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Grasso localizzato e grasso ostinato: uno studio testa lo Stubborn Fat Protocol

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È di giugno 2017 l’ultimo studio sul dimagrimento localizzato e sul grasso ostinato, condotto da un gruppo di ricerca italiano dell’Università di Roma Tor Vergata (di Palumbo et al.) sulla rivista scientifica italiana The Journal of Sports Medicine and Physical Fitness – Minerva Medica (1).
Il dimagrimento localizzato è un fenomeno che non è stato realmente provato sull’uomo, ma questo studio riapre
in teoria la possibilità che possa esistere. Anche per quanto riguarda il grasso ostinato, benché esistano ricerche in acuto che avrebbero documentato strategie e meccanismi per migliorarne la sensibilità lipolitica (è ostinato perché fisiologicamente resistente alla lipolisi), rimane un argomento ancora non studiato dalla ricerca.

Cellule grasse resistenti alla lipolisi

grasso localizzato recettori adrenergici

Le cellule adipose non sono tutte uguali, per esempio a seconda del tipo e del quantitativo di recettori adrenergici, rispondono in modo differente allo stimolo delle catecolamine (adrenalina e noradrenalina), liberando così, nel flusso ematico, una parte più o meno rilevante del loro contenuto di acidi grassi. Questo fa si che alcuni adipociti (con più recettori sensibili alla lipolisi) si svuotano prima rispetto a quelli resistenti.

Se la letteratura scientifica mostra che i giocatori di tennis hanno tanto grasso sul braccio dove tengono la racchetta, rispetto all’altro (Gwinup, 1971), è anche vero che in ambito di bodybuilding natural, si nota un marcato dimagrimento localizzato nelle gambe, qual ora si allenino in modo:

  • frequente (suddividendo in split le cosce tra muscoli flessori ed estensori)
  • con TUT elevati,  a volte anche sopra i 10′
  • alternando stimoli meccanici e metabolici

i risultati potrebbero essere dati da una maggior vascolarizzazione dei muscoli allenati (più flusso di sangue arriva agli adipoci e più viene facilitata la lipolisi), oppure semplicemente dal fatto che una maggior crescita muscolare, porta a parità di grasso, ad un sua riduzione in % (se ho 10kg di grasso su 70kg di massa magra possiedo il 12,5% di BF, se ho sempre 10kg di FM ma aumento a 75kg di FFM la % scende all’11,5%).

In ogni caso il dimagrimento localizzato rimane molto difficile da ottenere, le strategie alimentari, che sostengono che grazie alla modifica della % di macronutrienti nella dieta ed al rispettivo timing d’assunzione, si va ad interagire sull’assetto ormonale della persona e sul suo specifico biotipo, portando così ad un dimagrimento localizzato, trovano più consenso nel marketing che nella fisiologia.

Nello stesso modo, se l’allenamento lipolitico stimola le catecolamine ed il rilascio d’acidi grassi, gli adipociti con un rapporto sfavorevole di recettori adrenergici alfa2/beta2, si troveranno più resistenti all’azione lipolitica degli ormoni. Inoltre più acido lattico viene prodotto con l’allenamento, più avremo una stimolazione adrenergica, ma contemporaneamente l’abbassamento del pH, dato da un aumento degli ioni H+, porterà un blocco momentaneo della lipolisi, facendo si che l’azione dell’adrenalina e noradrenalina venga inibita proprio nel momento in cui sarebbe più efficace per attaccare il grasso ostinato.
Per questo, nel tempo, si sono ideati dei protocolli d’allenamento (come lo Stubborn Fat Protocol) che cercano di coniugare una giusta stimolazione degli ormoni adrenergici, un corretto pH cellulare ed una richiesta organica rivolta alla lipolisi.

Grasso localizzato: un nuovo studio a riguardo

grasso localizzato addome fianchi
Partiamo con l’abstract per rendere l’idea di cosa si tratta:

Background: Il presente studio ha testato la possibilità di riduzione della massa grassa localizzata tramite programmi di allenamento che si concentrano su regioni corporee specifiche.

Metodi: Sedici donne fisicamente inattive (età media 31; BMI medio 27,5 [sovrappeso]), suddivise in modo casuale in due gruppi, hanno completato un programma di allenamento di 8 settimane.

  • UpBdResist: in un gruppo le sessioni di allenamento erano costituite da esercizi contro resistenza [a circuito] per la parte superiore del corpo, seguiti da 30 minuti di pedalata al 50% VO2max;
  • LwBdResist: mentre l’altro gruppo ha eseguito esercizi contro resistenza [a circuito] per la parte inferiore del corpo e 30 minuti su un armoergometro [al 50% VO2max];

La composizione corporea regionale è stata misurata con la DEXA e le pliche cutanee.

Risultati: Nonostante una simile riduzione [del grasso] in entrambi i gruppi, l’allenamento UpBdResist ha provocato una maggiore riduzione del grasso negli arti superiori rispetto agli arti inferiori. Al contrario, nel gruppo LwBdResist, la perdita di massa grassa era più pronunciata negli arti inferiori rispetto a quelli superiori. Allo stesso modo, il gruppo LwBdResist ha ottenuto un maggiore effetto sulla massa magra degli arti inferiori rispetto a quelli superiori, ma nessuna differenza tra la massa magra degli arti superiori e inferiori sono state rilevate nel gruppo UpBdResist.

Conclusioni: I dati presentati suggeriscono che un programma di allenamento che comporta l’esercizio contro resistenza esplosivo localizzato, prima di un allenamento di endurance, può bersagliare specifici siti del tessuto adiposo provocando una perdita localizzata di massa grassa negli arti superiori e inferiori.

Commento di Lyle McDonald

Data la pubblicazione molto recente lo studio non è stato ancora vagliato da vari ricercatori specializzati, ma è stato prontamente commentato da Lyle McDonald, che come si scoprirà, potrebbe aver ispirato il design di studio. Ho quindi tradotto i suoi primi commenti:

Il design è un po’ intricato. Sostanzialmente hanno fatto fare a delle donne:

  • Pesi per la parte superiore del corpo -> cardio per la parte inferiore del corpo
  • Pesi per la parte inferiore del corpo -> cardio per la parte superiore del corpo

Con l’idea che l’esercizio con i pesi sarebbe stato ad alta intensità e avrebbe generato una risposta ormonale specifica che mobilizza il grasso mentre il cardio lo avrebbe bruciato. Hrm, che suona familiare [in riferimento al suo libro, Stubborn Fat Solution]. Con l’obiettivo di monitorare i cambiamenti regionali della massa magra e grassa. Hanno usato DEXA e pliche.

Ora, c’è uno studio, recensito sul mio sito, dove l’esercizio contro resistenza locale ha causato un MINUSCOLO MINUSCOLO MINUSCOLO aumento della mobilizzazione locale del grasso [2]. Voglio dire fottutamente minuscolo. Ma un sacco di mobilizzazione del grasso è stata locale, quindi vediamo.

Il primo gruppo ha visto una perdita leggermente maggiore nel grasso corporeo della parte superiore; la teoria è che l’esercizio contro resistenza ha mobilizzato il grasso che è stato bruciato dal cardio per la parte inferiore. Il secondo ha visto una leggera maggiore perdita del grasso delle parti inferiori, la stessa idea all’inverso. Ma i cambiamenti erano minimi.

  • Il gruppo “upper body” [UpBdResist] ha perso 0.3 kg di grasso sia sopra che sotto. Sono 300 g. In oltre 12 settimane. Quindi err, 22 g/sett. La riduzione delle pliche è stata di 3 mm sui tricipiti, 1.3 sulla coscia.
  • Il gruppo “lower body” [LwBdResist] ha perso 0.1 kg di grasso corporeo nella parte superiore e gli stessi 0.3 kg di grasso corporeo nella parte inferiore. Le pliche si sono ridotte di 1.2 mm sui tricipiti e 2.7 mm nella parte inferiore.

Non sono convinto che qualcuno di questi numeri rientri nell’errore di misurazione della metodologia, ma è interessante. Si noti che questo non è uno studio perfettamente equilibrato. Anche con lo stesso volume e intensità dei pesi, la parte  superiore è meno stressante della parte inferiore del corpo. Lo stesso per il [cardio] per la parte superiore (armoergometro) rispetto alla parte inferiore (cicloergometro): anche con lo stesso VO2max, il secondo è più stressante.

Oh sì, l’argomento è dove è l’aspetto importante, in quanto sottolineano che utilizzare un’intensità di allenamento sufficiente è la chiave per mobilizzare il grasso corporeo inferiore. Cita il seguente studio [3] che ha confrontato l’interval training allo steady state e solo gli intervalli [HIIT] hanno ridotto le pliche della coscia. Ora questo suona familiare.

Conclusioni sul grasso localizzato e sul grasso ostinato

grasso localizzato strategie

Il protocollo di allenamento usato in questo studio è molto simile a quanto proposto da McDonald nel suo libro the Stubborn Fat Solution del 2008, ovvero lo Stubborn Fat Protocol (SFP). L’SFP prevede di combinare in un’unica sessione attività aerobica e anaerobica, permettendo di ottenere i benefici complementari forniti da entrambe le modalità per ottenere una riduzione del grasso ostinato (4).

Una delle varie modalità di SFP consiste nell’organizzare un protocollo in cui si esegue prima un allenamento con i pesi “metabolico” (a circuito) seguito dal cardio steady state a moderata intensità (SFP1.0). La teoria di base del SFP è quella di sfruttare dapprima l’esercizio anaerobico (pesi o HIIT) per stimolare le catecolammine e inibire dei recettori che creano resistenza lipolitica nelle zone adipose ostinate (α-2), e in seguito usare l’esercizio aerobico per ossidare i grassi mobilizzati dalle zone stesse.

Dato che il protocollo usato nello studio è molto simile al SFP1.0, non sorprenderebbe se il gruppo di ricerca italiano abbia tratto libera ispirazione dal lavoro di McDonald, vista anche la facile reperibilità di un accurato articolo italiano che avevo scritto sulla Wikipedia italiana nel 2013.

Ad ogni modo lo studio non è stato recensito da McDonald in maniera molto critica per riconoscerne le limitazioni, conseguenza comprensibile da parte di un autore che ha promosso la stessa strategia e che quindi può avere i suoi bias. Sembra tuttavia che i limiti esistano, a partire da una sospetta randomizzazione dei soggetti. Naturalmente sarà da valutare una recensione critica da parte di scienziati specializzati in questo tipo di analisi.

Riferimenti:

  1. di Palumbo A et al. Effect of combined resistance and endurance exercise training on regional fat loss. J Sports Med Phys Fitness 2017;57:794-801.
  2. Stallknecht B et al. Are blood flow and lipolysis in subcutaneous adipose tissue influenced by contractions in adjacent muscles in humans? Am J Physiol Endocrinol Metab. 2007 Feb;292(2):E394-9.
  3. Trapp EG et al. The effects of high-intensity intermittent exercise training on fat loss and fasting insulin levels of young women. Int J Obes (Lond) 2008;32:684-91.
  4. McDonald L. The Stubborn Fat Solution. Lyle McDonald, 2008.

Note sull’autore

L’articolo sul grasso localizzato è di Lorenzo Pansini

Lorenzo Pansini è personal trainer, bodybuilder natural, divulgatore scientifico e co-direttore della rivista Project Journal (di prossima pubblicazione). Appassionato di Nutrizione e di tutto ciò che ruota attorno all’allenamento per il bodybuilding e fitness, basa il suo lavoro su analisi critiche, oggettive, fondate su un’accurata indagine bibliografica e l’analisi del contesto tramite l’esperienza, cercando di rendere i contenuti ricchi di informazioni e nozioni scientifiche ma allo stesso tempo che abbiano un’estrapolazione pratica.

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Muscoli carenti e specializzazione: come comportarsi

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La maggior parte di noi ha alcuni gruppi muscolari che si sviluppano facilmente mentre altri sembrano crescere a rilento. Le ragioni possono essere molteplici (come descritto nell’articolo sui muscoli carenti). Solitamente per colmare un gruppo carente si consiglia di effettuare un periodo di “specializzazione” in cui si aumentano per un breve lasso di tempo il volume, la frequenza e gli stimoli per il gruppo carente (per un approfondimento si legga muscoli carenti petto e muscoli carenti schiena). Tuttavia, per affrontare con successo un periodo di specializzazione bisogna essere “pronti”: non si può specializzare un muscolo che non sappiamo contrarre.

Una delle ragioni più frequenti per cui un muscolo è carente è l’incapacità di reclutarlo a dovere durante gli esercizi che lo riguardano, finendo per far gravare la tensione su muscoli sinergici. Immaginate un povero cristo che, quando fa le alzate laterali, recluta soprattutto il trapezio a fronte di una scarsa attivazione del deltoide laterale. Si ritrova così con un trapezio ipersviluppato e delle spalle inesistenti: risultato poco “aesthetic”. Allora ha la brillante idea di fare la specializzazione per delle spalle carenti e si ammazza di alzate laterali ogni giorno. Risultato: poiché fa sobbarcare il lavoro al trapezio, finisce per aumentare la sproporzione trapezio-spalle.

Guardati questo video per allenare correttamente le spalle:

Cosa voglio dire? Il prerequisito di un periodo di specializzazione è la capacità di dirigere gli stimoli frequenti e variegati verso il muscolo carente. Senza questa capacità la specializzazione non solo risulterà inutile; potrà addirittura peggiorare la resa estetica (e funzionale). Appare dunque necessario affrontare un percorso che richiede del tempo prima di affrontare la fantomatica specializzazione di 6 settimane che ci darà le tanto agognate “spalle stondate che stupiscono le folle”. In questo articolo voglio raccontarvi il mio personale percorso che mi ha preparato ad affrontare la specializzazione per il petto che mi accingo ad affrontare.

Un po’ per inserzioni sfavorevoli, un po’ per spalle dominanti, ma soprattutto per mancanza di tecnica e propriocezione ho sempre avuto il petto carente (se cercate su google immagini “petto carente” ci sono io; è triste lo so).

muscoli carenti

Nell’ultimo anno ho dato la priorità a migliorare il pettorale. Sapevo che per farlo avrei dovuto (e ancora devo farlo) “sentire” bene il petto così come “sento” bene muscoli delle gambe che sono sempre stato il mio punto forte. Per far questo, il primo passo imprescindibile era l’apprendimento di corretti setup e tecnica negli esercizi di spinta (qui puoi leggere sull’importanza della tecnica per l’ipertrofia). A tal fine ho preso in prestito dagli odiati amici Powerlifter accorgimenti tecnici e attenzione alle progressioni di carico sulla panca piana (sulla corretta tecnica nella panca si veda nell’articolo sulla  panca piana e bodybuilding e sul fermo al petto nella panca). Macinare per mesi serie “tecniche” con fermo al petto, lockout dei gomiti e massima attenzione all’assetto scapolare mi ha permesso di imparare una tecnica quantomeno decente nei movimenti di spinta per il petto. Un esempio di allenamento (eseguito due volte a settimana variando gli esercizi, non sono incluse le serie di riscaldamento) in questo periodo era

  • Panca piana con fermo progressione (4×6>5×5>6×4>7×3)
  • Spinte manubri panca 30° 3×6-8 video
  • Croci manubri su panca piana 3×10-12

Dopo questa fase i miei carichi e soprattutto la mia tecnica erano migliorate: mi sentivo “cotto” dalle basse reps e avevo nostalgia di range di ripetizioni più “ipertrofici”. Ero pronto per aumentare il volume.  Un esempio di allenamento (eseguito due volte a settimana variando gli esercizi, non sono incluse le serie di riscaldamento) in questo periodo era

  • Panca inclinata bilanciere in tensione continua 3×6-8 video
  • Spinte manubri su piana in tensione continua 3×8-10
  • Chest press convergente 3×10-12
  • Croci ai cavi alti con contrazione di picco 3×12-15

In questa fase la diminuzione dei carichi allenanti mi ha permesso coniugare la tecnica imparata ad una maggiore propriocezione del gran pettorale: un carico che riuscivo a muovere più agevolmente mi consentiva non solo di mantenere il setup, ma anche di pensare ad “avvicinare i gomiti” piuttosto che a spingere nei movimenti di spinta col risultato di avere una migliore percezione del petto.

A questo punto avevo sviluppato una discreta “connessione mente-muscolo” con il gran pettorale, intesa come combinazione di tecnica e propriocezione. Ormai mi bastava una serie di riscaldamento da 6 ripetizione per sentire il petto iniziare a “sfibrarsi”, quando prima dovevo ricercare il pompaggio per sentire quella piacevole sensazione. Rispetto al passato inoltre avevo quasi sempre DOMS dopo aver allenato il petto. Sappiamo che non sono indice di crescita muscolare, ma li interpretavo come il segnale che avessi colpito il muscolo target. Mancava ancora un tassello per aver con il petto lo stesso feeling ho con le gambe: la capacità di arrivare al limite, e possibilmente superarlo, senza degradare (troppo) la tecnica. Mantenere il corretto setup ed una propriocezione adeguata è difficile quando siamo allo stremo e altri muscoli premono per sobbarcarsi il lavoro del gruppo muscolare che vogliamo allenare. Per confrontarmi con questa sfida passai ad un allenamento ad alta intensità. Ecco un esempio di allenamento eseguito due volte a settimana (sempre variando esercizi, non sono incluse le serie di riscaldamento)

  • Chest press convergente 1×8-10+max+max video
  • Spinte manubri su panca inclinata 30° 1×8-10+max+max
  • Panca declinata al multipower 3×10-12 tutte a cedimento video
  • Croci panca 45° ai cavi con contrazione di picco 3×10-12 tutte a cedimento video

A questo punto mi dedicherò ad una specializzazione del petto in cui lo allenerò tre volte a settimana, variando gli stimoli per ciascuna seduta. Nello specifico le tre sedute rispecchieranno i tre esempi descritti sopra.

petto carente

Per riassumere la mia esperienza, sperando che possa essere di spunto e di aiuto anche a voi, è utile questa tabella che schematizza la periodizzazione che ho descritto. Al pop, eroi!

specializzazioen gruppi muscolari

Articolo di Davide Hahn 

foto Davide Hahn

 

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Lat machine presa stretta o larga?

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Quanti di voi si saranno chiesti negli anni passati in palestra “ma cosa cambia tra fare la Lat Machine presa stretta o larga?”. Finora tra le spiegazioni più accreditate troviamo la stravagante teoria dello spessore e dell’ampiezza della schiena, ma si sentono anche teorie basate sulla divisione in parti del gran dorsale: largo, stretto, basso, alto, ma tutto ciò è facilmente raggruppabile all’interno della macro categoria “anatomia del palestrato”. Vediamo dunque di fare un po’ di chiarezza in questo video-articolo, applicando come sempre la teoria e interpretando correttamente l’evidenza scientifica.

Lat Machine presa larga: cenni biomeccanici

Da un punto di vista biomeccanico la differenza tra fare la Lat o le Trazioni con la presa larga o con la presa stretta è il piano lungo il quale avviene il movimento. Quando mettiamo le mani agli estremi della sbarra, proprio nel punto in cui questa si piega verso il basso (come si è soliti consigliare), il movimento che andremo a eseguire sarà un’adduzione dell’omero sul piano frontale contro gravità (il cavo si oppone al movimento “tirandoci” le braccia verso l’alto). Eseguire un’adduzione contro gravità significa contrarre gli adduttori dell’omero in toto: gran dorsale, grande rotondo ma anche gran pettorale (figura 1).

Lat machine presa largaLa lat machine presa larga prevede un movimento di adduzione sul piano frontale. Più è larga la presa più avviene il movimento di adduzione a discapito dell’estensione. 

La fisiologia articolare ci insegna che l’adduzione pura, rispetto all’estensione, richiede una minor adduzione delle scapole, ragion per cui si “sente” meno la parte centrale della schiena e non gli si attribuisce proprietà miracolose per lo “spessore”. Entrando nei dettagli della disposizione delle fibre muscolari coinvolte, notiamo che nel movimento di adduzione puro le fibre alte e trasversali del gran dorsale e il grande rotondo hanno una posizione più favorevole e risulteranno maggiormente coinvolte, alimentando la sensazione di “ampiezza”.

Lat machine presa stretta: cenni biomeccanici

Più stringiamo la presa sulla sbarra, più il movimento passa da un piano frontale a un ibrido frontale/sagittale e verso un sagittale puro quando la presa è mantenuta alla larghezza delle spalle. Il movimento antigravitario eseguito diviene quindi un’estensione d’omero con l’attivazione contemporanea di gran dorsale, grande rotondo, fasci sterno-costali del gran pettorale e capo lungo del tricipite (figura 2). A livello scapolare, romboidi e trapezio medio determinano un’adduzione funzionale a completare l’estensione dell’omero in tutta la sua ampiezza possibile. Inoltre, sempre valutando il decorso delle fibre muscolari, notiamo che questa volta saranno coinvolte le fibre più basse e verticali del gran dorsale piuttosto delle alte e del grande rotondo (figura 3). Ecco che si “sente” un lavoro maggiore in mezzo alla schiena e si parla di esercizio per “lo spessore”.

Lat machine presa strettaLa lat machine presa stretta prevede un movimento d’estensione dell’omero. In questo caso sono favorite le fibre più caudali del gran dorsale.

