamento hanno visto che il successo o il fallimento dipende da un insieme di fattori psicologici e seguirli aumenta di molto la probabilità di raggiungere l’obbiettivo.

  1. Gratificazione: tutto quello che fai è spinto dalla gratificazione. Se non sei gratificato non andrai avanti nel tempo e per questo bisogna: trovare motivi che sostituiscono la gratificazione data dal cibo, scriverli e ricordarceli tutti i giorni, trovare piccole gratificazioni giornaliere quando manteniamo il regime. Ogni giorno deve essere una conquista, dobbiamo avere soddisfazione di quello che facciamo. La dieta deve essere vista come qualcosa di positivo che ti permetterà di migliorare sia esteticamente, sia con la salute, sia come persone. Se la vivi come una rinuncia e basta fallisci.
  2. Gruppo 
    Condividere il percorso con un gruppo aumenta del 300% le probabilità di successo: trova altre persone che stanno facendo il tuo percorso o che l’hanno completato con successo. Prenditi un impegno davanti agli altri.
  3. Abitudine
    Solo se stare a dieta diventerà un’abitudine, riuscirai nel tuo percorso. Mangiare in un certo modo dev’essere visto come la normalità. Cerca di ripetere alcune azioni che ti portano a mangiare bene tutti i giorni. Associare quello che fai al mangiare bene, ti porterà in automatico a seguire la dieta. Se non diventa un’abitudine lo stile alimentare è destinato a fallire.
  4. Forza di volontà
    Il regime alimentare richiede molto autocontrollo. La forza di volontà è un’abilità che si può allenare, come i muscoli si può stancare e sovrallenare. Trova il giusto compromesso, partire rinunciando a poche cose, ed a poco a poco, man mano che divieni più forte, poniti nuovi vincoli. Ricordati di gratificarti ogni volta che ci riesci. La forza di volontà ti premia quando la gratifichi.
    Evita di comprare alimenti che ti tentino, perché la loro presenza nel tempo logorerà la tua volontà.
  5. Crederci
    Perché la dieta del gruppo sanguigno, detox, alcalina, ecc funzionano pur essendo smentite dalla scienza? Perché le persone ci credono e si autoconvincono che stanno meglio (potere placebo + dieta ipocalorica).  Se non credi in quello che fai, la dieta fallirà.

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Lattuga: calorie, proprietà e valori nutrizionali

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Lattuga raccolta

Innanzitutto, lattuga ed insalata sono sinonimi? No. “Insalata” è il nome della pietanza che spesso, ma non sempre, si prepara a base di lattuga; “Lattuga” è proprio il nome dell’ortaggio a foglia che, nel caso specifico, appartiene alla pianta Lactuca Sativa. “Insalata di rucola e pomodorini” è un chiaro esempio di insalata senza lattuga.

Le origini e la storia della lattuga

Lactuca Sativa è una pianta della famiglia delle Asteraceae, o Composite, a cui appartengono anche radicchio, carciofo, camomilla e assenzio.

Le prime coltivazioni della pianta risalgono all’antico Egitto ma non è chiaro se venisse utilizzata anche per le foglie, la coltivazione era finalizzata soprattutto a riti religiosi e all’estrazione di olio dai semi. Testimonianze del suo consumo come ortaggio a foglia ne abbiamo nei secoli a seguire per Greci e, successivamente, Romani, che ne furono anche grandi consumatori, spesso in versione cotta e abbondantemente condita. Il nome “lattuga” si deve proprio ai Romani che lo coniarono da “latte”, in riferimento alla sostanza bianca rilasciata al momento del taglio del gambo, il lattice, oggi ampiamente utilizzato come materiale.

L’agricoltura ha poi, nei secoli, generato numerose varietà e sottovarietà, sempre alla ricerca di foglie più grandi, nuovi colori, nuove forme e maggior croccantezza delle foglie. Negli ultimi secoli la battaglia si è, invece, spostata prevalentemente sulla difesa della pianta dagli agenti infestanti, dai quali è particolarmente ambita.

L’esistenza di numerose varietà a differente stagionalità ed il fatto che ben si comporti in ambiente protetto fanno della lattuga un ortaggio presente tutto l’anno, nonostante soffra le alte temperature.

Dal punto di vista dei nutrienti energetici, è il quadro tipico degli ortaggi a foglia.

Quante calorie contiene la lattuga?

Varietà di lattuga

Lattuga 100g
Energia (Kcal) 14
Carboidrati (g) 3
Zuccheri (g) 2
Proteine (g) 0,9
Grassi (g) 0,1
Fibre (g) 1,2
Ferro (mg) 0,4
Calcio (mg) 18
Sodio (mg) 9
Potassio (mg) 141
Fosforo (mg) 20
Magnesio (mg) 7
Vitamina A (IU) 25
Vitamina D (IU) 0
Vitamina E, α – tocoferolo (mg) 0,2
Vitamina K (µg) 24,1
Vitamina B1 (mg) 0,04
Vitamina B2 (mg) 0,03
Vitamina B3 (mg) 0,1
Vitamina B6 (mg) 0,04
Folati (µg) 29
Vitamina C (mg) 2,8
Vitamina B12 (µg) 0

 Fonte dati: USDA (lettuce, raw)

Il bassissimo apporto calorico è dovuto al fatto che il 95% dell’ortaggio è acqua. Questo è anche il motivo per il quale possiamo consumare lattuga solo fresca; l’ingente quantitativo idrico non consente surgelazione, disidratazione o inscatolamento senza danni nutrizionali e sensoriali.

Proprietà nutrizionali della lattuga

Trascurabile l’apporto energetico e di macronutrienti, la lattuga non rientra, in realtà, nemmeno tra gli ortaggi più ricchi in micronutrienti. Tuttavia non è certo priva di proprietà.

È, innanzitutto, un eccellente fonte di vitamina K ed un’ottima fonte di vitamina A, o meglio pro – vitamina A (beta carotene, luteina e zeaxantina), specialmente nelle varietà dalle foglie più scure come la Romana. A tal proposito è bene ricordare che, essendo una vitamina liposolubile, per l’assorbimento è necessario sia presente una fonte di lipidi nel pasto. Fatta eccezione per la varietà Iceberg, è anche una discreta fonte di folati e ferro, oltre che di molibdeno, potassio e manganese.

Altro punto a favore della lattuga è sicuramente il fatto che venga consumata a crudo, grazie al quale possiamo beneficiare della Vitamina C e degli antiossidanti presenti, tra cui acidi fenolici, flavonoidi ed antocianine. Questi ultimi sono, per la verità, rappresentati in maniera significativa solo nelle varietà tendenti al rosso.

Riassumendo:

  • apporta vitamine e minerali, su tutti ferro e potassio, fondamentali per diversi motivi
  • apporta acqua e senso di sazietà (entrambi fondamentali e sottovalutati)
  • praticamente acalorica e priva di sodio

Questi motivi la rendono un ortaggio utile a tutti ed una validissima alleata nella lotta ad obesità ed ipertensione. Tuttavia, se per consumarla ricorriamo ad un uso smodato di olio o aceto balsamico, il vantaggio lo perdiamo. Come sempre è la dieta ad essere buona o cattiva, non il singolo alimento.

Tipi e varietà di lattuga

Lattuga calorie valori nutrizionali

Le varietà esistenti sono centinaia e le principali variabili forma e colore. Per semplicità possiamo dividerle in due grandi categorie

  • lattughe da cespo
  • lattughe da taglio

Chiari esempi di lattughe da cespo sono la Iceberg e la Romana. La varietà Iceberg, o Brasiliana, è quella più idratata e meno densa dal punto di vista nutrizionale, sempre se non consideriamo (forse sbagliando) l’acqua stessa un nutriente. La varietà romana è probabilmente la più antica e deve il suo nome all’antica usanza di coltivare la pianta nei giardini vaticani. A livello di nutrienti è la più ricca in carotenoidi e clorofilla.

Le lattughe da taglio sono le più coltivate e comprendono, tra le altre, Lattughino, Gentilina, Liscia e Catalogna. Sotto il profilo nutrizionale la variabile di maggiore interesse è il colore delle foglie, in quanto determina la capacità antiossidante delle stesse: i derivati dell’acido caffeico sono maggiormente rappresentati in quelle verdi mentre i flavonoidi in quelle rosso/viola. Nel complesso, grazie anche alla presenza esclusiva di antocianine in queste ultime, la capacità antiossidante è superiore nelle varietà rosso/viola.

Lattuga, sonno e altro

Oltre all’utilizzo alimentare la lattuga ha storicamente ricoperto anche un significato simbolico.

Gli antichi egizi consideravano il lattice (secreto in seguito al taglio del gambo) un afrodisiaco e le foglie una sorta di viagra da dedicare al dio della fertilità, il Dio Min. Lo stesso aspetto venne ripreso da Greci e Romani seppur con risvolti differenti: per i Greci, soprattutto, era invece in grado di attenuare la libido e diminuire la potenza sessuale, tanto da essere servita ai funerali.

Più interessante ancora e con una, seppur modesta, base scientifica, è l’effetto rilassante e narcotico. Era, infatti, costume in epoca romana servire una portata di lattuga al termine delle feste per conciliare il riposo notturno. Il presupposto scientifico è la presenza di due lattoni sesquiterpenici contenuti nel lattice chiamati “lactucin” e “lactucopicrin”. L’effettiva efficacia sull’uomo è ancora tutta da dimostrare, per ora sappiamo solo che un estratto di lattice proveniente da lattuga romana, la “discendente” di quella presente in epoca romana e la varietà più ricca di questi composti, ha dato buoni risultati sui topi1,2.

Da segnalare che tali composti sono maggiormente rappresentati nelle varietà selvatiche ed è quindi ragionevole che l’effetto venisse riscontrato in epoche passate dove la pianta, seppur domesticata, era più vicina filogeneticamente alle varietà selvatiche di provenienza.

Conclusioni sulla Lattuga

Sebbene non sia sinonimo di “insalata”, quando parliamo di lattuga ci riferiamo, in realtà, a molte varietà differenti in forma, colore e grandezza delle foglie. Il consumo di lattuga in tutte le sue forme è sicuramente da incoraggiare per tutti in quanto:

  • è virtualmente acalorica
  • è costituita per più del 90% da acqua (la iceberg il 95)
  • la consumiamo cruda e non rischiamo, quindi, perdite nutrizionali (da lavare con cura se in gravidanza!)

Tali caratteristiche la rendono un eccellente alleato nella lotta ad obesità ed ipertensione e, più in generale, utilissima per tutti coloro fatichino a bere quanto dovrebbero, anziani e sportivi in primis. Questi vantaggi vengono ovviamente persi se la cospargiamo di olio/sale/aceto balsamico. Soluzioni ottimali per il condimento sono spezie, limone e aceto non balsamico.

Bibliografia

1. Kim HW et al. Sleep-inducing effect of lettuce (Lactuca sativa) varieties on pentobarbital-induced sleep. Food Sci Biotechnol. 2017

2. Kim HW et al. Effectiveness of the Sleep Enhancement by Green Romaine Lettuce (Lactuca sativa) in a Rodent Model. Biol Pharm Bull. 2019

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Il piccolo trocantere

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Com'è fatto il piccolo trocantere

Il piccolo trocantere è una prominenza ossea che instaura rapporti con diverse strutture muscolotendinee e capsulolegamentose ed è situata, al contrario del grande trocantere, nella parte mediale del femore. Questa è coinvolta, direttamente o indirettamente, nell’insorgenza di svariate problematiche. In questo articolo verranno analizzate le principali e il loro possibile legame con l’allenamento in palestra.

Anatomia piccolo trocantere

Piccolo e grande trocantere

Il piccolo trocantere si trova a livello dell’estremità prossimale del femore, inferiormente e internamente rispetto al collo anatomico.
Offre inserzione al muscolo ileopsoas che origina con 2 capi, l’iliaco dalla fossa iliaca e lo psoas dalla faccia laterale della dodicesima vertebra dorsale fino alla quarta lombare e dischi interposti, e la cui azione principale è la flessione dell’anca (Pirola, 2010).

Bacino con piccolo trocantere

Patologie piccolo trocantere

Le principali patologie che possono insorgere a questo livello sono:
• impingement ischiofemorale
• anca a scatto
• fratture pertrocanteriche del femore e isolate del piccolo trocantere

Impingement ischiofemorale

L’ impingement ischiofemorale o “ischiofemoral impingement” (IFI), è una patologia, idiopatica o secondaria, caratterizzata dalla compressione delle strutture molli comprese tra la porzione laterale dell’ischio e il piccolo trocantere tipicamente durante i movimenti di estensione, extrarotazione e adduzione d’anca.
Questi tre movimenti combinati tra loro portano a una tipica posizione del balletto denominata “attitude derrière”, perciò la malattia viene anche detta “anca della ballerina” (professional dancer’s hip).
Le strutture coinvolte nello schiacciamento possono essere il muscolo quadrato del femore, che origina dal bordo esterno dell’ischio e si inserisce sulla parte alta della linea quadrata a livello dell’estremità prossimale del femore, la parte inserzionale dell’ileopsoas o l’origine degli ischiocrurali ovvero la tuberosità ischiatica.

Condizioni congenite che potrebbero portare all’IFI sono coxa valga, displasia congenita dell’anca, morbo di Perthes, mentre tra le condizioni acquisite si annoverano artriti, esiti di frattura, osteotomia prossimale del femore, artroplastica totale d’anca.

I ballerini e le ballerine sono soggetti a alto rischio date le importanti e ripetitive sollecitazioni a cui sottopongono l’articolazione coxofemorale e globalmente l’arto inferiore. Oltre all’impingement ischiofemorale, questi individui possono andare incontro a lesioni muscolari e del cercine, fratture, sovraccarico e debolezza dei muscoli del core e diversi altri problemi.

Il dolore è il sintomo principale: viene riferito in sede glutea, internamente a livello della coscia o a livello dell’origine degli ischiocrurali ed è esacerbato dalla combinazione di estensione, extrarotazione e adduzione. Sono proprio questi 3 movimenti che l’esaminatore andrà a testare alla valutazione cercando di riprodurre il dolore. Altri test valutativi sono la flessione e intrarotazione passiva dell’anca per testare la dolorabilità del quadrato del femore, il “Long stride walking test” che consiste nel far compiere passi ampi al paziente vedendo se si presenta dolore, e la ricerca di una eventuale differenza di lunghezza degli arti inferiori per un atteggiamento compensatorio in abduzione che ha lo scopo di aumentare la distanza tra piccolo trocantere e ischio.

I soggetti potrebbero anche riferire sensazioni di snap o scavallamento, dolore irradiato posteriormente nel caso in cui vi fosse il coinvolgimento del nervo sciatico compresso tra la faccia anteriore del grande gluteo e la faccia posteriore del quadrato del femore.
Sono essenziali per fare diagnosi la radiografia e la risonanza magnetica. La prima è utile principalmente per lo studio dell’osso e le sue caratteristiche, la seconda, fondamentale, serve per indagare lo spazio ischiofemorale (IFS) e lo spazio del quadrato del femore (QFS) e una loro eventuale riduzione, oltre che per evidenziare una potenziale lesione o infiltrazione di grasso nei muscoli, in particolare nel quadrato del femore.

Il trattamento è specifico in base alla causa, nella maggior parte dei soggetti giovani e attivi è indicato quello conservativo che include fisiochinesiterapia, stretching e rinforzo del quadrato del femore e degli extrarotatori dell’anca, FANS e, se necessario, infiltrazioni di corticosteroidi.
Per quanto riguarda i soggetti più anziani e sedentari potrebbe essere indicata la soluzione chirurgica con resezione del piccolo trocantere, revisione in caso di protesi, riparazioni se lesioni tendinee, osteotomie correttive. (Adam D Singer 1, 2015)(Khanduja, 2018) (Hans Gollwitzer1, 2017) (Davenport, 2019).

Relazione tra impingement ischiofemorale e allenamento in palestra

Muscoli grande trocantere

In letteratura non ci sono attualmente sufficienti evidenze che leghino l’impingement ischiofemorale a l’allenamento in palestra. Una ipotesi potrebbe essere che, nel lungo periodo, esercizi che prevedono una combinazione di estensione, adduzione e extrarotazione dell’anca, come Estensioni dell’anca in piedi con cavigliera, Estensioni dell’anca in quadrupedia e tutte le varianti, possano, in soggetti predisposti, far sorgere la problematica. (Andrea Roncari, 2018)

Anca a scatto

L’anca a scatto (internal snapping hip o internal coxa saltans) è una condizione che si può presentare quando il tendine dell’ileopsoas scavalla il piccolo trocantere, la testa del femore, l’eminenza ileopettinea o parte del ventre muscolare dell’iliaco producendo un vero e proprio suono, associato o meno a dolore, che viene descritto come “clunk”, “click” o “snap”.
C’è da dire, tuttavia, che le cause della problematica possono essere molte altre, legate sia a fattori intrarticolari che extrarticolari. Vi è poi una rara causa congenita legata alla biforcazione del tendine dell’ileopsoas (Gabriele Potalivo 1, 2017 Mar 31).

I soggetti più a rischio sono gli atleti di discipline come la danza, calcio, football, arti marziali, in cui sono richieste flessioni di anca ripetute e ad alti gradi di movimento, combinate con intra o extrarotazioni. La patologia può comunque presentarsi in persone normali e in attività della vita quotidiana.
La diagnosi è sia clinica che strumentale. Se presente, il dolore ha delle particolari caratteristiche: profondo, nella regione anteriore dell’anca o coscia, compare in concomitanza di un suono con le caratteristiche sopradescritte e spesso può essere riprodotto volontariamente dal paziente. Lo scavallamento avviene generalmente in quelle attività in cui è richiesta una contrazione dell’ileopsoas quando l’anca si trova in estensione.
Alla mobilizzazione passiva il paziente sentirà un “clunk” profondo anteriormente all’ anca o alla coscia, associato a dolore, nel passaggio da flessione d’anca, extrarotazione e abduzione a estensione, intrarotazione e adduzione.

Il dolore non è tanto dato dal tendine quanto dalla borsa dell’ileopsoas che si interpone tra la parte distale del tendine del muscolo e la parte anteriore della capsula articolare dell’anca (Ombregt, 2013). Se sottoposta a ripetitive sollecitazioni e frizioni questa può infiammarsi e diventare dolente.
Esame fondamentale per la diagnosi è l’ecografia dinamica che serve per valutare il comportamento del tendine durante il movimento e l’eventuale presenza di borsite. (Małgorzata Piechota 1, 2016)

Vanno indagati anche eventuali deficit di forza dei muscoli del core e dell’anca (vedi i relativi test dell’anca), in particolare dei flessori, o un eventuale accorciamento di questi ultimi. Test utili possono essere: il test di Thomas per valutare la lunghezza dei flessori o il test di forza per i flessori eseguito in posizione seduta sul bordo del lettino (Roncari, 2014).

L’ intervento conservativo prevede fisiochinesiterapia diretta alla correzione di deficit muscolari a livello di anca e del core, esercizi di stretching per l’ileopsoas in caso di accorciamento, il tutto associato a antinfiammatori (FANS).
Se l’intervento fisiochinesiterapico non fosse sufficiente potrebbero essere d’aiuto infiltrazioni di corticosteroidi o lidocaina a livello della borsa dell’ileopsoas, o chirurgia per l’allungamento tendineo (Erik P. Meira PT, 2018).

Relazione tra anca a scatto e allenamento in palestra

Anche qui la letteratura non offre sufficienti evidenze di una relazione tra anca a scatto e allenamento in palestra. Si potrebbe ipotizzare, tenendo conto del meccanismo con cui avviene lo scavallamento, associato o meno a dolore, quindi nelle attivazioni dell’ileopsoas da posizioni di estensione d’anca, che esercizi come Leg Raise, Reverse crunch, flessioni d’anca da supino e varianti (Andrea Roncari, 2018) potrebbero produrre il patognomonico “clunk” e a lungo andare causare la borsite.

Fratture pertrocanteriche del femore e fratture isolate del piccolo trocantere

Frattura piccolo trocantere

Per frattura si intende l’interruzione della continuità di un segmento scheletrico provocata da una sollecitazione meccanica capace di superare i limiti di resistenza ed elasticità specifici dell’osso. Le fratture pertrocanteriche appartengono alle fratture di femore prossimale, in particolare quelle laterali o extrarticolari, la cui rima di frattura prende il grande trocantetre e si irradia fino al piccolo trocantere.

Sono fratture tipiche dell’anziano, che avvengono spesso per traumi di modesta entità, e il fattore predisponente è la patologia osteoporotica, la quale porta a indebolimento la struttura ossea.
La scomposizione di queste fratture è caratteristica: i muscoli pelvitrocanterici extraruotano il frammento distale mentre ileopsoas e gli adduttori lo trazionano in alto. L’ arto risulterà quindi globalmente accorciato e ruotato esternamente.

La diagnosi si fa con la radiografia e il trattamento è chirurgico con placche e viti o chiodi endomidollari. L’obiettivo sarà riportare il paziente più velocemente possibile allo stato prelesionale attraverso una precoce mobilizzazione e messa in piedi, riduzione della mortalità e delle complicanze e minore ospedalizzazione (P.Christopher Metzger, 2015) (Federico Grassi, 2017) (Carlo Morlacchi, 2018).

Le fratture isolate del piccolo trocantere, d’altro canto, sono rare perché questo è protetto sia anteriormente che posteriormente da grosse masse muscolari, superiormente dalla testa e collo del femore, lateralmente dal femore stesso e internamente dalle branche ileopubica e ischiopubica. Il meccanismo del danno è, in linea di massima, nei giovani atleti, una avulsione del piccolo trocantere per trazione da parte dell’ileopsoas. Questo accade per uno squilibrio tra forza muscolare e resistenza delle piastre di accrescimento tipica dei soggetti in via di sviluppo.

La diagnosi è radiografica e il trattamento normalmente indicato è il riposo. Vi sono poi alcuni studi che suggeriscono che questo tipo di fratture, nell’adulto, potrebbero essere patognomoniche per patologie tumorali sottostanti(S Giacomini 1, 2002) (Christian Herren, 2015) (Thomas Ruffing 1, 2019).

Relazione tra fratture e allenamento in palestra

L’elemento che lega le fratture e l’allenamento in palestra è la prevenzione. Le sollecitazioni meccaniche prevengono la perdita di massa ossea e il deterioramento architetturale dell’osso (Eui Geum Oh 1, 2012). Questo significa che un adeguato programma di allenamento, in particolare in donne in età postmenopausale e, in generale, in tutti i soggetti in età senile, possa favorire il mantenimento di una buona qualità dell’osso. Ciò favorirebbe il mantenimento della sua resistenza riducendo così il rischio di frattura.

Nota biografica

Valerio Cerruti
Studente di fisioterapia al 3 anno presso l’Università degli Studi dell’Aquila. Appassionato di anatomia, chinesiologia, ortopedia e traumatologia. Malato di palestra.
Mail: valerio.xd.xn@gmail.com

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Carlo Morlacchi, A. M. (2018). Clinica Ortopedica. Piccin.
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Il muscolo sottoscapolare

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Anatomia sottoscapolare

Anatomia e funzione del sottoscapolare

Il muscolo sottoscapolare origina dalla fossa sottoscapolare (faccia toracica della scapola) e si dirige in alto lateralmente passando al di sotto del processo coracoideo per inserirsi sulla piccola tuberosità omerale.
La faccia posteriore del muscolo è appoggiata alla fossa sottoscapolare, mentre la faccia anteriore è in rapporto con il muscolo dentato anteriore.

Anatomia e funzioni del muscolo sottoscapolare
Origine Fossa sottoscapolare
Inserzione Tubercolo minore dell’omero
Azione Stabilizzatore della testa dell’omero, intrarotatore ed adduttore dell’omero

Sottoscapolare visione frontale dorsale

Innervato dai nervi sottoscapolari superiore ed inferiore (radici C5-C8) il muscolo sottoscapolare ha un’azione di intra-rotazione e adduzione omerale, esplica le sue funzioni all’interno del complesso della cuffia dei rotatori (insieme a sovraspinato, sottospinato e piccolo rotondo), ottenendo quindi un ruolo fondamentale nella stabilizzazione dell’articolazione gleno-omerale.

Il sottoscapolare è un adduttore ed un intra-rotatore di spalla ma non è l’unico, abbiamo infatti muscoli molto più grossi che effettuano queste operazioni, come il gran dorsale e il gran pettorale. La vicinanza all’articolazione gleno-omerale però gli garantisce un vantaggio maggiore per il controllo della stessa.

