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Cercare di aumentare il metabolismo è una cagata pazzesca

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aumentare il metabolismo possibile

Ultimamente si sente frequentemente l’espressione “costruzione metabolica”, spesso fraintesa.
Comunemente viene intesa come una fase in cui viene aumentata la spesa calorica dell’organismo attraverso un lento e progressivo aumento delle calorie introdotte soprattutto dai carboidrati fino a raggiungere quote definite “ottimali” dalle quali si può iniziare a tagliare le calorie per mettersi in restrizione calorica e dimagrire (vedi l’articolo su come accelerare il metabolismo).

Il concetto di fondo del ragionamento è quello di avere lo stesso deficit calorico (ad esempio 500kcal in meno rispetto al TDEE) assumendo e bruciando più calorie in modo da rendere la dieta più sostenibile e con maggiori margini di manovra.
Mangiare 2500kcal avendo un TDEE di 3000 è sicuramente più facile e sostenibile di mangiarne 1500 avendo un TDEE di 2000.

Sulla carta il discorso fila ed è bellissimo. Peccato che nella pratica però non funzioni così.
Per spiegarlo, analizziamo prima da COSA è composta la spesa energetica totale giornaliera (TDEE).

In questo grafico è molto chiaro :

aumento del metabolismo

  • Circa 60% metabolismo basale
  • Circa 5% effetto termico del cibo (digestione)
  • Circa 20% NEAT (attività fisica spontanea, nel tempo libero e nel lavoro)
  • Circa 15% allenamenti e sport

Come evidenziato nel grafico, solo il NEAT e gli allenamenti sono le vere componenti (che sommate fanno oltre un terzo della spesa totale) su cui possiamo agire volontariamente. Il resto sono indipendenti da cosa facciamo e sono dettate dalla nostra genetica, la nostra composizione corporea e stazza (altezza, quantità di massa magra…).

L’efficienza del metabolismo è strettamente regolata dalla genetica. Tramite l’alimentazione possiamo sicuramente ottimizzare lo stato di salute, la sensibilità insulinica, l’affinità con i macronutrienti… ma non possiamo aumentare la spesa energetica data dal metabolismo basale. Anche aggiugendo 5 gr di carboidrati al giorno per tutta la vita, il metabolismo basale non varierà in modo sensibile se non tramite grossi aumenti di massa magra (ed anche qui va ricordato che in realtà i muscoli a riposo non consumano poi tantissimo, un guadagno di circa 10kg di massa muscolare A RIPOSO porteranno un aumento di metabolismo basale non superiore a 3-400kcal).

Quindi in realtà la costruzione metabolica intesa come un aumento del TDEE di un soggetto ha molto più a che fare con l’aumento di attività (sia allenamento che NEAT) che non con l’alimentazione.

Quello che spesso viene inteso con costruzione metabolica, probabilmente dovrebbe essere chiamato “Reset metabolico”.

muscolo metabolismo

Il rest metabolico infatti, è lo spezzare un circolo vizioso di adattamenti metabolici negativi dato da restrizione caloriche troppo intense e prolungate che hanno portato ad una serie di adattamenti come la diminuzione inconscia del NEAT, una maggiore efficienza nel lavoro muscolare (il che vuol dire che per determinate attività fisiche il corpo riesce ad ottimizzare i consumi producendo lo stesso lavoro con una minore spesa energetica), ed un miglior utilizzo dei substrati energetici con una minimizzazione dell’energia dissipata in calore.

Per essere chiari, una restrizione calorica protratta nel tempo porta principalmente questi adattamenti :

  • Diminuzione del metabolismo basale a riposo BMR (ma molto meno di quanto si creda, circa un 10%)
  • Diminuzione anche estrema del NEAT (movimenti spontanei, tempo trascorso in piedi o seduto, numero di passi giornalieri effettuati. Eric Helms – preparatore, scienziato, nutrizionista e Bodybuilder agonista – ha calcolato che passa da 10mila passi al giorno nelle fasi di alimentazione ipercalorica a meno di 3mila passi al giorno nelle fasi di ipocalorica stretta quando è in preparazione per una gara! In alcuni studi è stato stimato che il NEAT può variare tra soggetti anche per più di 2000kcal al giorno!)
  • Aumento dell’efficienza del lavoro muscolare (si produce lo stesso lavoro con minore spesa energetica )
  • Diminuzione della dissipazione in calore di una parte delle calorie introdotte

Tutti questi fattori possono portare anche un estremo calo nella spesa energetica giornaliera totale di un soggetto.