Concludendo, possiamo dire che:

  • da un punto di vista biomeccanico la differenza tra fare la Lat Machine o le Trazioni con la presa larga o con la presa stretta sta nel movimento eseguito e nel gruppo muscolare coinvolto. Con presa larga adduciamo e con presa stretta estendiamo l’omero attivando rispettivamente adduttori ed estensori. Tutte le prese intermedie tra questi estremi determinano movimenti ibridi di adduzione/estensione, con l’adduzione che prevale più si allarga la presa e l’estensione che prevale più la si stringe;
  • all’aumentare della larghezza della presa aumenta anche la difficoltà dell’esercizio e questo è facilmente spiegabile rifacendoci sempre al piano di movimento interessato. Un’adduzione dell’omero lungo il piano frontale, ottenuta con una presa larga, non favorisce un’adduzione scapolare completa e ciò impedisce un “incastro” articolare ottimale durante la fase concentrica (Evangelista, 2011). Tale incastro è invece favorito da una presa regolare larga quanto le spalle che determina un’estensione dell’omero pura lungo il piano sagittale (anche una presa troppo stretta riduce la possibilità di “incastro” per l’impossibilità dell’omero di estendersi completamente e per la conseguente riduzione dell’adduzione scapolare).

Larghezza della presa e attivazione muscolare: cosa dice la letteratura

A oggi tre studi hanno indagato l’attivazione elettromiografica dei muscoli coinvolti durante l’esecuzione della Lat Machine con diverse varianti tra le quali la larghezza della presa. Le conclusioni tratte da questi studi possono essere riportate anche alle Trazioni.

  1. Uno studio del 2014 riporta l’attività elettromiografica di gran dorsale, trapezio e bicipite brachiale durante l’esecuzione della Lat Machine con una presa alla larghezza delle spalle (stretta), 1,5 volte la larghezza delle spalle (media) e due volte la larghezza delle spalle (larga). Confrontando i dati, gli autori concludono che nelle tre varianti si hanno attivazioni simili per quanto riguarda gran dorsale e trapezio e significative variazioni si hanno solo per il bicipite, attivo maggiormente con presa media e stretta (ciò è riconducibile sicuramente ad una maggior flessione di gomito raggiunta con queste due varianti che garantiscono un ROM articolare maggiore). Una maggiore attivazione del gran dorsale è riscontrata solo in fase eccentrica nelle esecuzioni a presa larga e stretta rispetto a quella media. Gli autori concludono consigliando queste ultime due esecuzioni, reputate simili per guadagno muscolare a lungo termine (Andresen et al, 2014).
  2. Uno studio del 2002 riporta un’attivazione elettromiografica maggiore del gran dorsale durante l’esecuzione con presa larga, sia in fase eccentrica sia in fase concentrica rispetto a tutte le altre varianti (Signorile et al, 2002).
  3. Uno studio del 2010, partendo dall’analisi di quello di Signorile del 2002, conclude invece che a garantire l’attivazione maggiore del gran dorsale non sia tanto la larghezza della presa in sé, bensì l’orientamento dell’avambraccio, sottolineando che la Lat Machine avanti con avambraccio pronato è la variante che più aumenta l’attivazione del gran dorsale indipendentemente dalla larghezza della presa (Lusk et al, 2010). Figura 4.

lat machine presaSecondo Lusk la lat machine con la presa pronata è quella che attiva maggiormente il gran dorsale, a prescindere dalla larghezza della presa.

In conclusione una piccola precisazione. Parlando di attivazione muscolare normalmente si tende ad associare a una maggiore attività elettromiografica una maggiore risposta ipertrofica del muscolo in questione. Tuttavia questa associazione è fino ad ora solo ipotetica e per confermare ciò sarebbero necessari studi nel lungo periodo sulla crescita muscolare locale, studi che al momento non sono disponibili. Seguendo il buon senso, non conviene tenere sempre la stessa presa nella lat machine, ma conviene alternare:

  • Lat machine presa stretta
  • Lat machine presa larga
  • Lat machine avanti e dietro (se abbiamo la mobilità di spalle)
  • Lat machine presa supina (attenzione a chi ha problemi ai gomiti)
  • Lat machine presa parallela

Per approfondire scopri PROJECT EXERCISE

Project Exercise

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Fase di massa: gestirla al meglio coi Mini-Cut

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I periodi di massa ed in generale di iper-alimentazione sono parte integrante del Bodybuilding. In questo contesto il surplus energetico è richiesto per poter permettere i processi di adattamento ipertrofico che vengono stimolati dall’allenamento.

Fase di massa = ipercalorica

Fin qui tutto logico ma in termini pratici le cose cambiano e le scuole di pensiero son diverse e ritroviamo, come spesso accade in questo mondo, due contesti totalmente opposti:
– Da una parte chi suggerisce di attuare una massa “sporca”. Bisogna, in quest’ottica, aumentare di molto l’input energetico in modo da rendere quanto più rapidi possibile gli adattamenti ipertorfici.
– Dall’altra parte troviamo invece chi suggerisce di utilizzare un surplus energetico minimo, in modo da rendere quanto più basso possibile l’accumulo di massa grassa.
Entrambe queste tipologia hanno dei pro e dei contro e si prestano bene a scenari diversi. Tuttavia possiamo trovare una terza strada, quella che prevede di fare un up&down calorico andando ad inserire, durante il periodo di massa, dei periodi di “mini-cut”, ossia di mini-definizioni. Che senso ha? Soprattutto quali vantaggi può portare?
In questo articolo forniremo una panoramica completa del mini-cut andando ad analizzarne i risvolti pratici e dando delle linee guida precise e complete. Per capire bene il contesto però, andiamo a dare una breve panoramica delle due alternative che hanno “dominato” la scena fino ad ora, capendone i reali benefici e i risvolti pratici.

Fase di massa sporca

La massa “sporca” è un approccio che viene diffuso soprattutto da culturisti che fanno uso di farmaci. In un simile contesto un surplus energetico più aggressivo ci da enormi vantaggi in termini di aumento del tessuto muscolare e, potendo contare sull’utilizzo dell’integrazione chimica, gli accumuli adiposi di troppo verranno eliminati senza un eccessivo sacrificio del tessuto magro.
In generale però, anche in un contesto natural, periodi di “bulk” più aggressivi hanno i loro vantaggi. Alti livelli calorici portano comunque ad un forte stimolo anabolico. Così, anche se in termini relativi (in proporziona all’aumento del grasso) il guadagno di massa muscolare sarà inferiore, in termini assoluti sarà assolutamente maggiore. In sostanza prenderemo anche grasso ma prenderemo molto più muscolo. Oltre a questo c’è un forte stimolo alla performance che ci permette di migliorare lo stimolo d’allenamento e, in ultimo, i nostri risultati estetici.

grafico fase massa sporcaIl grafico mostra un possibile scenario di massa “sporca”. Vediamo che all’inizio il nostro dispendio medio settimanale sarà di 2700kcal. Alla fine, grazie all’aumento della funzionalità metabolica, del NEAT e della performance, il nostro dispendio sarà di 3200kcal ma avremo comunque un surplus di 1500kcal equivalente ad un 30%.

Un simile quadro ha però dei contro. Da una parte l’ovvio accumulo di tessuto adiposo che risulterà più ostico da togliere e ci porterà ad annullare il tessuto muscolare guadagnato in più rispetto ad altre strategie. D’altro canto, arrivati ad un determinato livello di massa grassa, ci ritroveremo con della resistenza anabolica ossia un contesto nel quale i guadagni di peso andranno per lo più a carico del tessuto adiposo rispetto a quello muscolare (ricordate l’articolo sull’antagonismo tra tessuto muscolare e adiposo?)
Insomma, la massa sporca può non essere un’idea così fantastica…

Fase di massa pulita

L’alternativa proposta alla massa sporca è, nemmeno a dirlo, quella pulita. In questo contesto il vettore-marketing utilizzato è stato quello di “poter guadagnare solo muscolo e non grasso risultando grosso e tirato tutto l’anno”. Molto interessante come concetto ma nulla di innovativo. L’idea del dover prendere muscolo senza svaccare è un qualcosa che ha caratterizzato il mondo del bodybuilding da sempre ed è sempre stato attuato (rimando all’articolo sulla Reverse Diet e Recovery Diet).

grafico fase di massa pultia
Nel grafico vediamo una possibile situazione di massa pulita. All’inizio del periodo di massa abbiamo un dispendio di 2700kcal, alla fine arriviamo a 3000kcal. Abbiamo un surplus energetico di sole 300kcal, ossia del 10%.

Esaminando il grafico vediamo che il dispendio alla fine (3000kcal) è inferiore rispetto al periodo di massa sporca. Questo perchè avremo minori adattamenti in termini di performance e di funzionalità metabolica. Capiamo quindi il perchè, nella massa sporca, gli aumenti della massa muscolare sono, in assoluto, maggiori.

Anche qui pro e contro. Il vantaggio principale è che rimarremo sempre in una situazione ideale da un punto di vista non solo estetico ma anche di salute. Il contro principale è quello che ci ritroveremo con dei possibili limiti in termini di performance ma soprattutto di riposta anabolica la quale sarà comunque limitata da un surplus energetico minimo.

Una terza proposta per la fase di massa: il Mini-Cut

Entrambe le soluzioni sono sicuramente valide ed adattabili a contesti diversi. Una massa sporca può esser l’ideale per chi ha una bassa BF e difficoltà a mettere muscolo, una massa pulita per chi ha la tendenza a sporcarsi molto. Entrambe possono comunque portare ad ottimi risultati. Abbiamo però un terzo protagonista in gioco, ossia il mini-cut. Questa strategia prevede, come detto, l’alternanza di periodi di massa a periodi di mini-definizione di qualche settimana. Iniziamo con il capire quando utilizzarli. Abbiamo due possibili scenari.

Min-Cut “patologico”

Si tratta di un mini-cut utilizzato nel momento in cui ci ritroviamo con una massa grassa non preventivata e troppo alta. In altre parole vediamo che stiamo spanzando e decidiamo di intervenire. Abbiamo visto che uno dei rischi della massa sporca è quello di ritrovarsi in contesti di resistenza anabolica. Ecco, possiamo ritrovare alcuni indici:

  • Molta ritenzione idrica, soprattutto dopo l’assunzione di pasti glucidici.
  • Poca pienezza muscolare, soprattutto dopo l’assunzione di pasti glucidici.
  • Poca vascolarizzazione durante l’allenamento.
  • Massa grassa superiore al 15%

In tutti questi casi possiamo seriamente valutare l’idea di utilizzare un mini-cut. Questo ci permetterà, anzitutto di perder grasso, ma soprattutto di ripristinare i parametri ormonali e recettoriali (sensibilità insulinica e gestione dei nutrienti) in modo da tornare sui corretti “binari anabolici”.

Mini-cut fisiologico

In altri casi invece, il mini-cut è voluto. Si tratta di contesti nel quale decidiamo e preventiviamo di utilizzare questa metodologia all’interno di una fase di massa. Possiamo scegliere di farlo per molte ragioni, perchè una massa pulita non funziona e vogliamo provare a dare stimoli più frequenti (riprendendo le teorie che stanno dietro alla Dieta ABCDE in parte). Ma in genere lo scopo è quello di trovare una sinergia tra allenamento ed alimentazione. Nel momento in cui il primo avrà un andamento ondulatorio (carico e scarico) anche la seconda dovrebbe fare altrettanto. Ma come?
Andiamo ora a vedere, in entrambi i casi, come muoverci.

In pratica. Mini-Cut Patologico

Qual’è il quadro? La fase di massa ci è sfuggita di mano, abbiamo messo troppa adipe, non riusciamo nemmeno a gestire bene i nutrienti, non ci piacciamo allo specchio, la performance è in stallo.. La situazione ci è decisamente sfuggita. Sostanzialmente ci ritroviamo nel contesto analogo al periodo di massa sporca.

grafico fase di massa mini cut patologico

Riprendendo l’esempio di prima troviamo, nelle prime due colonne, l’inizio e la fine del periodo di massa sporca. A questo punto decidiamo di applicare un mini-cut. Come fare?

  • Il taglio calorico dovrà essere netto. Torniamo alla normocalorica iniziale nella prima settimana. In questo modo usciamo subito da una situazione emergenziale e ci troviamo in un contesto di ipo-alimentazione effettiva (terza colonna). Difatti la funzionalità metabolica sarà ancora alta essendo usciti in questo momento da un contesto di iper-alimentazione.
  • Una volta che la normocalorica effettica sarà tornata ai livelli iniziali possiamo scendere di un 5-10% delle kcal e mantenerci in questa situazione finchè non raggiungiamo di nuovo una buona capacità di gestione dei nutrienti ed una massa grassa accettabile. Molto utile sarebbe l’inserimento del cardio per creare questo deficit in modo da aumentare il partizionamento dei nutrienti e migliorare la flessibilità metabolica.
    Per accorgerci che abbiamo “finito” possiamo far riferimento a due indici: la massa grassa (che dovrà esser tornata entro il 13% c.ca) e la capacità di gestione dei nutrienti. In quest’ultimo caso sarà fondamentale impostare il protocollo alimentare come carb cycling. Questo ci permetterà non solo di incentivare ancor di più il recupero della sensibilità insulinica ma anche di avere un indice di come gestiamo i nutrienti: se la ricarica glucidica “entra” bene (non prendiamo troppa ritenzione idrica) allora le cose son tornate a posto.

In pratica. Mini-Cut Fisiologico

Passiamo ora all’analisi del mini-cut fisiologico, ovvero quello preventivato a monte del programma. Iniziamo con l’analisi dell’allenamento.
Il periodo di massa è finalizzato ad attivare tutti i meccanismi di adattamento ipertrofico nella maniera più ampia possibile. Andando ad analizzare tutti i protocolli e i sistemi di allenamento più famosi abbiamo trovato una costante: quella di una progressione finalizzata a migliorare la performance. Vuoi per i carichi, vuoi per il volume, vuoi per la densità, lo scopo è sempre un miglioramento della performance. Ma non dovrebbe stupire come cosa, sia perchè è logico che un protocollo abbia un obiettivo finale (andare in palestra a “pompare” non giova ai molti) sia perchè il miglioramento della performance è il fine di tutti gli sport. Come nel bodybuilding ci si possa correlare un miglioramento estetico è un altro discroso che approfondiremo in un’altra sede.

Per massimizzare i miglioramenti della performance servono due presupposti:

  • Portarci al limite, scaricare e superare il limite precedente. Si tratta in altri termini del raggiungimento dell’overreaching e della successiva sovracompensazione.
  • Una base alimentare che ci permetta di raggiungere questo limite.

Capiamo dunque che un periodo di massa più “aggressivo” seguito da un mini-cut si presta benissimo a questo gioco di carico e scarico dell’allenamento. Di qui troviamo la massima espressione di sinergia tra allenamento e alimentazione. Come fare il tutto?

grafico fase di massa mini cut fisiologico

In questo grafico vediamo quello che è un possibile esempio di mini-cut fisiologico. Analizziamo fase per fase.

  • All’inizio del mesociclo instaureremo un surplus del 15%, non troppo alto da farci arrivare a situazioni di resistenza anabolica ma non troppo basso da non supportare la nostra performance.
  • Alla fine del mesociclo avremo un dispendio di 3200kcal a fronte delle 2700kcal iniziali. Sia chiaro, non è un dispendio che deriva tanto dagli adattamenti energetici all’input calorico (come nella massa sporca) ma dall’aumento della mole di lavoro nella fase di carico.
  • Dopo l’overreaching scaricheremo il lavoro e il dispendio sarà identico all’inizio del mesociclo (il lavoro in palestra dovrà esser minore e ci converrà aumentare il cardio). In questa fase di scarico (in cui ci prepareremo per un successivo mesociclo) attueremo il mini-cut. Non dovremo attuare un deficit energetico in quanto dobbiamo aver modo di sostenere i processi di sovracompensazione e recupero, non dobbiamo però nemmeno stare in ipercalorica per evitare che il ridotto lavoro ci porti a mal gestire i nutrienti. Il risultato sarà una diminuzione della ritenzione idrica e della massa grassa, un recupero della capacità di gestire i nutrienti e un aumento del tono muscolare. Questo il motivo per cui molte persone, inavvertitamente, attuano questa strategia trovandosi rinati quando staccano da alimentazione e allenamento.
  • Iniziato un successivo mesociclo di carico andremo a tornare al surplus del 15%.

Conclusioni sulla fase di massa ed il Mini-Cut

La strategia di mini-cut non è sicuramente una novità venendo attuata da sempre come rimedio a periodi di massa sfuggiti di mano. Come abbiamo visto però può essere un approccio molto interessante se preventivato e contestualizzato in maniera sinergico-funzionale all’allenamento. Ora siano chiari due punti.

In primis gli esempi che abbiamo dato sono orientativi, le percentuali di surplus calorico devono essere identificate sulla base della nostra capcità di migliorare la performance. Nella mia esperienza determinati atleti richiedono/sopportano surplus più aggressivi mentre altri hanno esigenze molto più vicine ad un surplus del 10% analogo alla massa pulita. Allo stesso modo c’è chi ha bisogno di un minimo deficit nel periodo di scarico (instaurato preferibilmente tramite il cardio) e chi ha bisogno di mantenere un minimo di surplus calorico.

In secundis cercate di evitare di prevedere a priori la durata delle varie fasi. Come per l’allenamento l’overreaching può essere raggiunto in tempi molto diversi e possiamo aver bisogno di più o meno settimane di scarico per recuperare; per l’alimentazione non possiamo prevedere quanto tempo serva per recuperare i vari parametri ormonali e recettoriali, ci potremmo ritrovare allora a mantenre il mini-cut anche fino all’inizio del mesociclo successivo o a dover mantenere il periodo di scarico più a lungo.
Prendete allora questo articolo come uno spunto di riflessione, conservate i ragionamenti e le logiche che stanno dietro al tutto, condividete le vostre esperienze ed i vostri punti di vista perché, come al solito, noi possiamo solo darvi le carte..
..sta a voi giocare quelle giuste nel momento giusto.

L’articolo Fase di massa: gestirla al meglio coi Mini-Cut è di Ludovico Lemme

Note sull’autore

Ludovico Lemme:  Personal Trainer certificato ISSA e studente SANIS (scuola di nutrizione e integrazione sportiva). Segue diversi atleti, sia dal vivo che online nel campo del Bodybuilding e del fitness in generale. Nel 2015 avvia il progetto Rhinocoaching con il quale si propone di creare una piattaforma di riferimento per i suoi atleti e per gli appassionati in generale.
Contatti: rhinocoachingofficial@gmail.com
Pagina FB: https://www.facebook.com/ludovicolemmemygrowth/
Sito Web: www.rhinocoaching.it

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Pullover manubrio: tutto quello che devi sapere

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Tra la miriade di esercizi con sovraccarichi proposti in palestra, il Pullover Manubrio è sicuramente l’emblema della frequente confusione che aleggia tanto tra i professionisti in sala pesi, quanto tra gli appassionati nel web. I dubbi nei riguardi di questo esercizio abbracciano praticamente ogni sfera dell’allenamento, dal reclutamento muscolare fino al rischio articolare. Il tutto sicuramente alimentato da una corposa tradizione di miti e leggende tramandate dai campioni del passato. Il Pullover da palestra è un esercizio specifico per il gran pettorale o per il gran dorsale? È pericoloso per la schiena e le spalle? E ancora, può realmente favorire un aumento di diametro della gabbia toracica come sovente viene ripetuto? Vediamo di chiarire finalmente una a una le questioni in questo video-articolo.

Il pullover manubrio cosa allena? Il gran pettorale o il gran dorsale?

Partiamo dell’attivazione muscolare. Il pullover con manubrio nella sua esecuzione classica, prevede di eseguire un’estensione dell’omero contro gravità da supino con un’escursione che va dai 180° (manubrio dietro alla testa) ai 90° di flessione di spalla (manubrio davanti agli occhi). Vista la disposizione delle fibre e le funzioni anatomiche muscolari possiamo dire con certezza che, sia il gran dorsale, sia i fasci sterno-costali del gran pettorale agiscono come estensori dell’omero durante l’esercizio. In virtù di ciò la risposta alla domanda potrebbe essere: “per entrambi”.

pullover manubrio

Tuttavia, approfondendo la questione e consultando la letteratura, possiamo indicare con maggior precisione il muscolo sul quale il Pullover pone maggior enfasi di contrazione. L’esecuzione con manubrio o con bilanciere è caratterizzata da una diminuzione della leva a mano a mano che il peso viene riportato di fronte agli occhi (l’esercizio diventa più “facile”): la letteratura in merito è unanime nel riportare una maggiore attivazione dei fasci sterno-costali del gran pettorale nei primi gradi di estensione a partire da una posizione di massima flessione (Youdas, 2010; Marchetti, 2011) e quindi tale variante può considerarsi utile a stimolare maggiormente il gran pettorale (quando il gran dorsale dovrebbe iniziare ad intervenire in maniera importante il braccio di leva diviene via via più favorevole rendendo l’esercizio meno stimolante per questo muscolo).

pullover quali muscoli

L’esecuzione del pullover con cavo, invece, permette una distribuzione del carico uniforme lungo tutta l’escursione e, sempre secondo la letteratura, può ritenersi questa la variante che permette un’attivazione maggiore del gran dorsale (Youdas, 2010). Quindi, in definitiva, possiamo affermare che il Pullover dia maggiore enfasi sul gran pettorale (fasci sterno-costali) se si utilizza un manubrio o un bilanciere, mentre dia maggiore enfasi sul gran dorsale se si utilizza un cavo.