Il sottoscapolare fa parte della cuffia dei rotatori, struttura che permette una centratura dinamica della testa omerale nella cavità glenoidea della scapola, attraverso la quale si connette al tronco. Questo meccanismo di centratura per funzionare deve avere un perfetto equilibrio tra intra-rotatori ed extra-rotatori.

Il sottoscapolare è l’unico muscolo intra-rotatore della cuffia e la sua azione è opposta al sottospinato (collocato sull’altro lato della faccia scapolare), il vettore somma delle due forze di trazione generate sulla testa omerale risulta essere diretto verso il basso.
Quest’azione impedisce, durante la contrazione deltoidea, all’omero di scivolare superiormente e schiacciare i tessuti molli interposti tre esso e la volta acromiale.
Ne risulta quindi che una disfunzione del muscolo sottoscapolare porti ad inevitabili problematiche di spalla.

Sottoscapolare in palestra

Generalmente in palestra nell’atto di rinforzare la cuffia dei rotatori è frequente osservare extra-rotazioni con cavi o manubri, molto meno spesso invece, si vede rinforzare questo muscolo poco conosciuto. È necessario allenarlo? Quando?

Prima di tutto è necessario valutare lo stato di forza muscolare attraverso due semplici Test:

  1. Lift- off test: Il soggetto pone la mano dietro la schiena con il palmo rivolto verso l’esterno mentre l’operatore pone una resistenza sul palmo, nel caso in cui il soggetto non riesca a imprimere forza, il test risulta essere positivo evidenziando un deficit nel muscolo sottoscapolare, la gravità della condizione è maggiore se il paziente non riesce a mantenere la mano staccata dalla schiena senza alcuna resistenza.
    Questo risulta essere il miglior test per riuscire ad isolare il sottoscapolare rispetto agli altri rotatori della spalla quali grande pettorale e grande dorsale
  2. Napoleon Test: il soggetto deve spingere con il palmo della mano al livello dell’ombelico facendo attenzione a mantenere il polso e il gomito sullo stesso piano.
    Un deficit del sottoscapolare porterà il paziente a flettere il polso e portare il gomito indietro durante questo test.

Gli esercizi di rinforzo per la cuffia non andrebbero proposti a prescindere a chi abbia dolore alla spalla.

Se riscontriamo una rigidità significativa nella spalla dolorante, soprattutto in extra o intra-rotazione, in questi casi è consigliabile riportare la mobilità della capsula alla normalità, dopo di che può essere utile affiancare esercizi di rinforzo.

  1. Nel caso in cui avessimo una rigidità in flessione associata a quella in rotazione sarà opportuno concentrarsi sullo stretching della capsula e dei muscoli peri-capsulari
  2. Nel caso in cui la rigidità in flessione sia accompagnata da una normale mobilità in rotazione o iper-mobilità, può avere senso rinforzare la cuffia e ricercare la problematica di flessione altrove (es. rigidità gran dorsale, piccolo pettorale)

Come effettuiamo i test per valutare la lunghezza dei muscoli Intra ed Extra-rotatori?

Ricordiamo che il test in extra-rotazione serve per valutare la lunghezza degli intra-rotatori.
Il test viene eseguito con soggetto supino, le anche devono risultare flesse per mantenere ben adesa la regione lombare al lettino, braccio abdotto a 90° e gomito flesso a 90° con avambraccio perpendicolare al lettino. L’omero deve essere centrato sulla glenoide.

Da questa posizione l’operatore porta l’avambraccio del soggetto verso il piano del lettino (in extra-rotazione).
A questo punto verrà valutato normale un movimento che permetta all’avambraccio di raggiungere il piano del lettino (evitare compensi con il rachide lombare e/o scapola).

Verranno invece valutati retratti quei pazienti che non raggiungeranno tale ampiezza di movimento.
La retrazione dei rotatori mediali dell’omero si riflette in una debolezza del muscolo sottospinato che molto spesso risulta essere presente in soggetti frequentanti le palestre e può influenzare la corretta esecuzione di alcuni esercizi. Ad esempio nello squat con bilanciere, durante il posizionamento e mantenimento del bilanciere dietro il capo (extra-rotazione dell’omero di 90°), diverranno inevitabili compensi messi in atto a livello del rachide.

È utile quindi proporre sempre esercizi per il sottoscapolare e più generalmente per la cuffia dei rotatori nelle sessioni di allenamento?

Come abbiamo visto dipende, se rinforzassimo piccolo rotondo e sottospinato (extra-rotatori) in caso di rigidità della capsula posteriore, potremmo aggravare la situazione impedendo all’omero di traslare posteriormente durante l’abduzione.
È consigliato invece allungare il muscolo sottoscapolare in caso di un deficit in extra-rotazione, mentre ne è consigliato il rinforzo nel caso di deficit in intra-rotazione o nel caso di lassità in extra-rotazione.

Palpazione Sottoscapolare

Stretching Sottoscapolare

In piedi si flette la spalla a 90° e si effettua un’extra-rotazione dell’avambraccio afferrando un bastone passante dietro al braccio, con l’altra mano si imprime una forza sul bastone per aumentare l’extra-rotazione, a questo punto si porta il gomito verso il basso per allungare il sottoscapolare, e si mantiene la posizione.

Rinforzo Sottoscapolare

Intra-rotazioni da prono: In posizione prona su di un lettino, si posiziona la spalla a 90° di abduzione e il gomito a 90° di flessione, si richiede quindi una intra-rotazione di omero fino a 70°
Intra-rotazioni in piedi con elastico o cavo: posizionando il braccio lungo il fianco con il gomito flesso a 90° si effettua un movimento di rotazione interna della spalla con un cavo o elastico che fungono da resistenza, è opportuno porre un oggetto tra il braccio e il tronco che ponga in allineamento l’omero.
L’esercizio può essere effettuato a diversi gradi di flessione e/o abduzione di spalla, per stimolare meglio il muscolo.
Gerber lift-off: riproducendo il lift-off test si richiede di allontanare la mano posta sulla zona lombare della schiena, effettuando diverse ripetizioni
Belly Press: riproducendo il Napoleon Test si pone una palla morbida sull’ombelico e si preme su di essa mantenendo il gomito fermo.

Note sull’autore

Dott. Luca Tinto
Laureato in Scienze motorie all’università di Pisa, Laureando in Fisioterapia all’università di Genova, Istruttore di Calisthenics presso La Spezia

Bibliografia

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• Anatomia dell’apparato Locomotore a cura di Felicia Farina
• Hans Garten MD DIBAK DACNB DO (DAAO) FACFN, in The Muscle Test Handbook, 2013
• www.medicinapertutti.it
• Project Exercise (Andrea Roncari)
• www.riabilitazionespalla.it
• www.my-personaltrainer.it
• Fitness Posturale (Andrea Roncari)

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Dieta vegetariana: la guida completa

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Escludere qualcosa dalla dieta serve per dimagrire: non tanto perché l’alimento escluso fa male ma piuttosto perché la convinzione che la dieta che segui funziona ti dà una motivazione in più e riesci a seguirla con aderenza e continuità.

C’è chi segue la dieta vegetariana per moda o perché ha sentito parlare dei suoi benefici, chi per saldi motivi etici, chi la usa come una strategia per dimagrire, dal sedentario in vista dell’estate all’atleta di bodybuilding che deve tagliare le calorie.

Che cosa si intende per dieta vegetariana?

La dieta vegetariana è un tipo di approccio alimentare (non una dietoterapia) che esclude alcuni o tutti i prodotti animali o loro derivati. Il termine ‘vegetariano’ viene utilizzato nella letteratura italiana per indicare tutte le varianti dell’alimentazione a base vegetale. Comprende quindi diversi modelli:

  • Lacto-ovo-vegetariano (LOV): basato sul consumo di cereali, legumi, verdura, frutta, frutta secca, semi oleosi, latticini, uova, ed esclude carne, pesce, molluschi, crostacei e derivati.
  • Lacto-vegetariano (LV): simile al precedente ma esclude anche le uova.
  • Ovo-vegetariano (OV): simile al LOV ma esclude latte e derivati.
  • Vegano: basato esclusivamente sul consumo di origine vegetale.

Tutti questi modelli, vegano incluso, permettono di mantenere la salute, anche se in alcuni casi è necessario integrare nel caso in cui si manifestino carenze, analizzate successivamente.

DIETA VEGETARIANA CARNE PESCE LATTE e derivati UOVA
Latto-ovo-vegetariana  No No
Pescetariana No No No
Latto-vegetariana No No No
Ovo-vegetariana No No No
Vegana No No No No

Da dove nasce la dieta vegetariana?

Alle fondamenta della dieta vegetariana ci sono sicuramente motivazioni di tipo etico, che includono il rispetto per la vita degli animali, spesso cresciuti in condizioni di sfruttamento e sofferenza negli allevamenti intensivi. Ma non solo, il motivo può anche essere ambientalistico: è assodato che la lavorazione dei cibi animali richieda più energia e quindi più inquinamento rispetto a quella dei prodotti non animali.

Nel 1997 in occasione del terzo Congresso Internazionale sulla Nutrizione Vegetariana in California sono state formulate le prime linee guida per l’alimentazione vegetariana, anche se era già praticata prima. Negli anni successivi sono state apportate varie modifiche, in concomitanza con le nuove evidenze scientifiche.

Le linee guida nutrizionali possono essere esplicate graficamente in piramidi alimentari, tramite la suddivisione di queste in più gradoni, ognuno rappresentante uno dei principali gruppi alimentari che dovrebbero essere sempre presenti in una sana dieta vegetariana.

Le più importanti sono basate sulle linee guida per vegetariani prodotte dall’USDA, dalla Mayo Clinic, dall’Academy of Nutrition and Dietetics o dalla Loma Linda University.

piramide dieta vegetariana
Piramide della dieta vegetariana. Immagine tratta di Project Diet Vol.2

Le caratteristiche della dieta vegetariana sana e corretta: schema di base

La dieta vegetariana non è salutare a prescindere. Così come una dieta onnivora può essere dannosa, anche quella vegetariana può esserlo, quando non è adeguatamente pianificata e sbilanciata.

La ripartizione calorica fra i vari gruppi di macronutrienti varia non solo a seconda delle Linee Guida considerate ma anche in funzione del sesso, dell’età e dell’attività fisica praticata. Generalmente, nelle diete lacto-ovo-vegetariane e in quelle vegane, l’apporto di glucidi, lipidi e protidi rispetto all’apporto calorico totale è ripartito come indicato nella tabella:

Dieta Vegetariana

Grassi (%)

Proteine (%)

LOV

50 – 55

28 – 34

10 – 14

Vegana

50 – 65

25 – 30

10 – 12

Nel 2005 sono state realizzate dalla Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana (SSNV) delle Linee Guida per vegetariani italiani, la cui ultima versione risale al 2010. I criteri sono:

  • Consumare abbondanti quantità e varietà di cibi.
  • Privilegiare cibi non raffinati e poco trasformati.
  • Il consumo di latte e uova è opzionale.
  • Scegliere con attenzione e limitare i grassi.
  • Assumere buone fonti di acidi grassi omega-3.
  • Assumere quantità adeguate di calcio e vitamina D.
  • Assumere quantità adeguate di vitamina B12.
  • Consumare generose quantità di acqua e altri liquidi

Benefici e vantaggi dieta vegetariana

dieta vegana e vegetariana

È la dieta definitiva per stare in salute?

Agli antipodi del vegetarianismo c’è la paleodieta, che prevede elevati consumi di carne e anche questa dieta ha i suoi principi su cui si fonda. Anche la dieta vegetariana, come tutte le diete, ha i suoi pro e i suoi contro e quando viene gestita adeguatamente garantisce salute e raggiungimento degli obbiettivi.

Team verdure o team carne? Chi ha ragione?

Il buon senso nell’applicare la dieta sicuramente.

Basso indice glicemico

È comune inglobare nel concetto di “alimento sano” i cibi a basso indice glicemico “perché quelli ad alto IG fanno ingrassare”: in realtà l’idea è scientificamente ampiamente superata e non c’è una relazione diretta tra IG e dimagrimento.

Considerata questa premessa, frutta e verdura hanno tendenzialmente un IG basso, che contribuisce alla sazietà non a causa di questo parametro, ma piuttosto perché lo stesso alimento contiene fibre ed è poco denso energicamente.

Anticellulite

Breve (ma vera) storia triste: anche le vegetariane hanno la cellulite. Questo succede quando segui le linee guida vegetariane ma ci aggiungi prodotti raffinati, conservati, densamente calorici, ricchi di zuccheri, di grassi e magari anche ti muovi poco.

Se ti alleni e la segui una dieta vegetariana sana sicuramente questo stile alimentare ti aiuta ad avere meno ritenzione idrica, una delle cause della cellulite. Ma se il seguire il vegetarianismo si limita a “mangio patatine fritte e merendine perché tanto non sono carne”, sicuramente non servirà a nulla.

La cellulite è un processo complesso e come tale va trattato, non c’è l’alimento principe o la dieta perfetta che la elimina: però esiste uno stile di vita equilibrato, la volontà di cambiare, la costanza e l’allenamento contro resistenze che sicuramente insieme danno una mano nel migliorare la situazione.

Colesterolo

Un grande vantaggio della dieta vegetariana rispetto ad altri approcci alimentari è l’incremento della presenza delle fibre alimentari.

Dire che la fibra sia in grado di abbassare i livelli di colesterolo e dei lipidi in generale è un po’ limitante: la questione è più complessa. In breve, da una parte la sua azione può limitare l’assorbimento dei lipidi a livello intestinale e modificare il turnover del colesterolo, dall’altra la fibra non è altro che un elemento di un contesto multifattoriale che porta ad un abbassamento dei grassi e, quindi, ad un profilo lipidico migliore.

Il consumo di fibre alimentari infatti dovrebbe corrispondere ad uno stile di vita in generale più sano, che include il consumo di frutta e verdura, prodotti integrali, alimenti meno densi energicamente: tutti fattori che contribuiscono a mantenere nel giusto equilibrio il quadro lipidico.

Colon irritabile

Per chi soffre di colon irritabile un corretto stile di vita e l’approccio dietetico sono fondamentali. L’introduzione di frutta e verdura è molto utile in quanto contengono fibre idrosolubili, che contribuiscono ad un aumento della flora intestinale.

La quantità di fibra va comunque aumentata in modo graduale e ponendo maggiore attenzione alla frutta, la cui assunzione potrebbe essere controproducente.

Che cosa dice l’OMS?

Tra le linee guida dell’OMS per mantenersi in salute e prevenire il cancro è consigliato limitare il consumo di carni rosse ed evitare quelle conservate. Questo non implica direttamente che non si debba mangiare carne e che il vegetarianismo sia l’opzione migliorare per non contrarre eventi neoplastici: non esiste la linea guida “non mangiare carne, la dieta vegetariana non fa venire il cancro”. In questi termini, la dieta vegetariana non apporta più benefici di quella onnivora.

Svantaggi, controindicazioni e rischi della dieta vegetariana

esempio dieta vegetariana

Se escludi le carni e il pesce, rischi veramente alcune carenze di vitamine, minerali, grassi essenziali e proteine?

Carenze alimentari

Escludendo determinate categorie di alimenti è normale che ci siano delle carenze, che in realtà possono manifestarsi anche in chi ha una dieta onnivora ma spontaneamente, senza saperlo, si preclude alcuni cibi.

È anche vero però che sia la dieta vegetariana che la sua sottoclasse vegana, più restrittiva, garantiscono una vita in salute. Per sopperire alle carenze in primo luogo è necessario conoscere quali possono essere, come rimediare “aggiustando la dieta” e solo poi eventualmente assumere degli integratori specifici.

Come integrare le proteine in una dieta vegetariana?

Evidenze epidemiologiche e osservazionali dicono che una dieta vegetariana non crea particolari problemi per l’equilibrio azotato di un individuo.

L’organismo utilizza 20 amminoacidi per la sintesi di nuove proteine, ma il punto fondamentale è che non è in grado di sintetizzarli tutti: gli amminoacidi che non può biosintetizzare sono definiti essenziali e devono provenire necessariamente dalla dieta.

Quando manca un amminoacido essenziale, anche se ci sono tutti gli altri amminoacidi, la sintesi proteica si ferma, poiché il nostro organismo non può produrre gli amminoacidi essenziali e quindi non può proseguire nella sintesi delle proteine.

Le proteine animali, a differenza di quelle vegetali, hanno un profilo amminoacidico migliore, che si traduce in un maggior quantitativo e rapporto tra gli amminoacidi essenziali, ed è questo il motivo (o uno dei motivi) per cui sono preferite rispetto alle vegetali. Fin qui è tutto corretto, appare evidente che le proteine animali siano superiori a quelle vegetali.

Ma manca un’ultima informazione per poter poi costruire un ragionamento che si appoggi a basi scientifiche e non sulle dicerie tramandate negli anni negli spogliatoi delle palestre: gli amminoacidi hanno emivita ematica di diverse ore, ovvero, anche se non possono essere depositati e quindi se non utilizzati nella sintesi proteica devono essere o utilizzati a scopo energetico oppure immagazzinati come grassi.

Estendendo il discorso, dunque, quello che importa non è la composizione amminoacidica delle proteine del singolo alimento che mangiamo e, eventualmente, del nostro singolo pasto (che magari apporta proteine in prevalenza di natura vegetale), ma piuttosto dall’introito totale di proteine assunte in più pasti durante la giornata. Infatti, possiamo assumere più proteine vegetali da fonti diverse nello stesso pasto o in più pasti durante la giornata per poter ottenere un pool amminoacidico completo che sia adatto per la sintesi proteica. Ed è questo il segreto dei vegani.

Ecco perché nascono poi le linee guida che consigliano di abbinare i legumi con i cereali, in quanto i primi sono ricchi di lisina ma poveri di cisteina e metionina e i secondi invece ricchi di cisteina e metionina ma poveri di lisina. Un’altra buona indicazione è di abbinare le proteine vegetali proprio con le proteine animali.

Ferro

La carenza di ferro in una dieta non onnivora è dovuta a due motivi, tra loro correlati:

  • Il primo è che alcuni alimenti animali come il fegato di suino, di bovino, il tacchino, il tonno, la bresaola sono in generale tra i più ricchi di ferro: escludendoli si hanno meno fonti marziali a cui attingere.
  • Il secondo, più rilevante, è che l’organismo fa più difficoltà ad estrarre il ferro dai cibi vegetali ingeriti, molta di più rispetto a quella necessaria per assumerlo dai prodotti animali. Per raggiungere il fabbisogno di ferro giornaliero è quindi necessario prediligere una maggior quota di alimenti contenenti ferro o, eventualmente e in secondo luogo, ricorrere ad un integratore.

Vitamina B12

La carenza della vitamina B12 è abbastanza concreta per i vegetariani, dato che questa la trovi essenzialmente in alimenti di origine animale come le uova, la carne di manzo, il fegato, latte e derivati. Quindi in realtà, questa carenza è più tipica dei vegani dato che devono escludere anche uova e latte, a differenza di alcuni vegetariani che invece possono includerli.

Bisogna comunque ricordare che la famiglia delle vitamine B è idrosolubile e che quindi sono presenti loro depositi di riserva nell’organismo e che ci vogliono diversi anni perché vengano esauriti (e questo aiuta a capire perché non si ammalano milioni di vegani entro 6 mesi o 1 anno).

Dosi non sufficienti di B12 possono essere la causa di anemia perniciosa e neuropatia, dovuta alla progressiva demielinizzazione delle fibre nervose.

Calcio

Il calcio è fondamentale per la salute ossea e nella contrazione muscolare. Nei vegetali si trova per lo più nelle verdure a foglia verde, che però sono ricchi di ossalati che ne diminuiscono l’assorbimento. Se consumi alimenti fortificati come le bevande di soia o cereali, è più difficile esserne carenti, infatti va comunque valutata la supplementazione se con questi alimenti non raggiungi una media di circa 1000 mg di calcio al giorno.

Esempi di dieta vegetariana: cosa mangiare?

dieta vegetariana dimagrante

Ipocalorica

Di per sé le regole della dieta vegetariana sono già una buona base per riuscire a seguire un regime ipocalorico, sarà sufficiente fare un taglio calorico per mantenerti al di sotto del tuo fabbisogno basale per riuscire a perdere peso.

Proteica e chetogenica

Dieta vegetariana proteica per il bodybuilding

Se pedieta proteica si intende dieta chetogenica non è troppo difficile impostarla, perché escludendo le carni rimangono comunque uova, latticini, formaggi, frutta secca, … che forniscono sia proteine che grassi con pochissimi carboidrati.

Se invece si intende una dieta tipo digiuno proteico modificato (PSMF, VLCD) diventa molto più difficile se non si supplementa con proteine in polvere: la scelta alimentare sarebbe troppo ristretta, in quanto si possono consumare solo fonti proteiche magre e senza carboidrati (la carne magra, il pesce bianco, il bianco d’uovo e le proteine in polvere sono il prototipo ideale).

Mediterranea

La dieta vegetariana va abbastanza d’accordo con lo stile di vita mediterraneo: entrambi promuovono il consumo di frutta, verdura e cereali anche se in proporzioni diverse. Inoltre, la dieta mediterranea limita i prodotti animali e derivati all’apice della piramide alimentare, i quali sono da consumare di meno e da ulteriormente limitare nel caso dei vegetariani ed eliminare per i vegani: una piramide mediterranea tronca.

Per uno stile mediterraneo e vegetariano la combinazione è costituita da attività fisica, cereali integrali, frutta e verdura in abbondanza e in base alla stagionalità, fonti lipidiche vegetali con grassi polinsaturi.

Senza glutine

Anche per i celiaci seguire una dieta vegetariana senza glutine è possibile, le restrizioni non sono di molto più marcate in quanto possono essere comunque consumate tutte le verdure, la frutta, i legumi, le uova, il latte.

Va posta solamente attenzione ad alcuni cereali come il frumento, il grano, l’orzo, l’avena, la segale, il kamut e tutti i prodotti da forno che potrebbe presentare tracce di glutine, fondamentale per molti impasti.

Da 1300 calorie

  • Colazione: 200 ml latte di mandorle (115 kcal) + 30 g avena (130 kcal) + 30 g marmellata senza zuccheri aggiunti (15 kcal)
  • Spuntino: 30 g pane di segale (76 kcal) + 100 g fiocchi di latte (115 kcal)
  • Pranzo: 40 g ceci secchi (160 kcal) + 30 g formaggio spalmabile light (60 kcal) + 2 uova (170 kcal) + 50 g pane (133 kcal)
  • Cena: 80 g pasta (300 kcal) + 100 g peperoni (27 kcal) + 70 g lattuga (18 kcal)

Da 1500 calorie

  • Colazione: 3 fette biscottate integrali (120 kcal) + 20 g miele (60 kcal) + 200 ml latte di soia (6 kcal)
  • Spuntino: 1 banana (80 kcal) + 20 g mandorle (120 kcal)
  • Pranzo: 80 g pasta (300 kcal) + 30 g fagioli secchi (110 kcal) + 200 g broccoli (60 kcal) + 20 g grana (80 kcal)
  • Spuntino: porridge di avena (30 g fiocchi di avena + 200 ml latte di soia + 10 g noci + cannella = 205 kcal)
  • Cena: 100 g bistecca di soia (310 kcal) + 70 g rucola (20 kcal) + 150 g pomodori (28 kcal)

Quante uova a settimana?

Non c’è una risposta univoca, dipende dai tuoi valori ematici di colesterolo: se i parametri non sono normali, troppo alti, sballati allora sarà meglio escludere le uova (o, meglio, il tuorlo lipidico) dalla tua alimentazione. Se invece mangi 3 uova al giorno e hai i valori perfetti, puoi continuare così senza problemi.

In ogni caso, è meglio preferire la cottura a occhio di bue o alla coque: il tuorlo deve rimanere liquido per limitare l’assunzione del colesterolo presente.

Dieta vegetariana dimagrante e per perdere peso: quanti chili si perdono?

Dieta vegetariana per dimagrire e benefici

Una dieta vegetariana può essere utile anche per il dimagrimento: la maggior quantità di vegetali e fibre introdotte favoriscono la sazietà, ma in ogni caso per dimagrire è necessario instaurare il deficit calorico, ossia seguire una dieta ipocalorica.

Gli accorgimenti sono gli stessi di una qualsiasi altra dieta, in più da tenere in conto le eventuali carenze discusse precedentemente.

I chili persi dipendono dal deficit calorico impostato e dal perseguimento della dieta nel lungo periodo, in ogni caso il calo ponderale va raggiunto gradualmente e considerando le calorie: ogni chilo di tessuto adiposo umano corrisponde a circa 7000 kcal, perciò, ad esempio, con un deficit settimanale di 3500 kg perderai 500 g.