Per spezzare questo circolo vizioso di adattamenti è necessario seguire un periodo di alcune settimane o mesi di mantenimento in NORMOCALORICA con un a dieta bilanciata, in modo da porre fine agli adattamenti indotti dalla restrizione prolungata.

Qui entra in gioco il concetto di “Reverse Diet”.

Poichè gli adattamenti metabolici conseguenti ad una restrizione calorica prolungata di cui abbiamo parlato sopra hanno abbassato la spesa energetica calorica totale, non è più possibile prevedere tramite test e calcolatori, che si basano sulla composizione corporea attuale e la quantità e tipologia di attività fisica, il fabbisogno calorico giornaliero di un soggetto con un margine d’errore accettabile. La conseguenza di ciò è che se impostassimo una dieta normocalorica basandoci su un fabbisogno teorico, finiremmo con il seguire con tutta probabilità una dieta IPERCALORICA, accumulando nuovamente peso in maniera sproporzionata tra tessuto magro e tessuto grasso finendo a parità di peso con una composizione corporea peggiore rispetto a prima di intraprendere la dieta in restrizione calorica originale.

Per evitare tutto ciò, si parte dalla quota calorica consumata attualmente, che tende a mantenere il peso corporeo stabile e si procede ad aumentarla gradatamente nelle settimane in modo da dare al corpo il tempo necessario a invertire tutti queli adattamenti metabolici negativi e quindi a “resettare” il metabolismo e la spesa energetica totale evitando che un’alimentazione che in teoria è normocalorica risulti invece ipercalorica.

Deve essere però chiaro che questa fase di mantenimento/reset/costruzione metabolica non sta “aumentado” la spesa energetica del soggetto o preparandolo al dimagrimento ma semplicemente lo sta riportando nelle condizioni metaboliche “normali”, con una spesa energetica congrua alla sua stazza, genetica ed attività annullando gli adattamenti metabolici negativi indotti da alimentazioni sbilanciate ed estreme.

Il metabolismo non viene “costruito” ma viene “riparato” poichè diete scriteriate prolungate nel tempo lo hanno “demolito”. Questo contetto è fondamentale.

Quando il metabolismo sarà tornato ai livelli normali di base, si sarà quindi “resettato”, se si desidera perdere peso si dovrà procedere con una restrizione calorica intelligente, di entità non esasperata intervallata dai giusti periodi di mantenimento per evitare di esasperare gli adattamenti negativi.

L’unico vero modo di costruire il metabolismo, cioè aumentare la dimensione dei tessuti metabolicamente attivi ed aumentare quindi la spesa energetica totale e di conseguenza riuscire a mantenere il peso introducendo un numero maggiore di calorie, è quello di lavorare sull’ipertrofia muscolare e sulla capacità di sostenere allenamenti sempre più intesi, oltre all’aumentare il NEAT che spesso è la chiave fondamentale per dimagrire o mantenere il peso mangiando relativamente molte calorie e non essere costretti a “fare la fame” a vita per restare in forma.

Cercare di “costruire” il metabolismo ragionando solo sull’alimentazione invece che sull’attività è utopia.

Qui di seguito una approfondimento più tecnico, per gli appassionati e professionisti del settore, di cosa sono e come funzionano questi famosi adattamenti metabolici indotti dal bilancio calorico, che vanno sotto il nome di adattamento alla termogensi.

Cercare di aumentare il metabolismo è una cagata pazzesca (parte tecnica)

accelerare il metabolsimo

In cosa consiste l’adattamento alla termogenesi?