Il pullover respiratorio aumenta il diametro della gabbia toracica? Allena il muscolo gran dentato?

Quello dell’aumento permanente della gabbia toracica è uno degli effetti del Pullover Respiratorio di frequente millantati nell’ambiente. Basta un’ulteriore interpretazione riguardo all’analisi del movimento in esame per renderci conto della totale infondatezza di tale credenza. Innanzitutto è bene chiarire cosa si intende per “aumento della gabbia toracica”. Appare alquanto metafisico alludere a una nuova apposizione di tessuto osseo o cartilagineo a livello delle coste in risposta all’esecuzione di un esercizio. È altrettanto fuori luogo pensare invece a un aumento di diametro della gabbia toracica in risposta a un rinforzo dei muscoli intercostali (premesso che, nel caso, si dovrebbe parlare di “blocco inspiratorio”), condizione suggerita anche da alcuni testi di riferimento del settore bodybuilding.

Durante l’esecuzione del Pullover si assiste a un aumento di diametro della gabbia toracica nella fase eccentrica del movimento, ossia quando le braccia si portano sopra la testa (inspirazione). Tuttavia, il fisiologico aumento di diametro ottenuto non avviene per opera dei muscoli intercostali (nella fattispecie di quelli esterni inspiratori), bensì grazie alla gravità, ragion per cui al massimo saranno gli intercostali espiratori ad attivarsi tramite una contrazione eccentrica facendo cadere anche il mito del rinforzo degli intercostali inspiratori.

pullover respiratorio

Tramite un analogo ragionamento, viene distrutto anche il mito del reclutamento del muscolo gran dentato spesso rievocato quando si parla di Pullover. Il gran dentato ha la funzione di abdurre e ruotare cranialmente la scapola durante la flessione/abduzione dell’omero contro gravità. Nel Pullover la spalla si flette, ma a favore di gravità e quindi saranno viceversa i muscoli antagonisti al gran dentato ad attivarsi. Anche la letteratura distrugge questo mito confermando tramite studi elettromiografici che il gran dentato non si attiva durante l’estensione dell’omero (il movimento richiamato dal Pullover) bensì durante la flessione (Decker, 1999). Quello dell’aumento della gabbia toracica e del reclutamento del gran dentato possono essere tranquillamente iscritti all’elenco delle leggende da palestra dure a morire.

Il pullover è pericoloso?

Il Pullover è un esercizio pericoloso? Qual è il coefficiente reale di rischio durante la sua esecuzione? Spesso quando si parla di Pullover la paura più grossa è alimentata nei riguardi della schiena. Tuttavia anche la spalla, a modo suo, è una struttura che in soggetti predisposti può soffrire parecchio in particolari condizioni durante questo esercizio. Iniziamo ad analizzare il discorso “schiena”.

Visto il già ridotto ROM di movimento che lo contraddistingue (estensione di spalla contro gravità da 180° a 90°), il Pullover, per essere eseguito con un’escursione accettabile, ha necessariamente bisogno di una buona mobilità di spalla in flessione da parte di chi lo esegue. In caso di scarsa mobilità, infatti, l’esecuzione del Pullover presenterà inevitabilmente una riduzione ulteriore dell’escursione di movimento e un probabile eccessivo compenso in estensione forzata del rachide lombare (il rachide toracico non si estende vista la morfologia dei processi spinosi delle sue vertebre, embricati come le tegole di un tetto).

Tale compenso non costituirà sicuramente un rischio in persone sane e con una buona mobilità del rachide, ma lo potrebbe essere per soggetti predisposti (iperlordosi) o sintomatici in quella zona (sindrome faccettaria delle articolazioni vertebrali). Per sua natura il Pullover è un esercizio che porta il rachide lombare in estensione e ciò di per sé non deve spaventare: attenzione però se ciò viene portato all’esasperazione come compenso forzato in risposta a una ridotta mobilità scapolo-omerale e soprattutto se ciò avviene in soggetti con una ricca storia clinica più o meno recente di lombalgia. Prima di somministrare questo esercizio assicuriamoci che il soggetto da allenare abbia una buona mobilità in flessione di spalla tramite lo specifico test.

Capitolo spalla. Il Pullover manubrio è sicuramente un esercizio che è meno a rischio impingement rispetto a Panca Piana e Lento Avanti, ma è invece un esercizio molto a rischio per tutti quei soggetti con instabilità di spalla da episodi passati di lussazione o sub-lussazione. La leva infatti che si crea durante la fase eccentrica del movimento genera una forza lussante anteriormente alla spalla, dove la capsula articolare è meno rinforzata (ricordiamo che il 99% delle lussazioni avviene anteriormente per questo motivo). Sicuramente, senza fare del terrorismo, è un esercizio da eliminare dalla scheda di tutti coloro hanno avuto nella vita episodi di lussazione o sub-lussazione di spalla o che sono stati operati per questo. Per tutti gli altri, il Pullover può essere considerato un esercizio mediamente più sicuro per la spalla rispetto ad altri, l’importante è che venga eseguito sempre con criterio e buon senso nella gestione dei carichi allenanti.

pullover muscoli ed articolazioni

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Probiotici e prebiotici

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Chi non ha mai sentito parlare di loro? Dei Probiotici e Prebiotici?
Si ma realmente cosa sono? Cosa indicano questi due termini all’apparenza molto simili? Cibo per astronauti? Materiale non identificato proveniente da galassie lontane??

NO tranquilli…. Tutta roba che sta dentro di noi……o fuori se caghiamo…dipende….

Probiotici cosa sono

probiotici e prebiotici

Ma andiamo per gradi e partiamo dalla definizione che la WHO, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, da del termine Probiotico: “microrganismi vivi che ingeriti in adeguate quantità (attraverso alimenti appositamente arricchiti o sotto forma di integratori) sono in grado di esercitare benefiche funzioni per l’organismo”.

Perché si sente un gran parlare di questi microorganismi? Senza farvi un trattato noiosissimo (per alcuni) su cosa sono i microorganismi,come si dividono,riproducono, si alimentano ecc…basta dire che negli ultimi anni lo studio del microbiota intestinale si è fatto sempre più importante e sono state scoperte e identificate, numerosissime correlazioni tra alterazioni della flora batterica e patologie a cui il nostro organismo potrebbe essere assoggettato. Quindi è importante per approfondire leggi l’articolo sul microbioma umano.

I probiotici potrebbero, come nella definizione della WHO, darci una mano dicevamo.

In quali condizioni e a che scopo?

  • Preventivo di fenomeni disbiotici
  • Terapeutico in caso di disbiosi accertata

La disbiosi altro non è che un disequlibrio della flora batterica enterica che porta a disturbi funzionali gastroenterici con la possibilità di evoluzione in malattie anche per organi e apparati distanti dal Colon.

Questa alterazione può indurre sintomi quali gonfiore intestinale, intolleranze alimentari, cattiva digestione, gastro-entero-coliti, candida o altre tipologie di funghi a livello cutaneo o mucosale e cistiti frequenti  provocati da fenomeni come cattiva alimentazione, cattiva igiene personale, cattivo stile di vita in genere, disfunzioni metaboliche o abuso di farmaci antibiotici.

Si ma a cosa servono i probiotici?

Bhe in generale hanno un effetto protettivo sulla mucosa intestinale, stimolano l’immunità acquisita a livello intestinale, evitano l’attechimento di specie patogene, possono migliorare la digeribilità del lattosio, dei lipidi e dei protidi, migliorano le condizioni di allergie alimentari in genere, neutralizzano sostanze tossiche o potenzialmente cancerogene, sintetizzano vitamine importanti come la K,la B2,la B12, sintetizzano acidi grassi a catena corta (SCFA) e riducono il riassorbimento degli acidi biliari con possibile diminuzione quindi dei livelli di colesterolo.

Praticamente una figata colossale!! Corro subito ad ordinarne un bancale cosi diventerò invincibile!!!!!

SI corri, ma prima ascolta. I probiotici per essere realmente efficaci devono rispondere a caratteristiche precise. In primis bisogna sempre guardare nella confezione il numero di cellule vive e secondo il Ministero della Salute per ottenere una temporanea colonizzazione dell’intestino sono necessarie non meno di 1 miliardo di cellule vive per persona adulta. Questo dato però potrebbe essere fuorviante e non bastare. Infatti questo numero si riferisce alla data di scadenza, cioè il miliardo di cellule vive dovrebbe essere presente non nel momento del confezionamento, ma nel momento in cui il prodotto scade. Perché? Perché il numero di celle vive nel tempo tende a diminuire quindi acquistando un prodotto che dovesse contenere 1 miliardo ci cellule vive al momento del confezionamento, andandolo a consumare poi,ne troveremmo molte meno con pochi o nessun effetto sul nostro organismo. Purtroppo per noi molti prodotti non danno indicazione del numero di cellule all’atto della scadenza. Ma tranquilli vi diamo alcuni parametri che possono risultarvi utili nella scelta del probiotico migliore:

  • Numero di CFU ( unità formanti colonie) maggiore di 3 miliardi preparato di ottima qualità
  • Numero di CFU da 1 a 3 miliardi preparato di buona qualità
  • Numero di CFU minore di 1 miliardo preparato di scarsa qualità

Ovviamente queste non sono le uniche caratteristiche che fanno di un probiotico un buon probiotico. In primis essi devono essere di provenienza intestinale umana, devono cioè essere specie specifici. Devono appartenere ad un gruppo batterico G.R.A.S (generaly regarded as safe) ovvero non devono scatenare un’infezione. Devono poi essere e rimanere vitali nelle condizioni ambientali intestinali resistendo all’azione dei succhi gastrici,biliari e pancreatici. Devono essere in grado di sintetizzare sostanze ad azione antimicrobica e migliorare la funzione della barriera intestinale, ecc.

Queste sono le caratteristiche più importanti che devono possedere questi microrganismi per farci diventare “invincibili”. Se non le possiedono…niente siete destinati a restare delle seghe umane per sempre!

Alimenti ricchi di probiotici

alimenti ricchi di probiotici

Ecco qui una breve lista di fonti di probiotici da poter eventualmente acquistare. Molti alimenti fermentati sono generalmente ricchi di lactobacilli e bifidobacteri, i più famosi sono:

  • kefir
  • yogurt
  • crauti
  • miso
  • tempeh
  • pasta madre

Cosa sono i prebiotici

Prebiotici e probiotici

I prebiotici sono “sostanze, di origine alimentare non digeribili che se ingerite in quantità adeguata ( 5g/die) sono in grado di favorire selettivamente la crescita e/o l’attività di uno o più microorganismi tra quelli già presenti nella flora batterica intestinale o tra quelli somministrati come probiotici

Quindi in questo caso non abbiamo a che fare con esseri viventi ma con sostanze di origine alimentare per lo più facenti parte della classe degli zuccheri o delle fibre alimentari solubili di frutta e verdura. La loro trasformazione da parte dei microrganismi enterici permette la formazione di acidi grassi a catena corta i quali abbassano il pH dell’intestino crasso inducendo presumibilmente una riduzione nella crescita di patogeni, aumentano l’assorbimento di alcuni micronutrienti, permettono una migliore funzionalità intestinale, svolgono (il butirrato) una funzione energetica per le cellule del colon e stimolano la crescita di batteri positivi per l’uomo (bifido batteri).

Ovviamente anche i prebiotici per essere considerati un valido ausilio nel mantenimento di un buono stato di salute devono rispondere a delle caratteristiche ben precise e cioè:

  • Devono ovviamente resistere all’azione dei succhi gastrici e enzimi umani
  • Devono essere fermentati dalla flora batterica
  • Devono contenere almeno 3 gr di sostanza prebiotica

I migliori e più conosciuti sono i FOS ovvero frutto oligo-saccaridi, inulina e alcool-zuccheri.

Senza entrare nello specifico del loro meccanismo d’azione, perché risulterebbe alquanto complesso diciamo che essi rappresentano una fonte di nutrimento selettiva, cioè utilizzabile sono da quei microrganismi che possiedono un corredo enzimatico in grado di scomporli, fermentarli e utilizzarli.

Alimenti ricchi di prebiotici

alimenti ricchi di prebiotici

Ecco qui una breve lista di fonti di prebiotici da poter eventualmente comprare:

  • asparagi
  • legumi
  • avena
  • aglio
  • noci
  • tarrasco

Conclusioni sulle differenze probiotici e prebiotici

Possiamo infine concludere che mentre i probiotici finiscono per essere parte integrate del nostro microbiota, i prebiotici sono il nutrimento con cui continueranno a prosperare. Attenzione tuttavia a pensare che probiotici e prebiotici facciano sempre bene. La persona potrebbe soffrire d’un eccesso di microrganismi intestinali, continuare ad introdurne ed alimentarli non farà altro che causare ulteriori problemi. Nello stesso modo gli alimenti ricchi di prebiotici possono causare problemi a chi soffre d’intestino irritabile.

Insomma come sempre il tutto si gioca su un sano equilibrio. Mangiate male, in prevalenza cibi industriali? Prebiotici e probiotici probabilmente vi faranno molto bene. Seguite la Paleo dieta state attenti se avete costantemente la pancia gonfia.

Ovviamente resterebbero altre mille cose da dire sui prebiotici e probiotici ma questo potrebbe bastarvi quantomeno per districarvi con raziocinio nell’immane offerta commerciale che ogni giorno vi si pone davanti.

Note sull’autore

L’articolo sui probiotici e prebiotici è di Marco Perugini

Perugini Marco classe 89’ laureato con lode in scienze e tecnologie del fitness e dei prodotti della salute presso l’ateneo di Camerino, studente alla magistrale in scienze dell’alimentazione e nutrizione umana presso l’ateneo San Raffaele di Roma, Personal Trainer certificato.

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Frutta secca: elenco delle proprietà e benefici

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Spesso alcuni nutrizionisti, prescrivendo diete, escludono alcune categorie di alimenti. Soprattutto se si tratta di diete per la perdita di peso. Eliminare i cibi più “calorici” (tra cui teoricamente dovrebbe rientrare la frutta secca) è un rapido metodo per tagliare l’apporto calorico totale, quindi creare quel deficit tra introito e dispendio di energie, utile per la perdita di peso.

Ma ha veramente senso togliere la frutta secca della dieta? Quanta possiamo mangiarne, quale e quali sono i benefici (reali) che abbiamo nell’assumerla.

Quale frutta secca mangiare

frutta secca ingrassa

La frutta secca è una categoria di alimenti che può essere suddivisa in due sottocategorie

  • frutta secca glucidica o frutta disidratata
  • frutta secca lipidica

Nel primo caso annoveriamo soprattutto la frutta essiccata (albicocche, prugne secche, uva sultanina, datteri ecc) mentre nel secondo la frutta oleosa (noci, mandorle, macadamia, nocciole ecc.).
In entrambi i casi abbiamo alimenti molto “calorici” in quanto presentano pochissima acqua all’interno, quindi una maggiore densità di nutrienti in rapporto al peso.

  • La frutta disidratata è ottima per ricaricarsi di zuccheri (contiene fruttosio e glucosio) e fibre solubili. Può essere assunta al mattino, come spuntino o in piccole quantità dopo l’allenamento per velocizzare la risintesi del glicogeno epatico.
  • La frutta oleosa è ricca invece di grassi monoinsaturi e polinsaturi, fibre insolubili e proteine (di bassa qualità). È ottima per ritardare il senso della fame aggiungendola in piccole dosi al pasto o come spuntino.

La frutta disidratata può sostituire la fresca?

Possiamo consumare frutta secca invece che fresca, ma non sempre. L’essiccatura è un processo naturale, che disidrata la frutta. Quindi se già avete un carente apporto di liquidi (specie nei soggetti anziani) è decisamente consigliata la frutta fresca. I nutrienti vengono mantenuti praticamente inalterati dal processo di essicatura. Le albicocche secche, ad esempio, contengono tutti i minerali e i caroteni del frutto fresco intero.

In alcuni casi, per brevi periodi, si è visto come sostituire a derivati dei cereali quantità isocaloriche di frutta essiccata ha giovato per il dimagrimento e per la sensazione di gonfiore intestinale, creando quindi meno ritenzione idrica, e innalzando la glicemia in modo minore (il fruttosio, influenza molto meno la glicemia rispetto al glucosio).
E’ interessante osservare come più un cibo è disidratato e più si conserva nel tempo. Una corretta idratazione aumenta gli scambi metabolici negli alimenti e nell’essere umano, pertanto se parliamo di dimagrimento diventa essenziale mantenere un buono stato idrico per preservare e non “ridurre” il metabolismo.

Elenco frutta secca disidratata

  • Albicocca secca (ricca di caroteinoidi, è indicata per chi è anemico e sempre stanco)
  • Ananas secco (è un diuretico naturale, indicato in caso di ritenzione idrica data da stati infiammatori silenti)
  • Banana secca (le sue fibre sono particolarmente utili per riequilibrare il microbioma intestinale)
  • Castagna secca (rispetto agli altri frutti è ricca di amido, proteine e zolfo)
  • Ciliegina secca (ha un’azione simile all’aspirina nel diminuire i segnali dolorifici associati a stati infiammatori)
  • Fico secco (ha un effetto lassativo in alte dosi, piccole invece aiuta l’azione del microbiota)
  • Dattero secco (ricco di ferro, aiuta ad abbassare le LDL)
  • Kiwi secco (è tra i frutti più ricchi di vitamina C, ancora più dell’arancia)
  • Mela secca (ricca di fibre importanti contiene molte vitamine e l’acido folico)
  • Pera secca (indicata durante gli stati febbrili aiuta a far scendere la temperatura corporea)
  • Mirtillo secco (ricco di acidi organici aiuta la salute dei capillari)
  • Papaya secca (contiene la papaina che aiuta tutte le persone con difficoltà a digerire le proteine)
  • Pesca secca (possiede proprietà lassative ed aiuta chi ha problemi alla vescica)
  • Prugna secca (tra i frutti con più antiossidanti in assoluto, le fibre hanno proprietà lassative)
  • Uva sultanina (ha un’azione antiossidante, riduce il colesterolo cattivo e ha un effetto antitumorale)

Proprietà della frutta secca oleosa

frutta secca oleosa

Passiamo alla frutta oleosa. I nutrienti più importanti contenuti sono i grassi. In molti casi alcuni di questi alimenti contengono ottime fonti di grassi mono insaturi e poli insaturi, addirittura le noci contengono acido alfa linoleico, un acido grasso omega-3, essenziale per l’organismo (il corpo non ne produce), in realtà al forma di omega-3 della frutta secca è poco biodisponibile e più avanziamo con l’età e più questa disponibilità cala. Le mandorle contengono magnesio e una buona percentuale di proteine (certo dal basso valore biologico, ma sempre proteine sono). Le nocciole contengono una discreta quantità di fitosteroli (in grado di aiutare a ridurre il colesterolo LDL). Gli arachidi in realtà sono legumi ma vengono inseriti con la frutta secca per via dei valori nutrizionali molto simili.

La frutta secca contiene anche acidi grassi omega-6, pertanto, a seconda dei soggetti (nutrigenomica) può avere sia effetti antinfiammatori sia infiammatori. Possiede anche un alto contenuto di fibre, con una buona percentuale di fitati. Questi antinutrieti chelano alcuni minerali (calcio, ferro, zinco, ecc) rendendoli non biodisponibili. La tostatura elimina in gran parte gli effetti dei fitati ma dall’altra degrada gli acidi grassi polisaturi (termosensibili). Il momento ideale per assumere la frutta secca è lontano dai pasti, anche se questo accorgimento non è  indispensabile.

Elenco frutta secca oleosa

  • Anacardi e arachidi (ricche di niacina, utile per il recervello e la circolazione sanguigna, sono anche ricche di omega 6)
  • Noci (contengono omega 3, abbassano il colesterolo e migliorano la qualità della pelle)
  • Mandorle (ricche di magnesio e vitamina E, hanno un ottimo profilo lipidico)
  • Noci di macadamia (contengono flavonoidi utili per la salute cardiovascolare)
  • Noci del Brasile (contengono piccole quantità di radio e possono interagire con la tiroide)
  • Pinoli (ricchi di grassi positivi monoinsaturi, hanno un effetto antiossidante)
  • Pistacchi (hanno un blando effetto antitumorale, i profilo dei grassi non particolarmente positivo come l’altra frutta secca)
  • Nocciole (ricche di fitosteroli, hanno un buon quantitativo di vitamina E)
  • Cocco (non ha un profilo lipidico particolarmente vantaggioso, ma possiede acidi grassi a corta catena che migliorano il metabolismo lipidico)

La frutta secca fa ingrassare?frutta secca dieta

Per le quantità da assumere dipende da come è bilanciata la vostra alimentazione. Se avete bisogno di un aumento ponderale, integrare negli spuntini o nel pasto prima di andare a dormire una MODERATA quantità di frutta secca oleosa è un’idea ottima. Nel caso in cui dobbiate perdere peso, ridurre la quantità di carboidrati provenienti da cereali, in luogo di frutta essiccata e noci è una pratica intelligente. Occhio però, non hanno un gran potere saziante, e il detto “l’una tira l’altra” è profondamente vero in questo caso! Trattandosi di un cibo molto calorico, l’effetto “l’una tira l’altra” potrebbe causare alcuni problemi durante una dieta.