Integratori utilizzabili nella dieta vegetariana

In merito alle carenze sopracitate, l’integrazione è utile quando serve: per questo motivo il fai-da-te non è la migliore soluzione ma è più opportuno affidarsi ad un esperto, magari il medico.

Tra i vari integratori che potrebbero esserti consigliati ci sono quelli di vitamina B12, più spesso sotto forma di cianocobalamina, di minerali come zinco e ferro o di calcio citrato soprattutto nel caso di vegani o ovo-vegetariani.

Anche la vitamina D sarebbe utile da integrare e non solo per i vegetariani, dato che la maggior parte della popolazione ne è carente e potrebbe essere sufficiente anche solo un’esposizione giornaliera al sole di 20 o 30 minuti.

Dieta vegetariana, bodybuilding e palestra

Innanzitutto, non ci sono evidenze scientifiche che confermino la teoria secondo la quale un’alimentazione priva di proteine animali (quindi vegetariana o più precisamente vegana) porti a perdita di massa muscolare o non renda possibile un suo aumento o mantenimento, anche perché questo dipende da più fattori e in primo luogo alla quantità totale giornaliera e settimanale di proteine, piuttosto che dall’origine; oltre alla pratica di esercizio fisico con stimoli ipertrofici adeguati.

Piuttosto le differenze analizzate in precedenza suggeriscono che assumere più proteine di origine animale ci può consentire di introdurre meno proteine in generale mentre un vegano, per obiettivi specifici come quelli di mantenimento della massa muscolare in periodo di dimagrimento, o dell’ipertrofia muscolare durante il periodo di aumento ponderale, avrà bisogno di consumare una quantità leggermente superiore di proteine rispetto a chi ha una dieta onnivora o prevalentemente carnivora.

Solitamente gli atleti vegani si rifanno alle linee guida per la quota proteica generale: 1,6-2,5 g/kg di peso (massa magra se il soggetto ha una percentuale di grasso elevata). Con la consapevolezza di poter raggiungere e/o superare i 3 g/kg per brevi periodi.

Come possiamo vedere il range è ampissimo, quindi non c’è nemmeno bisogno di “rielaborare” le linee guida specificamente per i vegani, semplicemente questi ultimi tenderanno a posizionarsi verso l’estremo alto (dai 2g/kg in poi) aiutandosi anche con gli integratori di proteine o tramite l’assunzione di EAA (aminoacidi essenziali). Per la popolazione generale si suggerisce un apporto di circa 1g/kg: una quantità forse troppo bassa, ma che è condivisa con la popolazione onnivora.

Dieta vegetariana per atleti e sportivi nello sport e nell’allenamento

Come visto, è abbastanza facile scongiurare le carenze dovute all’esclusione di carne e pesce e che una dieta proteica vegetariana per sportivi è attuabile senza troppi compromessi.

Andrà considerata in più la supplementazione di creatina, perché il fegato, da solo, ne produce poca, e serve per migliorare la prestazione e il recupero. Le proteine andranno tenute secondo il fabbisogno proteico ed eventualmente integrate con proteine del siero del latte (per i lacto-ovo-vegetariani) che hanno un alto valore biologico, ottima digeribilità e rapporto costo/proteina molto vantaggioso. Per i vegani vanno bene le fonti come la soia, i piselli, ecc.

Data la maggiore quantità di fibre legata agli alimenti vegetali può essere necessario, al fine di migliorare l’assorbimento e diminuire l’impegno digestivo, consumare meno fonti di carboidrati integrali e più raffinati come il riso bianco, la semplice pasta di semola, le patate ed eventualmente usare carboidrati in polvere come le maltodestrine.

Confronto tra dieta vegetariana e altre diete

Come già accennato, non esiste la dieta migliore rispetto ad altre in termini assoluti, se non la dieta personalizzata. Di seguito qualche confronto.

Dieta vegetariana o vegana?

Tra le due la sostanziale differenza è l’esclusione dei derivati animali nella dieta vegana: un’ulteriore restrizione alimentare che limita la scelta di prodotti da consumare ma che comunque non implica di per sé un danno per la salute.

Una maggior limitazione si traduce in un incremento del rischio di possibili carenze, che vanno quindi monitorate e corrette.

Dieta vegetariana o onnivora?

Sebbene possa sembrare strano ad un primo impatto, non è detto che la dieta vegetariana sia più sana di una onnivora: il segreto sta comunque sempre nel corretto bilanciamento degli alimenti e conseguentemente non giudicare a priori una determinata scelta alimentare.

Se da una parte con l’approccio onnivoro è più difficile andare incontro a carenze, dall’altro c’è il rischio di abusare di prodotti come la carne, soprattutto rossa, o di avere un apporto limitato di fibre; viceversa per la dieta vegetariana.

Dieta vegetariana o carnivora?

Il bivio alimentare: da una parte esclusione di carne e pesce, dall’altra consumo esclusivo di carne, pesce e derivati. Sicuramente la seconda è più limitante e più incompleta nella scelta degli alimenti e nella disponibilità di nutrienti: in una dieta senza cereali, frutta e verdura i carboidrati sono praticamente assenti, così come le fibre, entrambi molto importanti.

Inoltre, eccedere con le quantità di colesterolo e di grassi saturi è un rischio sicuramente presente nel caso di una dieta carnivora e assente nel caso della dieta vegetariana.

Conclusioni sulla dieta vegetariana

Come ogni stile alimentare, anche la dieta vegetariana è una scelta: l’importante è sapere se ha una validità scientifica, su cosa si fonda e soprattutto come funziona, in modo da sopperire ad eventuali punti deboli.

Come visto, con alcuni accorgimenti la dieta vegetariana non porta a problemi di salute ma non è neanche da idolatrare come l’unica dieta che ti fa stare bene: a patto che sia valida e bilanciata sulla persona, qualsiasi dieta funziona e sarà davvero “la migliore”.

 

Co-autore

Aimone Ferri: Personal Trainer ISSA, istruttore di powerlifting FIPL e studente di Dietistica all’Università degli studi di Genova, appassionato di bodybuilding, powerlifting e nutrizione sportiva.

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Il glucosio: cos’è e dove si trova

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Il glucosio è il più importante degli zuccheri semplici (o monosaccaridi) e rappresenta la principale fonte energetica del nostro organismo. Il tuo cervello, in condizioni normali, consuma circa 120 g di glucosio al giorno, l’intero organismo (tra globuli rossi, bianchi, midollare del surrene, gonadi ed in piccola parte i muscoli) tra i 180-220g/die.

Il glucosio viene misurato nell’organismo tramite la glicemia che non deve risultare ne troppo alta (>100mg/dl) ne troppo bassa (<60mg/dl). I valori di riferimento sono tra 60-100mg/dl.

Il glucosio si trova negli alimenti contenenti carboidrati semplici sotto forma di zuccheri (principalmente saccarosio), come nel caso della frutta o dei prodotti industriali, o nel caso dei carboidrati complessi contenenti amido come per i cereali, legumi e tuberi (patate).

Scoperta e formula chimica del glucosio

Era il 1812 quando Kirchhoff (chimico russo) scoprì che bollendo l’amido con un acido si otteneva uno zucchero con le stesse caratteristiche del glucosio.
Qualche anno dopo Braconnot (chimico francese), con un esperimento simile, bollì vari prodotti di origine vegetale contenenti tutti cellulosa, ottenendo anche in questo caso uno zucchero identico al glucosio.
Fu facile supporre che amido e cellulosa fossero entrambi formati da unità ripetute di glucosio.

La sua formula chimica è C6H12O6e suggerisce la presenza di una molecola d’acqua legata a ognuno dei 6 atomi di carbonio. Per questo motivo il glucosio e i composti con una simile struttura sono detti carboidrati (composti di carbonio contenenti acqua).
La formula strutturale del glucosio fu elaborata dal chimico tedesco H. Kiliani e qualche decennio più tardi, sempre in Germania, E. Fisher definì l’esatto arrangiamento dei gruppi idrogeno-ossigeno intorno agli atomi di carbonio. Per questo e altri contributi, E. Fisher fu premiato con il Nobel per la chimica nel 1902.

Quante calorie ha il glucosio

I carboidrati vengono indicati generalmente come 4kcal/g. Tuttavia questa è un’approssimazione. Più il glucide è semplice meno calorie ha. Il glucosio ha 3,75kcal/g. Al contrario gli amidi per unirsi perdono molecole d’acqua ed aumentano così il loro potere calorico arrivando a 4,2kcal.

Glucosio e glicemia: quando è in eccesso e quali sono i valori di riferimento

glucosio e glicemia

Poiché la presenza di glucosio nel sangue è essenziale per la vita, possediamo un sistema di regolazione intrinseco che ci consente di mantenere costante la glicemia per assicurare al cervello (ed alle cellule sprovviste di mitocondri) il giusto apporto energetico.
Il compito di regolare la nostra glicemia è affidato in massima parte a due ormoni, entrambi prodotti dal pancreas: insulina e glucagone (l’azione dell’adrenalina è prevalentemente a livello del glicogeno muscolare).
L’insulina abbassa la glicemia e favorisce l’accumulo di glucosio sotto forma di glicogeno; il glucagone, di contro, promuove la produzione di glucosio a partire dal glicogeno alzando la glicemia. Altri ormoni oltre al glucagono hanno un effetto iperglicemizzante e sono l’ormone della crescita, il cortisolo, adrenalina e noradrenalina.

Valori normali di glicemia a digiuno sono tra 70-100 mg/dl. Se l’esame di questo parametro mostra livelli superiori ai limiti della norma, ma non indicativi di diabete (>126 mg/dl), si parla di alterata glicemia a digiuno e di iperglicemia (100-125 mg/dl).

Cosa fare quando il glucosio è alto

In questo caso è utile il test da carico di glucosio, che permette di misurare la capacità delle cellule di utilizzare il glucosio prelevandolo dal sangue e accertare la presenza di diabete o una condizione di pre-diabete. La curva glicemica o da carico di glucosio OGTT (Oral Glucose Tolerance Test) prevede l’ingestione orale a digiuno di 75g di glucosio disciolto ed un prelievo dopo 120 minuti. I valori di normalità sono con una glicemia che non supera i 140mg/dl.

Anche l’emoglobina glicata permette di leggere la media della glicemia degli ultimi mesi (è un po’ come se guardassimo il film degli ultimi 3 mesi della nostra vita), mentre la glicemia a digiuno può essere paragonata ad una foto istantanea del momento.

Glucosio basso

Così come l’iperglicemia, anche l’ipoglicemia può comportare una serie di conseguenze negative. L’ipoglicemia è l’abbassamento della concentrazione di glucosio nel sangue al di sotto dei 60-70 mg/dl. È una delle conseguenze acute del diabete ma si può presentare anche in alcune malattie surrenali, tumori ecc.
Nel caso di un attacco di ipoglicemia le linee guida consigliano l’ingestione di 15g di zucchero tramite un bicchiere di succo di frutta, una bustina e mezza di zucchero o delle caramelle zuccherine.

Le forme lievi possono essere curate con lo stile di vita e facendo attenzione all’alimentazione, mentre nei casi più gravi è necessario l’intervento farmacologico.

Glucosio nelle urine

Una volta che il glucosio è stato assorbito all’interno dell’intestino, trasportato nella circolazione ematica e svolto il suo ruolo, viene filtrato e riassorbito attraverso il rene.
Se, tuttavia, la concentrazione di glucosio nel sangue è superiore ad un determinato livello (soglia renale – 180 mg/dl), il glucosio non viene completamente riassorbito e si ha glicosuria, cioè l’eliminazione di glucosio con le urine, uno dei sintomi del diabete dovuto alla glicemia troppo alta.
Normalmente quindi con l’esame nelle urine del glucosio deve risultare assente.

Nell’antica Babilonia i medici sumeri trascrivevano sulle tavolette di argilla la loro valutazione sui test dell’urina e durante tutto il Medioevo, in Europa, era prassi comune dei medici assaggiare le urine dei loro pazienti per valutarne, ad esempio, la dolcezza e poter fare diagnosi di diabete (mellito dal nome).
Anche nell’Enrico IV di Shakespeare troviamo traccia di questa usanza dove il protagonista Falstaff, di buona forchetta e decisamente in sovrappeso, chiede al suo paggio: “Dunque, che dice il dottore della mia urina?”

Dove si trova il glucosio nel nostro organismo?

Dove si trova il glucosio nel nostro corpo

Noi assumiamo carboidrati (o zuccheri) prevalentemente sotto forma di amido (pacchetti o meglio polimeri di tante molecole di glucosio).

Questo amido, dentro il nostro corpo, è degradato da degli enzimi (amilasi) che rompono i legami tra le molecole di glucosio. Il glucosio libero viene assorbito a livello intestinale tramite delle proteine di membrane chiamate GLUT 2 e il suo trasporto, all’interno delle cellule, avviene tramite altri trasportatori chiamati GLUT 4. Ricordiamoci sempre che il nostro corpo non può assorbire carboidrati complessi ma solo monosaccaridi come il glucosio, fruttosio, galattosio.

Il glucosio si trova nel nostro organismo nel:

  • sangue
  • fegato (glicogeno epatico)
  • muscoli (glicogeno muscolare)
  • reni (glicogeno renale)

Possiamo immagazzinare glucosio sotto forma di glicogeno principalmente nel fegato (80-100g) e nel muscolo (200-300g).
Se nel fegato è utilizzato per mantenere costante il livello di zuccheri nel sangue (glicemia), nei muscoli è utilizzato esclusivamente per compiere lavoro muscolare a medie ed alte intensità.
Durante il metabolismo del glicogeno si libera glucosio-6-fosfato che non può uscire dalla cellula muscolare se non viene prima rimosso il gruppo fosfato. Il compito di rimuovere questo gruppo fosfato è affidato all’enzima glucosio-6-fosfatasi, che non è disponibile all’interno delle cellule muscolari.

Possiamo dire che mentre il fegato è altruista, al muscolo piace tenersi il glicogeno tutto per sé.

Quali sono gli alimenti che contengono glucosio?

Glucosio negli alimenti

Il glucosio lo ritroviamo nei cibi sotto forma di zuccheri (il saccarosio è contenuto nella frutta, dolci e prodotti industriali) o indirettamente in tutti gli alimenti amidacei (l’amido è formato da pacchetti di glucosio). Gli alimenti contenenti glucosio sono:

  • cereali e derivati (pane-pasta-pizza)
  • legumi
  • patate e tuberi
  • frutta
  • zucchero e derivati (maltodestrine, sciroppo di glucosio, destrosio, ecc.)

Glucosio nei dolci e prodotti da forno

È possibile trovare in commercio il glucosio puro con il nome di destrosio, disponibile sia anidro (senza acqua nei suoi cristalli), sia monoidrato (con una molecola di acqua).

Nell’industria alimentare il destrosio (o glucosio) è utilizzato per rendere più appetibile il prodotto e favorire la formazione della crosta. Nel pane in cassetta, ad esempio, il caratteristico imbrunimento è determinato dalla reazione di Maillard, che avviene a seguito dell’interazione di zuccheri e proteine durante la cottura.

Nelle etichette, inoltre, capita di trovare la dicitura “sciroppo di glucosio”, un dolcificante liquido composto principalmente da glucosio e fruttosio in percentuali variabili. Anche lo zucchero bianco è costituito da glucosio e fruttosio, ma in quest’ultimo le molecole sono legate insieme, nello sciroppo di glucosio, invece, sono separate.

Le industrie alimentari si sono ingegnate per addolcire i dolci ed i prodotti che riempiono gli scafali dei nostri supermercati. Esistono più di 30 modi per dolcificare il cibo e alcuni edulcoranti sono presenti anche nei prodotti salati.

Negli ultimi decenni lo zucchero è stato marchiato come tra il principale responsabile dell’aumento di obesità.
Insieme ai suoi derivati si trova un po’ dappertutto e nemmeno ce ne accorgiamo. Il problema, tuttavia, non è lo zucchero in sé, ma l’eccesso di zucchero che ingeriamo. Sostanzialmente mangiamo troppo in rapporto a quanto ci muoviamo.

La quota raccomandata di zucchero dall’OMS è quella di non superare il 5% delle calorie dagli zuccheri aggiunti, stiamo parlando di 25g ovvero 6 cucchiaini da cucina.

 Glucosio nelle frutta

Il glucosio è contenuto naturalmente nella frutta nella sua forma disaccaride. Troviamo così sia saccarosio (fruttosio+glucosio) che destrosio (glucosio+glucosio). Il quantitativo rimane comunque modesto in rapporto a 100g di prodotto e viene bilanciato dal contenuto di fibre alimentari presenti soprattutto nella buccia dei frutti.

I frutti con più zuccheri e calorie sono le banane, mandarini, uova, fichi (qui trovi l’elenco completo della frutta più calorica).

Glucosio Bodybuilding e palestra

Il glucosio è anche utilizzato nell’attività sportiva sia in palestra che negli sport di resistenza. La sua forma più utilizzata come integratore di glucosio è il destrosio, maltodestrine, o il più famoso Vitargo. Tutti derivano dalla lavorazione dell’amido e forniscono zuccheri al nostro organismo. Destrosio e maltodestrine hanno un peso molecolare più basso e vengono assorbite velocemente mentre il Vitargo è uno zucchero più a lento rilascio. Pertanto per i primi due polimeri di glucosio l’utilizzo è prevalentemente post workout, per ricaricare più velocemente le scorte di glicogeno (glucosio da bere). Mentre il Vitargo può essere utilizzato come intra workout, per attività che durano più di 1h-1h30′.

L’utilizzo di carboidrati semplici post allenamento è una pratica utile principalmente soltanto per chi fa allenamenti bi-giornalieri, se è vero che post workout la risistesi di glicogeno è più rapida per due ore, è altrettanto vero che il glicogeno si risintetizza, se gli forniamo carboidrati durante la giornata, del 5% ogni ora, quindi il giorno seguente ci ritroveremo comunque le scorte piene.

Consigli pratici

Infine, alcuni consigli pratici per gestire meglio l’apporto di zuccheri nel quotidiano. Come abbiamo visto è bene non eccedere con gli zuccheri semplici e non andare oltre i 25g al giorno. Se puoi assumili almeno il 60% della quota glucidica nelle 5h intorno all’allenamento in modo da migliorare il partizionamento calorico del glucosio verso il muscolo. Altrimenti ridistribuisci il carico glucidico in tutti i pasti della giornata. Non c’è ragione, come alcuni credono, di non mangiare carboidrati o zuccheri la sera.

Per la questione indice glicemico, invece ti rimandiamo ad un altro articolo.

Riferimenti

  1. Il libro di biologia, Isaac Asimov
  2. I principi di Biochimica di Lehninger, IV ed. Zanichelli, David L. Nelson, Michael M. Cox
  3. Enrico IV, parte seconda, Mondadori, William Shakespeare
  4. Cosa C’è nel mio cibo? Leggi le etichette e sai cosa mangi, 2016 Giunti Editore S.p.A., Monica
  5. Marelli
  6. https://prostatainforma.com/blog/storia-del-test-delle-urine/, Storia del test delle urine di
  7. Giovanni Cristiano
  8. https://oukside.com/blog/eat/timing-posizionamento-dieta-flessibile, 2017, Team Oukside

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Dieta proteica: la guida completa

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18La dieta proteica è uno degli approcci nutrizionali proposti per dimagrire e mantenere la massa muscolare, utile, quindi, anche per chi fa palestra o bodybuilding.

In Italia è stata molto osteggiata perché fa male ai reni o al fegato o perché è responsabile dell’“acidificazione”.

Quanto c’è di vero? Puoi realmente utilizzarla, in sicurezza, per perdere peso rapidamente, mantenerlo o aumentare di peso?

Che cos’è una dieta proteica? Come funziona?

La dieta proteica è un regime nutrizionale in cui le proteine sono più rappresentate nella ripartizione dei macronutrienti rispetto ad altre diete, a discapito della quota lipidica e/o di carboidrati.

In linea generale un apporto di proteine più alto del normale è consigliato soprattutto a:

  • Chi vuole seguire una dieta per dimagrire e mantenere la massa magra
  • Soggetti in crescita, come adolescenti o donne incinta
  • Sportivi
  • Anziani (ma attenzione a possibili patologie presenti), che fisiologicamente vanno incontro sarcopenia.

Le linee guida sostengono che 0.8 g proteine/kg peso corporeo/giorno sia un quantitativo sufficiente per ricoprire il fabbisogno amminoacidico, tuttavia un loro aumento, come nel caso della dieta proteica, non riscuote conseguenze negative: anzi, in certi casi, proprio come quelli sopra elencati, un incremento è doveroso.

In ogni caso, il presupposto è che, proteine o non proteine, senza deficit calorico non perdi peso: qualsiasi sia il tipo di dieta scelta, assumere meno calorie del necessario è l’unico vero principio fondamentale.

Benefici e vantaggi della dieta proteica

Scegliere una dieta piuttosto che un’altra dovrebbe prima di tutto rispecchiare i tuoi bisogni, i tuoi gusti e il tuo stile di vita: dare una dieta iperproteica a chi soffre già di insufficienza renale o fare un taglio drastico delle calorie a qualcuno che già ne introduce poche ma non dimagrisce non sono altro che “soluzioni” che peggiorano la situazione in atto. Sostanzialmente, sono misure che avrebbero la stessa utilità del fornire una dieta a base di carne a un vegano.

Perché dovresti scegliere la dieta proteica e non altre? Quali sono i suoi vantaggi?

  • I protidi hanno un maggior potere saziante rispetto a glucidi e lipidi.
  • Quando le proteine sono in eccesso è difficile che vengano trasformate in acidi grassi perché questa rappresenterebbe “una spesa energetica” in più per l’organismo, che quindi preferisce ossidarle e trasformare l’eccesso protidico in calore.
  • Rispetto agli altri macronutrienti è richiesta più energia per digerirle e alzano la termogenesi indotta dal cibo.

Effetti della dieta proteica

Al contrario di quello che solitamente si sente dire, un alto apporto proteico non è dannoso per i reni e per il fegato: gli studi che sostengono questo sono stati condotti su soggetti che avevano già una patologia.

Un effetto positivo è anche in relazione alla massa magra, sia in fase di dimagrimento, di mantenimento o di aumento del peso: in ogni caso, un alto apporto proteico è un elemento che, rispettivamente, limita la perdita di tessuto muscolare (nonostante il deficit), lo mantiene o fa da supporto allo stimolo di crescita del muscolo.

Ritenzione idrica

Nel caso della ritenzione idrica le proteine non sono l’unico fattore da considerare, in quanto a seconda del contesto possono aumentare o diminuire la ritenzione. Quando l’apporto protidico è alto e anche la quota di lipidi e glucidi è corretta, le proteine in abbinamento ad un allenamento con i pesi aiutano a contrastare la ritenzione.

Se non è così, ci sarà l’effetto opposto.

Cosa mangiare in una dieta proteica?

Dieta proteica per palestra e bodybuilding

Le proteine che risultano più utili all’uomo sono quelle animali perché hanno uno spettro amminoacido simile e quindi è più facile che l’organismo nei protidi dell’uovo, del pesce, del tacchino trovi i mattoncini proteici di cui ha bisogno per costruire le proteine che gli servono: si parla di protidi ad alto valore biologico.

Quindi le proteine della frutta secca e dei legumi non servono?

In realtà, anche le proteine vegetali sono da considerare: non hanno un alto valore biologico, ma tramite una scelta varia e la combinazione di più fonti puoi sopperire a questa “pecca”. Infatti, unendo più alimenti vegetali proteici (es. pasta e legumi) o abbinandoli ad una fonte animale il valore biologico aumenta.

Quali alimenti mangiare?

Ci sono diversi alimenti che puoi mangiare a livello settimanale con questo stile alimentare proteico e in generale si dividono in due categorie: alimenti low carb con proteine e grassi (carne e formaggi) ed alimenti low fat con proteine e carboidrati (legumi e soia).

In questo articolo sul menù della dieta proteica ci sono degli esempi di alimenti e di pasti che potresti fare durante la giornata. In ogni caso, non dimenticare di abbinare ai piatti di proteine sempre delle verdure, utili sia per il contenuto di fibre ma anche per i micronutrienti e la sazietà.

Quante calorie assumere

Anche quando il regime è proteico e “puoi mangiare a sazietà”, in realtà è bene tenere traccia delle calorie: se in una prima fase mangiare finchè non ti senti sazio funziona per restare in ipocalorica, in un secondo momento no in quanto le proteine avranno meno potere saziante.

Una dieta proteica è consigliata per perdere peso, quindi le calorie che dovrai assumere devono essere di meno di quelle di cui hai bisogno e sono diverse da individuo ad individuo.

In questa guida completa sulla dieta ipocalorica trovi tutte le informazioni più specifiche necessarie.