Il dispendio energetico si divide in spesa energetica:

  • a riposo
  • non a riposo.

La spesa energetica “non a riposo” si suddivide in spesa energetica indotta dall’attività fisica (sport) e al NEAT. Il NEAT è a sua volta suddiviso in attività fisica spontanea (SPA) e attività fisica nel tempo libero o nel lavoro.

Il dispendio energetico a riposo invece comprende sia il metabolismo basale (sia quando si è svegli che quando si dorme) sia l’effetto termico del cibo. Queste 2 variabili non sono volontarie ma dipendono essenzialmente dal SNA (Sistema Nervoso Autonomo).

Effetto termico del cibo

Il dispendio energetico nello stato postprandiale è definito come TEF (effetto termico del cibo); altre espressioni utilizzate sono “azione specifico dinamica, termogenesi postprandiale o DIT, e ammontano ad un valore che va tra il 5 e il 15% dell’assunzione energetica totale giornaliera. Generalmente è misurata a riposo ed è suddivisa in una componente obbligatoria che si riferisce ai costi energetici dati dai processi disgestivi, assorbitivi e di trasformazione metabolica e stoccaggio dei nutrienti, e una componente facoltativa che dipende in parte dagli alimenti e in parte dalla stimolazione del sistema nervoso simpatico.

Termogenesi Adattativa in stato di non-riposo

I cambiamenti adattativi di produzione di calore nello stato di “non riposo” sono molto più difficili da valutare in quanto costituiti dalla sovrapposizione di diversi sub-compartimenti. Nell’interpretare il costo energetico dell’attività fisica è importante sottolineare che l’attività fisica è spesso usata come sinonimo di “lavoro”. L’efficienza di lavoro muscolare durante l’esercizio fisico dinamico è bassa (circa il 25%) ma quello dell’attività fisica spontanea (SPA), come ad esempio il mantenimento del tono muscolare e della postura, è ancora inferiore poiché questi sono essenzialmente attività involontarie che comprendono una maggior proporzione di lavoro isometrico. Il lavoro isometrico è considerato di per sé, semplicemente termogenico. Le variazioni della quantità di SPA rappresentano essenzialmente l’autoregolazione del dispendio energetico. In questo contesto, un aumento della quantità di SPA come risposta alla sovralimentazione, o una diminuzione durante la malnutrizione, fa parte dei cambiamenti adattativi per la regolazione del peso corporeo.

L’attività fisica spontanea

dispendio energetico attività

La prova principale che dimostrava come la SPA fosse soggetta a variazioni fini alla regolazione del peso corporeo deriva agli 8 uomini e donne che parteciparono all’esperimento Biosfera 2. In questo esperimento fu visto come in seguito a carenza di cibo per un periodo di 2 anni accompagnò una perdita di peso (circa 15%) associata, però, a livelli marcatamente inferiore di SPA, che, così come l’EE giornaliera, persisteva anche diversi mesi dopo l’inizio del recupero del peso. Questa osservazione suggerisce un’importante implicazione di questi adattamenti metabolici nella genesi del recupero del peso post-dieta, con una ripartizione sproporzionata della massa grassa rispetto alla massa muscolare. C’è variabilità tra persona a persona per quanto riguarda la risposta della diminuzione di SPA e di come questa contribuisce alla predisposizione all’obesità o al recupero del peso.

Studi successivi hanno indicato che SPA è un tratto familiare e predittore di un successivo aumento di peso nel corso egli anni successivi. In realtà, una principale conclusione dei primi esperimenti di Miller et al. è che la resistenza all’obesità in alcuni individui non poteva essere rappresentata da un aumento del dispendio energetico a riposo (BMR o TEF), ed è stato postulato che risieda in un aumento del dispendio energetico associato a semplici attività di basso livello della vita di tutti i giorni. Questa nozione fu confermata e supportata da Levine et al. che suggerirono che l’aumento del dispendio energetico giornaliero in risposta alla sovralimentazione potrebbe essere attribuito dalle variazioni del NEAT. Quest’ultimo è il predittore più significativo di guadagno di grasso nei soggetti sovralimentati. Levine et al. attribuirono l’aumento del NEAT ad un aumento dei bassi livelli di SPA. Tuttavia si potrebbe anche attribuire questi aumenti di NEAT alla diminuzione dell’efficienza del lavoro muscolare, volontario o spontaneo.