Ps: la frutta secca e quella essiccata rientrano nel regime PALEO, ma anche nella dieta mediterranea. Insomma non fatene a meno, ma assumetene in quantità ragionevoli!

Ps: non utilizzate la scusa che la frutta secca faccia bene quando siete in un pub, accompagnando pistacchi, anacardi e arachidi a copiosi boccali di birra!

Ecco uno schemino su alcuni di questi alimenti e sui loro contenuti in nutrienti:

Valore nutrizionale di 100 g di frutta secca o essiccata

Energia (Kcal) Proteine (g) Carboidrati (g) Grassi (g) Fibra (g)
Frutta secca  
Macadamia 718 7,9 13,8 75,7 8,6
Nocciole 628 15 16,5 60,7 9,7
Arachidi 571 26 11 47 7,3
Anacardi 598 15 33 46 3
Castagne 189 3,5 42,4 2 9
Mandorle dolci 542 16 4 52 14
Noci 582 10,5 5,5 58 5
Pistacchi 601 18 8 55 6
Frutta essiccata
 Albicocche 188 5 43 0,7 22
 Banana 270 3 63 1 6
 Cocco 604 6 6 62 14
 Datteri 253 3 63 0,6 9
 Fichi 242 3,5 58 3 10
 Uva 283 2 72 0,6 7
 Prugne 240 2,1 63 0,3 7

Calorie frutta secca: alcune considerazioni finali

Come abbiamo visto sopra la frutta secca può andare da un contenuto calorico medio come quello delle castagne (189 kcal), ad un contento calorico elevatissimo come le noci di macadamia (718 kcal), bisogna così sempre paragonare l’effetto saziante con il contenuto calorico. In diete leggermente ipocaloriche la frutta secca può essere presa in considerazione, ma se il regime è particolarmente restrittivo probabilmente conviene optare per alimenti più sazianti e meno calorici.

Frutta secca in gravidanza

frutta secca in gravidanza

Sono sempre più frequenti le persone allergiche alla frutta secca oleosa. Le mamme in particolare durante il periodo di gravidanza dovrebbero fare attenzione a questi alimenti e consultarsi con il medico per riuscire a capire quale frutta secca possono mangiare e in che quantità. I frutti più allergenici sono: mandorle, nocciole, noci, anarcardi.

Qual ora non ci siano problemi la frutta secca rimane un buon alimento da consumare in gravidanza soprattutto per lo sviluppo del sistema nervoso del feto.

Frutta secca benefici e conclusioni

In un’alimentazione varia ed equilibrata, la frutta secca non dovrebbe mai mancare. Le sue caratteristiche principali sono quelle di:

  • ridurre il colesterolo cattivo
  • protezione cardiovascolare
  • contrastare i radicali liberi
  • apportare molti minerali e vitamine

Ovviamente, visto il suo contenuto calorico non bisogna eccedere, altrimenti i benefici si trasformeranno in difetti. Conviene sempre prediligere la frutta secca oleosa vera e non i legumi come gli arachidi che possiedono un profilo lipidico peggiore.

Articolo del Dr Maurizio Pezzutti

Maurizio ha due lauree (Scienze motorie e Nutrizione) e possiede una palestra a Roma
maurizio.pezzutti@gmail.com

 

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Epitrocleite: rimedi ed esercizi

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Tantissime persone, soprattutto chi si allena nel corpo libero e calisthenics, soffrono di epicondiliti ed epitrocleiti. Spesso queste infiammazioni tendono a cronicizzare e a non passare neanche con mesi di riposo. Questo genera frustrazione in chi ne è soggetto e non riesce neanche ad allenarsi. Ma perché l’epicondilite ed epitrocleite sono così difficili da togliere?

Scopriamolo assieme come risolvere assieme il dolore al gomito.

Cosa succede ai tendini nell’epitrocleite?

Epicondiliti epitrocleiti

Purtroppo una cura sicura per l’epitrocleite ed epicondilite non esiste, l’uso di farmaci FANS aiuta a sfiammare  ma se i tendini dei muscoli che si inseriscono sul gomito, rimangono deboli, la patologia tende a non passare completamente.

Appena cerchiamo d’eseguire delle trazioni alla sbarra, subito il gomito fa malissimo e dobbiamo smettere. Cosa dobbiamo fare?

Muoverci. L’infiammazione e lo sfilacciamento tendineo tengono a disorganizzare le fibre di collagene nel tendine (tendinite dell’avambraccio), rendendolo debole e soggetto a traumi. Per questo attraverso l’esercizio fisico dobbiamo ricreare linee di forza che direzionino nel modo corretto le fibre di collagene.

Epicondilite epitrocleite

Stretching, stretching attivo e rinforzo muscolare sono le parole d’ordine per velocizzare la cura delle nostre epicondiliti – epitrocleiti. Tra tutti questi esercizi lo stretching attivo (quello generato dalla contrazione del muscolo antagonista) deve prevalere sugli altri.

Una muscolatura dell’avambraccio sbilanciata, sia a livello di forza che di lunghezza, porterà facilmente il gomito ad essere soggetto a traumi.

Epitrocleite che esercizi fare per curarla?

Nel seguente video abbiamo racchiuso tutti gli esercizi di mobilità e rinforzo utili per riequilibrare la mobilità del polso e dell’avambraccio. Per dare così agio ai nostri tendini e per guarire finalmente, in modo fisiologico e funzionale, dell’epicondilite ed epitrocleite.

Estensione dei polsi per l’epotrocleite.

esercizi epitrocleiteTenendo le dita ben tese e completamente a contatto col pavimento. Teniamo le braccia tese ed andiamo avanti col busto. Eseguire l’esercizio prima in modo dinamico poi statico (20″)

Flessione dei polsi per l’epitrocleite.

esercizi epicondilliteTenendo sempre le dita tese ed adesso al pavimento. Supiniamo le mani (rivolte verso di noi) ed indietreggiamo col busto. Se l’esercizio è troppo inteso pieghiamo le braccia. Eseguire prima l’esercizio in modo dinamico e poi in modo statico (20″).

Estensione del gomito

rimedi epitrocleiteFlettiamo il polso e portiamolo sotto al ginocchio. Partendo dal gomito leggermente piegato estendiamolo aiutandoci con la mano libera.

Epitrocleite cura attraverso gli esercizi di rinforzo attivo

Rinforzo degli estensori del polso

epitrocleite curaAppoggiamo le mani con le dita tese, estendiamo con la forza degli estensori dell’avambraccio la mano, mentendo le dita tese. Eseguiamo l’esercizio in modo dinamico ma lento.

Piegamenti sulle dita

epitrocleite esercizi stretchingAppoggiamo le ginocchia a terra ed eseguiamo i piegamenti sulle dita per rafforzare la mano e tutta la muscolatura.

Adottate questi esercizi in modo graduale quando l’infiammazione non è più acuta. La pratica non deve essere invasiva ed eccessiva ma quotidiana ed i tempi di guarigione possono richiedere anche 1-3 mesi.

Tutore per l’epitrocleite

Se l’epitrocleite è in uno stato infiammatorio acuto può convenire acquistare un tutore per aiutare la muscolatura dell’avambraccio a rilassarsi. Il tutore va tenuto per più ore possibili, soprattutto mentre si guida o si utilizza la muscolatura della mano.

tutore epitrocleite

Su Amazon si possono trovare buoni modelli ad un prezzo vantaggioso, qui abbiamo messo quello che abbiamo testato noi, ma probabilmente vanno bene più o meno tutti:

Una volta guariti evitate come la peste tutti quegli esercizi (trazioni supine) che possono mettere a rischio i vostri gomiti.  È molto facile ricadere in problemi infiammatori che riguardano la troclea e gli epicondili dei gomiti.

Buona guarigione.

Il video è girato presso Calisthenics Bologna

Logo bolognaVia Jacopo della Quercia,1 Bologna
Mail: info@calisthenicsbologna.it

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Calcolo del fabbisogno calorico giornaliero

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Argomento molto dibattuto è quello sul fabbisogno calorico giornaliero, tradotto: quante calorie devo assumere? Esistono delle formule predittive e che % d’errore hanno? Vediamo di scoprire il calcolo del fabbisogno calorico.

Prima d’impostare una dieta per la definizione o per mettere su muscolo, bisogna capire quante sono le calorie che ci permettono di mantenere stabile il peso corporeo. Senza questo dato navigheremo sempre al buio, senza stelle ne mappa. Per questo i fisiologi ed i nutrizionisti nel tempo hanno ideato diverse formule sui conteggi metabolici.
Tuttavia cerchiamo semplificarci la vita; se già siete in uno stato stazionario, avete già trovato la risposta a quante calorie avete bisogno per mantenere l’omeostasi. Ovviamente de siete dei ciccioni è facile mantenere il peso mangiando tanto (vedi set point) , ma se avete una % di grasso corporeo intorno o inferiore al 15% (uomini) 22% (donne) e nell’ultimo mese non siete variati, allora avete già trovato il vostro quantitativo. Se invece negli ultimi periodi avete perso o assunto peso o non avete proprio idea di un bilancio calorico, conviene partire da qualche formula. Ricordiamo che tutte le indicazioni qui riportate sono assolutamente generiche e vanno lette come indicazioni di partenza.

Fabbisogno Calorico: il dispendio giornaliero

La prima nozione che dobbiamo apprendere è che il fabbisogno giornaliero è costituito dalla somma di questi parametri:

1) 70% da processi interni
E’ il metabolismo basale, quello che ci tiene in vita se stiamo fermi, svegli a letto. Gli organi interni (fegato, cervello, cuore e rene) rappresentano solo il 6% del peso corporeo eppure consumano intorno al 60-70% del metabolismo basale. Al contrario il muscolo rappresenta il 40% del peso corporeo ma consuma solo il 18-20% delle calorie. Questo ci fa capire che un aumento della massa muscolare non è così rilevante per aumentare il dispendio giornaliero, tuttavia vedremo nei prossimi paragrafi perchè più muscolo aiuta nella ricomposizione corporea.
2) 10% dall’ADS
Ogni volta che mangiamo il nostro organismo impiega energie per digerire ed assimilare i nutrienti. Mediamente 10% della spesa totale è data dall’azione dinamica specifica (ASD). In realtà il corpo consuma di più per le proteine (in media 22,5%) e meno per carboidrati e grassi (7,5-3,5%), tuttavia generalmente si fa un’approssimazione intorno al 10% se abbiamo una ripartizione dei macronutrienti bilanciata.
3) 20% dall’attività fisica
Questa è la spesa indotta dell’attività lavorativa e dallo sport. Anche qui possiamo constatare che soltanto una piccola parte del fabbisogno giornaliero varia in base all’attività. Se fate tanto sport (non di resistenza) non crediate di potervi permettere di mangiare quanto volete.
Generalmente i nutrizionisti quando calcolano il dispendio energetico tendono a sopravvalutare questo fattore, portando a clamorosi errori su quanto consumino le attività fisiche. Un conto è eseguire un gesto nuovo, uno sport nuovo, un altro è invece ripeterlo da anni. L’economia del gesto fa precipitare i dispendi energetici e le risposte ormonali delle attività abituali.

calcolo fabbisogno caloricoIl grafico mostra i fattori che contribuiscono al fabbisogno calorico gionarliero

Calcolo fabbisogno calorico uomo e donna

Iniziamo col vedere alcune formule, quelle che abbiamo scelto hanno una buon rapporto accuratezza/semplicità, su internet ne potete trovare altre ancora più precise, tuttavia vi invitiamo in primis a provarle su di voi. I risultati ottenuto sono semplicemente delle indicazioni rivolte alla popolazione ma è sempre la formula che si adatta alla persona e non viceversa. Quindi verificate sempre se l’introito calorico indicato vi fa mantenere il peso costante oppure no.

Come calcolare il fabbisogno calorico giornaliero

1) La prima formula usata per predire in modo semplice il fabbisogno basale è l’equivalente metabolico, il MET.
1 MET corrisponde a 1Kcal/Kg/h.
Un uomo di 80Kg avrà un metabolismo di base pari a:

  • 1Kcalx80x24=1920
    A cui aggiungeremo un 30% (10% dall’ADS e 20% dall’attività).
    1920+30%= 2496Kcal per una persona che non fa mestieri pesanti di 80Kg e che si allena 3 volte a settimana.
  • Le donne al posto che moltiplicare per 1Kcal moltiplicano per 0,9Kcal.
    Una ragazza di 55Kg avrà un metabolismo basale di:
    0,9Kcalx55x24=1188Kcal
    A cui aggiungiamo un 30% (10% dall’ADS e 20% dall’attività).

1188+30%=1544Kcal per una ragazza che non svolge mestieri pesanti, di 55kg e che si allena 3 volte a settimana.

Dopo i quarantanni il metabolismo si abbassa del 2-5% per ogni decade d’età.
Negli ultimi anni questa formula è stata aggiustata al ribasso moltiplicando i valori per 23 e non più per 24.

2) Un’altra formula per il fabbisogno energetico giornaliero, molto semplice, è quella di moltiplicare il proprio peso corporeo per:

  • Uomini 32-34
  • Donne 30-32

Una persona di 80Kg dovrà assumere mediamente:
80×32-34=2560-2720Kcal
Ovviamente il calcolo può essere veritiero per persone magre fino ad una % di massa grassa non superiore al 15%.

3) Esistono ancora altri calcoli più accurati per il metabolismo basale che prendono in considerazione anche l’altezza, una usata nello specifico per gli atleti (considerati tali da 3 allenamenti a settimana in su) è la seguente:

Fabbisogno calorico uomo

  • Uomini: 10xKg+6,25xh(cm)-5xetà+5

Fabbisogno calorico donna

  • Donne: 10xKg+6,25xh(cm)-5xetà-161

Un atleta di 30 anni, alto 1,80m per 80Kg dovrà assumere:
10×80+6,25×180-5×30+5=1770Kcal come metabolismo basale a cui successivamente aggiungeremo un 30%.
Come vedete un risultato è simile a quello del MET se lo moltiplichiamo per 23.

4) Lyle McDonalds uno dei ricercatori più importanti usa un’altra formula molto semplice per calcolare il fabbisogno totale della giornata:
Trasformate il vostro peso da Kg in libre moltiplicandolo per 2,2.
A seconda della vostra attività usate differenti coefficienti:

  • Sedentari : peso in libre x 10-11
  • Attività fisica moderata (3 allenamenti a settimana): peso in libre x 12-13
  • Attività fisica intensa (allenamenti giornalieri pesanti): peso in libre x 18-19

Tornando al nostro uomo di 80Kg che si allena 3 volte a settimana abbiamo:

80×2,2×12-13=2112-2430Kcal

5) Esistono ancora altre formule, da tenere più in considerazione se siete in sovrappeso, che basano il fabbisogno calorico esclusivamente sull’altezza e non sul peso:

  • Per gli uomini: Altezza in m al quadrato x 700-750
  • Per le donne: Altezza in m al quadrato x 600-650

Il nostro uomo di 1,80m assumerà:
1,8×1,8×700-750=2268-2430Kcal

Come vedete a seconda della formula che usiamo le calorie possono variare, qual è quella corretta? Provatele, misurate se il vostro peso non varia avete trovato quella che fa per voi.
Ricordiamoci che possiamo ancorarci ai numeri solo dopo averli verificati.
Ora che abbiamo trovato quante calorie dobbiamo assumere possiamo impostare una dieta per la definizione o per la massa ma di questo ne parleremo in un prossimo articolo.

Fabbisogno calorico giornaliero in ipocalorica

Dopo 2-3 settimane che siamo in forte ipocalorica, o dopo 6-8 settimane di leggero deficit, il nostro fabbisogno calorico scende perché il corpo diventa più efficiente in tutti i processi.
Per questo è buona pratica, quando smettiamo di dimagrire inserire 1-2 settimane di dieta normocalorica (con un buon quantitativo di carboidrati), per normalizzare gli assetti metabolici-ormonali.

Fabbisogno calorico giornaliero in ipocalorica

Ecco un altro grafico che mostra perché nel corso delle settimane, lo stesso deficit calorico porta via via a far perdere sempre meno peso fino a stallare. Inserire settimane di Break Diet, servono per riportare il proprio metabolismo ai valori fisiologici e permettono, una volta tornati a dieta di riprendere a dimagrire. Il calcolo del fabbisogno calorico giornaliero è importante ma va contestualizzato nel contesto generale del piano alimentare.

Fabbisogno calorico nelle settimane

 

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Fruttosio: tutto quello che dovete sapere

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Negli anni Novanta l’industria alimentare, dopo la divulgazione al pubblico dell’indice glicemico, scoprì il fruttosio come alternativa alla zucchero. Sui banchi dei supermercati apparvero, accanto ai sacchetti di saccarosio (lo zucchero classico), vasetti di fruttosio.

Questa notorietà, tuttavia, è negli anni giustamente diminuita, perché non è tutto oro quello che zucchera. Il fruttosio è un monosaccaride con la stessa formula chimica del glucosio (C6H12O6) ma con una struttura differente. Questo gli conferisce delle particolarità uniche all’interno del nostro metabolismo.

Il fruttosio fa male?

Molti si chiedono se il fruttosio fa male o bene, la risposta è ovviamente dipende. Il suo indice glicemico più basso (19-23) fa si che sia più gestibile dai diabetici soprattutto di tipo I, tuttavia la sua struttura lo rende più instabile nel sangue e va incontro, più facilmente, a processi di glicazione (si appiccica alle proteine). Questo fa si che il corpo lo blocca nel fegato e non lo libera nel sangue (si ferma al circolo portale). Persone con problemi metabolici (resistenza all’insulina, sindrome metabolica, diabete tipo II) se si ritroveranno le scorte di glicogeno epatico già piene, riusciranno a gestire molto peggio il fruttosio rispetto al glucosio, andando facilmente incontro al fegato grasso.

Come sempre è il quantitativo a fare la differenza. Non è il fruttosio a far male. Un moderato quantitativo in una dieta con un controllo glucidico, non arreca nessuna problema anzi. Se invece si esagera bisogna fare molta attenzione a questo zucchero.

Dove reperire il Fruttosio negli alimenti

fruttosio negli alimenti

Il fruttosio si trova nella frutta e verdura ed è sempre accompagnato dal glucosio. Nei vegetali i carboidrati si accumulano principalmente o come pacchetti di glucosio (l’amido e la cellulosa) o come saccarosio (una molecola di glucosio accoppiata da una di fruttosio). Se vi chiedete quale verdura e quale frutto contiene fruttosio la risposta è semplice: tutte.

Quale frutta e verdura contiene più fruttosio?

Tutti i frutti e verdure al gusto più zuccherini contengono un alto quantitativo (altro sempre tra “”) di fruttosio, questo perchè il suo potere dolcificante è doppio rispetto al glucosio.

  1. Datteri
  2. Uva secca
  3. Fichi secchi

Sono tra i  frutti più ricchi di questo zucchero, gli altri come la mela o pera ne contengono un quantitativo contenuto (6g/100g), la verdura ha un contenuto ancora più basso.

Cosa cambia tra glucosio e fruttosio?

Questo glucide non è captato dai recettori GLUT-4 (delle cellule muscolari e grasse), pertanto spetta unicamente al fegato il compito di metabolizzarlo e convertirlo in glucosio. Questo è il motivo per cui ha un indice glicemico tanto basso (da 19 a 23), perché non stimola l’insulina in quanto non entra nelle cellule muscolari grazie ad essa. Oltre a questo non stimola, ma anzi ostacola la produzione di leptina (uno degli ormoni principali che regolano il metabolismo).

Grazie alla sua forma, il fruttosio ha un potere dolcificante doppio rispetto al glucosio. Il miele è così dolce non perché è esageratamente zuccherato ma perché i glucidi che lo compongono sono in buona parte composti dal fruttosio.

Alimento 100g Calorie/Fruttosio
Miele 304 kcal/40g
Riso 358 kcal/0g
Pasta 357 kcal/0g

Se ingerito in eccesso (oltre i 30g a pasto) va incontro a fermentazione nell’intestino portando a dolori di pancia, crampi, flatulenze e diarrea che non sono quindi necessariamente segni di intolleranza al fruttosio. Se volete fare una sfida di scoregge con gli amici, un’integrazione di fruttosio può farvi diventare dei campioni, ma attenti a non cagarvi addosso.

Metabolismo e fruttosio: quota raccomandata

fruttosio e glucosio differenze energia

Il fegato mediamente riesce a stoccare 80-100 grammi di glicogeno. Il fruttosio avendo questo organo come unico tessuto bersaglio, non crea nessun problema finché non viene assunto in eccesso. Mediamente la quota massima consigliata è di 40-50 g al giorno, ma alcuni soggetti con sindromi da malassorbimento (soprattutto chi ha il colon irritabile), devono ridurre ulteriormente la quantità a 20 g.

Grossi quantitativi di questo zucchero possono portare al fegato grasso e a dislipidemie, in quanto una volta raggiunta la saturazione di glicogeno epatico, l’eccesso dev’essere convertito in triglieceridi. E’ un problema che si pone in chi beve molte bevande gasate, mangia molti dolci e non fa una vita attiva. Non in chi ama mangiare la frutta di stagione.

Per questo motivo nei diabetici è uno zucchero che se da un lato può aiutare (basso indice glicemico) dall’altro se non gestito correttamente peggiora ed aggrava il quadro metabolico. La moderazione è la strada più semplice da perseguire, anche se è quella che nessuno vuole intraprendere.