Quanta acqua bere

Spesso è un parametro trascurato, ma non è assolutamente meno importante del fabbisogno calorico settimanale o dell’impostazione dei macronutrienti: l’acqua è vitale.

Come regola generale è opportuno bere 1 litro di acqua ogni 20 kg di peso corporeo quando si tratta di persone sportiva. Questo fattore è ancora più rilevante per chi segue una dieta proteica o iperproteica in quanto un aumento della concentrazione protidica comporta un sovraccarico, comunque fisiologico e non pericoloso, di lavoro a livello della filtrazione renale.

Quanti carboidrati assumere

La dieta proteica è generalmente associata ad un regime low carb, ovvero si mangiano tante proteine, qualche grasso e pochi carboidrati. Infatti, molte diete proteiche sono simili ad una dieta chetogenica (di differenza hanno più proteine e meno grassi) o classiche diete low carb (con meno di 100-150g di carboidrati al giorno).

Questo approccio serve in parte per aiutare il senso di sazietà (i carboidrati riempiono nel breve periodo, i lipidi nel medio-lungo), in parte perché ancora erroneamente si pensa che i carboidrati, visto che stimolano di più l’insulina, rispetto agli altri macronutrienti, fanno ingrassare di più.

Purtroppo, è frequente la convinzione nelle persone che gli alimenti glucidici non vadano bene, mentre quelli proteici/lipidici siano ok. Questo le porta inconsapevolmente ad assumere più calorie di quelle che pensano (“tanto sono proteine!, tanto non ci sono zuccheri!”). Purtroppo, anche in questo caso una caloria è una caloria.

Come sapere con precisione quanti carboidrati assumere?

Bisogna operare per sottrazione: prima devi stabilire quante calorie provengono da proteine e da grassi e poi quelle rimanenti saranno apportate dai carboidrati, in modo da raggiungere il fabbisogno calorico.

Considera i valori del fabbisogno proteico e che i grassi non dovrebbero scendere sotto gli 0,5 g/kg di peso corporeo. Calcola di quante calorie hai bisogno alla settimana, togli quelle che derivano dalle proteine e dai grassi e otterrai il numero di calorie che dovrai assumere dai carboidrati (nel caso dei glucidi, per passare da kcal a grammi è sufficiente dividere per 4).

Dieta proteica ipocalorica per dimagrire (dimagrante)

piramide composizione corporea

Per quanto possa suonare strano ad alcuni, la dieta proteica per dimagrire funziona per un semplice motivo: è una dieta ipocalorica. Perdi peso perchè assumi meno calorie, non perché le proteine abbiano in sé un reale vantaggio metabolico.

Questo ti consente anche di non contare le calorie mentre segui un regime iperproteico, ma questo non vuol dire che le calorie non contino.

A favore dei protidi abbiamo anche che proteggono la massa magra dal catabolismo indotto da un deficit calorico e che aumentano la termogenesi indotta al cibo (il corpo consuma di più a digerirle).

Infine, anche se fisiologicamente non è detto che sia un vantaggio, la dieta proteica disidrata, facendo perdere rapidamente peso. Questo a livello psicologico motiva molto inizialmente la persona, perché dopo le prime due settimane questo effetto si perde e il calo del peso inizia ad essere appannaggio principalmente del tessuto adiposo.

Insomma se ti stai chiedendo se un regime alimentare iperproteico aiuti a dimagrire velocemente, la risposta è sì!
Tuttavia non è tutto oro quello che fa perdere peso. La dieta proteica inizia ad accusare i colpi nel medio e lungo periodo, quando le proteasi (enzimi che scindono le proteine) aumentano e riducono così la sensazione di sazietà. In questo modo inconsapevolmente aumenta anche l’introduzione di cibo.

In quanto tempo si dimagrisce?

Non si tratta di ore e nemmeno di giorni: bensì di settimane e mesi, a seconda di quanti chili di grasso devi perdere. Infatti, l’approccio graduale è il migliore e l’unico che funziona per perdere la massa di troppo, sia perché così anche il deficit calorico sarà graduale e non eccessivo, sia perché l’organismo ragiona in tempi lunghi – per qualcuno che vuole dimagrire in quattro giorni in vista della prova costume, troppo lunghi.

Per avere un parametro numerico, considera una perdita di peso di 0,5-1% del peso corporeo a settimana.

Dieta proteica per la palestra e il bodybuilding

dimagrire velocemente con la dieta proteica

Come già accennato, per gli sportivi un incremento delle proteine è la normalità quando vuoi sostenere la crescita muscolare ma anche mantenerla per ottimizzare la prestazione atletica, il recupero e la forma fisica.

Dieta proteica per mettere massa muscolare (sviluppo muscolare)

Quando svolgi attività contro resistenze e hai come obbiettivo l’aumento del peso corporeo tramite un incremento della massa magra (fase di massa) il range consigliato è 1.6-2.2 g proteine/kg peso corporeo. Le proteine sono più basse rispetto alla fase di definizione ma le calorie totali saranno più alte, a carico di carboidrati e grassi.

Dieta proteica per fare definizione muscolare

La fase di definizione è ipocalorica, il calo ponderale di massa grassa ma anche magra è inevitabile perché i processi catabolici hanno la meglio dato il deficit energetico. Per riuscire a mantenere al meglio i grammi di muscolo guadagnati, il range di proteine consigliato in questa fase è 2.2-2.6 g proteine/kg corporeo al giorno, ma in alcuni casi può arrivare anche fino ai 3 g.

Dato che in questa fase le proteine aumentano e il fabbisogno calorico è minore rispetto alla fase di massa, è chiaro che a diminuire devono essere grassi e carboidrati: i primi non dovrebbero comunque scendere sotto gli 0.5 g/kg pero corporeo, mentre i secondi non meno di 1g/kg peso corporeo.

 

Dieta proteica per sportivi e allenamento

Sia un atleta di resistenza che uno di forza ha bisogno di un’elevata sintesi proteica: l’assenza di proteine sufficienti corrisponde ad una concomitante distruzione delle proteine muscolari a lungo andare: se un giorno ti dimentichi di mangiare proteine nelle ore precedenti o successive all’allenamento o se non riesci a raggiungere il fabbisogno protidico giornaliero non succede nulla di catastrofico. Prima del timing e della precisione al grammo c’è comunque la “storia alimentare e di allenamento” del lungo periodo.

Infatti, l’effetto di un singolo allenamento e del suo recupero non si esaurisce nelle poche ore dopo l’allenamento, ma il metabolismo ne è influenzato per le successive 48 ore: motivo per il quale lo sportivo deve ragionare sulla distribuzione dei nutrienti nell’arco della settimana e non del singolo giorno o pasto.

In generale, il fabbisogno proteico minimo per gli sportivi corrisponde a 1.6 – 2.2 g/kg peso corporeo/die.

Dieta proteica per gli addominali

Breve storia triste: non basta mangiare proteine per avere gli addominali scolpiti, per lo stesso principio secondo il quale non è sufficiente non mangiare carboidrati per dimagrire.

In poche e semplici parole, il muscolo (gli addominali) cresce solo tramite l’allenamento (allenamento che non significa spararsi 15 serie da 100 ripetizioni di addominali ogni giorno), mentre il grasso viene rimosso solo per mezzo del deficit calorico ben impostato.

È facile capire che limitarsi a mangiare cibi proteici e pensare che le proteine assunte vengano indirizzate all’addome per formare la famosa tartaruga è biologicamente impossibile.

Conclusioni sulla dieta proteica

Le proteine svolgono sicuramente un ruolo importante in una fase di dimagrimento, sia aiutando a sopportare meglio la dieta, sia preservando la massa magra. Tuttavia, non devi cadere nell’errore psicologico che è sufficiente basare la tua alimentazione sui protidi per dimagrire, perché funziona ma solo inizialmente.

La piramide nutrizionale rivolta alla composizione corporea, mostra che non sono gli integratori a farci dimagrire (carnitinacaffeina, ecc.), non è il timing con cui assumiamo il cibo, non sono neanche i macronutrienti, ma è il deficit calorico!

 

Bibliografia

Burke & Deakin (2015). “Clinical Sports Nutrition”. Mc Graw Hill.

Helms et al. (2018). “The muscle & strength pyramid – Nutrition”.

L'articolo Dieta proteica: la guida completa proviene da Project inVictus.

Quante proteine assumere

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fonti di proteine

Quando introdurre le proteine sembra essere un grande dilemma per chi va in palestra: prima dell’allenamento ha effetto sul dimagrimento? Dopo è meglio così blocchi il catabolismo indotto dal workout? E durante?

Queste domande hanno sì un senso e troveranno una risposta nell’articolo, ma sono comunque dei quesiti secondari rispetto al “Quante proteine al giorno devi assumere?”. Il fabbisogno proteico giornaliero ha un’importanza primaria rispetto al timing: una volta stabilito “quanto” e “come” raggiungerlo potrai aggiungere il dettaglio del “quando”.

Quante proteine assumere al giorno

Da un punto di vista sistemico, il quantitativo di proteine giornaliero ideale per un soggetto qualsiasi varia in un range che va da 0.8 g/kg di peso corporeo fino a 3 g/kg: come vedi, l’intervallo è piuttosto ampio, per capire qual è il tuo bisogna fare qualche scrematura in base soprattutto all’attività che svolgi e al tuo obbiettivo.

Gli sportivi hanno normalmente un fabbisogno protidico più alto dei sedentari e il range si restringe tra 1.5 g/kg e 3 g/kg peso corporeo. Così, un soggetto di 70 kg potrebbe assumere da 105 fino a 210 g di proteine al giorno.

Quanti grammi di proteine assumere per peso corporeo

Tutte le grammature che trovi in questo articolo ma che si trovano così anche nei testi di nutrizione fanno riferimento ai grammi di proteine da assumere in relazione al peso corporeo totale e non, come ci si potrebbe aspettare, in base alla massa magra, dal momento che gli amminoacidi interagiscono principalmente con la massa muscolare.

Si fa riferimento al peso corporeo principalmente per un motivo pratico:

  • Il peso corporeo è facilmente misurabile da tutti, piuttosto che andare ad indagare quanto peso corrisponde a massa grassa e quanto a massa magra, che si può sapere tramite delle misurazioni della composizione corporea ma comunque con una certa percentuale di errore.

Quante proteine deve assumere una ragazza?

Il livello di assunzione di base per una ragazza sedentaria corrisponde a 0.8 g proteine/kg peso corporeo, un valore da aumentare anche fino a 1.8 g/kg nel caso di donna attiva e in fase di perdita di massa (un valore leggermente più basso rispetto a quello consigliato per l’uomo).

In linea generale, nelle adolescenti, nelle donne in gravidanza e nella anziane il valore basale è leggermente più alto: nei primi due casi in quanto si tratta di organismi in crescita, nel terzo caso a causa della menopausa che porta fisiologicamente ad un deterioramento del tessuto osseo, limitabile grazie ad una dieta proteica.

Quante proteine deve assumere un uomo?

In generale l’RDA è sempre 0.8 g proteine/kg corporeo, che è da considerare più come un valore sotto il quale non scendere piuttosto che il punto di riferimento indiscusso. Anche per i non sportivi, un leggero incremento di questa quota minima è consigliabile, dato che la tecnica solitamente utilizzata per il calcolo del bilancio azotato sistematicamente sottostima il bisogno delle proteine.

Puoi quindi considerare un intake giornaliero di 1.2-1.3 g/kg, da modificare in relazione alla situazione di dimagrimento, mantenimento o aumento ponderale.

L’uomo ha normalmente un fabbisogno maggiore rispetto alla donna, perciò nei vari range indicati nell’articolo i valori più alti corrispondono (sempre in termini generali!) a quelli dell’uomo.

Quante proteine assumere per dimagrire?

quante proteine

Durante il dimagrimento la quota proteica corrisponde a 1.5-2 g proteine/kg peso corporeo/die: più la restrizione calorica è elevata, meglio è spostarsi verso l’estremo maggiore del range protidico. Questo garantisce:

  • Sazietà
  • Mantenimento della massa magra e limitazione del break-down proteico

Una volta stabilite le calorie derivanti dalle proteine, individua quelle dei grassi, dei carboidrati e poi distribuiscile nell’arco della giornata e della settimana. Soprattutto per gli sportivi, è meglio impostare una restrizione energetica moderata (300-500 kcal), in modo da avere comunque un sufficiente apporto glucidico per sostenere i ritmi dell’allenamento e non avere ripercussioni sulla salute e sulla performance a causa di un deficit eccessivo.

Quante proteine assumere in fase di definizione?

In un periodo di definizione l’input calorico sarà basso ed è necessario creare un deficit energetico per poter perdere grasso e dimagrire ma questo metterà anche a rischio la massa magra. Il corpo potrebbe difatti ritenere il tessuto muscolare “inutile” a fronte della situazione di allarme in cui si trova e “sacrificarlo” a fini energetici.

Per prevenire questa problematica devi assumere due comportamenti:

  • Allenamento: l’allenamento dà un chiaro segnale al corpo che il tessuto muscolare NON è inutile.
  • Aumentare le proteine da assumere: le proteine hanno un forte potere anabolico, danno un input in termini di attivazione e mantenimento della proteosintesi. A questo consegue anche un potere anti-catabolico.

Risulta quindi logico che il range di proteine da assumere in un periodo di definizione sia tendenzialmente più alto: un quantitativo che va dai 2,2g/kg di peso corporeo sino ai 3g/kg di peso corporeo.

Quante proteine assumere dopo l’allenamento (post workout)?

Quante proteine assumere dipende: diventa importante la loro assunzione nell’immediato post-workout quando sono 4-5 ore che non mangi. Se invece non ti sei allenato a digiuno, puoi mangiare un pasto solido proteico e glucidico anche a distanza di 1-2 ore, senza che questo infici sulla massa muscolare, sul recupero o sull’allenamento successivo.

Infatti, un singolo allenamento porta a modificazioni ormonali-metaboliche che non si esauriscono subito dopo l’allenamento e nemmeno nell’arco di poche ore, ma bensì fino anche 48 ore, a seconda dell’intensità dell’allenamento. Motivo per il quale, non conta quante proteine assumi subito dopo l’allenamento, ma quante nell’arco della giornata o su un arco temporale maggiore.

Come assumere le proteine?

proteine integrazione

I protidi dovrebbero essere assunti principalmente sotto forma solida dal cibo, poco importa se le fonti sono animali o vegetali: anche se le proteine vegetali hanno un valore biologico più basso, quando la quota proteica è elevata, contano come le proteine animali.
I vegani che mangiano solo vegetali dovrebbero aumentare semplicemente il quantitativo calorico di 0.2-0.3 g/kg.

Come indicazione di massima, è meglio assumere almeno il 75-80% di proteine dal cibo ed il restante 20-25% da proteine in polvere, baratte proteiche ed integratori in generale.

Quali tipologie di proteine assumere

Le proteine in polvere sono un supplemento utile per raggiungere quote proteiche abbastanza alte. I vantaggi che hanno sono principalmente due:

  • In primis, il pool amminoacidico che, per alcune tipologie come le Whey, è particolarmente buono. Questo vantaggio si rispecchia principalmente nel maggior contenuto di amminoacidi essenziali (EAA) e di leucina in particolare, responsabili di un maggiore input anabolico (attivazione dei processi di proteosintesi).

In sostanza un minimo quantitativo di Whey (30-35gr) fornisce un forte stimolo anabolico, stimolo raggiungibile con più difficoltà (comunque minima) con un pasto solido.

  • In più, sono comode: puoi utilizzarle in diversi contesti essendo, di base, una bevanda. In viaggio, in lavoro, nei mezzi pubblici, tutte situazioni in cui il cibo solido potrebbe esserci scomodo e le proteine in polvere potrebbero invece essere un’arma da sfoderare.

In generale dunque non c’è un quantitativo massimo o minimo di proteine in polvere da assumere: puoi non prenderne affatto, di per sé questo non comporta qualche impedimento in termini ipertrofici. Possiamo anche assumere le proteine esclusivamente da questa fonte. Spesso quando sono in viaggio utilizzo questa opzione in modo da non preoccuparmi di reperire questa fonte che, a volte, è complessa da trovare (soprattutto in posti esotici).

Unico consiglio è quello di scegliere delle proteine senza aggiunta di troppi edulcoranti e dolcificanti che potrebbero minare al nostro microbiota e, se assunte in grandi quantità, creare problemi di assorbimento e danneggiare la composizione della flora batterica.

Quando assumere le proteine?

Non c’è un timing specifico per assumere i protidi, se non vicino all’allenamento. Si consiglia di inserire almeno 20-30g di proteine d’alta qualità intorno all’allenamento quando sei in palestra o 30′ prima o entro 2 ore rispetto a quando finisci.

Conviene considerare il tempo vicino all’allenamento come un blocco unico, il pre workout funge da post workout perchè quando introduciamo le proteine, queste permangono nel flusso sanguigno per diverse ore.

Possiamo fare anche una colazione proteica o mangiare i protidi alla sera per migliorare il senso di sazietà. Quello che conto è comunque il quantitativo giornaliero! Non c’è bisogno di fare tanti pasti (a meno che non ti risulti comodo) per stimolare la sintesi proteica ogni 4h.

In generale, le linee guida consigliano di fare 4 pasti proteici al giorno.

30 g di proteine a cosa corrispondono?

20-30 g, di cui 1-3 g di leucina e 10-12 g di EAA, di proteine ad alto valore biologico sono la quota che “satura” il muscolo e che è sufficiente per stimolare in modo massimale la sintesi proteica.

Raddoppiare la dose e assumere 40 g di proteine non ha nessun effetto in più sul muscolo, nel senso che la concentrazione proteica muscolare non raddoppia di conseguenza!

Infatti, per un totale di 80 g di proteine al giorno, assumere 8 dosi da 10 g ogni 1.5 ore, 4 da 20 g ogni 3 ore o 2 da 40 g ogni 6 ore è differente: la massima sintesi proteica avviene comunque nel secondo caso con le dosi da 20 g e non è contemplato nessun beneficio in più sul bilancio azotato con una quantità maggiore.

Una dose maggiore (40 g) è utile per dare una spinta anabolica massimale nel caso di soggetti anziani.

Quante proteine assumere per pasto?

quante proteine in definizione

Come appena visto, 20-30 g sono la quota ideale per massimizzare la sintesi delle proteine, ma attenzione! Questo non implica che l’organismo non sia in grado di assimilare più di 20-30 g di proteine per pasto.

Una volta si dava come indicazione massimo 30g di proteine per pasto, proprio perché, in virtù delle affermazioni precedenti, si pensava che una quota aggiuntiva andasse sprecata, visto che la massima sintesi proteica si raggiunge con questo quantitativo.

Ma se mangi più protidi questi vanno eliminati e quindi sprecati? Per fortuna no, il corpo non butta via niente di quello che gli serve. Oggi è noto infatti che non c’è un limite alla quota proteica per pasto: più proteine assumerai e più durerà la spinta anabolica indotta dagli aminoacidi.

Quindi se è vero che la massima sintesi proteica si raggiunge intorno ai 30g di proteine d’alta qualità, è altrettanto vero che mangiandone di più la spinta anabolica dura più a lungo, visto l’allungarsi dei tempi di digestione: gli amminoacidi restano in circolo fino a 14 ore dall’assunzione, pronti per essere captati e utilizzati.

Infatti, è vero che non c’è un deposito di proteine nell’organismo (come può essere il fegato per il glucosio), però una volta assorbiti gli amminoacidi, non tutti vengono immediatamente rilasciati nella circolazione periferica: alcuni vengono ritenuti nell’area splancnica, che funge da temporanea riserva del pool amminoacidico.

Quante proteine a colazione?

Mangiare proteine a colazione non è necessario per spezzare il catabolismo indotto dal digiuno notturno. Si è visto che più tempo digiuni maggiore sarà la spinta anabolica una volta che riprenderai a mangiare: il digiuno ha un effetto di rebound sui fattori di crescita una volta che si riprende a mangiare.

Questo vuol dire che a parità di quota proteica poco importa se mangi le proteine a colazione o durante altri orari della giornata.

Se tuttavia ti piace mangiare le proteine appena ti alzi, ecco diversi spunti per una colazione proteica.

Quante proteine vegetali assumere al giorno?

Nel caso di soggetto vegetariano o vegano le fonti vegetali andranno a ricoprire la maggior parte o il totale delle proteine giornaliere. Altrimenti, la quota è da sommare alle fonti proteiche animali: l’importante è raggiungere il fabbisogno proteico giornaliero, come lo raggiungi è un elemento di secondaria importanza.

È possibile raggiungere i tuoi obbiettivi anche con un’alimentazione del tutto “plant based”, gli unici due accorgimenti da considerare sono la varietà e incrementare un minimo il range (es. tra 1.8 e 3.3 g/kg peso corporeo). Questo per sopperire alla caratteristica non completezza dello spettro amminoacido delle proteine vegetali rispetto a quelle animali.

Conclusioni su quante proteine prendere

Il quantitativo di proteine da assumere è piuttosto vario e da contestualizzare: stai attento a carenze ma anche ad eventuali eccessi. Come al solito, non c’è un unico punto di riferimento nell’alimentazione così come nell’allenamento e non esiste nemmeno un particolare alimento o un singolo pasto che determina consequenzialmente la salute, la performance sportiva o il dimagrimento.

È il giusto bilanciamento di ogni fattore sul lungo periodo che rende l’insieme vincente.

 

Bibliografia

Burke & Deakin (2015). “Clinical Sports Nutrition”. Mc Graw Hill. Chapter 4: Protein p. 95-113

Deutz & Wolfe (2013). “Is there a maximal anabolic response to proteine intake with a meal?” Clin Nutr.

Jager et al. (2017). “International Society of Sports Nutrition Position Stand: protein and exercise”. Journal of ISSN.

Mamerow et al. (2014). “Dietary protein distribution positevely influences 24-h muscle protein synthesis in healthy adults”. JN.

Moore (2019). “Maximizing post-exercise anabolism: the case for relative rotein intakes”. Front Nutr.

Schoenfeld & Aragon (2018). “How much protein can the body use in a single meal for muscle-building? Implication for daily protein distribution”. J Int Sports Nutr.

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Bacino: anatomia e funzioni

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Pelvi visione frontale

Il bacino, anche detto pelvi, cingolo pelvico o cintura pelvica, (dal latino pelvis, ossia “bacinella”) è un anello osteo-legamentoso che contribuisce a comporre la struttura anatomica dello scheletro umano. Rappresenta il fondamentale punto di raccordo tra la parte superiore del corpo e quella inferiore.

Nel bacino infatti si incontrano le forze ascendenti degli arti inferiori, e le forze discendenti provenienti dalla testa, dalla colonna e dagli arti superiori, dei quali sorregge il peso, trasmettendolo agli arti inferiori. Vista la sua localizzazione fornisce superfici di contatto per l’inserzione di numerosi muscoli, legamenti ed articolazioni, che determinano i movimenti del tronco e delle anche.

Analizziamo ora la morfologia della pelvi più nello specifico, premessa fondamentale per comprenderne l’importanza per la funzionalità di tutto il corpo umano.

Bacino con piccolo trocantere
Visione frontale e posteriore del bacino

 Anatomia delle ossa del bacino   

 Il cingolo pelvico è formato antero-lateralmente dalle due ossa coxali (anche chiamate ossa iliache) e posteriormente dall’osso sacro e dal coccige. Le ossa coxali sono simmetriche rispetto al piano sagittale, e si uniscono tra loro a livello della sinfisi pubica, anteriormente, e a livello dell’osso sacro, posteriormente.

Ciascun osso coxale è formato a sua volta da tre ossa che si incrociano a livello dell’acetabolo e si saldano indicativamente dopo i 20 anni: troviamo cranialmente l’ileo, anteriormente il pube, e caudalmente e posteriormente l’ischio. L’ampia ala dell’ileo, conformata a ventaglio, forma quindi la metà superiore dell’osso coxale.

Appena sotto l’ala si trova il profondo acetabolo, a forma di semiluna. Inferiormente e medialmente all’acetabolo si trova il forame otturatorio, il più grande forame del corpo, ricoperto dalla membrana otturatoria, attraversato dagli omonimi vasi e nervo.

Pelvi

L’ileo ha una superficie esterna contrassegnata da linee glutee posteriore, anteriore e inferiore. Queste linee ospitano i punti di inserzione dei muscoli grande, medio e piccolo gluteo.

All’estremità anteriore dell’ileo si trova la spina iliaca antero-superiore, facilmente palpabile, dove si inseriscono i muscoli sartorio e tensore della fascia lata. Al di sotto di questa spina si trova la spina iliaca antero-inferiore, punto di inserzione del retto femorale, uno dei quattro capi muscolari del muscolo quadricipite.