Efficienza del lavoro muscolare

Già negli esperimenti di Leibel già citati, l’autoregolazione del peso corporeo per quanto riguarda l’aumento o la diminuzione del dispendio energetico nello stato di non-riposo non poteva essere spiegato dai cambiamenti nella quantità di tempo trascorsa in attività fisica. Invece, l’efficienza del lavoro muscolare durante attività a bassa intensità è risultata diminuita del 18% o aumentata del 25% durante un mantenimento del peso forzato del 10% al di sopra o al di sotto del solito peso corporeo. Questi cambiamenti in termini di efficienza del muscolo in seguito ad alterazione del peso corporeo potrebbe rappresentare circa 1/3 della variazione energetica giornaliera consumata nello stato di non-riposo (cioè, associato all’attività fisica).

La riduzione della termogenesi adattiva basata sulla riduzione dei costi energetici associati all’esercizio fisico, quando si riduce il peso corporeo, è coerente con le altre segnalazioni di un aumento dell’efficienza di lavoro del muscolo scheletrico dopo la riduzione della massa magra in soggetti obesi e, in generale, durante la sottoalimentazione.

La termogenesi adattiva

Bisogna tenere a mente una grandissima e importante verità: il bilancio energetico è estremamente dinamico e variabile e il nostro organismo attua una serie di meccanismi di adattamento alla perdita o all’aumento del peso che, spesso, portano a stimare in modo eccessivamente impreciso sia l’aumento che la diminuzione di grasso nel tempo e dell’assunzione energetica necessaria per la perdita di peso. I meccanismi di adattamento possono essere classificati essenzialmente in 2 macro-categorie:

  • adattamento compensatorio del metabolismo
  • adattamento compensatorio comportamentale

Per quanto riguarda gli adattamenti metabolici parliamo principalmente dei cambiamenti nel tasso metabolico a riposo, dell’equilibrio dei fluidi, dell’effetto termico del cibo e dell’attività fisica spontanea. Tutti questi fattori variano “automaticamente” con il fine di mantenere un certo livello di peso (e di grasso).

Per quanto riguarda i “cambiamenti comportamentali”, dobbiamo sapere che quando aumentiamo l’attività fisica o l’apporto energetico tentando di creare bilancio energetico negativo, avremo una risposta adattiva che consiste nella riduzione del dispendio energetico volontario. Analogamente quando siamo in ipocalorica e stiamo dimagrendo il senso di fame tenderà ad aumentare e sarà tanto più prepotente quanto più ci si avvicina o si scende al di sotto del set point. Il meccanismo dell’aumento della fame è da considerare un adattamento dell’organismo atto a indurre il soggetto a mangiare di più, assumere, di conseguenza, più calorie e stabilizzare il peso corporeo rendendo vani gli interventi dietetici o l’aumento dell’attività fisica (questo, ovviamente, quando il comportamento alimentare non è altamente controllato).

Diminuzione della termogenesi durante il deficit energetico indotto dall’assunzione alimentare o aumento della termogenesi in caso di iperalimentazione

spesa energetica digestione

Questi meccanismi prendono il nome di adattamento alla termogenesi: tenderemo ad abbassare il tasso di produzione di calore durante il deficit energetico (aumenteremo la nostra efficienza metabolica, ovvero la capacità di utilizzare i nutrienti provenienti dalla dieta riducendo la produzione di calore) e tenderemo ad aumentare il tasso di produzione di calore durante l’iperalimentazione (aumenteremo la nostra inefficienza metabolica, ovvero, la capacità di dissipare in calore l’eccesso di energia) in modo da salvaguardare il nostro peso corporeo e non ingrassare.