Il fruttosio è uno zucchero più “instabile” rispetto al glucosio e si lega, molto più facilmente, alle proteine del corpo per formare prodotti di glicazione avanzata, gli AGE. Non tratteremo questo tema in questo articolo ma al momento basta sapere che gli zuccheri quando si legano ai tessuti provocano disastri.

Insomma l’eccesso è alquanto dannoso per la salute, per fortuna tuttavia se togliamo dalla cucina lo zucchero e seguiamo un’alimentazione sana (senza eccedere coi dolci) raggiungere la quota massima solo con la frutta è alquanto improbabile. Se mangiate 2-3 frutti al giorno potete stare tranquilli.

Fruttosio e frutta

Fruttosio e diabete

La questione fruttosio e diabete è stata molto discussa in letteratura. Come abbiamo visto finora, la scienza sembra confermare, che sia solo una questione di quantità. Diabetici (sia di tipo I che II) sottoposti ad una supplementazione di fruttosio, in piccole dosi, non hanno peggiorato i loro livelli di:

  • colesterolo
  • pressione sanguigna
  • peso corporeo
  • acido urico

mantenendo in modo più stabile la glicemia.

Quando usare il fruttosio

  1. Purtroppo il fruttosio non ha un potere saziante perché non stimola l’insulina e non reprime la grelina. È più facile accorgersi di un suo eccesso perché ci fa male la pancia, piuttosto che per l’essere sazi. Il momento ideale in cui assumerlo è dopo il digiuno o l’attività fisica. In questi momenti le scorte epatiche e muscolari di glicogeno saranno depauperate, pertanto il fegato sarà ben disposto ad assorbirlo.
  2. Si è visto che il glicogeno epatico si ricarica più rapidamente se introduciamo piccoli quantitativi di fruttosio o galattosio post allenamento.
  3. Il fruttosio non interagendo con l’adipocita non stimola la produzione di leptina, pertanto rispetto all’amido o al glucosio risulta uno zucchero meno interessante sia dal punto di vista della stimolazione del metabolismo sia per migliorare la composizione corporea.

Non abbiate paura di mangiare 2-3 frutti al giorno perché contengono fruttosio, ma dall’altra non pensate di sostituire all’amido frutta e verdura , perché nel medio e lungo periodo vi calerà il metabolismo.

Infine da portarti a casa da questo articolo è che usare il fruttosio come sostituto di altri zuccheri non è una buona idea.

Elenco fruttosio negli alimenti

Fruttosio ed alimenti

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Il rachide: quello che devi sapere

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Il rachide è una struttura complessa formata da: ossa (le vertebre) che si articolano tra di loro, legamenti, dischi, muscoli, vasi sanguinei, nervi e midollo spinale (da non confondere con quello osseo).

Il rachide ha un insieme di funzioni e caratteristiche fondamentali quali:

  • sostegno
  • movimento
  • protezione delle strutture nervose contenute nel canale vertebrale

E’ allo stesso tempo rigido e flessibile poiché è l’asse portante del corpo umano e permette ampi movimenti.

Il sostegno è facilmente intuibile considerando dove è situato, superiormente sostiene il capo, attraverso il cingolo scapolare gli arti superiori e inferiormente, attraverso il cingolo pelvico, crea la base per gli arti inferiori.

Il movimento è dato dal lavoro in sinergia delle singole vertebre e degli innumerevoli parti molli come muscoli intrinseci, estrinseci e legamenti.

La funzione di protezione è svolta dalle strutture posteriori delle vertebre: l’arco vertebrale infatti accoglie il midollo spinale e lo protegge essendo struttura delicata e preziosa (ricordo che il resto del sistema nervoso centrale è racchiuso nella teca cranica).

Le vertebre sono i segmenti ossei con duplice funzione in base alla loro composizione. Esse infatti sono composte anteriormente da un corpo osseo (forma cilindrica più larga che alta con una faccia posteriore smussata) e posteriormente da un arco (a forma di ferro di cavallo). Sull’arco posteriore si fissano le apofisi articolari a cui si fissano le apofisi trasverse e che delimitano i peduncoli dalle lamine e l’apofisi spinosa nel punto più posteriore. Tutte queste strutture ossee servono a far ancorare legamenti e tendini dei muscoli intrinseci ed estrinseci del rachide per dare sicurezza nei movimenti nei tre piani dello spazio.

Queste differenze strutturali corrispondo a differenze funzionali, anteriormente la vertebra con il suo corpo forma il pilastro anteriore con funzione di sostegno e posteriormente il pilastro posteriore ha una funzione dinamica.

Le vertebre si differenziano strutturalmente in base alla funzione che svolgono.

Rachide cervicale

rachide cervicale

  • le vertebre cervicali sono piccole (portano meno peso) e molto mobili visto che devono indirizzare il nostro campo visivo;

Rachide dorsale

rachide dorsale

  • le vertebre dorsali sono predisposte ad articolarsi con le coste per creare la nostra gabbia toracica, contenitore elastico capace di accogliere gli organi vitali e di espandersi e comprimersi per agevolare il lavoro dei polmoni nella respirazione;

Rachide lombare

rachide lombare

  • le vertebre lombari infine sono le più grosse e meno mobili visto la loro funzione di sostegno di tutto il tronco, arti superiori e capo.

Insieme delle vertebre del rachide

rachide e vertebre

Nonostante queste molteplici caratteristiche il rachide può muoversi in tutti e tre i piani dello spazio: flettendosi ed estendendosi, inclinandosi lateralmente e ruotando in un lavoro sinergico di muscoli, legamenti e attivazione neurologiche.

  • La flesso-estensione sul piano sagittale arriva complessivamente a 250° (110° di flessione e 140° di estensione)
  • L’inclinazione laterale sul piano frontale varia da 75° a 85°
  • La rotazione (secondo Greggersen e Lucas) raggiunge o supera di poco i 90° tra bacino e cranio.

Gradi fisiologici rachide

Un sistema così complicato e complesso spesso può andare incontro a delle disfunzioni: limitazioni articolari, dolori, patologie motorie..

Cercheremo di analizzare le patologie più frequenti:

  1. lombalgie
  2. sciatica
  3. spondilolisi-spondilolistesi
  4. scoliosi idiomatiche o posturali
  5. esagerazione delle curve fisiologiche

Rachide e lombalgia

E’ una sindrome (insieme di sintomi e segni clinici) lombare che colpisce specialmente in età adulta causata da alterazioni a livello dei dischi con sintomatologia limitata alla regione lombare.

La prevalenza nella popolazione generale è stimata tra il 12% e il 35%, mentre il 49-70% della popolazione generale presenta almeno un episodio di lombalgia nel corso della vita. Sebbene anche patologie importanti possano esserne la causa, in circa il 90% dei casi il dolore lombare è aspecifico, benigno e autolimitante.

La patologia si presenta con un dolore spontaneo al livello del rachide lombare che aumenta ai movimenti di pressione ed ai tentativi di mobilizzazione del tronco, contrattura della muscolatura paravertebrale e infine rigidità del tronco.

Le Linee Guida non sono concordi sulla distinzione tra lombalgia acuta e lombalgia subacuta. Alcune di queste differenziano la lombalgia acuta da quella subacuta per la durata inferiore o superiore alla 4 settimane, mentre altre definiscono come lombalgia subacuta, quella che si verifica dopo 6 settimane. Tutte sono invece concordi nel definire la lombalgia cronica come dolore lombare persistente oltre le 12 settimane (3 mesi).

Alcuni dati clinico-anamnestici, denominati “red flags” (cartellino rosso), devono indirizzare verso un rapido approfondimento diagnostico perché possono essere spia di una patologia organica importante che necessita di una diagnosi rapida. “Red Flags (segni di allarme) che impongono un approfondimento diagnostico in tempi brevi e che sono riportate da tutte le linee guida:

– Età di insorgenza maggiore di 55 anni – Storia di neoplasia
– Calo ponderale
– Febbre di origine ignota
– Deficit motori estesi (multimetamerici)
– Deficit motori progressivi o disabilitanti
– Ritenzione urinaria
– Incontinenza fecale
– Anestesia a sella
– Osteoporosi e/o fratture osteoporotiche
– Uso di steroidi
– Trauma maggiore

Red Flags riportate solo da alcune Linee Guida:

– Età di insorgenza <20 anni
– Infezioni recenti
– Rigidità mattutina
– Risveglio notturno per il dolore
– Dolore costante e/o progressivo (non sollievo a letto)
– Immunosoppressione/HIV
– Deformità strutturali
– Dolore da carico, accentuato dalle variazioni di posizione
– Sciatica uni/bilaterale
– Area di provenienza geografica (ad es. TBC ossea)
– Storia di entesiti, mono-oligoartriti, uveite anteriore

• La lombalgia acuta avviene all’improvviso senza una causa evidenziabile (colpo della strega), qui il dolore e la contrattura sono molto forti tanto che anche un leggero movimento come un colpo di tosse o uno starnuto provoca dolore. La sindrome si risolve in pochi giorni con riposo attivo e terapia medica (antinfiammatori etc.)

• Le lombalgie croniche possono essere tali sin dall’inizio oppure secondarie a lombalgie acute. Il trattamento delle lombalgie croniche trova risoluzione nella fisiokinesiterapia: terapie fisiche (tecar, laser, tens), ginnastica vetrebrale-posturale, ergonomia nella vita di tutti i giorni e soprattutto cura del gesto sportivo al momento della ripresa nelle varie attività sportive. (CM Peruzzini, G Rigon, L Scilanga. Dialogo sui farmaci)

Il rachide e la sciatica

La sciatalgia è il dolore riferito all’arto inferiore, lungo il decorso del nervo sciatico (gluteo e zona posteriore della coscia per poi passare internamente alla gamba fino all’alluce), che può accompagnare una lombalgia da ernia del disco (lombosciatalgia).

ernia

Molte affezioni possono essere la causa di insorgenza di una lombosciatalgia:

-l’ernia discale
– l’artrosi
– anomalie congenite del rachide
– tumor
– infiammazioni

In presenza di diagnosi certa di ernia discale, l’indicazione all’intervento chirurgico può essere posta nel caso in cui il deficit motorio sia progressivo e si evidenzi con piede cadente o ipotrofia della coscia. Per alcune linee guida, nei casi di sciatalgia iperalgica intrattabile, resistente a tutte le terapie antidolorifiche, anche la sola scelta informata del paziente può giustificare l’intervento prima del periodo di terapia conservativa. Altrimenti il trattamento consiste nel riposo, nella terapia medica (antinfiammatori, antidolorifici, miorilassanti, etc.), in una accurata fisiokinesiterapia e superata la fase acuta iniziale, nell’uso di un corsetto ortopedico.

Rachide e  spondilolisi-listesi

Con il termine spondilolisi si intende una frattura della parte posteriore della vertebra (istmo), per distesi si intende scivolamento, cioè una frattura della zona vertebrale tra corpo e processi e peduncoli che può anche scivolare in avanti.

Spondilolisi-spondilolistesi

Spesso è un difetto congenito e diventa un serio problema solo in presenza di dolore, rigidità e spasmi muscolari. Talvolta in presenza di compressione alle radici spinali si può avere una sciatica. La Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitazione (SIMFER), nella primavera del 2002 ha proposto delle Linee Guida sul ” Trattamento riabilitativo del paziente in  età evolutiva affetto da patologie del rachide”.

Le linee guida raccomandano di minimizzare il numero di radiografie durante il follow-up del paziente con spondilolistesi, anche se nel periodo di crescita rapida o all’inizio del trattamento può essere necessario effettuarle con cadenza semestrale. Inoltre, raccomandano, per ridurre l’irradiazione ai follow-up di effettuare unicamente la radiografia latero-laterale in ortostasi e di limitarla al solo rachide  lombare. Anche per gli adulti, in presenza di spondilolistesi, valgono le stesse indicazioni relativamente alle stesse percentuali di scivolamento. Naturalmente in età adulta, il controllo radiografico  deve essere ripetuto ad una distanza molto superiore, di 5 o, addirittura, di 10 anni.

Mal di schiena e sport

E’ stato provato che lo sport fa male se fatto troppo o se fatto troppo poco e male (in medio stat virtus).

Lo sport svolto a livello agonistico va interpretato come un vero e proprio lavoro: come sul lavoro si deve imparare come usare il proprio corpo, per un atleta è essenziale uno studio attento del corretto gesto tecnico, una buona preparazione fisica e l’adozione di tutte quelle misure di prevenzione che possano consentire di evitare da un lato l’infortunio acuto, dall’altro il sovraccarico.

Per quanto riguarda invece lo sport amatoriale, il mal di schiena è contraddistinto da proibizioni più che da permessi, secondo una serie di pregiudizi che non hanno nulla a che fare con la realtà. In generale un adulto fa quello che riesce a fare, che è compatibile con la sua vita familiare e professionale e, soprattutto, che continua a fare ciò che lo diverte.

Nell’attività fisica in palestra evitate di modificare le vostre curve fisiologiche, soprattutto se portano ad appiattire la schiena. Questo riduce la capacità del rachide d’assorbire le forze e vi predispone a problematiche articolari.

Note sull’autrice

L’articolo Il rachide: quello che devi sapere è della Dottoressa Elisabetta Ton
Fisioterapista trimamma con la passione per il movimento
Mail: elisabetton@gmail

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Olio di palma fa male?

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Ogni giorno l’interesse delle persone si focalizza su un alimento “target”. Certe volte parliamo di un alimento “magico”, altre volte invece è un alimento “killer”. In queste settimane si sta sentendo parlare molto dell’Olio di Palma. Come sempre c’è una parte schierata alla sua demonizzazione (l’olio di palma fa male) e una parte schierata alla sua difesa (fa addirittura bene). Si passa da un eccesso all’altro e come sempre la verità, sta “nel mezzo”. Cerchiamo di capirci qualcosa in più.

Con il termine “olio di palma” ci riferiamo comunemente a quello presente negli alimenti industriali che è l’olio di palma raffinato. In realtà esistono altre due varietà che differiscono in composizione, estrazione e lavorazione:

Olio di palma grezzo: ricavato dai frutti della palma a seguito di un processo di sterilizzazione, snocciolatura, cottura, pressione e filtrazione. Viene anche chiamato olio di palma rosso per il suo tipico colore, dovuto alla presenza di beta carotene. E’ composto da un 50% di acidi grassi saturi (palmitico in prevalenza) e un 50% di acidi grassi insaturi (oleico in prevalenza) ed è ricco in vitamina E, carotenoidi e fitosteroli.

olio di palma rosso grezzo

Olio di palma raffinato: il comune olio di palma che si trova nella maggior parte dei prodotti da forno e fritti, nonché nelle margarine “a panetti” che quasi non si vendono più. Il processo di raffinazione viene detto bifrazionamento e sostanzialmente porta alla formazione di due tipi diversi di “olio”:

– la palm-stearina, ricca di palmitico, solida a temperatura ambiete e utilizzata non solo nell’industria alimentare:
– la palm-oleina, ricca di monoinsaturi, liquida a temperatura ambiente e con un elevato punto di fumo viene utilizzata principalmente per le fritture.

palm-stearina palm-oleina

Nello specifico la palm-oleina, con l’intento di renderla più adeguata a preparazioni industriali alimentari diverse dalla frittura, viene intra esterificata e resa più solida
Il processo di raffinatura, qualsiasi forma derivante consideriamo, porta alla perdita di una percentuale consistente di vitamina E (circa il 40%) e di quasi tutti i carotenoidi presenti. Resta invece uguale la composizione in acidi grassi.

composizione acidi grassi olio di palma

Olio di palmisto: non viene ricavato dai frutti della palma, bensì dai semi essiccati, macinati e pressati. Ha una composizione completamente diversa da quella dell’olio di palma da frutto in quanto, oltre a contenere un maggior quantitativo di acidi grassi saturi (80%), è molto ricco in Acido Laurico (C:12) e più simile all’olio di cocco.

Composizione olio palmisto

Perché l’olio di palma è così ampiamente utilizzato nell’industria alimentare?

L’olio di palma ha cominciato a prendere piede con la necessità di sostituire nei prodotti confezionati “da forno” i tanto accusati (con giusta motivazione) grassi idrogenati.
I problemi fondamentali da risolvere restavano la consistenza, friabilità, croccantezza e gusto dei prodotti e non meno importante, la resistenza all’irrancidimento. Da tali punti di vista l’olio di palma si è rivelato un ottimo sostituto, soprattutto per il costo basso associato alla perfetta resa.

Accuse all’olio di palma

Negli ultimi anni le accuse mosse verso quest’olio sono state molteplici.

Innanzitutto vi è la questione acidi grassi saturi e aumento del rischio cardiovascolare. Una vasta letteratura scientifica ha messo in relazione il consumo di acidi grassi saturi con l’aumento dei marcatori di rischio cardiovascolare, soprattutto per quanto riguarda le c-LDL e le c-HDL. D’altra parte, alcuni studi e meta-analisi non hanno trovato un rilevante nesso causale tra acidi grassi saturi e aumento di rischio cardiovascolare, tuttavia, come è ben specificato anche nel documento del ministero della sanità, molti di questi studi sono finanziati da aziende che potrebbero avere conflitto di interessi (andiamo bene). Per cui la questione a livello di ricerca scientifico è ancora accesa ed è molto più complessa di quel che comunemente si pensa.

Resta in ogni caso valida la raccomandazione di mantenere la soglia di grassi saturi totali inferiore al 10% delle kcal consumate, anche a seguito di studi che hanno associato un eccessivo consumo di grassi saturi ad un aumento di rischio di patologie ossee e carcinoma alla mammella e del colon retto.

Da un altro lato, molti studi hanno concluso che l’olio di palma potesse essere addirittura protettivo per la presenza di antiossidanti. Se avete letto bene fino a questo punto forse avete già capito perché. In sostanza negli studi è stato utilizzato olio di palma grezzo, quello ricco di vitamina E, carotenoidi e fitosteroli. Ben diverso da quello presente nei prodotti in commercio.

In ogni caso accusare o scagionare i grassi saturi in generale ha poco senso è meglio soffermarsi sul tipo di grassi saturi e sulla loro funzione, per maggiori informazioni rimandiamo a questo video:

L’olio di palma fa male e causa il cancro?

A marzo di quest’anno l’EFSA ha pubblicato i risultati di uno studio che valutava la presenza, nell’olio di palma, di alcune sostanze cancerogene. Queste sostanze (2-MCPD, 3-MCPD e glicidil esteri degli acidi grassi) si sviluppano durante i processi di raffinazione e cottura (>200°) degli oli e grassi vegetali. Sebbene questo succeda per ogni tipo di grasso vegetale va sottolineato che nell’olio di palma e palmisto se ne formano in quantità maggiore rispetto agli altri.
Il punto sta nel fatto che queste sostanze si sono dimostrate genotossiche in vitro ed ad altissime concentrazioni, difficilmente raggiungibili con la normale alimentazione. Il rischio in sostanza è equiparabile a molte altre sostanze come caffeina, alcol, aflatossine ecc)
Essendo il rischio legato (come sempre) alla quantità di assunzione e considerato nei limiti di una normale esposizione a “fattori ambientali” va da se che non se ne vieta l’uso e la vendita.

L’olio di palma fa male e causa il diabete?

Questa affermazione nasce da questo studio, che ha valutato gli effetti dell’acido palmitico sull’espressione della proteina p66Shc, induttore di stress ossidativo e apoptosi soprattutto nelle cellule beta-pancreatiche. Dallo studio è emerso che l’acido palmitico (non presente solo nell’olio di palma) provoca un aumento della proteina p66Shc e un conseguente danno alle cellule pancreatiche. Questo risultato è stato ottenuto in cellule di ratto, in isole pancreatiche di topo e in isole pancreatiche umane (da donatori sovrappeso/obesi). È stato anche dimostrato che nelle cavie di laboratorio una dieta ricca di acido palmitico, in cui l’olio di palma idrogenato rappresentava il 60% delle calorie totali, produce effetti dannosi sulle cellule produttrici di insulina attraverso un aumento della proteina p66Shc.

Lo studio, per me nuovo, è risultato molto interessante. La dieta dei topi oltre ad essere ricca di olio di palma, era naturalmente high fat e ricca in saturi (di cui l’acido palmitico resta il principale rappresentante negli alimenti).
Quello che il prof.Giorgino (coordinatore dello studio) ha messo in luce è il coinvolgimento di una proteina (responsabile tra l’altro della longevità in generale) stimolata dall’eccessiva assunzione di grassi in particolare saturi che sono, insieme al grasso “viscerale”, fattori di rischio per lo sviluppo del Diabete 2. La suddetta proteina è stata coinvolta anche nello sviluppo delle complicanze legate al diabete (cardiovascolare e nefropatico).

Resta ovviamente una parentesi aperta importante.

L’olio di palma fa male all’ambiente?

olio di palma deforestazione

Già nel 2012 Nature aveva parlato del potenziale danno ambientale dovuto alla produzione di olio di palma. Non è mia competenza approfondire questo discorso ma appare ben chiaro che le coltivazioni di palma stiano provocando grossi danni di deforestazione e conseguente danno all’habitat di alcune specie animali, erosione del suolo, inquinamento atmosferico e conflitti sociali. Tant’è vero che alcune aziende hanno dichiarato e certificato che il loro è olio di palma contenuto nei propri prodotti derivati da coltivazioni ecosostenibili (anche se ci sono varie controversie in merito).