La prominente cresta iliaca, che delimita cranialmente l’ileo e che ospita le inserzioni dei muscoli gran dorsale, trasverso dell’addome, obliquo interno ed esterno dell’addome, continua posteriormente e termina a livello della spina iliaca postero-superiore. Il tessuto molle superficiale alla spina iliaca postero-superiore è spesso marcato da una fossetta nella cute.

La spina iliaca postero-inferiore, meno prominente, segna il margine superiore della grande incisura ischiatica. L’apertura di questa incisura è convertita nel forame ischiatico maggiore dal legamento sacrospinoso e dalla parte prossimale del legamento sacrotuberoso, dove si inserisce una porzione del muscolo grande gluteo. La superficie interna dell’ileo è composta anteriormente dalla concavità liscia della fossa iliaca, delimitata dalla linea arcuata, dove origina il muscolo iliaco, che insieme al muscolo grande psoas va a formare il muscolo ileopsoas.

Posteriormente, la superficie auricolare si articola con l’osso sacro a livello dell’articolazione sacro-iliaca. Appena posteriormente alla superficie auricolare si trova l’ampia e ruvida tuberosità iliaca, che rappresenta il punto di inserzione dei legamenti sacroiliaci. L’ileo termina a livello dell’acetabolo, dove si inserisce la testa del femore, e dove si incrociano le tre ossa dell’osso coxale.

Coccige e pelvi

L’ischio è situato sotto l’acetabolo, ed è composta da un corpo e da una affilata spina ischiatica, che si proietta dal lato posteriore di quest’osso, appena inferiormente alla grande incisura ischiatica. La piccola incisura ischiatica è localizzata inferiormente alla spina.

Il legamento sacro-spinoso e la parte distale del legamento sacro tuberoso convertono la piccola incisura ischiatica nel piccolo forame ischiatico. L’ampia e tozza tuberosità ischiatica si proietta posteriormente e inferiormente dall’acetabolo. Questa struttura palpabile rappresenta il principale punto di scarico del peso corporeo quando siamo seduti, e funge inoltre da inserzione prossimale per i muscoli semitendinoso, semimembranoso, bicipite femorale e grande adduttore (capo posteriore).

Il ramo ischiatico si estende anteriormente dalla tuberosità ischiatica, terminando a livello della giunzione con il ramo pubico inferiore.

Osso coxale
Visione laterale dell’osso coxale destro

L’osso pubico parte dall’eminenza ileo-pubica, anteriore all’acetabolo, e prosegue con il ramo pubico superiore, che si estende medialmente fino al corpo appiattito del pube. Il margine superiore del corpo del pube è chiamato cresta pubica, ed ospita l’inserzione del muscolo retto dell’addome (ecco perché durante l’esecuzione dei crunch in palestra, per ottimizzare l’attivazione del retto addominale, viene dato il feedback di “portare lo sterno verso il pube”). Sul ramo superiore si trova la cresta pettinea, dove si inserisce il muscolo pettineo.

Il tubercolo pubico si proietta anteriormente a partire dal ramo pubico superiore, fungendo da punto di inserzione per il legamento inguinale. Il pube offre inoltre superfici articolari per le inserzioni dei muscoli adduttore breve, adduttore lungo e gracile. Il ramo pubico inferiore si estende dal corpo fino alla giunzione con l’ischio, posteriormente.

Le due ossa pubiche si articolano attraverso la sinfisi pubica, formando un’articolazione relativamente immobile rivestita da cartilagine. Le superfici articolari non sono completamente lisce, ma possiedono piccole creste rialzate che aumentano la resistenza alle forze di taglio. L’articolazione è saldamente vincolata da un disco fibrocartilagineo detto “disco inter-pubico”, rafforzato da legamenti e dal muscolo retto dell’addome.

A livello della sinfisi pubblica si verificano 2 mm di traslazione e una rotazione estremamente scarsa. Durante la gravidanza o subito dopo il parto alcune donne manifestano dolore attribuibile all’instabilità della sinfisi pubblica, causata dal fisiologico rilascio dei legamenti che supportano l’articolazione.

L’acetabolo è una cavità ossea profonda, conformata a semiluna, che accoglie la testa del femore, ed è localizzato superiormente al forame otturatorio. Il margine acetabolare forma un cerchio incompleto, lasciando un’apertura inferiore ampia dai 60 ai 70 gradi chiamata incisura acetabolare.

La cosiddetta “fossa acetabolare” è la depressione localizzata in profondità rispetto al piano dell’acetabolo, che ospita il legamento della testa del femore, del tessuto adiposo, la membrana sinoviale articolare e vasi sanguigni. L’acetabolo è circondato da un robusto anello fibro-cartilagineo detto labbro acetabolare o cotile, che ne delimita la maggior parte del margine esterno.

A completare l’anello, il legamento trasverso dell’acetabolo abbraccia l’incisura acetabolare. Le tre ossa iliache contribuiscono insieme alla formazione dell’acetabolo: ileo e ischio ne compongono il 75% circa, mentre il pube costituisce il restante 25%. La forma e la profondità dell’acetabolo sono molto variabili nelle persone, e hanno una forte influenza sulla mobilità nello squat.

Forma acetabolo

L’osso sacro è un osso triangolare con la base rivolta superiormente e l’apice inferiormente. Un’importante funzione del sacro consiste nel trasmettere il peso della colonna vertebrale al bacino. Durante l’età adulta il sacro si fonde in un unico osso, che conserva ancora alcune caratteristiche anatomiche delle vertebre generiche.

La superficie anteriore del sacro è liscia e concava, e costituisce la parete posteriore della cavità pelvica. La superficie dorsale dell’osso è convessa e ruvida a causa dei punti di attacco di muscoli e legamenti.

Diversi tubercoli spinali e laterali segnano rispettivamente la parte rimanente di processi spinosi e trasversi fusi. Longitudinalmente si possono notare tre creste, dette cresta mediale, intermedia e laterale. Il sacro presenta inoltre otto paia di forami sacrali (quattro paia sulla faccia mediale, quattro paia sulla faccia dorsale), che permettono il passaggio dei nervi spinali che formano gran parte del plesso sacrale.

Il margine anteriore acuminato del corpo della prima vertebra sacrale (S1) è chiamato promontorio sacrale.

Osso sacro
Osso sacro in visione posteriore e postero-laterale

Diversi muscoli appartenenti al gruppo dei muscoli rotatori esterni brevi dell’anca originano dalla superficie sacrale. Il canale sacrale triangolare ospita e protegge la cauda equina.

I peduncoli sono molto spessi e si estendono lateralmente insieme all’ala del sacro. I robusti processi articolari superiori hanno faccette articolari superiori che sono dirette generalmente postero-medialmente, e si articolano con le faccette inferiori dell’ultima vertebra lombare, formando le articolazioni apofisarie L5-S1.

Le grandi superfici auricolari si articolano con l’ileo, formando le articolazioni sacro-iliache, dotate di pochissima mobiltà, poichè stabilizzate da legamenti molto forti, ossia i legamenti ileo-lombari superiori e inferiori (dove si inserisce il muscolo quadrato dei lombi), i legamenti sacroiliaci e ileosacrali, e caudalmente i legamenti sacrospinoso e sacrotuberoso, dove origina parte del muscolo grande gluteo.

Oltre ai suddetti legamenti, queste articolazioni vengono stabilizzate dalla sinergica azione di un vasto insieme di muscoli, come gli erettori della colonna, diaframma, pavimento pelvico, addominali, estensori dell’anca, gran dorsale, iliaco e piriforme. L’osso sacro infine si restringe caudalmente per formare il suo apice, dove si articola con il coccige.

anatomia del Coccige
Visione posteriore e anteriore di sacro e coccige

Il coccige è una struttura ossea impari, composta generalmente da quattro vertebre fuse insieme, che contribuisce a comporre il complesso anatomico della colonna vertebrale, costituendone l’ultimo tratto. È un osso piccolo e simmetrico dalla forma piramidale situato sotto alla base inferiore dell’osso sacro.

Vista la sua localizzazione fornisce con la sua estremità superiore la superficie di contatto per l’articolazione sacro-coccigea, grazie alla quale va a costituire, insieme all’osso sacro, la parete posteriore della pelvi. Il coccige ospita l’inserzione di diversi muscoli aventi un ruolo nei movimenti dell’anca e nelle funzioni sfinteriche.

Funzioni del bacino

Il bacino è associato a tre funzioni importanti e molto differenti: funge da comune punto di inserzione per molti muscoli e legamenti e articolazioni dell’arto inferiore e del tronco, trasmette il peso della porzione superiore del corpo e del tronco alle tuberosità ischiatiche quando si è in posizione seduta e agli arti inferiori durante la stazione eretta e nella deambulazione; ed infine, grazie all’aiuto di muscoli e tessuti connettivi del pavimento pelvico, sostiene e protegge organi quali intestino, vescica e organi appartenenti all’apparato riproduttivo.

Articolazione sacroiliaca: movimenti e biomeccanica

Per riuscire a comprendere meglio la biomeccanica del bacino, è fondamentale approfondire i movimenti e le funzioni delle articolazioni sacro-iliache. Queste articolazioni, che abbiamo precedentemente nominato, sono formate dalla congiunzione tra le superfici auricolari del sacro e la superficie auricolare opposta di ciascun ileo.

L’inserimento del sacro tra le due ossa iliache fornisce un’efficace trasferimento di forze  potenzialmente elevate tra la colonna vertebrale, gli arti inferiori e il suolo; per tale ragione questa articolazione è finalizzata principalmente alla stabilità, piuttosto che alla mobilità.

Le superfici articolari del sacro hanno un braccio corto e uno lungo, formando una sorta di boomerang, con l’angolo aperto rivolto posteriormente, e lo svincolo a livello della seconda vertebra sacrale.

Sacroiliaca
Visione posteriore delle articolazioni sacroiliache

Durante l’infanzia all’articolazione sacro-iliaca è relativamente mobile e circondata da una capsula morbida, ma tra la pubertà e l’età adulta perde mobilità, a favore della stabilità, con le superfici articolari che da lisce diventano ruvide, aumentando la resistenza alle forze di taglio. Cambiamenti degenerativi delle articolazioni sacro-iliache sono stati identificati in una percentuale superiore all’85% degli adulti asintomatici di età superiore ai sessant’anni. Nell’ottavo decennio di vita, circa il 10% della popolazione ha articolazioni sacro-iliache completamente ossificate o fuse (molto più spesso negli uomini che nelle donne); questi cambiamenti, tipicamente asintomatici, non sono patologici, ma rappresentano piuttosto un rimodellamento strutturale per adattarsi all’aumento del carico associato alla maturazione fisica. Nella popolazione possiamo trovare due tipi di articolazioni sacro-iliaca, una molto orizzontale e dinamica, in cui la persona si è ben adattata alla posizione bipede e in cui il peso grava maggiormente sull’arcata vertebrale posteriore di L5-S1, e un articolazione sacro-iliaca statica, verticale, in cui il peso grava maggiormente sul disco di L5-S1. L’osso sacro non si trova direttamente sopra l’acetabolo, dove si inserisce la testa del femore, ma posteriormente: questo fa si che quando si sta in piedi gli arti inferiori spingano il bacino in retroversione, mentre il peso del rachide e degli arti superiori spinge l’osso sacro anteriormente, verso l’antiversione.

Artrosi sacroliaca

Parlando di scarico delle forze, durante la stazione eretta le forze discendenti provenienti dal rachide continuano lungo la linea arcuata, scendono sull’acetabolo, dove esercitano una forza di compressione, e proseguono fino alla sinfisi pubica, che viene invece trazionata.

Al contrario, nella posizione seduta, le forze discendenti continuano fino alle tuberosita ischiatiche, che vengono spinte cranialmente, con la sinfisi pubica soggetta non più a forze di trazione, ma a forze di compressione.

Movimenti sacroiliaca

A livello delle articolazioni sacroiliache sono stati descritti movimenti tridimensionali e traslazionali relativamente piccoli e mal definiti. Anche se è difficile da misurare, l’ampiezza di questi movimenti nell’adulto è indicata da 1 a 4 gradi per la rotazione e da 1  a 2 mm per la traslazione.

Sebbene nessuna  terminologia descriva completamente i complessi movimenti rotazionali e traslazionali dell’articolazione, due termini sono tipicamente usati a questo scopo: nutazionecontronutazione, che descrivono movimenti limitati nel piano sagittale, attorno a un asse di rotazione medio-laterale che attraversa il legamento interosseo.

La nutazione è definita come la relativa inclinazione anteriore della base dell’osso sacro rispetto all’ileo, con la simultanea chiusura delle ali iliache nel movimento di “in-flare” e lieve apertura delle tuberosità ischiatiche. La contronutazione è un movimento inverso, definito come la minima inclinazione posteriore della base dell’osso sacro rispetto all’ileo, con la simultanea chiusura delle ali iliache nel movimento detto “out-flare”, e chiusura delle tuberosità ischiatiche.

Questi due movimenti ci permettono, soprattuto durante la deambulazione, di scaricare correttamente tutte le forze, e possono avvenire mediante rotazione sacro-iliaca, per rotazione ileo-sacrale, o per entrambi i movimenti eseguiti contemporaneamente. Oltre alla funzione di trasferimento del carico tra tronco e arti inferiori, l’articolazione sacro-iliaca ha l’importante ruolo di ridurre notevolmente gli stress meccanici all’interno della cintura pelvica.

Bacino nell’uomo e nella donna: quali differenze?

 La pelvi maschile e quella femminile presentano numerose differenze, per motivi sostanzialmente “evolutivi”, legati al fatto che la pelvi femminile è deputata ad ospitare il feto e a permetterne la fuoriuscita durante il parto.

Il bacino femminile, di conseguenza, si presenta più ampio rispetto a quello maschile, che è invece stretto e compatto. Nell’uomo infatti il bacino si sviluppa maggiormente in altezza, presentando una posizione più verticale rispetto a quello femminile,  esteso maggiormente in larghezza e più inclinato anteriormente. Inoltre, come in molte altre strutture ossee del corpo umano, nell’uomo le ossa iliache e sacrali sono più spesse e più pesanti di quelle della donna. Riguardo all’apparato riproduttivo, nella donna la pelvi ospita l’utero, le tube di Falloppio, le ovaie e la vagina, mentre nell’uomo sono contenute prostata, dotti deferenti e vescicole seminali.

L’osso sacro maschile si presenta più lungo e ristretto di quello femminile, e presenta un promontorio sacrale (punto di incontro tra quinta vertebra lombare e prima vertebra sacrale) più ampio. Considerando il maggior diametro della pelvi femminile rispetto a quella maschile, gli acetaboli nella donna saranno localizzati ad una distanza reciproca maggiore rispetto all’uomo: questo fattore in alcuni casi può avere ripercussioni sulla posizione dell’asse femorale, predisponendo maggiormente le donne ad un allineamento in valgo delle ginocchia.

Nella faccetta articolare dell’osso iliaco maschile troviamo numerose scalanature, e l’articolazione è più di tipo “ad incastro”, mentre nella femmina la superficie articolare è molto più liscia e mobile, con un’articolazione più “a pressione”. Il diametro della pelvi femminile subisce delle notevoli modificazioni durante la gravidanza, per permettere al bambino di nascere. Diametri pelvici troppo ristretti, pur non costituendo un problema durante la gestazione, possono rendere il parto difficoltoso durante il passaggio del bambino attraverso lo stretto superiore.

Pelvi uomo vs donna
Bacino maschile (A) e femminile (B)

Fratture del bacino

Le principali cause che provocano fratture alle ossa del bacino sono rappresentate dai traumi diretti, spesso conseguenti a  cadute violente, incidenti stradali, o traumi sportivi, specialmente in sport da contatto come il rugby e il football. Queste fratture avvengono nella maggioranza dei casi in persone anziane, anche per banali cadute “casalinghe”.

Questa statistica è dovuta all’alto fattore di rischio che questa fascia di popolazione possiede, a causa di fattori contribuenti come osteoporosi, osteopenia, sarcopenia, fisiologica degenerazione età-correlata, obesità, stile di vita sedentario e fumo di sigaretta.

Le parti del bacino più spesso colpite sono le ali iliache, il sacro e i rami pubici. La diagnosi è tipicamente basata su una radiografia o TAC, che può mettere in luce il livello e la gravità della frattura. Il trattamento viene scelto in base all’ età del paziente, al tipo di frattura e alle condizioni generali del paziente, ma generalmente nel caso di fratture del bacino si utilizza un approccio conservativo, con una fase più o meno lunga di immobilizzazione, e una ripresa funzionale successiva, con recupero di mobilità e forza neuromuscolare. La prognosi è spesso favorevole, e solo in casi di fratture gravi e/o scomposte si va verso il trattamento chirurgico.

Casi particolari sono rappresentati dalle fratture da avulsione: in queste la frattura avviene a livello della zona di inserzione tendinea di un muscolo, che può produrre una forza tale da causare il distacco della porzione ossea dove si inserisce. Tali fratture sono più frequenti negli sportivi e nei pazienti con osteoporosi.

Fratture bacino
Fratture bacino

Sacro-iliaca e mal di schiena: quale legame?

Anche se difficile da diagnosticare con precisione, si ritiene che le articolazioni sacro-iliache siano la fonte di dolore in circa il 25% dei pazienti affetti da lombalgia cronica, sebbene la letteratura non abbia ancora trovato un accordo unanime a riguardo. Il dolore dell’articolazione sacro-iliaca può essere secondario a lesioni dell’articolazione stessa o dei tessuti connettivi peri-articolari circostanti.

Tali lesioni possono in alcuni casi essere il risultato di traumi diretti come violente cadute direttamente sul sacro o da altezze elevate. Il trauma in tale regione può inoltre essere associato a un parto travagliato, portando a una condizione chiamata “Pregnancy-related pelvic girdle pain”. In entrambi i sessi, le lesioni delle articolazioni sacro-iliache possono essere correlate a torsioni unilaterali ripetute a carico del bacino e della regione lombare, che avvengono spesso durante il pattinaggio artistico o in altri sport che richiedono frequenti calci o lanci ad alta velocità.

Un altro fattore contribuente alla lesione delle sacro-iliache può essere lo stress causato da alterazioni posturali o strutturali.

Mal di schiena

Spesso, il meccanismo lesivo o le patologie alla base di un’articolazione sacro-iliaca dolente non sono di facile inquadramento diagnostico. Sarà fondamentale utilizzare il ragionamento clinico, e se necessari esami strumentali, per poter eseguire una diagnosi differenziale che riesca ad escludere segni e sintomi di patologie più gravi (red flags) e ad identificare la potenziale origine del dolore.

Tuttavia, come la recente letteratura ci insegna, nella maggioranza dei casi questo non è possibile (si parla in questi casi di “lombalgia aspecifica”), in quanto i meccanismi del dolore sono complessi e multifattoriali, e spesso non giustificabili attraverso una visione prettamente meccanica.

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Piede: anatomia e funzioni

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Ossa del piede

Il piede è la struttura anatomica situata all’estremità distale della gamba, che contribuisce a comporre il complesso anatomico dell’arto inferiore, costituendone il segmento terminale.
È formato da un insieme di 26-28 ossa e 33 articolazioni, localizzate inferiormente alle ossa della gamba tibia e perone. Vista la sua localizzazione fornisce con la sua estremità prossimale la superficie di contatto per l’articolazione della caviglia, anche detta tibio-tarsica.

Grazie alla propria posizione e morfologia, il piede permette al corpo di eseguire movimenti fondamentali nella locomozione, e fornisce un sostegno di grande importanza nel mantenimento della stazione eretta. È sostenuto da un gran numero di piccoli legamenti e ospita l’inserzione di numerosi muscoli. Analizziamo ora l’anatomia del piede più nello specifico, premessa fondamentale per comprenderne l’importanza per la funzionalità di tutto il corpo umano.

Ossa del piede

Anatomia del piede

Il complesso anatomico del piede comprende un vasto numero di ossa, generalmente suddivise in ossa del tarso, ossa metatasali e falangi. Un’ulteriore classificazione suddivide il piede in tre regioni, ciascuna composta da un insieme di ossa e una o più articolazioni: retropiede, costituito da astragalo, calcagno e dall’articolazione che le unisce; mesopiede, formato dalle restanti ossa tarsali, e avampiede, che comprende ossa metatarsali e falangi.

Articolandosi fra loro, grazie alla propria morfologia, le ossa del piede formano una struttura scheletrica in grado di sopportare carichi molto elevati. Andiamo a vedere in che modo. Le ossa del tarso (o “ossa tarsali”), situate inferiormente all’articolazione della caviglia, sono costituite da astragalo, calcagno, navicolare, cuboide e tre ossa cuneiformi.

Piede
Piede con legamenti

L’astragalo (o “talo”), possiede una superficie dorsale a forma di cupola arrotondata ricoperta da cartilagine, che le permette di articolarsi con la pinza malleolare formando l’articolazione tibio-tarsica. Quest’osso presenta una prominenza ossea detta “testa dell’astragalo” che si proietta in avanti e medialmente verso l’osso navicolare, con il quale si articola formando l’articolazione astragalo-navicolare. Insieme all’articolazione calcaneo-cuboidea, che vedremo in seguito, questa articolazione va a formare l’articolazione trasversa del tarso, detta anche “ medio-tarsica”, o “ articolazione di Chopart”, che collega il retropiede con il mesopiede, fornendo mobilità alla colonna mediale del piede. Il legamento di Spring, che collega astragalo e navicolare, fornisce sostegno all’articolazione; lacerazioni o lassità di questo legamento possono contribuire all’instaurarsi di un piede piatto.

Sulla sua superficie inferiore invece, l’astragalo possiede tre faccette articolari, leggermente ricurve e ricoperte di cartilagine, che vanno ad articolarsi con le corrispondenti tre faccette poste sulla superficie superiore del calcagno, nell’articolazione sotto-astragalica (o astragalo-calcaneare), stabilizzata da due capsule articolari distinte e dai legamenti calcaneo-fibulare, legamento deltoide nelle sue fibre tibio-calcaneari, e legamento interosseo (o talo-calcaneare).

Nessun muscolo del corpo trova inserzione sull’astragalo, tuttavia quest’osso, grazie ad un solco formato tra i tubercoli mediali e laterali posti sulla sua superficie posteriore, funge da puleggia per il tendine del muscolo flessore lungo dell’alluce, favorendone l’espressione di forza.

Astragalo
Visione altero-laterale e superiore dell’astragalo

Il calcagno, osso tarsale più grande, presenta posteriormente una estesa e ruvida tuberosità ossea, che ospita l’inserzione del tendine di Achille, formato dall’unione dei muscoli gastrocnemio e soleo. La superficie inferiore della tuberosità ha inoltre dei processi ossei che fungono da inserzione per molti muscoli intrinseci e per la fascia profonda del piede. La superficie anteriore del calcagno, piccola e curva, si rapporta con l’osso cuboide nell’articolazione calcaneo-cuboidea, precedentemente citata, che contribuisce a formare l’articolazione trasversa del tarso, oltre a fornire stabilità alla colonna laterale del piede.

La superficie dorsale invece, di dimensioni maggiori, contiene tre faccette che si uniscono alle corrispondenti faccette dell’astragalo. Tra le faccette del calcagno è presente un ampio solco, detto “solco calcaneare”, all’interno del quale sono presenti le inserzioni di forti legamenti che fissano l’articolazione sotto-astragalica. Con quest’ultima, i solchi del calcagno e del talo formano un canale noto come “seno tarsale”.

Calcagno
Visione altero-laterale e superiore del calcagno

L’osso navicolare (o “scafoide del tarso”) è un osso breve che presenta una convessità anteriore tale da conferirgli una vaga somiglianza con lo scafo di una barca, da qui deriva l’etimologia del nome ( si riferisce a “navy”). La sua superficie prossimale concava accoglie la testa dell’astragalo, mentre sulla sua superficie distale presenta tre faccette relativamente piatte che si articolano con le tre ossa cuneiformi, formando le tre articolazioni cuneo-navicolari ,(stabilizzate da piccoli legamenti plantari e dorsali) le quali hanno un’importante ruolo nella distribuzione equilibrata dei movimenti del piede nelle varie regioni che lo compongono.

La superficie mediale del navicolare presenta una tuberosità ossea palpabile nell’adulto, che funge da inserzione distale del muscolo tibiale posteriore. In alcune persone questo osso risulta particolarmente sporgente, generando preoccupazioni a riguardo, tuttavia queste particolari conformazioni non sono associate ad alcun aumento di rischio patologico rispetto alla “normalità”.

Navicolare
Visione altero-laterale del navicolare

Il cuboide è un osso composto da sei superfici, tre delle quali articolate con le ossa tarsali adiacenti: calcagno, terzo cuneiforme e navicolare, con le quali genera le articolazioni calcaneo-cuboidea, cuboideo-navicolare e cuneo-cuboidea. Queste ultime due fungono da punto di contatto tra la colonna longitudinale mediale e laterale del piede, e vengono stabilizzate dai legamenti plantari, dorsali e interossei. L’articolazione cuneo-cuboidea, poi, va a comporre insieme alle piccole articolazioni inter-cuneiformi l’arco trasverso del piede, che fornisce stabilità trasversale al mesopiede e distribuisce il peso corporeo su tutte e cinque le teste delle ossa metatarsali, grazie al sostegno di muscoli intrinseci ed estrinseci come il tibiale posteriore e peroneo lungo.

Con la sua superficie distale, il cuboide si articola inoltre con le basi del quarto e del quinto osso metatarsale. Un solco distinto attraversa la superficie plantare del cuboide, il cui spazio viene riempito dal tendine del muscolo peroneo lungo.

Cuboide
Visione altero-laterale e superiore del cuboide

Le tre ossa cuneiformi, così chiamate a causa della loro forma simile a quella di un cuneo, fungono da distanziatori tra l’osso navicolare e le basi delle tre ossa metatarsali mediali, e contribuiscono a formare l’arco trasverso del piede. Si articolano fra di loro attraverso le articolazioni inter-cuneiformi, con il navicolare tramite l’articolazione cuneo-cuboidea, e con le prime tre ossa metatarsali attraverso le articolazioni tarso-metatarsali. Considerandole in direzione medio-laterale, vengono nominate rispettivamente primo cuneiforme (o cuneiforme mediale), secondo cuneiforme (o cuneiforme intermedio) e terzo cuneiforme (o cuneiforme laterale).

Queste tre piccole ossa inoltre ospitano le inserzioni dei muscoli tibiale posteriore, tibiale anteriore, peroneo lungo, adduttore dell’alluce e flessore breve dell’alluce.

Ossa cuneiformi
Visione superiore del primo, secondo e terzo cuneiforme (rispettivamente da sinistra verso destra)

Passiamo ora alle cinque ossa metatarsali, che collegano la fila distale delle ossa tarsali con le falangi prossimali. Sono numerate da 1 a 5, in direzione medio-laterale, e sono composte ciascuna da una base (alla sua estremità prossimale), un corpo e una testa convessa (alla sua estremità distale). Le basi delle ossa metatarsali possiedono piccole faccette articolari che indicano il sito di articolazione con le ossa metatarsali adiacenti, attraverso le articolazioni inter-metatarsali. Il secondo e il terzo osso metatarsale sono inseriti rigidamente sulla fila distale delle ossa tarsali, a causa delle forze importanti che attraversano questa regione dell’avampiede durante la camminata.

Le ossa metatarsali sono collegate alle ossa del tarso attraverso le articolazioni tarso-metatarsali, spesso chiamate articolazioni di Lisfranc, che separano il mesopiede dall’avampiede, stabilizzate da diversi legamenti dorsali, plantari e interossei. La superficie plantare della testa del primo osso metatarsale ha due piccole faccette articolari che si articolano con le due ossa sesamoidi, due piccole ossa inserite nel tendine del muscolo flessore breve dell’alluce. Il quinto osso metatarsale, infine, ha un prominente processo stiloideo che ospita l’inserzione del muscolo peroneo breve.

Ulteriori muscoli che trovano inserzione sulle ossa metatarsali sono il tibiale anteriore, peroneo anteriore (o terzo), peroneo lungo, adduttore dell’alluce, flessore breve del quinto dito, i tre muscoli plantari interossei e i quattro muscoli dorsali interossei.

Ossa metatarsali
Visione altero-laterale e superiore delle cinque ossa metatarsali

Le falangi, infine, sono 14 ossa che vanno a costituire l’avampiede, insieme alle 5 ossa metatarsali. Ciascuna delle quattro dita laterali contiene una falange prossimale, una intermedia e una distale, mentre il primo dito, comunemente chiamato alluce, possiede due falangi, una prossimale e una distale. Ciascuna falange ha ai base posta alla sua estremità prossimale, un corpo, e una testa convessa alla sua estremità distale.

Cinque articolazioni metatarso-falangee si formano fra la testa convessa di ciascun osso metatarsale e la concavità dell’estremità prossimale di ciascuna falange prossimale, facilmente palpabili sul dorso dell’avampiede quando sono flesse. Una coppia di legamenti collaterali si estende su ciascuna articolazione metatarso-falangea, fornendo stabilità insieme ad altri quattro legamenti metatarsali trasversali profondi.

Come nelle dita della mano, ogni dito del piede ha un’articolazione inter-falangea prossimale e un’articolazione inter-falangea distale, ad esclusione dell’alluce, che possiede solamente un’articolazione inter-falangea. Le falangi ospitano le inserzioni di molti muscoli del piede, tra cui troviamo muscoli estensori lunghi e brevi delle dita, flessori lunghi e brevi delle dita, adduttore e abduttore del primo dito, abduttore del quinto dito, lombricali e interossei dorsali e palmari.

Falangi piede
Visione superiore delle falangi prossimali, intermedie e distali (rispettivamente da sinistra verso destra)

Funzioni e movimenti del piede

Il piede ha essenzialmente quattro funzioni principali: fornisce una superficie articolare in grado di mettere in rapporto l’arto inferiore con il suolo, garantisce stabilità alla posizione eretta assorbendo gran parte del peso corporeo, rende possibile grazie alla propria complessa anatomia movimenti fondamentali nella locomozione, nella corsa, nel salto e nella camminata su superfici irregolari, adattandosi alle diverse tipologie di superficie; e si presta infine come punto di inserzione ossea di numerosi legamenti e tendini muscolari.
Le articolazioni che compongono il complesso anatomico del piede, in sinergia con la caviglia, permettono a questo di compiere movimenti attraverso tre gradi di libertà, attorno a tre assi:

– Un asse trasversale che attraversa i malleoli mediale e laterale, attorno al quale avvengono i movimenti di flessione dorsale e flessione plantare, principalmente a carico dell’articolazione della caviglia, anche detta tibio-tarsica.
– Un asse longitudinale del piede che attraversa il tallone e l’articolazione sotto-astragalica, attorno al quale avvengono i movimenti di supinazione e pronazione, principalmente a carico dell’articolazione sotto-astragalica.
– Un asse longitudinale della gamba intorno al quale avvengono movimenti di abduzione ed adduzione

Piede

Le articolazioni del piede hanno una struttura particolare tale per cui ogni movimento della sotto-astragalica su un piano è accompagnato sempre da un movimento negli altri due piani: la supinazione è accompagnata dall’inversione, dall’adduzione e dalla flessione plantare, mentre la pronazione è accompagnata dall’eversione, dall’abduzione e dalla flessione dorsale.

Movimenti del piede
Movimenti di flessione dorsale (a sinistra) e flessione plantare (a destra)

A causa dell’inclinazione dell’asse di Henke (asse attorno a cui si muove l’articolazione sotto-astragalica), posizionato a 42 gradi rispetto al piano orizzontale e a 16 gradi rispetto al piano sagittale, solo due delle tre componenti principali di pronazione e supinazione sono fortemente evidenti: inversione ed eversione, abduzione ed adduzione. La pronazione, dunque, ha componenti principali di eversione e abduzione, mentre la supinazione ha componenti principali di inversione e adduzione. Il calcagno effettua una flessione dorsale e una leggera flessione plantare rispetto all’astragalo, tuttavia questi movimenti sono minimi e solitamente ignorati clinicamente.

Movimenti del piede
Movimenti di inversione (a sinistra) e di eversione (a destra)

Oltre a garantire i gradi di libertà che permettono di eseguire i movimenti citati, le articolazioni del piede permettono a questo di adattarsi alle infinte deformità possibili del suolo, modificandone parzialmente la morfologia e ammortizzando le importanti forze a cui è sottoposto. La funzione di sostegno data dal piede è resa possibile grazie a tre punti di appoggio con il suolo: uno posto sulla testa del primo osso metatarsale ( e alle ossa sesamoidi), uno sulle teste del quarto e quinto osso metatarsale, e uno localizzato sulla tuberosità posteriore del calcagno.

Il carico corporeo viene scaricato sulla puleggia astragalica, e da qui viene dissipato su tutto il piede (grazie alla forma e alla struttura del complesso articolare che lo forma) verso tre direzioni: antero-mediale, antero-laterale e posteriore. Il piede è inoltre in grado generare forze propulsive grazie ad un meccanismo di ammortizzamento-spinta reso possibile dall’assorbimento e rilascio di forze a carico della volta plantare, formata da tre archi: un arco longitudinale mediale (formato dal primo osso metatarsale, primo cuneiforme, navicolare, astragalo e calcagno), un arco longitudinale laterale (formato da quinto osso metatarsale, cuboide e calcagno) ed un arco trasverso (teso tra la testa del primo e del quinto osso metatarsale).

L’arco longitudinale mediale rappresenta la principale struttura portante e ammortizzante del piede, trova la sua chiave di volta sull’articolazione astragalo-navicolare, ed è stabilizzato dalla fascia plantare, dal legamento di Spring e dalla prima articolazione tarso-metatarsale.

Quando sottoposto al carico, ogni arco si appiattisce e si tensiona in maniera direttamente proporzionale all’entità del carico. Durante la locomozione il carico corporeo viene assorbito dal retropiede durante la fase di contatto del tallone, successivamente viene distribuito verso il mesopiede nella fase di appoggio del piede, ed infine verso l’avampiede, dal quale viene generata la forza necessaria nella fase di spinta della camminata.

Archi plantari
Illustrazione dei tre archi plantari

Piede piatto

Il termine “piede piatto” descrive un piede il cui arco longitudinale mediale risulta cronicamente ridotto o insolitamente diminuito. Questa condizione, presente nel 20% circa della popolazione sana e asintomatica, è spesso il risultato di lassità articolare all’interno delle regioni dell’avampiede, tipicamente associata ad una fascia plantare sottoposta a stress eccessivi, e di conseguenza lesionata e/o indebolita, così come il legamento di Spring e il tendine del tibiale posteriore.

In tale condizione, l’articolazione sotto-astragalica viene eccessivamente pronata, inducendo il retropiede ad assumere una posizione eccessiva in valgo, con un avampiede in eccessiva abduzione.

Una persona con piede piatto moderato o grave ha in genere una capacità compromessa di sostenere e distribuire i carichi attraverso il piede, con conseguente necessità di forze significative da parte dei muscoli intrinseci ed estrinseci per compensare la mancanza di tensione ricevuta dai tessuti connettivi, eccessivamente tesi o indeboliti. Può essere necessaria una notevole attività muscolare anche per mantenere la normale posizione eretta, che può contribuire all’affaticamento e a vari sintomi di overuse, tra cui dolore generalizzato al piede e alle gambe e ispessimento/infiammazione della fascia plantare.

Piede piatto
Piede piatto

Alcuni autori suddividono il piede piatto in due tipologie: piede piatto rigido e piede piatto flessibile. Il piede piatto rigido presenta un arco ridotto anche in posizioni prive di carico; questa deformità è spesso congenita, secondaria a una malformazione ossea o articolare, come una fusione parziale del calcagno con l’astragalo fissato in eversione. A causa della rigidità e della possibile insorgenza di sintomi dolorosi, il piede piatto rigido nel bambino può richiedere una correzione chirurgica.

Il piede piatto flessibile, invece, rappresenta la forma più comune, con l’arco longitudinale mediale che appare normale quando in scarico, ma che diminuisce eccessivamente in presenza di carico.

Il piede piatto flessibile è spesso associato a lassità dei tessuti connettivi locali di supporto, debolezza generalizzata o dolore nei muscoli che supportano l’arco, o a meccanismi compensatori che causano un’eccessiva pronazione del piede. L’intervento chirurgico è raramente indicato per un piede piatto flessibile; il trattamento di solito prevede l’ortesi (utilizzando calzature specializzate) e l’esecuzione di esercizi di rinforzo dei muscoli del piede e di tutto l’arto inferiore.

Anche se l’arco appare completamente piatto in stazione eretta, alcuni adattamenti muscolari/cinematici durante il ciclo della camminata possono compensare diverse potenziali conseguenze negative del piede piatto. Queste compensazioni naturali possono in parte spiegare perché alcune persone sane che soddisfano i criteri di diagnosi del piede piatto non mostrano sintomi dolorosi mentre camminano.

Piede piatto
Rx di un piede piatto

Esiste poi una condizione chiamata “deformità del piede piatto acquisito da adulto (AAFD)”, dove traumi, infiammazioni croniche o patologie degenerative a carico del tendine del muscolo tibiale posteriore, naturalmente predisposto a lesioni da overuse a causa dei rapidi cambiamenti tra attivazione concentrica ed eccentrica a cui è sottoposto durante la camminata, provocano un crollo dell’arco longitudinale mediale.

Il cedimento strutturale di questo tendine è in genere associato a una caduta dell’osso navicolare e alla marcata eversione del retropiede con una estensione dell’avampiede in abduzione eccessiva. Sono stati descritti quattro stadi di AAFD in base alla gravità della condizione.

Questo quadro patologico può essere doloroso e invalidante, presentandosi, in diversi ordini di gravità, in circa il 10% delle donne anziane. Il trattamento è stato a lungo dibattuto: le prime fasi, più lievi, possono rispondere bene alla fisioterapia e alle ortesi, mentre la chirurgia è spesso necessaria nelle fasi successive più gravi.

Piede cavo

Il piede cavo è meno comune del piede piatto e nella sua forma meno grave descrive un arco longitudinale mediale sollevato in modo anomalo, spesso associato ad un eccesso di varismo del retropiede, e possibile valgismo dell’avampiede, come meccanismo di compensazione per mantenere l’avampiede mediale saldamente a contatto con il suolo. Il piede cavo può presentarsi in forma cronica o progressiva e può manifestarsi nell’infanzia o nella vita adulta.

Molte forme relativamente lievi di piede cavo sono considerate idiopatiche (senza causa specifica identificata) con una forte predisposizione genetica. Le limitazioni funzionali associate al piede cavo lieve o moderato variano da irrilevanti a marcate; l’arco cronicamente sollevato riduce l’area di contatto tra la superficie plantare del piede e il suolo, aumentando di conseguenza le pressioni ricevute dal peso corporeo, che vengono inoltre spostate anteriormente, a carico dell’avampiede. Per questo motivo le persone con un piede cavo marcarti possono presentare dolore in zona metatarsale (metatarsalgia) e formazioni callose sulla regione delle teste metatarsali.

Piede cavo e piatto

Il piede cavo, teoricamente, non è in grado di assorbire in modo ottimale gli impatti ripetuti durante la camminata e la corsa, aumentando quindi il rischio di sviluppare lesioni all’interno del piede e della gamba. Esistono anche casi più gravi di piede cavo molti dei quali associati ad una causa nota, spesso traumatica, come una grave frattura, una lesione da compressione o un’ustione. Le opzioni di trattamento variano in base all’età, alla causa organica (quando nota) e al grado di coinvolgimento, e prevedono un approccio conservativo (fisioterapia e/o ortesi) ed un approccio chirurgico (trasferimento tendineo).

Piede cavo
Modello di un piede cavo

Alluce valgo

La caratteristica principale dell’alluce valgo è una progressiva deviazione laterale dell’alluce rispetto al piano di simmetria corporeo. Sebbene la deformità sembri coinvolgere principalmente l’articolazione metatarso-falangea, l’alluce valgo in realtà comprende usualmente l’intero primo raggio. È tipicamente associato ad un’eccessiva adduzione del primo osso metatarsale, che può portare alla dislocazione laterale dell’articolazione metatarso-falangea, esponendo così completamente la testa dell’osso metatarsale, dove spesso viene a formarsi un callo (o borsa).

L’articolazione metatarso-falangea deformata può inoltre andare incontro a infiammazione, sintomi dolorosi e aumentato rischio di artrosi. Se la falange prossimale devia lateralmente di almeno 30 gradi, spesso inizia a ruotare attorno al proprio asse longitudinale, aggravando il quadro. L’alterazione posizionale di queste ossa crea uno squilibrio muscolare, con il muscolo abduttore dell’alluce che può gradualmente spostarsi verso il lato plantare dell’articolazione (mentre normalmente è localizzato medialmente rispetto alla prima articolazione metatarso-falangea).

Alluce valgo
Alluce valgo

Anche alcune strutture legamentose, tra cui il legamento collaterale mediale e la capsula collaterale, possono indebolirsi o rompersi a seguito delle tensioni eccessive a cui sono sottoposti, rimuovendo in tal modo la fonte primaria di rinforzo mediale dell’articolazione. I soggetti con alluce valgo marcato tipicamente limitano il posizionamento del peso sulla prima articolazione metatarso-falangea mentre camminano, caricando maggiormente sulle ossa metatarsali laterali.

Sebbene la causa e la patomeccanica dell’alluce valgo non siano completamente chiare, molti fattori contribuenti sembrano essere associati all’insorgenza o alla progressione di questo disturbo: fattori genetici, dimorfismi, calzature scorrette, allineamenti alterali dell’arto inferiore, eccessivo valgismo del retropiede, eccessiva tensione del tendine di Achille e instabilità della base del primo raggio. Alcuni studi mostrano che un controllo della pronazione mediante ortesi può essere utile nel rallentare la progressione della deformità, mentre l’intervento chirurgico è spesso indicato nei casi di deformità e disfunzioni marcate, con sintomatologie importanti.

Alluce valgo
Alluce valgo all’rx

Frattura del piede

Il notevole coinvolgimento del piede in quasi tutte le attività quotidiane e sportive che svolgiamo fa sì che questo sia particolarmente soggetto a stress e traumi esterni. Quando questi ultimi sono abbastanza elevati da superare le capacità di carico del piede, esso può andare incontro a frattura. Le più classiche componenti ossee vittime di frattura nel piede sono astragalo, ossa metatarsali, navicolare e falangi. Analizziamole nello specifico.

Frattura piede
L’astragalo subisce fratture tipicamente sul proprio collo o sulla propria testa. Fratture del collo astragalico avvengono in genere successivamente a una eccessiva flessione dorsale del piede, che porta l’astragalo a scontrarsi violentemente contro la tibia, mentre le fratture del corpo astragalico rappresentano spesso esiti di cadute da salti effettuati da altezze importanti. Un astragalo fratturato può subire di conseguenza un’alterazione della propria irrorazione sanguigna, che talvolta porta ad osteonecrosi (o necrosi avascolare).

Frattura astragalo
Frattura dell’astragalo

Le fratture del navicolare possono essere causate da incidenti, cadute, traumi da sport e fratture da stress (queste ultime molto frequenti nel navicolare). Stress ripetitivi a carico del navicolare, spesso presenti in sport che includono corsa, salti e sprint (come atletica, basket, tennis), possono infatti causare microfratture progressivamente ingravescenti. Le fratture da stress del navicolare rappresentano il 25% di tutte le fratture da stress delle ossa del corpo umano, avvenendo spesso negli atleti maschi.

Le fratture delle ossa metatarsali solitamente sono causate da urti violenti e traumi al piede (tipico è il caso di un oggetto pesante che cade sul piede). Anche in questo caso possono avvenire fratture da stress, in risposta a stimoli stressanti reiterati nel tempo, che interessano soprattutto il secondo, terzo e quarto osso metatarsale. Quando il piede è sottoposto ad una inversione eccessiva e violenta, può avvenire in risposta una violenta contrazione eccentrica del muscolo peroneo breve, che in alcuni casi è abbastanza forte da “trazionare” il quinto osso metatarsale (dove si inserisce) causandone la frattura.

Frattura ossa metatarsali
Frattura delle ossa metatarsali

Le fratture di una o più falangi del piede sono spesso condizioni poco gravi, anch’esse precedute nella maggioranza dei casi da eventi traumatici.
Generalmente la sintomatologia delle fratture del piede è composta da gonfiore e dolore che peggiora con il carico corporeo, in maniera più o meno marcata in base all’entità del danno. La diagnosi di frattura ossea avviene solitamente tramite radiografia o TAC, e il trattamento può essere conservativo o chirurgico, in base alla gravità dell’infortunio e alle caratteristiche dell’individuo.

Gesso al piede

 

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Come sbloccare il metabolismo

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come sbloccare il metabolismo

Sei a dieta, ti alleni in palestra e i numeri sulla bilancia scendono: tutto torna.

Poi però il peso non cala più e non riesci a dimagrire per raggiungere i chili che avevi come obbiettivo: c’è un blocco metabolico.

Scopri in questo articolo cos’è fisiologicamente il blocco metabolico, se è possibile sbloccare il metabolismo e come fare per riattivare il dimagrimento!

Metabolismo lento e blocco metabolico: che cosa significa?

Chi ha già iniziato una dieta sa che dopo un po’ questa non funziona più e il peso stalla. Colpa della dieta? Colpa del nutrizionista? Colpa della bilancia? Colpa dell’amica che mangia dolci ed è magra?

Nulla di tutto questo: anche quando la dieta è adatta, il nutrizionista competente e la bilancia non è rotta è assolutamente normale che ci sia un blocco nella perdita di peso. Il corpo si abitua alla condizione in cui l’hai posto con la dieta: all’introduzione di meno energia il corpo risponde tramite l’adattamento metabolico e l’instaurazione di un nuovo stato omeostatico (di equilibrio).

I livelli ormonali e metabolici si abbassano per essere in linea con il nuovo stato nutrizionale.

Questa situazione fisiologica di adattamento è appunto definita blocco metabolico: l’organismo non funziona di meno o peggio per colpa di qualche oscuro motivo, ma si è solamente adeguato alla nuova situazione dietetica tramite la regolazione ormonale metabolica.

La leptina è uno dei principali ormoni della regolazione metabolica, è prodotta soprattutto dagli adipociti, ha una funzione anoressizzante (riduce il senso di fame) ed interagisce con gli ormoni tiroidei.

In pratica, vale l’equazione:

meno calorie introdotte = meno leptina = meno ormoni tiroidei = meno metabolismo.

Gli ormoni tiroidei stimolano il metabolismo glucidico, abbassano la sintesi di colesterolo e trigliceridi, provocano un calo del peso corporeo e aumentano frequenza cardiaca, contrazione muscolare, ritmo respiratorio e stimolo della fame: ad un decremento della loro concentrazione corrisponde una diminuzione di questi meccanismi.

L’ipotiroidismo diventa così un’ottima scusante per chi mangia troppo: la colpa è della tiroide, non della dieta costantemente ipercalorica e dello stile di vita insalubre! In alternativa, un motivo ugualmente valido al falso ipotiroidismo, sono le ben note ossa grosse.

  • Il concetto principale da portare a casa è che se non dimagrisci più non hai il metabolismo lento (che di per sé non esiste in nessun libro di biochimica o fisiologia), ma sei in una fase fisiologica di adattamento metabolico conseguente al deficit calorico.

Come sbloccare il metabolismo per dimagrire e perdere peso?

La prima cosa da fare quando qualcosa non funziona e la condizione si protrae da tempo è cambiare: come puoi pensare che il continuare con le stesse abitudini, lo stesso stile di vita, lo stesso allenamento possa dare risultati se fino ad adesso non ne ha dati?

Per superare il blocco continuare come hai sempre fatto e con lo stesso deficit calorico non basta più: come già visto, l’organismo si adatta! Ma viene anche stravolto da repentine modifiche, quindi la seconda cosa da fare è l’essere graduale: l’assetto metabolico così si troverà di fronte ad una nuova situazione, che non è quella di prima ma non è nemmeno così diversa dal non essere in grado di gestirla.

Un gradino alla volta puoi così portare il tuo metabolismo ad essere più efficiente ed efficace nell’ottica della ripresa del calo ponderale.

I carboidrati sono il nutriente fondamentale per alzare il metabolismo: ad un alto livello di zuccheri presenti nei depositi dell’organismo corrisponde un innalzamento degli ormoni tiroidei e delle loro funzioni prima elencate.

Dieta per sbloccare il metabolismo

Per riuscire a sbloccare la situazione ed accelerare il metabolismo qui trovi due metodi. Il primo analizzato è la dieta low-carb, che tramite un basso introito glucidico insegna all’organismo a sfruttare i grassi piuttosto che i carboidrati con una conseguente riduzione dell’insulino-resistenza. Il secondo, invece, prevede un innalzamento calorico rispetto al regime ipocalorico che non riesce più a dare risultati per poi ripartire con il deficit calorico e il dimagrimento: la dieta inversa.

Dieta low-carb
maggior ossidazione lipidica non vuol dire dimagrire di più

Le diete a basso contenuto glucidico ed alto contenuto lipidico vengono spesso definite high fat diets, cioè diete in cui il macronutriente introdotto in quantità maggiore è rappresentato dai grassi, come ad esempio la chetogenica, che però si distingue in quanto instaura uno stato di chetosi.