Il problema comunque non riguarda solo l’olio di palma ma tutti gli olii vegetali. Per produrne in quantitativi abnormi servono ingenti quantità di terreno. Se al posto dell’olio di palma ci mettiamo a coltivare l’olio di colza (per fare giusto un esempio) gli ettari di terreno sottratti alla natura saranno gli stessi. Alla base dei problemi ecologici c’è il pagare poco un prodotto. Ricordiamoci quello che dice Michael Pollan, non esiste il cibo economico, quello che paghiamo poco o lo paga la nostra salute o lo paga l’ambiente.

Sostenibilità olio di palma

Conclusioni: ma allora l’olio di palma fa male oppure no?

Macine mulino bianco olio di palma

Alla luce di tutto questo, come dobbiamo comportarci nei confronti dell’olio di palma?
Come per ogni cosa per quanto riguarda l’alimentazione, non possiamo focalizzarci su un singolo componente. Fermo restando che attualmente le linee guida per una sana alimentazione prevedono di non eccedere con i grassi saturi sono questi che vanno semmai valutati nel contesto.

L’olio di palma resta solo UNA delle fonti di acidi grassi saturi. E’ un prodotto economico, nutrizionalmente non apporta nessun micronutriente miracoloso (ovviamente parliamo sempre di quello che comunemente si trova nei prodotti alimentari) ma nemmeno fa grossi danni (rispetto ad altri componenti equiparabili nella composizione). Il punto principale è che fino a poco tempo fa si trovava davvero ovunque, quindi eccedere con il consumo dello stesso e di conseguenza di acidi grassi saturi era molto più semplici.

Faccio un’ulteriore considerazione: i prodotti ricchi di olio di palma, a prescindere da quest’ultimo, sono prodotti piuttosto “scadenti”, ricchi di zuccheri semplici, privi di micronutrienti importanti, spesso ricchi in conservanti o semplicemente molto grassi. Da limitare il più possibile in una dieta sana a prescindere dall’olio di palma.

Ugualmente non va unito il concetto “senza olio di palma” = “sano”. Ho visto biscotti dal profilo nutrizionale pessimo, biologici e senza olio di palma.

Come sempre l’unica “magia” sta nella MODERAZIONE. Non sarà un biscotto con l’olio di palma ad aumentare il nostro rischio di patologie cardiovascolari, di sviluppo del diabete o di neoplasia, quello che invece potrebbe farlo è il biscotto, unito alla cioccolata scadente, alle merendine, alle patatine fritte surgelate, ai crackers, ai piatti pronti e chi più ne ha più ne metta.

Bibliografia

– http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2481_allegato.pdf – http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.2903/j.efsa.2016.4426/full
– https://www.efsa.europa.eu/it/press/news/160503
– http://link.springer.com/article/10.1007%2Fs00125-015-3563-2#Sec20 – https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27377870

– https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26254104
– https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25556747
– http://www.nature.com/news/palm-oil-boom-raises-conservation-concerns-1.10936 – http://www.greenpeace.org/italy/it/campagne/foreste/indonesia/Olio-di-palma/

Note sull’autrice
Articolo: l’olio di palma fa male è della Dottoressa Valeria Cangiano
Dietistica alla Facoltà di Medicina e Chirurgia Federico II. Appassionata di nutrizione sportiva e powerlifting.
Mail: valery.cangiano@gmail.com

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Allenare le braccia con le gambe piegate: ha senso?

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Piega le gambe che così scarichi la schiena”. È il consiglio spassionato che molto spesso si sente dare nell’approccio all’esecuzione di un Push Down o di un Curl con bilanciere in piedi. L’indicazione “gambe leggermente piegate” è una costante, un accorgimento che, a guardare la sua diffusione, appare di fondamentale importanza. È una di quelle consuetudini da palestra che si fa punto e basta perché si è sempre fatto così e fare il contrario fa drizzare le antenne del buon senso . Ma come stanno realmente le cose? Che succede se rimaniamo in piedi normalmente? Cosa cambia piegando le gambe? Approfondiamo la questione in questo video-articolo per dare finalmente una risposta chiara da applicare in sala pesi da domani.

Partiamo dunque dal capire perché nasce questa pratica. “Scaricare la schiena” è la motivazione inserita direttamente dopo l’indicazione di piegare leggermente le gambe. Le due domande fondamentali a questo punto sono:

  • Scaricare la colonna vertebrale, e in particolare in dischi intervertebrali, da anomale pressioni oppure la muscolatura della zona lombare da forze potenzialmente lesive?
  • Che cosa crea un carico sulla schiena tale da doversi adoperare per “scaricarla”?

 rachide e forze sulla colonna vertebrale

Iniziamo a chiarire che durante l’esecuzione di un Push Down non avete nessun carico assiale sulla colonna diverso da quello che avete quando andate a fare shopping (per intenderci non avete un bilanciere sulle spalle) e non sollevate da terra nessun carico con la schiena inclinata in avanti (per intenderci non state eseguendo uno stacco a gambe tese).
Anzi, state spingendo verso il basso una sbarra o una corda collegata a dei pesi mediante una carrucola. Il peso vi porta in alto e non in basso ragion per cui momenti flessori alla colonna non se ne vedono. E questo nemmeno se inclinate leggermente il busto in avanti per permettere ai gomiti di estendersi completamente e non bloccarsi sulle cosce. In definitiva, se pensate a scaricare la schiena da anomale pressioni sul disco intervertebrale durante il Push Down state sereni: forse sviluppate più pressioni mentre vi mettete le calze dopo la doccia in spogliatoio.

push down gambe piegate

Se invece piegate le gambe per “scaricare” la muscolatura lombare da un “iperlavoro” state altrettanto sereni. Come detto il peso vi spinge verso l’alto e non verso il basso. Per vincere questa resistenza e mantenere la posizione del tronco attiverete in maniera importante gli addominali e non i paravertebrali.

Le stesse considerazioni valgono se state eseguendo un Curl per bicipiti in piedi, nonostante, in questo caso, il peso spinga in basso. Il carico sulla colonna e sulla muscolatura sarà poco superiore a quello che si ha quando si sta in piedi normalmente con le gambe diritte. Nessun bisogno di correre ai ripari con strategie di “scarico” della colonna, a nessuno verrà un “colpo della strega” o un’ernia L5-S1 perché fa un Push Down o un Curl manubri senza piegare leggermente le gambe.

curl gambe piegate

Ma allora perché si fa? Domanda legittima, risposta difficile perché andrebbe chiesto agli interessati anche alla luce delle considerazioni appena fatte. La prima risposta che mi viene in mente (e che probabilmente è anche la risposta giusta) è che lo si è imparato così da qualcuno più esperto, si è sempre fatto così, dicono tutti così e quindi è così. Se lo fanno tutti, dev’essere per forza vero. Spesso molte questioni in palestra nascono per mancanza di spirito critico e perché si tende a preservare poche rassicuranti certezze invece che avere a che fare con tanti angoscianti dubbi.

Un’altra risposta che ho captato dai fedelissimi delle gambe piegate è che con questo accorgimento “tutto il peso va sui quadricipiti e non sulla schiena”. Ma quale peso? Non stiamo sollevando nulla, stiamo solo muovendo l’avambraccio su e giù. Il tronco non si muove, al massimo viene stabilizzato con contrazioni muscolari isometriche funzionali e del tutto auspicabili. Sarebbe come dire che ogni qualvolta facciamo la spesa dobbiamo portare in casa le borse camminando con le gambe leggermente piegate. Questa angosciante apprensione verso la schiena in questi esercizi è davvero fuori luogo e ricorda molto un consiglio amorevole ma poco realistico delle nostre mamme o delle nostre nonne.

postura e carico colonna vertebraleLa posizione da in piedi con le gambe tese ha un’ottima resistenza agli insulti sul rachide

Gli esercizi nei quali porre particolare attenzione alla colonna per ciò che concerne la pressione intradiscale generata e il carico sulla muscolatura lombare sono decisamente altri. Fate il Push Down e affini nella posizione naturale dell’essere umano, in stazione eretta con le ginocchia estese e non con delle posture a ginocchia leggermente flesse che sono inutili, prive di senso e tra l’altro anche poco gradevoli esteticamente.

esecuzione corretta gambe tese

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Le fibre muscolari

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Questo articolo non si vuole dilungare eccessivamente sulla parte teorica di cosa sono le fibre muscolari. Ma dopo un breve accenno accademico vuole dare un risvolto pratico alla questione. Fornendo degli strumenti utili per unire la teoria alla pratica, per quanto riguarda le fibre muscolari.

Le convinzioni, più delle menzogne, sono nemiche pericolose della verità” F. Nietzsche

Tipi di fibre muscolari

I nostri muscoli sono composti da delle cellule particolari chiamate fibre muscolari. Ad oggi sono state suddivise in 7 categorie:

I > Ic > IIc > IIac > IIa > IIax > IIx

Questa classificazione tuttavia è puramente teorica in quanto non esiste una fibra uguale ad un’altra. Per semplificare si è scelto di raggrupparle in dei gruppi i cui principali due parametri che le contraddistinguono sono:
1) Metabolismo
2) Innervazione

Fibre muscolari e motoneurone

Fibre rosse di tipo I: vengono anche chiamate fibre rosse, sono quelle lente ma resistenti, sono ricche di mitocondri e di mioglobina che gli da il colore rosso e gli permette d’avere una riserva d’ossigeno sempre disponibile. Il loro metabolismo è aerobico (ossidativo), sono fatte per lavorare per lunghi periodi di tempo. Hanno una velocità di conduzione nervosa lenta sino 80m/s e riescono a generare poca forza. Questo però gli permette di resistere alla fatica e pertanto hanno una soglia d’attivazione bassa. Possiedono un diametro contenuto il quale non gli permette d’esercitare molta forza.

Fibre bianche intermedie IIc-IIa: sono una via di mezzo, si chiamano ossidative glicolitiche, appunto perché presentano caratteristiche sia del tipo I che del tipo IIx. L’allenamento può facilmente spostare il loro metabolismo adattandosi alle esigenze dell’attività. La soglia di conduzione dello stimolo nervoso in queste cellule arriva a 100m/s.

Fibre bianche IIx: fibre bianche (scarsa presenza di mioglobina), forti ma poco resistenti alla fatica. La velocità di conduzione è veloce, sino a 120m/s. Il loro metabolismo è prevalentemente anaerobico (glicolitico). Il loro diametro è il maggiore in assoluto. Hanno una soglia d’attivazione alta, quindi entreranno in gioco solo se richiamate da sforzi elevati. Queste fibre rivestono un ruolo fondamentale nell’ipertrofia muscolare, mentre quelle I rispondono all’allenamento diminuendo la loro degradazione proteica (catabolizzano meno), quelle veloci reagiscono aumentando la sintesi proteica (nuovo tessuto).

Legge di Henneman e reclutamento delle fibre muscolari rosse e bianche

Contrariamente a quanto si pensa in palestra non serve arrivare a fare le ultime ripetizione per reclutare tutte le fibre muscolari. Ne serve caricare pesi massimali per arrivare a stimolare le fibre IIx. Bosco e coll ormai hanno dimostrato da trent’anni quello che vediamo in questo grafico.Fibre muscolari e reclutamento

  1. Basta l’80% del carico massimale per reclutare tutte le fibre muscolari. L’aumento di forza per arrivare al 100% è dato da un aumento di frequenza di scarica, non da un maggiore reclutamento.

frequenza di scarica

  1. Non sono le ultime ripetizioni a reclutare più fibre ma il carico. Quindi il tipo di fibra è soggetta al peso che solleviamo non alla fatica che stiamo facendo. Se eseguiamo 100 ripetizioni di squat a corpo libero non reclutiamo le fibre IIx perché alla fine arriviamo al cedimento.

L’allenamento coi pesi depotenzia le fibre IIx

Differenze nelle fibre muscolari

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare l’allenamento coi pesi porta ad uno shift delle fibre muscolari IIx verso quelle IIa. Ma com’è possibile? Non sono forse quelle IIx le fibre più forti ed ipertrofizzabili?
Si, ma…

La principale caratteristica che differenzia le fibre IIx da quelle IIa è la velocità di contrazione. Le prime sono più veloci in modo sensibile, la differenza di forza è presente ma non in modo così evidente. Al contrario le fibre IIa hanno il vantaggio d’affaticarsi molto meno rispetto alle IIx.

L’allenamento coi pesi non è fatto da 30″ alla massima velocità, fine. Ma da sedute di almeno 10-30′ per gruppo muscolare, con tempi sotto tensione tra i 30-50″. In questo range è logico che le fibre più avvantaggiate sono proprio quelle IIa, pertanto tutte le altre fibre, che siano più veloci (IIx) o più lente (IIc), tenderanno a cambiare il loro metabolismo per adattarsi al lavoro imposto dai pesi.

Avete mai sentito dire i pesi rallentano? Su un centometrista questa è una bufala, perché la potenza erogata richiede un mix tra forza e velocità, ma su un giocatore di pin pong, i pesi possono aiutare a salvaguardare l’apparato muscolare ed articolare, ma di sicuro non aumentano la velocità della racchetta.

Fasce di fibre muscolari non determinano il campione

Tutti abbiamo studiato che i centometristi hanno geneticamente tante fibre veloci, mentre i maratoneti tante fibre rosse.

Quindi la % di fibre con cui nasciamo determina in che sport avremo più successo. Peccato tuttavia che diversi campioni olimpici del getto del peso e dei cento metri, a biopsie non abbiano mostrato di possedere una particolare % di fibre IIx. L’esempio più eclatante fu il campione mondiale Werner Günthör (l’atleta del video qui sotto) che possedeva in prevalenza fibre lente. Cosa ci insegna questa cosa. Che le fibre muscolari sono solo uno dei mille fattori che determinano una prestazione sportiva. Focalizzarsi solo su pochi elementi, in fisiologia, è perdere di vista la complessità  del corpo umano.
Sicuramente le fibre muscolari portano ad un grosso vantaggio atletico ma non sono tutto.

Composizione fibre muscolari

Per approfondire il discorso scopri Project Strength

Libro Project Strength

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Arnold Press: analisi biomeccanica e riflessioni pratiche

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Il mitico Arnold Press è sicuramente uno degli esercizi più mistici e carichi di suggestione tra i devoti del body building vecchio stampo. Spesso e volentieri è un esercizio molto amato e richiesto, un po’ per il suo nome e un po’ perché “si sente un sacco la spalla che lavora”. Una rapida analisi biomeccanica ci permetterà di conoscere meglio questo esercizio e di giungere a importanti conclusioni da riportare nella pratica dei nostri allenamenti futuri.
Se analizziamo più nel dettaglio l’esercizio possiamo notare che si tratta di un movimento scomponibile in due fasi distinte che lo contraddistinguono:

  1. la prima fase è una Distensione con manubri sopra la testa classica (abduzione dell’omero; figura 1), per la quale valgono le medesime interpretazioni del ritmo scapolo-omerale in termini di reclutamento deltoide/trapezio;

Press seduto

2. conclusa la distensione e riportati i manubri al punto di partenza inizia la seconda fase, nella quale i manubri vengono portati davanti agli occhi e spinti ancora verso l’alto di pochi centimetri (figura 2).

Arnold press esercizio
Quest’ultima fase è quella che differenzia l’Arnold Press da una Distensione classica sopra la testa e per questo motivo è bene parlarne in maniera più approfondita. Da un punto di vista biomeccanico si compone di un’adduzione orizzontale (non contro gravità) e di una flessione di spalla di pochi gradi (manubri che superano gli occhi). Nel compiere questa combinazione di movimenti i muscoli interessati saranno i medesimi: il deltoide anteriore in particolare si contrarrà isometricamente per mantenere l’omero in flessione durante l’adduzione orizzontale e si contrarrà poi in concentrica per flettere l’omero di pochi gradi (figura 3).

deltoide anteriore arnold press

Risultato? Il mix delle due fasi produrrà un esercizio che, a parità di ripetizioni eseguite, manterrà il deltoide sotto tensione almeno il doppio del tempo rispetto a una Distensione classica: ecco spiegata la sensazione esagerata di lavoro muscolare percepita generalmente da chi la esegue. Non c’è trucco e non c’è inganno. È importante capire che ogni esercizio è un movimento, in questo caso è una somma di movimenti ripetuti che portano ad allungare la durata della serie e di conseguenza ad aumentare l’accumulo di lattato (con conseguenti sensazioni di lavoro e di pumping maggiori).

Nessuno ha nulla contro l’Arnold Press sia chiaro. Se vi piace e vi dà buone sensazioni potete continuare tranquillamente a eseguirlo all’interno dei vostri allenamenti (sempre con una seria programmazione) poiché oltretutto, da un punto di vista articolare, non vi è nessuna controindicazione e sono altri gli esercizi sui quali porre maggiore attenzione. Tuttavia c’è un concetto importante da capire per non essere presi in giro da nessuno. Non esistono segreti o esercizi magici e tantomeno un movimento acquisisce poteri miracolosi per l’ipertrofia muscolare se prende il nome di illustri personaggi del panorama del body building di ieri e di oggi. L’Arnold Press “si sente” di più semplicemente perché, per sua natura, tiene sotto tensione più a lungo i muscoli target dell’esercizio. Punto.

Potrei (e potete farlo anche voi) inventare un Lento Avanti con manubri con decine di pittoresche varianti allo scopo di aumentare il tempo sotto tensione muscolare e di conseguenza ottenere sensazioni di lavoro diverse e maggiori nell’inconsapevole utente medio di palestra. Sono sicuro però che, nonostante segua lo stesso principio dell’Arnold Press e provochi i medesimi effetti, non lo prenderebbe nessuno in considerazione almeno che io non sia un iscritto al Mr. Olympia o non mi chiami Coleman di cognome.

Riflettete sempre sul fatto che il nome di un esercizio è un codice convenzionale per catalogare i movimenti. L’effetto sui muscoli non cambia se l’esercizio si chiama Arnold o si chiama Gino, l’unica cosa che cambia è la vostra suggestione e la sudditanza nei suoi riguardi.

Differenze Arnold press con press

Scopri PROJECT EXERCISE

Project Exercise

 

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Carboidrati post-workout: perché no?

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Nella letteratura scientifica relativa alla Nutrizione sportiva è da tempo oggetto di discussione l’assunzione dei carboidrati nella fase post-allenamento. Fino a pochi anni fa gran parte degli scienziati sosteneva esistessero dei vantaggi “assoluti” nell’ingerire carboidrati (e proteine) all’interno delle prime due ore post-allenamento. Si tratta dell’ipotesi della finestra anabolica o “finestra delle opportunità”, secondo cui la situazione metabolica nel post-allenamento sarebbe stata tale che ingerire carboidrati e proteine entro breve dal termine dell’esercizio, avrebbe favorito una maggiore sintesi del glicogeno muscolare e migliori adattamenti a lungo termine (performance, ipertrofia) (1,2,3). Più di recente, alcuni scienziati hanno iniziato a mettere in discussione queste posizioni, dimostrando come non ci fossero evidenze solide che questi suggerimenti nella realtà si traducessero in vantaggi concreti, almeno in gran parte delle condizioni nel mondo reale riguardanti chi si allena con i pesi (1).

Completamente al di fuori del mondo scientifico, negli ultimi anni alcuni autori italiani hanno espresso delle teorie sui presunti svantaggi dell’ingestione di cibo, in particolar modo di carboidrati, entro i primi 45-60 minuti post-allenamento. A supporto di questa idea sono state presentate diverse argomentazioni teoriche basate su ipotetici meccanismi fisiologici, biochimici e ormonali, senza però presentare chiare prove a dimostrarne l’effettiva veridicità e gli eventuali riscontri empirici.

Dato che questa ipotesi non viene accennata nella ricerca contemporanea sulla Nutrizione sportiva (1,2,3) e mancano delle reali prove a suo sostegno, essa appare di dubbia credibilità. In questo articolo si vorranno analizzare le principali teorie avanzate da questi autori per chiarire quali sono le grandi contraddizioni e i paradossi oltre che le smentite da parte della ricerca, su quella che verrà qui definita No post-workout carbohydrate hypothesis (NPWCH).

No post-workout carbohydrate hypothesis (NPWCH): perché evitare i carboidrati post-workout?

I promotori dell’ipotesi secondo cui sarebbe indicato evitare i carboidrati entro breve dal termine dell’allenamento sostengono che ciò sarebbe necessario per una serie di presunti motivi. Tra questi vengono citati prevalentemente:

  • inibizione della lipolisi e dell’ossidazione lipidica;
  • stimolazione della lipogenesi (accumulo di grasso);
  • conversione dei carboidrati in grasso di deposito (de novo lipogenesi);
  • inibizione degli ormoni anabolici (testosterone, GH);
  • inibizione degli ormoni lipolitici (GH, catecolammine);
  • eccessiva elevazione degli ormoni catabolici (cortisolo);
  • temporanea inibizione dei processi di recupero;
  • resistenza insulinica;
  • “stress” degli organi interni (fegato, reni, surrenali, SNC);

Come accennato in apertura, nel mondo scientifico il dibattito verte sui vantaggi nell’assumere carboidrati nel post-allenamento, mentre non si accenna ai presunti svantaggi o effetti deleteri dell’assumerli in questo periodo (1,2,3). Ci si chiede quindi come sia possibile che lo comunità scientifica specializzata sull’argomento non riporti alcuna di queste ipotesi se veramente esistessero evidenze o anche solo indizi a sostegno. Qui di seguito verranno elencate alcune delle principali contraddizioni e fallacie di queste teorie extra-scientifiche.