Proprio a causa dell’accento posto sui lipidi, queste diete vengono spesso ed erroneamente definite iperlipidiche e quindi identificate come dannose.

Il metodo per sbloccare il metabolismo, successivamente illustrato, non è una chetogenica, in quanto non punta a raggiungere lo stato di chetosi, e prevede:

  • carboidrati inferiori a 80 g,
  • proteine minimo 1.5 g/kg peso corporeo,
  • 50% del fabbisogno energetico dai lipidi,
  • due refeed (ricariche) di carboidrati a settimana, anche con un pasto libero.

Questo permette non solo una certa flessibilità in termini di vita sociale, ma anche di non andare in chetosi – che di per sé è comunque un meccanismo fisiologico. Il dimagrimento viene sbloccato perché chi non dimagrisce più con tanti carboidrati potrebbe andare incontro ad insulino-resistenza.

Con questo metodo, si spinge la cellula ad essere metabolicamente più efficiente nel bruciare i grassi, che non verrebbero altrimenti consumati in presenza di carboidrati alti.

Attenzione però che ogni caso va valutato nella sua soggettività e che in molti anche l’opposto (dieta con bassi grassi ed alti carboidrati) potrebbe sortire lo stesso effetto.

Quindi, i vantaggi della dieta low-carb sono:

  • miglioramento della flessibilità metabolica con riduzione dell’insulino-resistenza
  • aumenta la produzione di adrenalina, che rende più attivi e porta il corpo a bruciare più grassi (ma questo è un discorso soggettivo e non una regola assoluta)
  • sblocco del dimagrimento
  • aumento dell’ossidazione lipidica: mangiando più grassi se ne bruciano di più perché i lipidi diventano il substrato energetico preferenziale per il corpo, che si adatta al consumo dei grassi piuttosto che dei carboidrati a cui era abituato. Così facendo, saranno utilizzati quei grassi che, in presenza di carboidrati come fonte principale di energia, non verrebbero ossidati.

Chiaramente, una maggior ossidazione lipidica non implica un maggior dimagrimento: è il bilancio tra le entrate e le uscite energetiche a decretare il dimagrimento o meno.

Per uno sportivo, questo metodo è applicabile ed è efficace per perdere peso nel breve periodo: un’estrema restrizione di carboidrati nel cronico porta immancabilmente ad una deplezione dei depositi di glicogeno e, di conseguenza, affaticamento, recupero più lento, una funzione immunitaria non ottimale e un possibile intaccamento della massa muscolare.

Reverse diet

Quali alimenti per il metabolismo lento

Inizi a tagliare le calorie e perdi peso. Il dimagrimento si blocca e allora aumenti il deficit. Ti blocchi di nuovo. Tagli ancora le calorie e muori di fame?

Qui entra in gioco la reverse diet (dieta inversa) che ti permette di ricostruire il metabolismo: con poche calorie il corpo si è abituato a consumare di meno, gli ormoni metabolici calano mentre con questo metodo puoi innalzare i livelli degli ormoni che influenzano il metabolismo.

Come fare?

Aumentando gradualmente e in modo continuativo le calorie settimanali insegni al tuo corpo a gestire una quota maggiore di nutrienti. Una volta raggiunte le calorie di mantenimento e conclusa la fase di ricostruzione metabolica, puoi instaurare il deficit calorico per perdere peso. Il vantaggio è che partendo dalla reverse, puoi permetterti di introdurre più calorie rispetto a quelle che avresti assunto senza la dieta inversa: più calorie e dimagrimento!

Mangi 1700 kcal al giorno e hai un peso fisso, ma vuoi iniziare a dimagrire e quindi ne introduci 1400. Per qualche settimana tutto funziona e il peso scende, ma poi non più. Quindi cosa fai? Tagli ancora le calorie e da 1400 passi a 1100 kcal: ricominci a perdere peso ma poi di nuovo hai uno stallo del peso. Continuare a togliere calorie non è sostenibile, serve la reverse: inizi a mangiare di più fino ad arrivare ad una nuova normocalorica da 2000 kcal al giorno. Da qui, puoi iniziare a togliere di nuovo le calorie: passi a 1700 kcal e dimagrisci!

  • Il concetto alla base della reverse diet è l’insegnare all’organismo a mangiare di più senza ingrassare. Come nell’esempio soprastante, l’introito calorico in ipocalorica dopo la reverse corrisponde alla precedente normocalorica: a parità di calorie, grazie alla reverse, puoi mangiare la stessa quantità di cibo iniziale e allo stesso tempo dimagrire.

Alimenti per sbloccare il metabolismo

Acqua calda e limone a colazione, sedano a pranzo e zenzero e semi di lino a cena non possono mancare nella dieta di chi vuole sbloccare il metabolismo.

Finalmente nessun “dipende” e una risposta coincisa!

Tanto coincisa quanto falsa: alimenti che da soli sbloccano il metabolismo e ti fanno dimagrire non esistono! Un’altra frase altrettanto coincisa, ma in questo caso vera. Pensa a due tuoi amici:

  • uno dei due sta attento alla dieta e mangia esclusivamente alimenti sani, pochi cibi industriali, le giuste porzioni, frutta e verdura ad ogni pasto, solo cereali integrali, senza mai sgarrare ma non riesce a dimagrire
  • l’altro invece non sta troppo attento, mangia quello che gli piace, il sabato sera non può rinunciare alla pizza, il dolcetto post-pranzo è sacro ma nel giro di un mese ha perso un paio di chili.

Com’è possibile?!

La risposta è nell’introito energetico totale: il primo mangia sano ma supera il suo fabbisogno calorico, mentre il secondo, sebbene non mangi “pulito”, introduce comunque meno di quello che consuma e conseguentemente dimagrisce.

Molto spesso, chi mangia salutare rischia di mangiare di più di quello che gli serve proprio perché risulta immediato giustificarsi con il “ma questo è un cibo sano”. Sano o non sano, le calorie restano e sono da considerare: ad esempio, 80 g di pasta raffinata e 80 g di pasta integrale apportano lo stesso numero di calorie, così come un biscotto al cioccolato confezionato e una mela biologica km 0 hanno il medesimo potere calorico.

Ecco spiegato perché non esistono alimenti che fanno dimagrire ed altri che fanno ingrassare.

  • In riassunto, non ci sono alimenti che permettono di sbloccare il metabolismo perché stimolano chissà quale ormone: il primo passo per dimagrire è impostare il deficit energetico e scegliere la strategia alimentare più adatta alle tue esigenze.

Conclusioni su come sbloccare il metabolismo

Quando ti accorgi di avere uno stallo del peso, anche se può sembrare paradossale, devi smettere di voler dimagrire: è più utile prendere un po’ di tempo per alzare il metabolismo, mangiando di più, per poi riprendere con il deficit calorico.

Sicuramente questo vorrà dire impiegare più tempo di quello voluto per perdere peso, ma almeno ti assicura che al peso desiderato ci arriverai!

Bibliografia

Astrup & Hjorth (2017). “Low-Fat or Low-Carb for Weight Loss? It depends on your glucose metabolism”. EBioMedicine.

Burke & Deakin (2015). “Clinical Sports Nutrition” – Chapter 6: Weight loss and the athlete, pagg. 164-186. Mc Graw Hill.

Gartner & Hiatt (2014). “Istologia”. – Sistema endocrino: ghiandola tiroide, pagg. 311-315. EdiSES.

Rosenbaum & Leibel (2014). “Role of leptin in energy homeostasis in humans”. J Endocrinol.

Trexler et al. (2014). “Metabolic adaptation to weight loss: implications for the athlete”. J Int Soc Sports Nutr.

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Guida alla nutrizione
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Cos’è la dieta Plant Based

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Cos’è la dieta Plant Based

Tra le varie tipologie di dieta che periodicamente spuntano nel panorama nutrizionale, ce n’è una in particolare che sta attirando l’attenzione di parecchi addetti ai lavori.
Mi riferisco alla cosiddetta “Plant Based Diet”.

La dieta è in cima alle linee guida e raccomandazioni alimentari per una corretta nutrizione e per la prevenzione di diverse malattie legate a quello che mangiamo.
Ma cosa vuol dire Plant Based? È una dieta completamente o prevalentemente vegetale?

Come spesso accade in questi casi, si verifica un utilizzo improprio del termine, di cui, fondamentalmente, non si conosce il reale significato, o quanto meno, la sua vera origine.

Storia della dieta Plant Based

L’unico modo per comprendere in modo oggettivo ed inequivocabile cosa rappresenti realmente il termine plant based diet, è fare riferimento alla letteratura scientifica.

Così, tornando indietro nel tempo di qualche anno, scopriamo che il primo documento dove si parla di plant based diet risale al 1999 ed è stato redatto durante il Terzo Congresso Nazionale sulla Nutrizione Vegetariana (1).

In quel contesto, i relatori esaminarono vari approcci nutrizionali: diete basate esclusivamente su cibi vegetali (“plant-only”), diete basate prevalentemente su cibi vegetali (“plant-based”) e diete onnivore.

Dalla lettura del suddetto documento, appare chiaro che le diete plant-based erano costituite prevalentemente da cibi vegetali, ma potevano comprendere anche cibi di origine animale. Le diete vegane, invece, rientravano nella definizione di plant-only.
Ad onor di cronaca, i ricercatori conclusero i lavori del congresso affermando che sia le diete plant-only, sia le diete plant-based, se correttamente pianificate, erano in grado di soddisfare tutte le esigenze nutrizionali ed essere salutari per l’essere umano.

Facciamo un balzo in avanti di circa 17 anni ed arriviamo al 2016, anno in cui viene pubblicato, sulla prestigiosa rivista scientifica The Permanente Journal, un articolo dal titolo “Plant-Based Diets: A Physician’s Guide” (2), una vera e propria guida che “fornisce ai medici e agli altri operatori sanitari una panoramica dei numerosi vantaggi di una dieta a base vegetale, nonché dettagli su come ottenere un piano alimentare equilibrato e ricco di nutrienti”.

In tale guida, le diete plant-based risultano essere soltanto quelle basate esclusivamente su cibi vegetali.

Dopo aver elencato tutti i benefici sulla salute, i nutrienti fondamentali (macronutrienti e micronutrienti), ed aver fornito indicazioni per l’inizio e l’assistenza ai pazienti che decidono di intraprendere questa scelta, arriva alla conclusione che la dieta plant based presenta vantaggi per tutti, sia per le persone sane che per i pazienti.
Tale dieta, infatti, risulta essere uno strumento importante e potente nel trattamento delle malattie croniche, in grado di apportare minori costi sanitari e probabilmente migliori risultati in termine di prevenzione e cura.

L’anno successivo (esattamente a maggio 2017), sulla rivista Journal of Geriatric Cardiology, viene pubblicato un articolo, dal titolo “Definition of a plant-based diet overview of this special issue” (3), nel quale viene fornita una definizione precisa di plant-based diet.
Infatti, al primo capoverso si legge testualmente che “Una dieta plant-based comprende tutti i tipi di frutta, verdura, cereali integrali, legumi, noci e semi, erbe e spezie minimamente lavorati ed esclude tutti i prodotti di origine animale, inclusi carne rossa, pollame, pesce, uova e latticini”.

Oltre a tale definizione, si ribadiscono i benefici della dieta plant-based, con particolare riferimento alle malattie cardiovascolari e ai suoi fattori di rischio.

Arriviamo, così, a dicembre 2018, con la pubblicazione, sulla rivista Nutrients, della review “Plant-Based Diets: Considerations for Environmental Impact, Protein Quality, and Exercise Performance” (4).

Lo scopo di questa review era “esaminare l’impatto delle diete a base vegetale sulla salute fisica umana, sulla sostenibilità ambientale e sulla capacità di esercizio fisico. Sulla base della letteratura attualmente disponibile, è improbabile che le diete a base vegetale offrano vantaggi, ma non presentano nemmeno svantaggi, rispetto alle diete onnivore, per prestazioni di forza, anaerobiche o aerobiche.

Tuttavia, le diete a base vegetale in genere riducono il rischio di sviluppare numerose malattie croniche nel corso della vita e richiedono meno risorse naturali per la produzione rispetto alle diete contenenti carne. Pertanto, le diete a base vegetale sembrano essere opzioni praticabili per supportare adeguatamente le prestazioni atletiche, contribuendo contemporaneamente alla salute fisica e ambientale complessiva”.

Anche in questo caso, quindi, le diete plant-based sono quelle basate esclusivamente su cibi di origine vegetale.

Inoltre, anche il Physicians Commettee for Rensponsible Medicine – un comitato di medici statunitense – ha fornito indicazioni precise in merito, attraverso la pubblicazione del Power Plate (5), ovvero il piatto che rappresenta fedelmente le quattro categorie di cibo che compongono la dieta plant-based:

  1. Cereali (possibilmente integrali)
  2. Legumi
  3. Frutta
  4. Verdura

Tutti d’accordo, quindi, sulla definizione di plant based diet?

Neanche per sogno!

Infatti, uno degli istituti più autorevoli al Mondo in ambito nutrizionale – la Harvard School of Public Health – ha compreso nel suo “plant-based meal”, oltre a tutte le fonti vegetali, anche alimenti proteici di origine animale.

Piatto unico Harvard School of Public Health

Anche la British Dietetics Association – l’associazione di professionisti della nutrizione più grande del Regno Unito – non esclude categoricamente i cibi di origine animale dalla definizione di plant-based diet.

Allargando la ricerca ad alcune autorevoli riviste, come ad esempio “Desease Reversal and Prevention Digest”, possiamo constatare che, anche in questo caso, nella definizione di plant-based diet non sono completamente esclusi i cibi di origine animale.

La stessa Wikipedia conferma tale orientamento inclusivo o, quanto meno, non totalmente esclusivo.

Qual è la definizione corretta?

Alla luce di tutto ciò, per usare una famosa frase giornalistica, la domanda sorge spontanea: qual è la definizione corretta di plant based diet?

La risposta è molto semplice: dipende! (Biasci docet :D)

Si, dipende dal ricercatore o dall’agenzia internazionale, ovvero dagli autori; infatti, in ciascun articolo o pubblicazione, è l’autore stesso a specificare, ad inizio paper, se intende la dieta plant based come prevalentemente basata su vegetali (includendo, quindi, moderate quantità di alimenti di origine animale), oppure esclusivamente basata su cibi vegetali (con esclusione di qualsiasi cibo di origine animale).

Ok. Definizioni concluse?

Purtroppo no, perché all’interno della dieta plant-based è nata un’altra sotto-categoria: la dieta Whole Food Plant-Based.

La dieta Whole Food Plant Based

Descrivere questo tipo di dieta risulta assai semplice da fare. Infatti, basta prendere tutto quello che abbiamo scritto sulla dieta plant-based e togliere gli oli ed i cibi “processati” (o confezionati). Insomma, si tratta della versione integrale (o integralista-salutista) della plant-based diet.

Cos’è possibile mangiare, praticamente nella dieta Planta-Based e Whole Plant-Based?

Per comprendere meglio cosa è compreso, cosa è escluso e cosa è possibile mangiare in tutte queste tipologie di dieta, ecco un’infografica che lo riassume perfettamente:

Differenza dieta vegana dieta plant based

Ecco due esempi di dieta Plant Based

A titolo di mero esempio didattico, allego due tipologie di dieta, entrambe redatte dalla Dott.ssa Agnese Cascapera – biologa nutrizionista vegana: la prima è whole food plant-based, mentre la seconda è plant-based, entrambe nella versione basata totalmente su cibi di origine vegetale.

Esempio di dieta “Whole Food Plant Based “

Esempio di dieta Whole Food Plant Based

Calorie: 2.500kcal in media
Macronutrienti: 120g PRO/70g FAT/ 340g CHO

Colazione:

  • Estratto di frutta e verdura 200ml
  • Porridge con:
    – fiocchi di avena integrali 60g
    – acqua
    – frutta secca 15g
    – cocco in scaglie 10g

Spuntino di metà mattina:

  • Pane di segale integrale 30g
  • Crema di frutta secca 20g
  • Frutta fresca 150g

Pranzo:

  • Pseudocereale a scelta 100g
  • Verdura a scelta 200g
  • Legume a scelta* 90g
  • Semi di lino tritati 10g

Spuntino di metà pomeriggio:

  • Hummus di ceci con:
    – ceci* 40g
    – tahin fatta in casa un cucchiaino
    – succo di limone e acqua
  • Verdura cruda 200g

Cena:

  • Bowl con:
    – Cereale integrale a scelta 100g
    – Edamame 150g
    – Verdura a scelta 200g
    – Frutta secca 15g
    – Semi di lino tritati 15g

Esempio di dieta “Plant-Based”

Calorie: 2.500 circa
Macronutrienti: 140g PRO/ 75g FAT/ 315g FAT

Colazione:

  • Bevanda vegetale a scelta 200ml
  • Pancakes con:
    – farina di avena 70g
    – composta di frutta                 20g
    – crema di frutta secca             20g
    – acqua                                  qb

Spuntino di metà mattina:

  • Frullato con:
    – Bevanda vegetale a scelta 150ml
    – Proteine vegetali 30g
    – Frutta fresca 150g
    – Ghiaccio

Pranzo:

  • Cereale a scelta 100g
  • Legume a scelta* 60g
  • Lievito in scaglie          10g
  • Verdura a scelta 200g
  • Olio evo e di lino un cucchiaino + un cucchiaino

Spuntino di metà pomeriggio:

  • Yogurt vegetale senza zuccheri agg. 250g
  • Frutta fresca 150g
  • Frutta secca 15g

Cena:

  • Derivato proteico vegetale** 100g
  • Patate dolci o classiche 200g
  • Cereale a scelta 80g
  • Verdura a scelta 200g
  • Olio evo e di lino un cucchiaio + un cucchiaino

*Il peso dei legumi si riferisce al prodotto secco.

**Per derivato proteico vegetale, si intende un alimento a scelta tra: Tempeh, Tofu al naturale e aromatizzato, Muscolo di Grano, Quorn linea 100% vegetale, Mopur, Beyond Meat, Burger di Soia o di Seitan o di Lupino o di Legumi, Seitan, Affettati Vegetali.

Vegan o Plant-Based si può, ma solo con professionisti

Alla luce di quanto detto, appare auspicabile un avvicinamento alla dieta plant-based da parte di tutti, a patto, però, di rivolgersi a professionisti della nutrizione con specifiche competenze in nutrizione a base vegetale (come chi trovi sul sito https://www.mauriziofalasconi.it/)

BIBLIOGRAFIA

  1. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10479241
  2. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4991921/
  3. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5466934/
  4. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/30513704
  5. https://p.widencdn.net/ktho8u/Power-Plate-Brochure
  6. https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0939475317302600

Note sull’autore

Maurizio Fallasconi

Maurizio Fallasconi Personal Trainer Master di III Livello (F.I.PE.), è specializzato in Analisi e Valutazione della Composizione Corporea e Programmi di Allenamento Individualizzato.
Formatore, divulgatore e relatore, utilizza i social per condividere le più aggiornate evidenze scientifiche e le applicazioni pratiche delle stesse, grazie ad un’esperienza quasi trentennale nel settore fitness e allenamento.
Vegano da otto anni e mezzo, Coordinatore Nazionale del Comitato Sportivo AssoVegan dal 2014, è considerato uno dei maggiori esperti in alimentazione vegana per sportivi.

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Amenorrea ipotalamica funzionale: dieta e palestra

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Amenorrea funzionale ipotalamica

“Mangia di più e riduci l’attività fisica”. Mai avresti pensato di leggere una frase del genere, ma in alcuni casi questa sembra essere la soluzione per tornare in salute e fertili. Stiamo parlando dell’amenorrea funzionale ipotalamica (AFI), una disfunzione ormonale che colpisce 17.4 milioni di donne al mondo e si manifesta con assenza del ciclo per un tempo superiore ai tre mesi. Dato che i sintomi sono poco evidenti o comunque poco disturbanti, molte donne sottovalutano questa sindrome, non rendendosi conto che dieta, allenamento e stress possono essere la causa, ma anche la soluzione più efficace al problema.

Che cos’è l’amenorrea funzionale ipotalamica (AFI)

Esistono due tipi di amenorrea:

primaria: si verifica quando non hai mai avuto naturalmente il mestruo;

secondaria: accade quando hai avuto il mestruo in passato, ma per varie motivazioni non lo stai avendo adesso.

A quest’ultimo gruppo appartiene l’amenorrea funzionale ipotalamica (AFI), una sindrome caratterizzata da alterazioni ormonali e anovulazione (mancanza di rilascio dell’ovocita da parte dell’ ovaio). Queste disfunzioni si traducono nell’assenza delle mestruazioni per un tempo superiore ai tre mesi. L’amenorrea ipotalamica si definisce anche “funzionale” perché è potenzialmente reversibile: la correzione dei fattori comportamentali che la causano possono ripristinare l’ovulazione e la fertilità.

Sintomi dell’AFI

Il primo campanello d’allarme è sicuramente l’assenza del mestruo per un periodo superiore ai tre mesi, ma ci sono altri sintomi che caratterizzano l’AFI:

  • frequente sensazione di freddo;
  • livelli bassi di libido;
  • aumento del senso di fame;
  • poca energia e sensazione di stanchezza;
  • difficoltà a dormire;
  • ansia e depressione.

Oltre a questi dati, sono da considerare fondamentali per la diagnosi, altre variabili: livelli bassi di ormoni femminili, FSH, LH, estradiolo, insulina, IGF-1, T3 e T4 (ormoni tiroidei), leptina e livelli alti di grelina e cortisolo. A livello dell’apparato riproduttivo si riscontrano anche ovaie policistiche mentre il rivestimento interno dell’utero è più sottile del normale. A volte si diagnostica erroneamente l’AFI come PCOS (Sindrome dell’Ovaio Policistico), ma sono due sindromi diverse nonostante alcuni sintomi siano in comune.

Cause dell’amenorrea funzionale ipotalamica

Amenorrea ipotalamica

Le cause principali che portano all’AFI sono lo stress, un apporto calorico ridotto o la presenza di disturbi alimentari, un esercizio fisico eccessivo rispetto alle calorie introdotte con la dieta. Non è un caso, infatti, che molte atlete (soprattutto di endurance e ginnaste), soffrano di “triade dell’atleta” che comprende oltre all’AFI disturbi alimentari e ridotta densità ossea.
Comunque, la presenza di uno di questi fattori o la combinazione di essi comporta un’alterazione dell’asse ipotalamo – ipofisi – ovaie.

L’ipotalamo è una piccola area della grandezza di una mandorla situata al centro tra i due emisferi cerebrali. Questa prende informazioni dal corpo, le processa e invia come risposta una moltitudine di ormoni che controllano l’assunzione del cibo, la temperatura, il sonno, la sete e il sistema riproduttivo. Quest’ultimo è controllato e regolato dall’ipotalamo sulla base di quanto mangi. Se non introduci calorie sufficienti a soddisfare il tuo fabbisogno giornaliero o crei con l’esercizio fisico un eccessivo deficit energetico, l’ipotalamo disattiva il sistema riproduttivo. Questo avviene perché in mancanza di energie sufficienti, il corpo spegne le attività che non sono prioritarie (come la riproduzione) per sostenere le funzioni vitali (circolazione sanguigna e respirazione).

Dal punto di vista ormonale l’ipotalamo sopprime la produzione di GnRH (gonadoliberina) con riduzione della secrezione di LH e FSH da parte dell’ipofisi. Questo determina una ridotta produzione ovarica di estradiolo che porta all’amenorrea.

Conseguenze dell’AFI

A meno che tu non voglia diventare madre a breve, il fatto di avere AFI può non disturbarti più di tanto a livello sintomatico e psicologico. Tuttavia non avere il ciclo può avere delle ripercussioni pesanti in fatto di salute. La ridotta produzione di ormoni crea problematiche a diversi livelli:

  • apparato cardiovascolare: la riduzione degli estrogeni aumenta il rischio di malattie cardiovascolari del 50%;
  • osso: la riduzione degli estrogeni deteriora più velocemente l’osso, con il rischio di sviluppare osteopenia e osteoporosi nelle giovani donne;
  • metabolico: la ridotta produzione di T3 e T4 può portare all’ipotiroidismo.

Quale dieta è consigliabile?

Attualmente non esiste una dieta apposita per chi soffre di AFI, perché la cosa che conta è la quantità di calorie che introduci. In parole semplici devi mangiare di più! Molto probabilmente se soffri di AFI la tua dieta potrebbe essere ipocalorica, per cui il primo step è quello di seguire una dieta normocalorica. Non importa cosa dice la bilancia, perché potresti soffrire di AFI anche se il tuo peso è nella norma o se sei leggermente sovrappeso. Quello che determina la comparsa della sindrome non è dato dalla tua taglia, ma dal bilancio energetico giornaliero.

In ogni caso, la dieta deve essere equilibrata  e non deve trascurare nessuno dei macronutrienti. I grassi sono fondamentali per chi soffre di AFI, non a caso la produzione di ormoni sessuali risente in breve tempo del taglio dei lipidi dall’alimentazione. Sono da comprendere nella dieta i grassi monoinsaturi (olio extravergine di oliva, avocado), i polinsaturi (salmone, mandorle, semi di chia), il colesterolo (tuorlo d’uovo) e i grassi saturi a media catena (latticini e olio di cocco), perché consentono la produzione degli ormoni femminili.

Anche i carboidrati hanno un ruolo fondamentale nella produzione degli ormoni, in particolare quelli tiroidei. A meno che tu non abbia un problema pregresso a livello della tiroide, l’alterazione di T3 e T4 nell’AFI è dovuta a un ridotto apporto di carboidrati. Per questo, è bene introdurli in quantità adeguate, soprattutto carboidrati complessi (cereali come l’orzo e il farro oppure tuberi e riso).

Infine anche le proteine svolgono un ruolo nella produzione ormonale e nel funzionamento del sistema riproduttivo. Sono da preferire le proteine animali di buona qualità rispetto alle proteine vegetali, perché queste ultime non hanno un complesso aminoacidico completo e contengono delle sostanze che ne inibiscono l’assorbimento.

Al di là di queste linee guida, consiglio di rivolgerti a uno specialista per un approccio personalizzato senza dimenticare che l’obiettivo è quello di apprendere a mangiare intuitivamente, senza contare le calorie, ma seguendo semplicemente il senso di fame e sazietà. In questo momento potresti pensare “Sì, ma se mangio di più ed elimino l’esercizio fisico prenderò peso”.   Sì, potresti prendere peso, ma questo peso è volto al ripristino della fertilità, della salute cardiovascolare, metabolica e ossea.

Molto spesso l’AFI è associata a un disturbo alimentare, ed è questo che limita la guarigione, perché si ha paura a mangiare di più. Parallelamente al cambio della dieta è necessario un cambio di mentalità nei confronti del cibo. Nella fase iniziale, infatti, l’alterazione degli ormoni che regolano il senso di fame e sazietà (leptina e grelina) e l’eventuale presenza di un disturbo alimentare, possono rendere difficile “l’ alimentazione intuitiva”. Per questo è bene affidarsi a uno specialista, sia per valutare in modo corretto il proprio fabbisogno energetico sia per avere un supporto psicologico.

Amenorrea ipotalamica e integratori

Amenorrea funzionale

Per risolvere il problema dell’assenza del ciclo, l’uso di integratori non è molto utile, perché il problema ha cause psicologiche: rapporto errato col il corpo, con il cibo e l’allenamento, stress. Assumere dei supplementi ha senso solo nel caso in cui la dieta ipocalorica abbia creato delle carenze (per esempio ferro, vitamina D o B12, etc.), ma solo il medico o il dietista lo possono verificare in seguito ad analisi  approfondite.

La prima cosa da fare quindi non è quella di cercare una pillola magica risolutiva, ma lavorare dal punto di vista psicologico per ridurre gli agenti stressanti e per modificare l’approccio con il cibo e l’allenamento.

Amenorrea ipotalamica e palestra

L’allenamento è fonte di forte stress per molte donne che soffrono di AFI. Nella maggioranza dei casi si allenano molto in termini di frequenza e intensità e questo non fa altro che aumentare i livelli di cortisolo. Le soluzioni al problema sono quattro:

  1. ridurre l’allenamento in termini di intensità e tempo;
  2. svolgere un’attività meno stressante (yoga, pilates, cammino);
  3. eliminare l’attività fisica fino a quando non si ripresenta regolarmente il mestruo
  4. continuare a svolgere  attività, ma aumentare l’introito calorico.

La scelta di una di queste soluzioni dipende solo da te: studi dimostrano che se interrompi immediatamente l’attività, la possibilità che il ciclo ritorni in breve tempo sono più alte rispetto alle altre soluzioni. Ovviamente questo è valido solo se insieme all’interruzione dell’attività fisica c’è anche un cambiamento della dieta e soprattutto dell’approccio mentale.

Altre ricerche dimostrano che il ciclo può tornare anche solo con l’aumento dell’introito calorico, ma nella maggior parte dei casi rimane irregolare.  Se scegli di bloccare o ridurre  l’attività, sappi che è solo una fase temporanea. L’attività fisica è fondamentale per il benessere della donna, ma nel caso dell’AFI è meglio riprenderla in modo graduale solo quando hai raggiunto uno stato di salute compatibile con la fertilità.

Una volta ripresa, molto probabilmente sarai più forte e performante di prima. Al momento potresti farti una domanda del tipo ” Sì, ma io soffro di amenorrea ipotalamica pur facendo poco esercizio fisico, cosa c’entra questo con me?”.
La risposta è semplice. L’allenamento è solo una delle variabili che possono determinare l’AFI. Anche se non hai un buon rapporto con la palestra, potresti comunque mangiare poco ed essere molto stressata per altri motivi (lavoro, famiglia, studio). Per queste ragioni la soluzione è comunque quella di seguire una dieta normocalorica e ridurre gli agenti stressanti.

Conclusioni sull’amenorrea ipotalamica

L’amenorrea funzionale ipotalamica è una sindrome che colpisce molte donne, e la causa è da ricercarsi nella combinazione tra dieta restrittiva, eccessiva attività fisica e stress.

Sarebbe bello se una semplice pillola o uno schiocco di dita risolvessero il problema, ma la realtà vuole che per riprendere la fertilità e la salute sia necessario cambiare l’ approccio mentale nei confronti del cibo e dell’ allenamento. Seguire una dieta normocalorica bilanciata ed eliminare temporaneamente l’attività fisica sembrano essere le soluzioni migliori e più rapide per risolvere il problema.

Una volta che avrai ripreso la regolarità ormonale e il benessere psicologico, anche la tua performance fisica in palestra ne trarrà  giovamento.

Note sull’autrice

Dott.ssa Chiara Fezzardi

Mi chiamo Chiara Fezzardi, ho 28 anni e lavoro come PT e insegnante di Pilates a Brescia. Sono laureata magistrale presso l’ Università di Scienze Motorie a Milano e ho frequentato corsi di formazione con diverse scuole (FIF, SFSM, Power Pilates). Amo muovermi, ridere, viaggiare, leggere e aiuto le persone a migliorare il loro benessere e a riscoprire il loro potenziale fisico e mentale.”

Instagram: chiara.fez

Bibliografia

– Sanders KM, Kawwas JF, Loucks T, Berga SL
Heightened Cortisol Response to Exercise Challenge in Women with Functional Hypothalamic Amenorrhea
American Journal of Obstetrics and Gynecology (2017)

– Meczekalski B, Katulski K, Czyzyk A, Podfigurna-Stopa A, Maciejewska-Jeske M
Functional hypothalamic amenorrhea and its influence on women’s health
J Endocrinol Invest (2014) 37: 1049-1056

– Chrisandra L, Shufelt MD, MS, Tina Torbati BS, Erika Dutra BA
Hypothalamic Amenorrhea and the Long-Term Health Consequences
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– Nicola J. Rinaldi, Buckler SG, Sanfilippo Waddell L
No Period. Now What? A guide to Regaining Your Cycles and Improving Your Fertility
Antica Press, Waltham , MA, 2019

– Di Prampero PE, Veicsteinas A
Fisiologia dell’ uomo (pag 424)
Edi Ermes, MI, 2012

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Dieta a Zona: cos’è e come funziona?

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dieta a zona cosa mangiare

La dieta a zona è una proposta per un trattamento dietetico “fai da te” per il dimagrimento che presenta delle regole ben precise per il suo funzionamento.

Per capire se, come e perché funziona, se è adatta a chi fa palestra o ti servono degli esempi di menù, sei nell’articolo giusto!

Che cos’è la dieta a zona?

Se vai a sfogliare e studiare i libri divulgativi scritti da Barry Sears per quanto riguarda i benefici eventuali e presunti che la Dieta Zona dovrebbe apportare, vedrai che in realtà l’autore punta moltissimo soprattutto sulla capacità del modello alimentare di mantenere un organismo in salute e di prevenire o controllare una moltitudine di malattie dell’età moderna.

Insomma, non è una dieta che si presenta come essenzialmente “dimagrante”, ma più una strategia nutrizionale che nasce come “regime dietetico per raggiungere e mantenere il benessere psico-fisico”, non strettamente legato alla composizione corporea.

Il nome “zona” si riferisce a un presunto stato di equilibrio ormonale in cui l’insulina si trova a essere sempre, appunto, in equilibrio, con i suoi ormoni antagonisti, quali ad esempio il glucagone. Lo stile alimentare si basa su tre punti cardine:

  1. In ogni pasto devono essere sempre presenti tutti i macronutrienti secondo un rapporto ben preciso.
  2. carboidrati devono derivare soprattutto da frutta e verdura.
  3. Bisogna consumare almeno cinque pasti al giorno.

Come funziona la dieta a zona?

dieta a zona

Questo modello alimentare prevede un consumo giornaliero composto da un 40% di glucidi, un 30% di proteine e un 30% di grassi. Tralasciando alcune modalità, i suoi punti chiave sono:

  1. La giornata in “Zona” prevede pasti frequenti e non abbondanti con tutti e tre i macronutrienti nelle proporzioni già indicate.
  2. Lo scopo principale della dieta a Zona è di influire sul metabolismo attraverso il cibo che induce risposte ormonali diverse a seconda dell’alimento assunto.
  3. Se si raggiunge un equilibrio ormonale mantenendo il rapporto insulina/glucagone entro determinati limiti, la dieta riesce a modulare positivamente la produzione di altri importanti ormoni noti con il nome di eicosanoidi con effetti benefici per l’organismo

Le motivazioni per cui la dieta Zona funziona sono diverse ma tutte riconducibili al fatto che Barry Sears, a prescindere dalla sua formula magica (40-30-30), ha trovato il modo di creare un modello dietetico che porta le persone a mangiare in modo più o meno equilibrato e bilanciato senza eccedere troppo con le calorie.

Questo modello dietetico ha il grande pregio di insegnare, a modo suo, una serie di regole dietetiche che possono funzionare e che sicuramente sono da preferire se paragonate ai costumi alimentari della media della popolazione italiana o mondiale che sia.

Ad esempio, un aspetto che viene promosso, è la varietà degli alimenti e il concetto di non eliminare a priori alcun cibo. Tutto questo è indice di grande flessibilità e sostenibilità della dieta.

  • Il vero motivo per cui la dieta zona funziona è molto lontano dalle attraenti speculazioni circa gli equilibri ormonali o i cibi giusti abbinati tra di loro, con distribuzioni di macronutrienti particolari, ma è, molto più banalmente, semplicemente il fatto che con questa dieta si assumono mediamente poche calorie e si riesce, quindi, ad instaurare un deficit energetico, indispensabile per poter perdere grasso nel tempo.

Blocchi della dieta a zona

I blocchetti forniscono un metodo facile e diretto per comporre dei pasti equilibrati secondo i razionali scientifici di Sears:

  • Dal calcolo del vostro fabbisogno proteico otterrete il numero di blocchi da distribuire lungo l’arco della giornata per nutrirvi in modo equilibrato.
  • Ogni blocco è composto da tre blocchetti (o miniblocchi):
    1 blocchetto di proteine (7 grammi),
    1 blocchetto di carboidrati (9 grammi),
    1 blocchetto di grassi (3 grammi).

Calcolo dei blocchi

Sears consiglia di distribuire i vari blocchi in 5 pasti (3 principali e 2 spuntini). Questo significa che l’operazione che devi fare è:

1. Calcolare il fabbisogno proteico: moltiplica i kg di massa magra per:

sedentario puro: 1,1g (di proteine) x kg massa magra
lavori attivi: 1,5g x kg massa magra
lavori stressanti: 1,7g x kg massa magra
sportivi amatoriali: 1,9g x kg massa magra
sportivi agonisti: 2,3g x kg massa magra

2. Stabilire il numero di blocchetti proteici necessari per soddisfare l’intero fabbisogno proteico individuale tenendo conto che ogni blocchetto è costituito da 7 grammi di proteine.

3. Associare per ogni blocchetto di proteine anche 1 blocchetto di carboidrati e 1 blocchetto di grassi (rapporto 1:1:1 tra i blocchetti).

Vantaggi e svantaggi (limiti) della dieta a zona: pro e contro

dieta a zona mediterranea

Come già accennato, un grande vantaggio della Dieta Zona è l’insegnare a mangiare in modo vario e bilanciato, senza precludere o limitare un particolare macronutriente.

Un altro pregio è che propone una varietà pressochè infinita di alimenti e non ci sono indicazioni specifiche di timing, il tipo di carboidrati – anche se sono da preferire integrali e provenienti da frutta e verdura, niente di così assurdo.

Dall’altra parte però è anche vero che impone uno schema molto rigido e non personalizzabile, data la ripartizione dei nutrienti 40-30-30, i 5 pasti al giorno, la compresenza di tutti e tre i macronutrienti ad ogni pasto. Questo dimostra come spesso debba essere il soggetto ad adattarsi alla dieta e non viceversa, un fattore che non aiuta nell’aderenza allo stile alimentare.

Per quanto riguarda le percentuali, sebbene vengano proposte come quelle ottimali, in realtà non è così: non tutti gli individui hanno bisogno della stessa distribuzione dei macronutrienti. Senza poi considerare che è meglio considerare i nutrienti in termini di g/kg peso corporeo piuttosto che in generiche percentuali.

La dieta a zona fa dimagrire?

Il punto di forza di questa dieta è che il modo di distribuire i macronutrienti tra i pasti, o meglio, l’idea di prevedere una buona quota proteica in ogni pasto: questa potenzia il senso di sazietà e quindi permette alla maggior parte delle persone di dimagrire senza avere la percezione di aver fatto particolari sacrifici.

Il segreto è quindi assumere meno calorie mangiando meglio, che in ottica di nutrizione significa pur sempre “mangiare meno calorie”, semplicemente con questo metodo non te ne rendi troppo conto in quanto ti sazi di più.

Quali alimenti posso mangiare nella dieta a zona?

Ci sono alimenti da preferire e alimenti da consumare con moderazione. Tra questi ultimi trovi i latticini, i tagli di carne grassi, le frattaglie (per il contenuto in grasso), la carne lavorata come ad esempio gli insaccati e le uova intere (per la convinzione, totalmente errata, dell’autore della Dieta Zona che il tuorlo d’uovo peggiori il profilo lipidico).

Macronutrienti della dieta a zona: carboidrati

Dieta zona esempio menù carboidrati per la palestra

Per quanto riguarda i carboidrati non viene proibito alcun alimento. Tuttavia, Sears divide i carboidrati (o le fonti di carboidrati) in “favorevoli” e in “sfavorevoli”, consigliando di consumare in prevalenza le fonti favorevoli ovviamente.

Le fonti favorevoli sono quelle fonti di carboidrati non raffinati e che contengono molte fibre (vedi quali sono gli alimenti ricchi di fibre). In sostanza, frutta e verdura sono consigliate in praticamente ogni pasto.

Le fonti sfavorevoli sono invece quegli alimenti che generalmente sono ad alto indice glicemico e ad alta densità energetica e quindi esauriscono rapidamente la quota giornaliera di blocchetti senza un efficace effetto sulla sazietà.

Inoltre, Sears consiglia, per chi mangia i cereali, di consumare l’integrale. Insomma, un po’ le linee guida generiche che tutti i nutrizionisti tradizionali diffondono da un bel po’ di anni.

Macronutrienti nella dieta a zona: grassi

Sears dà giustamente molta importanza ai grassi sia per le loro funzioni biologiche di vitale importanza (necessari per la produzione di eicosanoidi, per il corretto assorbimento di alcune vitamine, per gli ormoni steroidei ecc.) sia per quanto riguarda il loro effetto sul controllo della fame.

Infatti, i grassi agiscono, nella pratica, in modo molto simile alle fibre: rallentano la digestione e rallentano l’immissione in circolo dei nutrienti contribuendo a quel maggiore senso di sazietà e pienezza.

Un altro vantaggio dei grassi nella dieta, che per questo motivo si tende ad associarli a ogni pasto misto, è che rendono il cibo tendenzialmente più saporito: una dieta senza grassi è una dieta generalmente insapore.

Tuttavia, per quanto riguarda i lipidi Sears è un po’ più rigido, i grassi devono essere quelli “giusti”: vanno evitati i grassi saturi e i cibi ricchi di acido arachidonico (sempre per la questione legata agli eicosanoidi) e quindi parliamo di limitazioni (ma non eliminazione assoluta di questi cibi) per quanto riguarda le frattaglie, la carne rossa, i latticini e il tuorlo d’uovo (che in realtà ha più grassi buoni).

Per “grassi favorevoli” Sears intende i monoinsaturi, che puoi trovare principalmente nell’olio di oliva e in genere nella frutta secca (occhio che spesso alimenti come le noci hanno principalmente omega 6). Inoltre, promuove il consumo di pesce e l’integrazione con omega 3.

Proteine

Non viene fatta nemmeno troppa differenza tra proteine vegetali e proteine animali. Per questo motivo anche i vegetariani possono seguire la dieta Zona senza alcun problema: l’apporto proteico può essere soddisfatto sia con alimenti animali, sia con alimenti vegetali sia con un misto tra fonti animali e fonti vegetali (che è ovviamente per definizione un approccio più flessibile ed equilibrato).

Lista alimenti

  • Protidi: petto di pollo senza pelle, maiale magro, petto di tacchino, agnello magro, merluzzo, gamberetti, tonno, salmone, formaggio magro, albume d’uovo, tofu.
  • Lipidi: olio di oliva, frutta secca, pesce.
  • Glucidi: asparagi, broccoli, lenticchie, cavolfiori, pomodori, fagiolini verdi, pesche, uva, kiwi, melone, mirtilli, zucchine, ananas, prugne, mandarini, albicocche.

I glucidi sfavorevoli, secondo Sears, e da evitare sono: riso, pasta, papaya, mango, pane, croissant, piadina, carote, cereali da colazione, succo di mela, di arancia e di pompelmo.

Esempio di menù da 1300 calorie

11 blocchetti ripartiti in 5 pasti:

  • Colazione (3 blocchetti): 200 ml di latte parzialmente scremato + caffè + 100 g mortadella + 1 mela e mezza (240 kcal)
  • Spuntino (1 blocchetto): 70 g ricotta + 10 g zucchero e cacao (160 kcal)
  • Pranzo (3 blocchetti): pollo + 100 g patate bollite + 1 pera e mezza (400 kcal)
  • Spuntino (1 blocchetto): 1 fetta di pane + 30 g prosciutto cotto (100 kcal)
  • Cena (3 blocchetti): 100 g gamberetti + 1 cucchiaio di maionese + 1 fetta di pane + insalata + 200 g cavoletti di Bruxelles (410 kcal)

Proprietà nutrizionali: https://www.alimentinutrizione.it/tabelle-nutrizionali/ricerca-per-alimento

Varianti di dieta a zona

Come visto, regole abbastanza rigide ci sono, ma non così tanto da non renderla una strategia adattabile a diversi stili alimentari (dieta mediterranea, vegana, vegetariana) e a chi ha particolari esigenze dettate dall’intolleranza al lattosio e al glutine.

Dieta a zona mediterranea

Di solito la dieta a zona è considerata anti dieta mediterranea, in particolar modo perché prevede un apporto molto più alto, almeno in termini percentuali, di proteine, e un apporto glucidico più basso. La dieta mediterranea, infatti, di solito prevede un 12-15% delle kcal totali da proteine e circa 55% da carboidrati, mentre la Zona di Barry Sears indica un apporto del 30% per le proteine e 40% per i carboidrati.

Tuttavia, il vero senso della dieta mediterranea è quello di prestare particolare accortezza agli alimenti locali, a km 0, seguendo un’alimentazione basata principalmente su frutta, verdura e cereali integrali e un’attività fisica quotidiana moderata ma costante. Queste sono tutte condizioni assolutamente compatibili con i dettami di Sears circa la Dieta Zona, anzi, spesso chi segue una dieta del genere ha un’alimentazione che si avvicina molto a quella mediterranea, solo un po’ più proteica.

Vegana e vegetariana

Dieta zona esempio menù per dimagrire e per la palestra

Una dieta a zona vegetariana o addirittura vegana è assolutamente possibile, tuttavia probabilmente più complicata da comporre per la scelta dei cibi poiché dovendo prevedere pasti con la distribuzione 40-30-30 (carboidrati, proteine, grassi), è difficile non sforare con i carboidrati nel tentativo di aumentare l’apporto proteico, visto che gli alimenti vegetali sono in genere molto più ricchi di glucidi.

Molti sono preoccupati del fatto che in una dieta vegetariana o vegana non si assumano proteine di alto valore biologico (che generalmente sono rappresentate dalle proteine provenienti da alimenti di origine animali), tuttavia questa è una preoccupazione che non ha motivo di esistere.

Conta molto di più l’apporto proteico totale che la fonte di proteine nel dettaglio, inoltre, è possibile mischiare le proteine di più basso valore biologico tra loro, non solo nello stesso pasto, ma in genere nell’intera giornata, con il fine di raggiungere comunque un apporto proteico di qualità. Questo vale ancora di più se si segue una dieta come la zona, che prevede solitamente 5 pasti al giorno e fonti proteiche in tutti i pasti.

Dieta a zona senza latticini

Anche se sei intollerante al lattosio puoi seguire lo schema della Dieta Zona, naturalmente escludendo i prodotti che lo contengono: significa escludere alcuni alimenti animali proteici (come i formaggi magri) ma assolutamente rimpiazzabili da altre fonti proteiche senza latte.

Senza glutine

Come visto, Sears esclude alla base molti prodotti farinacei come brioche, piadine, pasta in quanto da lui definiti carboidrati sfavorevoli, dato l’alto indice glicemico e l’elevata densità energetica.

L’esclusione di questi alimenti si adatta perfettamente a chi è celiaco, che per ragioni di salute deve togliere dall’alimentazione i prodotti che contengono frumento, orzo, segale.

Dopo quanto arrivano i risultati con la dieta a zona e si dimagrisce?

Come in ogni dieta la perdita di peso dipende dal deficit calorico, che può essere più o meno marcato. Un taglio troppo drastico impatta negativamente sull’organismo e inoltre non è sostenibile nel lungo periodo.

È meglio quindi diminuire gradualmente le calorie:

  • 2500-3500 kcal in meno a settimana per gli uomini,
  • 1500-2500 kcal per le donne.

Considerando che 1 kg di tessuto adiposo sono 7000 kcal, due settimane con 3500 kcal in meno ciascuna dovrebbero essere sufficienti per perdere 1 kg.

Solitamente per un dimagrimento efficace e graduale è consigliato perdere 0.5-1% del proprio peso corporeo a settimana.

Dieta a zona e bodybuilding: sono compatibili?

Se già stai facendo o hai intenzione di fare bodybuilding saprai che c’è la famosa fase di massa e di definizione. Senza entrare nei particolari, queste due prevedono di base una diversa distribuzione dei nutrienti all’interno di determinati range.

Questo chiaramente contrasta con la dieta a zona, che invece dà dei paletti rigidi e obbliga alla ripartizione costante 40% carboidrati, 30% grassi e 30% proteine, che poi, come già detto, non è la distribuzione ottimale che va bene per tutti. Soprattutto per gli sportivi, che nei pasti prima e dopo l’allenamento non necessiterebbero della quota dei grassi.

La suddivisione dei 5 pasti può non rivelarsi congeniale a chi si allena meglio a digiuno e non riesce ad accumulare i pasti in orari lontani dall’allenamento.

A favore, invece, è sicuramente l’alimentazione proposta sana e completa.

Conclusioni sulla dieta a zona

Nonostante la Dieta Zona presenti sia limiti pratici, come il dover calcolare i blocchetti dei pasti e l’obbligo di consumare 5 pasti al giorno, che limiti teorici, in quanto le fondamenta teoriche su cui si basa non sono corrette, alla fine dei conti questa strategia funziona: fa dimagrire perché “nasconde” il deficit calorico senza la percezione del sacrificio in quanto saziante e inoltre insegna ad avere uno stile di vita equilibrato. Insomma, il giudizio finale è che rimane una buona dieta, ma ovviamente si possono anche adottare strategie migliori.

 

Co-autore: dott. Daniele Esposito, autore di Project Diet

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