La glicemia post-allenamento non dipende solo dai carboidrati post-allenamento

glicemia post allenamento

Una contraddizione dell’ipotesi è che l’aumento della glicemia post-allenamento non dipende solo dai carboidrati assunti in questa fase. I livelli glicemici sono molto dipendenti da ciò che si è ingerito nei periodi pre- e intra-allenamento, perché parte dei nutrienti ingeriti prima del termine dell’esercizio si rendono disponibili appena dopo la sua cessazione (1,4,5). Un normale pasto misto contenente carboidrati impiega molte ore per essere completamente digerito, e la glicemia può risultare ancora elevata dopo 5 o più ore dall’ultimo pasto solido (6). I processi digestivi poi vengono notevolmente rallentati dallo sforzo fisico (7), prolungando il periodo post-prandiale (cioè di digestione e assorbimento del pasto).

Un altro dei paradossi di questa teoria è quindi quello di focalizzare l’attenzione solo su ciò che avviene dopo l’allenamento senza considerare l’influenza di ciò che avviene prima. Se veramente l’aumento della glicemia nell’immediato post-workout fosse una preoccupazione, l’indicazione dovrebbe essere quella di evitare i carboidrati anche pre- e intra-workout, quando paradossalmente nella letteratura scientifica si suggerisce di assumerli in queste fasi per molteplici benefici legati sia alla performance che all’ottimizzazione degli adattamenti cronici come l’ipertrofia o la performance (1,2,3). Di conseguenza la NPWHC dovrebbe sostenere di evitare qualsiasi fonte di carboidrati che mantiene la glicemia elevata anche subito dopo l’esercizio, come un pasto misto a base di carboidrati mangiato 5-6 ore prima.

Alcuni dei più importanti studi sulla supplementazione intra-workout durante il resistance training osservarono che chi assumeva una bevanda a base di carboidrati – nonostante aumentasse la glicemia anche nell’immediato post workout – ottenesse una migliore crescita muscolare rispetto a chi assumeva il placebo (8,9). Nonostante le probabili limitazioni, queste prove empiriche basterebbero per sollevare forti sospetti sull’attendibilità della NPWHC.

Nel post-allenamento assumere carboidrati non blocca l’ossidazione dei grassi

Un errore nell’ipotesi NPWCH che permette di capirne la bassa credibilità, è che nel post-allenamento l’ingestione dei carboidrati non sopprime l’ossidazione lipidica, al contrario di quanto avviene a riposo. Uno dei principi cardine su cui si regge la NPWCH è che l’inibizione dell’impiego energetico dei grassi nel post-allenamento porterebbe addirittura ad accumulare grasso in eccesso. Il post-allenamento rappresenta un momento particolare in cui, in maniera del tutto eccezionale, i carboidrati temporaneamente (anche in grandi quantità) non bloccano i processi di ossidazione dei grassi come invece avviene a riposo, perlomeno in maniera significativa (10,11).

Anche se i carboidrati inibissero l’ossidazione lipidica (come avviene a riposo), si tratterebbe di un fenomeno del tutto fisiologico e transitorio che non basterebbe da solo a compromettere la perdita di grasso o a favorirne l’accumulo netto. Se l’inibizione dell’ossidazione lipidica fosse una preoccupazione nel post-allenamento, allora dovrebbe esserlo anche in altri momenti della giornata. Questa idea risulta quindi piuttosto paradossale, perché per non inibire mai l’ossidazione lipidica non si dovrebbero praticamente mai assumere carboidrati. È superfluo menzionare il fatto che non basta ingerire i carboidrati per ingrassare, e se c’è un periodo durante la giornata in cui i carboidrati non hanno un effetto inibitorio sull’ossidazione dei grassi questo è proprio il primo periodo post-workout.

La lipogenesi acuta non è sinonimo di accumulo netto di grasso

lipolisi post workout

Un’altra teoria avanzata a supporto della NPWCH è che ingerire i carboidrati nell’immediato post-workout provocherebbe, a priori, l’accumulo di massa grassa. Il primo errore è ritenere che la lipogenesi acuta sia predittiva del bilancio lipidico positivo, quando è quest’ultimo il determinante dell’accumulo netto di grasso (12). I processi di lipogenesi sono sempre attivi, anche durante il digiuno (13), mentre ciò che fa ingrassare non è la lipogenesi di per sé, ma il bilancio lipidico positivo a lungo termine, cioè uno squilibrio tra i grassi accumulati e quelli ossidati a favore dei primi, in maniera cronica (12).

Non è possibile ritenere che l’ingestione di un macronutriente in una specifica fase della giornata provochi accumulo di grasso a prescindere, indipendentemente dal contesto dietetico. Al contrario, esistono molteplici meccanismi che convincono sui vantaggi metabolici nell’assumere molti carboidrati nel post-workout più che in altre fasi della giornata, meccanismi che verranno descritti qui di seguito.

Nel post-allenamento la de novo lipogenesi rimane bloccata per molte ore

Una delle varie teorie alla base della NPWCH è che assumere carboidrati nel post-allenamento porterebbe per qualche strano motivo non ben spiegato a convertirne una parte in grasso, processo noto come de novo lipogenesi (DNL). Questa idea non ha alcun riscontro scientifico, in quanto la letteratura scientifica spiega chiaramente che la DNL:

  • contribuisce all’accumulo netto di grasso solo quando le quantità di carboidrati eccedono i fabbisogni massimi giornalieri in concomitanza con un eccesso calorico, vedi articolo: (Quando ingrassiamo) ;(12,14) 
  • il forte eccesso di carboidrati nel surplus calorico cronico non porta ad un maggiore accumulo di grasso rispetto all’eccesso di grassi (15,16), nonostante l’eccesso dei primi provochi DNL;
  • l’attività fisica ha un effetto antagonista bloccando la DNL per diverse ore post-allenamento; (10,17)
  • nel contesto della restrizione calorica la DNL non risulta essere neppure documentata sull’uomo;

Nella letteratura scientifica è noto che la DNL nell’uomo sano sia stata riconosciuta come un processo irrilevante per l’accumulo di grasso se non c’è eccesso calorico-glucidico, anche solo nel soggetto non sportivo (14). Ma anche se il contesto dietetico fosse tale da provocare l’accumulo di grasso in parte via DNL (eccesso calorico-glucidico cronico), non si considera che l’esercizio fisico ha dimostrato di bloccare questo processo anche per molte ore dall’allenamento (10,17). Se quindi c’è una fase della giornata in cui i carboidrati non vengono convertiti in grasso è proprio nelle prime ore post-allenamento.

I carboidrati non aumentano il cortisolo e la resistenza insulinica nel post-allenamento

Una delle principali nozioni su cui si affida la NPWCH è che l’aumento dei livelli di cortisolo indotto dall’allenamento causerebbe resistenza insulinica, quindi ingerire carboidrati quando l’ormone è ancora elevato provocherebbe un eccessivo rilascio di insulina. Tutto questo comporterebbe svariati effetti avversi come l’accumulo di grasso. In questo caso si applica un ragionamento semplicistico secondo cui aumento del cortisolo è a priori indice di insulino-resistenza, e da questo si danno per scontate tutta una serie di conseguenze senza portare alcuna prova diretta.

In realtà è ben noto, ad esempio, che il picco circadiano del cortisolo di prima mattina (18) coincide con il momento della giornata in cui risulta fisiologicamente la maggiore sensibilità insulinica (19). Un altro semplicismo di questo ragionamento è che non si tiene conto della sensibilità insulinica “tessuto-specifica”: di prima mattina la sensibilità insulinica è elevata anche nel tessuto adiposo (19), mentre nel post-allenamento lo è preferenzialmente a livello muscolare e non adiposo (20). Quindi tra l’intra- e il post-allenamento avviene un importante aumento della capacità di uptake di glucosio preferenzialmente da parte del tessuto muscolare (1,3), anche se, come si vedrà, l’esercizio fisico di per sé aumenta i livelli di cortisolo anche nel post-allenamento.

Ad ogni modo basterebbe consultare i principali studi che hanno testato direttamente l’effetto dei carboidrati tra il pre- e il post-workout per capire il loro impatto sul cortisolo. È stato ripetutamente osservato che assumere carboidrati intra-allenamento sopprime il fisiologico aumento del cortisolo intra- e post-workout rispetto al placebo (5,8,9). In alcuni casi i carboidrati puri hanno dimostrato una maggiore soppressione del cortisolo rispetto a carboidrati con aminoacidi essenziali (5,9). In altri casi i carboidrati post-workout non hanno dimostrato differenze nella risposta al cortisolo rispetto al placebo (21,22). Questo vuol dire che l’incremento della glicemia dopo l’esercizio, indotto dai carboidrati assunti intra- e/o post-workout, ha un effetto potenzialmente positivo o perlomeno neutro sulla soppressione del cortisolo.

Nel post-allenamento la sensibilità insulinica rimane aumentata per molte ore

cortisolo lipolisi

Uno dei vari punti della NPWCH è che per qualche meccanismo complesso la sensibilità insulinica verrebbe compromessa dall’ingestione dei carboidrati post-workout, discorso in parte affrontato nella sezione precedente. La fisiologia dell’esercizio spiega che l’attività fisica aumenta in maniera importante la sensibilità insulinica per molte ore post-allenamento (1,2,3). Questo è infatti uno dei principali motivi per cui si sosteneva che assumere molti carboidrati (fino a 1.2 g/kg nella singola assunzione) all’interno della finestra anabolica (le prime 2 ore) fosse vantaggioso per ottenere una maggiore risintesi del glicogeno muscolare (1,3). Se così non fosse non si spiega su quali basi sia nata la scienza del timing post-workout, dato che questo è uno dei principi cardine su cui si regge l’intera finestra anabolica o “finestra dell’opportunità” (1,3).

Ciò che contraddice questa ipotesi è che la sovraregolazione di questi processi avviene in particolar modo nelle prime 2 ore post-allenamento (1,3), che su queste basi sembra essere uno dei momenti in cui può essere relativamente vantaggioso assumere carboidrati in grandi quantità. Anche se di recente questi vantaggi non sono stati riconosciuti come rilevanti nella maggior parte dei contesti (1,3), questo certamente non significa che sia controproducente assumerli nel primo post-allenamento.

Assumere carboidrati nel post-allenamento non inibisce il GH

Uno dei tanti meccanismi su cui si basa la NPWCH è il presunto effetto antagonista dei carboidrati e dell’insulina sul rilascio del GH. Si ipotizza che l’ingestione di carboidrati nell’immediato post-allenamento deprima questo ormone dato il suo antagonismo con l’insulina. Questa depressione del GH penalizzerebbe non solo i processi lipolitici ma anche i processi di anabolismo muscolare, e quindi di recupero. In realtà, anche questa idea risulta piuttosto semplicistica nonché smentita dalle analisi dirette. Nonostante a riposo i carboidrati inibiscano temporaneamente il rilascio di GH (23), questo non avviene nel post-allenamento.

Il primo studio osservò che una bevanda a base di carboidrati e proteine assunta dopo l’esercizio con i pesi provocasse addirittura una maggiore elevazione del GH rispetto alle sole proteine o al placebo (24). Uno studio successivo mostrò che il consumo di 50 g di carboidrati e 25 g di proteine prima e dopo l’allenamento portasse ad un ulteriore aumento del GH rispetto alla mancata assunzione (21). Un ulteriore studio non ha osservato differenze nell’innalzamento dei livelli di GH post-allenamento con i pesi dalla supplementazione di una bevanda a base di carboidrati, proteine e aminoacidi (25).

Carboidrati post-allenamento e variazioni acute del testosterone rilevanti?

Per quanto riguarda il testosterone, se i carboidrati vengono assunti intra-workout portano ad un decremento rispetto ai livelli basali nel primo post-workout (5). Altri studi hanno mostrato che assumere una bevanda glucidica (sport drink) (22,24) o un mix di proteine e carboidrati (21) nel post-workout portasse ad un decremento acuto del testosterone rispetto al placebo. Le limitazioni di queste analisi sono svariate, tra cui spesso quantità di carboidrati liquidi molto elevate (110-120 g) (22,24), l’effetto confondente delle proteine (21), ma soprattutto l’analisi esclusivamente acuta, e quindi l’assenza di misurazioni delle variazioni ormonali e della composizione corporea a lungo termine.

Curiosamente l’assunzione dei carboidrati intra-workout è stata associata ad un migliore sviluppo dell’ipertrofia a lungo termine rispetto al placebo (8,9), nonostante i livelli di testosterone vengano in questo modo temporaneamente depressi (5). Non a caso, i carboidrati nel post-workout hanno sempre dimostrato un effetto positivo sul bilancio azotato, perlomeno mediante la soppressione insulino-mediata del catabolismo proteico (1). Come se non bastasse, la letteratura recente ha rimesso fortemente in discussione l’idea che l’incremento acuto degli ormoni anabolici influisca sull’ipertrofia muscolare, come si vedrà qui di seguito.

Le alterazioni acute degli ormoni anabolici non influenzano gli adattamenti a lungo termine

Nella letteratura scientifica recente si è ampiamente discusso sul presunto ruolo anabolico del GH e del testosterone nel post-workout (hormone hypothesis), concludendo che essi non influiscano sull’anabolismo muscolare in questa fase. In altre parole nel post-allenamento l’incremento degli ormoni “anabolici” non eserciterebbe alcun ruolo rilevante sulla crescita muscolare (26), pertanto anche se i livelli venissero ipoteticamente attenuati in acuto dai carboidrati, questo non risulterebbe un problema.

Una nota a parte merita il GH, che non solo non sembra avere in questo contesto un ruolo strettamente anabolico, ma esistono un centinaio di isoforme differenti che possono avere ruoli diversificati (26). Ad esempio, in alcuni contesti il GH ha una funzione lipolitica mentre in altri ha una funzione (indirettamente) anabolica in sinergia con l’IGF-1. Si è espressa l’ipotesi che nel post-allenamento le isoforme di GH rilasciate siano più implicate nei processi di lipolisi (26).

Lo “stress” degli organi interni non prova la validità dell’ipotesi

Una delle principali nozioni su cui si basa la NPWCH è che assumere carboidrati nei primi 45-60 minuti porterebbe ad uno stress di vari organi, tra cui fegato, reni, surrenali e sistema nervoso. Molto spesso accade che nel tentativo di provare un’ipotesi contro un dato fattore si menzioni un vago concetto di “stress”, come se questo potesse validarla, ma senza provare in maniera diretta che questo stress sia in qualche modo deleterio. A questo proposito Hans Selye, ritenuto il “padre dello stress”, ne definì due forme: (27)

  • eustress, è lo “stress buono” che consiste nel produrre un adattamento positivo;
  • distress, è la forma di stress negativo, che può provocare effetti avversi come danni tissutali, malattia e morte;

La NPWCH alluderebbe al fatto che il presunto stress di vari apparati dovuto all’ingestione immediata dei carboidrati sia una forma di distress. Il problema è che non risultano chiari dati a riguardo, e come menzionato sopra, se questo fosse un problema il mondo scientifico si sarebbe espresso da tempo sconsigliando di assumere carboidrati anche fino a qualche ora prima dell’allenamento, quando generalmente si suggerisce l’esatto contrario (1,2,3).

È piuttosto facile attribuire allo stress un connotato negativo per convincere i non specializzati della propria idea. Sulla base di questa nozione si potrebbe facilmente attribuire anche all’attività fisica un effetto negativo, semplicemente perché essa pone sotto stress vari organi, impegnati ad esempio a smaltire le scorie prodotte. Lo sforzo fisico danneggia i muscoli, impegna gli organi emuntori che devono smaltire varie sostanze di scarto (ioni idrogeno, ammoniaca, scorie azotate), e può portare il cuore ad un super lavoro: questo perché l’attività fisica rappresenta una forma di stress, anche se si tratta più precisamente di eustress. Da questo esempio è facile capire che chiunque può provare qualsiasi cosa solo affidandosi a vaghi concetti fuori contesto riferiti a mezze verità, senza alcuna prova diretta.

Conclusioni: attenzione alla falsa dicotomia

carboidrati post workout

In questo articolo si è approfondita l’ipotesi diffusa in ambito non-scientifico secondo cui l’assunzione di carboidrati nei primi 45-60 minuti post-allenamento abbia effetti deleteri di varia natura. Solo il primo punto trattato sarebbe bastato da solo per confutare questa tesi, ma ad ulteriore conferma la letteratura scientifica non si è mai espressa in questo senso. Fino a soli pochi anni fa gran parte dei ricercatori in ambito di Nutrizione sportiva sposavano l’ipotesi della finestra anabolica o “finestra dell’opportunità”, secondo cui – in maniera totalmente opposta – esistevano dei vantaggi nell’assumere anche molti carboidrati nel primo post-workout (2,3). Solo in anni recenti questa idea è stata ridiscussa, concludendo che normalmente ritardare l’ingestione di carboidrati (e di nutrienti in generale) non avrebbe portato a molte differenze, tranne rari contesti in cui invece potrebbe essere vantaggioso (1,3).

Il fatto che nel mondo reale non ci sia una differenza rilevante nell’ingerire carboidrati nell’immediato o dopo 1-2 ore dall’allenamento, non significa che sia meglio l’una o l’altra opzione. In conclusione, questo conferma che esiste una maggiore flessibilità nel timing dei carboidrati post-workout, al contrario di come farebbero credere l’ipotesi della finestra anabolica o all’opposto la NPWCH.

Riferimenti:

  1. Aragon AA, Schoenfeld BJ. Nutrient timing revisited: is there a post-exercise anabolic window? J Int Soc Sports Nutr. 2013; 10: 5.
  2. Kerksick C et al. International Society of Sports Nutrition position stand: Nutrient timing. J Int Soc Sports Nutr. 2008; 5: 17.
  3. Burke LM et al. Postexercise muscle glycogen resynthesis in humans. J Appl Physiol (1985). 2017 May 1;122(5):1055-1067.
  4. Fahey TD et al. The effects of intermittent liquid meal feeding on selected hormones and substrates during intense weight training. Int J Sport Nutr. 1993 Mar;3(1):67-75.
  5. Bird SP et al. Effects of liquid carbohydrate/essential amino acid ingestion on acute hormonal response during a single bout of resistance exercise in untrained men. Nutrition. 2006 Apr;22(4):367-75.
  6. Capaldo B et al. Splanchnic and leg substrate exchange after ingestion of a natural mixed meal in humans. Diabetes.1999;48(5):958–66.
  7. Clausen JP. Effect of physical training on cardiovascular adjustments to exercise in man. Physiol Rev. 1977 Oct;57(4):779-815.
  8. Tarpenning KM et al. Influence of weight training exercise and modification of hormonal response on skeletal muscle growth. J Sci Med Sport. 2001 Dec;4(4):431-46.
  9. Bird SP et al. Independent and combined effects of liquid carbohydrate/essential amino acid ingestion on hormonal and muscular adaptations following resistance training in untrained men. Eur J Appl Physiol. 2006 May;97(2):225-38.
  10. Folch N et al. Metabolic response to small and large 13C-labelled pasta meals following rest or exercise in man. Br J Nutr. 2001 Jun;85(6):671-80.
  11. Krzentowski G et al. Metabolic adaptations in post-exercise recovery. Clin Physiol. 1982 Aug;2(4):277-88.
  12. Schutz Y. Concept of fat balance in human obesity revisited with particular reference to de novo lipogenesis. Int J Obes Relat Metab Disord. 2004 Dec;28 Suppl 4:S3-S11.
  13. Reshef L et al. Glyceroneogenesis and the triglyceride/fatty acid cycle. J Biol Chem. 2003 Aug 15;278(33):30413-6.
  14. Hellerstein MK. No common energy currency: de novo lipogenesis as the road less traveled. Am J Clin Nutr. 2001 Dec;74(6):707-8.
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  16. Lammert O et al. Effects of isoenergetic overfeeding of either carbohydrate or fat in young men. Br J Nutr. 2000 Aug;84(2):233-45.
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  21. Kraemer WJ et al. Hormonal responses to consecutive days of heavy-resistance exercise with or without nutritional supplementation. J Appl Physiol (1985). 1998 Oct;85(4):1544-55.
  22. Schumm SR et al. Hormonal response to carbohydrate supplementation at rest and after resistance exercise. Int J Sport Nutr Exerc Metab. 2008 Jun;18(3):260-80.
  23. Pallotta JA, Kennedy PJ. Response of plasma insulin and growth hormone to carbohydrate and protein feeding. Metabolism. 1968 Oct;17(10):901–908.
  24. Chandler RM et. al. Dietary supplements affect the anabolic hormones after weight training exercise. J Appl Physiol (1985). 1994 Feb;76(2):839-45.
  25. Williams AJ et al. Effects of resistance exercise volume and nutritional supplementation on anabolic and catabolic hormones. Eur J Appl Physiol. 2002 Feb;86(4):315-21.
  26. Schoenfeld BJ. Postexercise hypertrophic adaptations: a reexamination of the hormone hypothesis and its applicability to resistance training program design. J Strength Cond Res. 2013 Jun;27(6):1720-30.
  27. Selye H. Confusion and controversy in the stress field. J Human Stress. 1975 Jun;1(2):37-44.

Note sull’autore

L’articolo sul grasso localizzato è di Lorenzo Pansini

Lorenzo Pansini è personal trainer, bodybuilder natural, divulgatore scientifico e co-direttore della rivista Project Journal (di prossima pubblicazione). Appassionato di Nutrizione e di tutto ciò che ruota attorno all’allenamento per il bodybuilding e fitness, basa il suo lavoro su analisi critiche, oggettive, fondate su un’accurata indagine bibliografica e l’analisi del contesto tramite l’esperienza, cercando di rendere i contenuti ricchi di informazioni e nozioni scientifiche ma allo stesso tempo che abbiano un’estrapolazione pratica.

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Bicipiti alla Panca Scott

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Regina incontrastata delle routine dei bicipiti di ieri e di oggi, la Panca Scott è un esercizio che prevede una flessione del gomito contro gravità con spalla flessa e gomito in appoggio. Suggestioni a parte, affrontiamo razionalmente alcune importanti questioni che la riguardano, sfatiamo miti e scopriamo se è davvero utile o si può fare di meglio.

La Panca Scott non allena il bicipite “a pezzi”

bicipite panca scott

È pensiero comune in palestra pensare che la Panca Scott abbia la peculiarità di stimolare parti diverse del bicipite (“picco del bicipite”, “parte bassa del bicipite”). In virtù del suo decorso anatomico e del meccanismo fisiologico della contrazione tale credenza è pura fantasia. Il bicipite si contrae lungo tutta la lunghezza delle sue fibrocellule che vanno dalla scapola fino al radio. Impossibile reclutare una parte di esso. Tale credenza nasce come sempre dalla sensazione dovuta allo stiramento della giunzione mio-tendinea ricca di recettori del dolore.

La Panca Scott è un esercizio pericoloso?

gomiti panca scott

Specie se eseguita con bilanciere dritto, la panca Scott, per come è strutturata, può alzare il rischio infortunio al gomito in soggetti predisposti con alti carichi ed elevata frequenza di allenamento. Essa, infatti, visto il blocco a livello dei gomiti, non permette di rispettare i fisiologici movimenti accessori del gomito in flesso-estensione (abduzione e adduzione dell’avambraccio), e inoltre saranno resi impossibili importanti compensi per via dell’appoggio dei gomiti. Oltre ciò, la natura dell’esercizio pone stress a livello del legamento anulare del radio e della membrana interossea, per via della leva creata dal blocco del gomito a livello del capitello radiale. Carichi alti e una frequenza di allenamento elevata possono favorire, alla lunga, spiacevoli dolorini non così rari tra chi la esegue con regolarità.

La Panca Scott è efficace per allenare il bicipite?

varianti panca scott

La Panca Scott, come detto, è un monoarticolare che prevede una flessione di gomito con spalla flessa. La letteratura ci riporta un’attivazione minore del bicipite durante questa combinazione di movimenti (confrontata con Curl su panca inclinata o Curl classico), specie quando il gomito si avvicina ai 90° di flessione (il muscolo si avvicina all’accorciamento massimo perdendo via via forza secondo il diagramma tensione lunghezza; Oliveira, 2009).

Potrebbe avere senso dunque limitarne il ROM evitando eccessive flessioni di gomito. Inoltre, approfondendo la questione, avrebbe ancora più senso sostituirla con l’esercizio Preacher Curl eseguito prono su panca. Questo esercizio, infatti, stimola in egual modo il bicipite con flessioni di gomito a spalla flessa, ma lo fa in un contesto di maggiore sicurezza per la mancanza del blocco articolare al gomito. Lo svincolo articolare permetterà il rispetto della fisiologia articolare diminuendo al massimo gli stress. Inseritelo durante i vostri allenamenti alternandolo con Curl classici e Curl su panca inclinata: tale strategia permetterà di variare gli angoli di lavoro e stimolare in maniera completa il muscolo durante la vostra programmazione annuale mirata all’ipertrofia

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Correre per dimagrire: funziona?

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La corsa è una delle strategie più utilizzate per bruciare grassi. Ma correre per dimagrire funziona veramente? Quante calorie consumiamo realmente a correre (per approfondire vedi anche: costo energetico nella corsa) e quante di queste vengono dai lipidi? In questo videoarticolo risponderemo a queste domande e daremo dei consigli pratici su come ottimizzare la nostra corsa per dimagrire.

Come correre per dimagrire

Il corpo umano, per sostenersi, brucia sempre un mix di macronutrienti, principalmente grassi e carboidrati. Più l’attività che svolgiamo è leggera (quando dormiamo) più consumiamo lipidi, più diventa impegnativa più il dispendio è a carico dei carboidrati (100m).

Da questa considerazione nasce QUELLA CAGATA della corsa in fascia lipolitica (corri piano che consumi più grassi).
Il problema principale è che la gente non quantifica , bruciare più grassi è si teoricamente figo, ma se parliamo di grammo più grammo meno diventa una cagata.
Comprereste una pillola a 1000 euro che vi allunga il pene?
Anche solo per 0,05cm ?

Se la risposta è si smettete di leggere e continuate a corre in fascia.

quanto correre per dimagrire

Correre per dimagrire: facciamo giusto due calcoli

Vediamo di fare due calcoli semplici semplici per capire quanto grasso bruciamo quando corriamo.
Partiamo da una piccola premessa. Quando si corre le calorie consumate sono date dalla distanza, non dalla velocità con cui si percorre il tragitto (rispettando sempre lo steady state). Quindi la vostra sensazione di fatica è del tutto irrilevante dal punto di vista del dispendio calorico. E’ il lavoro (peso x distanza) che conta, vedremo tra poco la formula. Questo concetto è la prima rivoluzione copernicana che dovete fare per passare da una mentalità da palestra (in cui dominano le sensazioni: dimagrisco se sudo, dimagrisco se mi stanco), ad una visione scientifica e razionale (in cui dominano i numeri ed i test riproducibili).

Ma ora veniamo all’esempio:
Luca pesa 85kg e vuole buttare giù gli ultimi 5kg che gli coprono la pancia.
Decide di correre poco sotto al 80% (fascia lipolitica) della sua FCM (frequenza cardiaca massima) per un’ora.
In quel lasso di tempo percorre 9km. Il suo dispendio calorico è stato 1kcal/kg/km (formula d’Arcelli) 1x85x9=765kcal
Un dispendio energetico interessante sul conteggio calorico giornaliero ma durante l’attività quanto grasso abbiamo bruciato?
Una frequenza cardiaca sotto al 80% del FCM ci porta a bruciare mediamente 70% carboidrati-30% grassi (vedi Quoziente Respiratorio di 79), quindi calcoliamo il 30% di 765kcal = 230kcal.

1 grammo di grasso sono 9kcal ma nel corpo umano al grasso (adipocita) si aggiunge l’acqua per cui 1kg di grasso corporeo sono 7000kcal e non 9000kcal.
In pratica Luca nella seduta ha bruciato 230kcal/7=32,8g di grasso (più acqua).
32 grammi rispetto 5 kg di grasso corporeo, da smaltire, ma quante sedute gli tocca fare???

Diventa così evidente che non dimagriamo DURANTE l’attività fisica ma attraverso il conteggio calorico settimanale TOTALE (entrate-uscite) e lo stato metabolico (vedi: meglio il Cardio o l’HIIT).
Se si decide di utilizzare la corsa come strumento per dimagrire l’UNICA STRATEGIA VALIDA è quella di percorrere più Km possibili infischiandosi di cosa stiamo bruciando , sarà il bilancio a fine giornata a decretare il risultato.

Correre per dimagrire

Quanto correre per dimagrire

Alla luce di quando abbiamo appena detto se fate una corsa blanda e costante, più correte e più consumerete. Non ragionate in termini di tempo ma di km. Non ragionate in termini di seduta ma di settimana. È meglio correre meno e più spesso se questo vi porta ad accumulare più km. Non perdetevi in sedute interminabili di due ore, ma piuttosto uscite a correre 3-4 volte a settimana, con ritmi anche impegnativi per meno tempo.

Non importa se bruciate zuccheri o grassi, importa che consumate calorie che nella settimana porteranno ad un deficit energetico cronico.

Per dimagrire meglio correre o camminare?

camminare o correre per dimagrire

A parità di km la corsa consuma il doppio rispetto alla camminata, questo perché il baricentro ha continuamente degli spostamenti verticali. Tuttavia inizialmente può convenire iniziare a camminare in modo veloce, alternare poi la corsa alla camminata ed infine, quando sarete pronti correre e basta.

Camminare ha un potere rilassante sull’organismo ed è un’attività sicuramente più positiva che stare seduti sul divano. Tuttavia per ottenere veri risultati la corsa è molto più efficace.

Correte ma non dimenticate gli esercizi contro resistenze.

Molte persone che corrono per dimagrire perdono peso ed assieme al grasso riducono anche la massa magra. Una buona quota proteica e degli esercizi contro resistenze, permettono al corpo di liberarsi del grasso in eccesso salvaguardando la preziosa massa magra.

Se siete delle donne o delle ragazze, difficilmente amerete fare i pesi, e preferirete l’attività aerobica o i corsi di gruppo. Non fate questo errore a meno che non volte ritrovarvi svuotate, con un metabolismo a terra e pronte a ingrassare appena tornerete a mangiare normalmente.

Tabella calorie corsa e camminata

Utilizzando la formula d’Arcelli vediamo quante calorie consumiamo correndo o camminando in relazione ai km percorsi.

quanto si consuma a correre e camminare

Dimagrire correndo: conclusioni.

Per concludere una piccola riflessione su chi corre coperto, con panciere, k-way, ecc per sudare e consumare di più. Attenzione, più sudate meno grassi bruciate.
Vediamo di capire perchè.
Durante l’attività fisica la temperatura corporea aumenta. Per mantenerla entro un certo range il corpo inizia a disperdere calore ed a sudare. Per farlo aumenta la circolazione sanguigna sottocutanea. Abbiamo così un conflitto tra i muscoli che richiedono più sangue possibile e la pelle che cerca d’abbassare la temperatura. Il cuore così deve pompare più velocemente per accontentare tutte e due. A parità di lavoro (distanza percorsa x peso) il quoziente respiratorio si sposta di più verso il consumo degli zuccheri.
Praticamente in palestra le persone corrono in fascia lipolitica per consumare più grassi ma poi si coprono per sudare andando così invece a bruciare più zuccheri.

Di fronte a tutta questa ignoranza chiediamo 5′ di religioso silenzio.

(Se ti è piaciuto condividilo sui social network ma ricordati che rispondiamo alle domande solo sul sito)

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Curva lombare e glutei

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Come l’allenamento dei glutei sia influenzato dalla curva lombare e dalla posizione delle anche. Un articolo che mette in relazione l’aspetto strutturale e postulare e l’allenamento efficace dei glutei. Da leggere se non volete rimanere delusi dai vostri workout.

Avete presente la pubblicità dell’integratore che promette d’allungare il pene? Beh, con questo articolo non c’entra molto. Nel nostro ambiente si associa sempre lo squat ad un bel culo. Questo esercizio sembra essere la panacea per tutti i mali.

Vuoi diventare forte? Fai lo squat.
Vuoi diventare grosso? Fai lo squat.
Vuoi un bel culo? Fai lo squat.
Enlarge your penis? Compra l’integratore oppure fai lo squat.

Purtroppo per quanto adori questa alzata non basta farla per diventare mr/miss chiappe d’acciaio.
Vediamo di capire il perché.

Il grande gluteo si articola sul cingolo pelvico, per l’esattezza: sulla porzione laterale della cresta iliaca, sulla SIPS, sulla fascia dorsolombare, sull’ala dell’ileo, sulla linea glutea posteriore, sul sacro, sul coccige e sul legamento sacrotuberoso.

Insomma abbiamo una grande origine per un muscolo importante che ci differenzia da tutti gli altri primati.

Le ossa su cui si articola fanno parte del bacino. Costui è formato da due blocchi anterolaterali (ileo-ischio-pube), in cui si incastra posteriormente l’osso sacro:

gluteo e bacino

Il cingolo pelvico fa da base alle vertebre lombari che si collegano ad esso attraverso L5-S1.

Tratto lombare, osso sacro, ileo e legamento sacrotuberoso, si influenzano a vicenda, modificando un distretto anche gli altri si adattano assumendo una nuova postura.

Sull’anca, assieme al grande gluteo,  ci sono diversi muscoli che originano o si inseriscono, i principali sono:

Antiversori del bacino Ileo-psoas, Retto del femore, Quadrato dei lombi
Retroversori bacino Addominali, Ischiocrurali

muscoli antiversore dell'anca

muscoli retroversori dell'anca

Se gli antiversori del bacino prevalgono sui retroversori, il sedere va in fuori e andiamo verso una iperlordosi, viceversa se prevalgono i retroversori ci ritroviamo col sedere piatto e il tratto lombare rettilineizzato.

Osservate la foto dell’immagine di copertina, la donna col culo piatto ha una ipolordosi. Il suo grande gluteo è costantemente accorciato e partecipa male all’estensione dell’anca..

sedere in fuori o piatto anatomia

POTETE FARE TUTTI GLI SQUAT CHE VOLETE MA SE AVETE IL BACINO IN RETROVERSIONE IL SEDERE NON SI SVILUPPERA’ MAI.

Al contrario nell’immagine a destra vediamo una bella curva lombare accompagnata da un bel sedere.

Per migliorare così la forma del gluteo, non basta lavorare sul ventre muscolare, dobbiamo lavorare sulla postura (per quanto ci sia concesso fare).

Per essere sicuri che lo squat sia proficuo ai fini estetici dovete riuscire ad eseguire i seguenti test dinamici:

1) Accosciata completa con la schiena in iperestensione.

Più lo squat è profondo più l’anca si flette e più lavora il gluteo (partecipa fortemente a partire da una flessione di 90°). Lo stesso avviene per il tratto lombare, più rimane esteso e più il bacino va in antiversione e il muscolo lavora.

2) Overhead squat profondo

C’è una connessione diretta tra spalle e glutei, vediamo di capire qual è.

Nell’abduzione dell’arto superiore (alzare le braccia) abbiamo uno schiacciamento dei tessuti molli posti sotto l’acromion. Per evitare un’eccessiva compressione la scapola deve ruotare (ritmo scapolo-omerale). Arrivati attorno ai 150° l’abduzione dell’arto viene aiutata dall’aumento della lordosi lombare.

Kapanji ci mostra come avviene il movimento:

abduzione e colonna

Per riuscire ad eseguire un overhead squat dobbiamo in primis avere una buona mobilità delle spalle, ma anche del bacino, pena non riuscire ad eseguire l’esercizio perché il centro di massa non ricade sul poligono d’appoggio.

L’overhead squat diventa così il vero protagonista per sviluppare ottimi glueti perchè blocca la schiena in iperestensione e l’anca in antiversione.

overhead squat

Ok lo so che non apprezzate Rezazadeh , per i glutei vi motiva di più lei:
overhead squat e glutei

Ps. I due esercizi migliori per i glutei rimangono lo Squat (e varianti) che pongono l’accento sul gluteo in allungamento e l’Hip Thrust che invece pone la massima contrazione in accorciamento.

Allenamento Glutei: vai alla guida

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Quali sono i carboidrati, quelli semplici e complessi

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In questo articolo vedremo cosa e quali sono i carboidrati, come influenzano il nostro corpo, che ruolo svolgono, la differenza tra semplici e complessi ed il loro indice glicemico. La prime nozioni da conoscere sui glucidi se si vuole capire realmente come inserirli nella nostra alimentazione.

i carboidrati quali sono

Da anni i nutrizionisti alla televisione spingono sulla dieta mediterranea. Che dobbiamo mangiare in primis alimenti contenenti alti quantitativi di carboidrati come la pasta, il pane e la pizza. Ma veramente conviene mangiare così?

Se proviamo a togliere i carboidrati dalla nostra alimentazione seguendo una dieta metabolica, low carb o chetogenica, subito ci rendiamo conto che stiamo perdendo peso. Sicuramente perdiamo acqua e glicogeno ma anche il grasso viscerale diminuisce. Ma quindi non è vero che i carboidrati fanno bene? Dobbiamo per forza toglierli per dimagrire?

Prima di scoprire quali sono i carboidrati dobbiamo capire che non esiste nessun macronutriente (proteine, carboidrati, grassi) che ci fa ingrassare o dimagrire. Tutti i macronutrienti apportano energia e solo un eccesso calorico porta a mettere su peso, mentre un deficit ci fa calare.

  • I carboidrati fanno ingrassare  perché spesso sono contenuti in alimenti disidratati come le farine, che per 100g apportano mediamente 360-380 kcal. È facile esagerare e mangiare 300g di pasta (oltre le 1000kcal) condita (altre 250-500kcal) senza essere veramente sazi. Il problema dei carboidrati è che riescono a saziare soltanto chi ha un’ottima risposta insulinica. Queste persone mangiano poca pasta, 3-4 biscotti e sono sazi per ore. Se non fate parte di questa categoria, vuol dire che nella vita precedente non eravate santi. Per voi seguire una dieta mediterranea ipocalorica vuol dire soffrire la fame.
  • I carboidrati fanno dimagrire perché migliorano l’assetto ormonale aiutando la leptina e gli ormoni tiroidei a rimanere attivi. Il giusto apporto di glucidi migliora la sensibilità insulinica e ci allontana dal diventare insulino resistenti. Al contrario un loro eccesso porta all’esatto opposto. Quando il nutrizionista alla televisione esalta il ruolo dei carboidrati specifica spesso nel giusto quantitativo, che tradotto per la persona comune sedentaria vuol dire: piccole quantità (lo so, mai una gioia). Eliminare i carboidrati dall’alimentazione è un errore e non andrebbe mai fatto per medi e lunghi periodi.
    Anche eliminare gli amidi non va bene, perché gli zuccheri della frutta non apportano gli stessi benefici metabolici e non influenzano positivamente la leptina.

Quali sono i carboidrati complessi

I carboidrati in biochimica sono suddivisi da quanti monomeri sono formati. Uno zucchero semplice come il glucosio o il fruttosio viene definito monosaccaride, lo zucchero da cucina formato da glucosio+fruttosio è definito disaccaride ed infine l’amido e le fibre alimentari, formate da tanti pacchetti di glucosio sono definiti polisaccaridi.

Quali sono i carboidrati

I carboidrati complessi sono quelli contenenti amido ovvero tutti i derivati dei cereali (pane, pasta, pizza) ed i tuberi come le patate o la manioca. I biscotti ed i prodotti da forno contengono un mix di carboidrati complessi (amido) con l’aggiunta di zuccheri semplici.

Quali sono i carboidrati semplici

Compreso che la categoria degli zuccheri complessi riguarda gli amidi (cereali e tuberi) gli zuccheri semplici sono quelli formati dai disaccaridi (zucchero da cucina, frutta, verdura, latte) e dai prodotti industriali come lo sciroppo di glucosio o di fruttosio. Le raccomandazioni nutrizionali consigliano di non superare la quota calorica del 5-10% da questi zuccheri. In biochimica ed a livello organico non c’è differenza tra lo zucchero da cucina e quello contenuto in una mela.

Quali sono i cibi con carboidrati e zuccheri

Gli zuccheri semplici più comuni si trovano nel saccarosio, miele, caramelle, gelati, yogurt, ma anche frutta (datteri, uva in grandi quantità) e perfino nel latte (col lattosio). L’industria alimentare usa lo sciroppo di glucosio/fruttosio e lo zucchero semplice per insaporire gli alimenti, lo troviamo: nei cereali della prima colazione, nelle bevande in lattina, nella passata di pomodoro ed in piccole quantità anche in tantissimi altri alimenti come il salmone affumicato ed i prosciutti.

Quali sono gli zuccheri seplici

Quali sono i carboidrati a basso indice glicemico

Spesso i carboidrati vengono definiti buoni o cattivi a seconda del loro indice glicemico. Questa concezione dura a morire è ormai stata superata da almeno 20 anni dalla ricerca scientifica, anche se gli “esperti” che parlano al grande pubblico continuano a dargli importanza. L’indice ed il carico glicemico, ma anche l’indice e carico insulinico non sono predittivi se un alimento farà bene o male. È l’insieme dei macronutrienti ad avere un’influenza organica e metabolica, non il semplice alimento in sé. Contrariamente a quanto molti credono dimagriamo e miglioriamo i nostri esami ematici mangiando, in un’alimentazione ipocalorica, farine raffinate e zuccheri. Al contrario ingrassiamo e peggioriamo la glicemia mangiando, in un’alimentazione ipercalorica,  cereali integrali e frutta e verdura.

Ovviamente l’ideale è mangiare integrale, frutta e verdura perché dopo la quantità (il fattore metabolico più importante) c’è la qualità (che determina sul lungo periodo la salute).

Non suddividete gli alimenti in base al loro indice glicemico, ma in base al fatto che sono industriali o naturali e non lavorati (se un alimento ha più di 3-4 ingredienti probabilmente è troppo lavorato) .

Ecco, per conoscenza, una lista degli alimenti per rispondere a quali sono i carboidrati ad alto, medio basso indice glicemico.

Alimenti basso indice glicemico

Alimenti con medio indice glicemico

Alimenti ad alto indice glicemico

Speriamo con questo articolo d’avere iniziato a far comprendere quali sono i carboidrati e che ogni fattore in nutrizione va letto nel complesso e non a compartimenti stagni.

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