In realtà in passato c’era dibattito nello stabilire l’esistenza o meno di tale adattamento alla termogenesi; una volta accertata la sua esistenza, il dibattito si è spostato nel valutare quanta rilevanza o importanza (dal punto di vista quantitativo) abbia tutto ciò nell’omeostasi del peso corporeo e, quindi, quanto tutto ciò sia rilevante per quanto riguarda la patogenesi dell’obesità o la difficoltà nel mantenere il peso corporeo raggiunto in conseguenza di una dieta dimagrante (quindi ipocalorica).

A livello concettuale, la ricerca si divide sostanzialmente in 2 parti in quanto alcuni tendono addirittura a mettere in discussione il fatto che il peso corporeo sia una variabile regolamentata, altri, meno drastici, tendono a dire che il peso corporeo è, quanto meno, una variabile mal regolata visto l’aumento dell’obesità nel mondo. Ad ogni modo altri autori spingono nel considerare che il fatto che in un dato ambiente obesogenico esistono molti individui adulti nei quali il peso corporeo rimane relativamente stabile nel corso degli anni e decenni, apparentemente senza un controllo cosciente (la maggior parte delle persone, anche quelle magre e in forma, non seguono mica una dieta particolare o contano kcal e grammature per ogni cosa che mangiano), potrebbe invece suggerire che il peso corporeo è regolato ed è anche regolato con grande precisione, almeno in questi individui.

In realtà in ricerca non si può speculare in modo così grossolano: il mantenimento di un peso costante nel tempo non è per nulla una prova diretta del fatto che il peso sia regolamentato. Una caratteristica fondamentale di qualsiasi sistema regolamento è che, quando c’è un insulto all’equilibrio, all’omeostasi, quindi quando c’è qualsiasi fattore che determina uno squilibrio nel suddetto sistema, questo reagisce attuando risposte adattive compensatorie che tendono ad a “neutralizzare” la perturbazione ripristinando l’equilibrio. Quindi, per dimostrare che il peso corporeo sia regolato, bisognerebbe dimostrare che un soggetto, in seguito ad aumento del peso (per qualsiasi motivo che non sia, ovviamente, effetto di una patologia che esprime difetti del metabolismo), ritornerà nel tempo al peso corporeo normale originario.

In effetti le osservazioni sugli adulti che recuperano il loro peso corporeo dalla carenza di cibo durante la carestia del dopoguerra o in studi sperimentali, indicano che un ritorno al peso corporeo normale è raggiunto nel tempo. Allo stesso modo, l’eccesso di peso guadagnato durante l’eccesso di cibo sperimentale o durante la gravidanza è successivamente perso, e la maggior parte delle persone torna al peso corporeo originario. Appare evidente quindi che la regolamentazione del peso corporeo esiste, semplicemente si verifica in molti esseri umani con diversi livelli di accuratezza e variazioni sostanziali nelle modalità con cui questo sistema di regolazione opera. Queste sono le caratteristiche basilari alla base della regolazione del peso corporeo:

  1. le persone non bilanciano il loro apporto energetico e dispendio energetico in un giorno e giorno per giorno. In poche parole non è che l’eccesso energetico di un giorno viene compensato spontaneamente dal bilancio energetico negativo del giorno successivo;
  2. anche perturbazioni minime nel bilancio energetico possono portare a obesità: la costanza a lungo termine del peso corporeo, cioè il suo mantenimento nel giro di pochi kg nel corso di decenni, può essere raggiunto anche se l’incontro tra l’assunzione di energia e dispendio energetico è estremamente preciso in quanto un errore teorico di solo l’1% tra ingresso e uscita di energia, se persistente, porterà ad un guadagno o una perdita di circa 1 kg ogni anno. Tuttavia, una differenza del 5% tra l’assunzione di energia e il dispendio energetico è difficilmente misurabile con le tecniche oggi disponibili. Molti ricercatori, infatti, hanno calcolato la grandezza del ‘gap di energia’ necessaria per rendere progressivamente una popolazione in sovrappeso / obeso un certo numero di anni o decenni e questi calcoli dimostrano che un piccolissimo squilibrio ogni giorno (ad esempio 50-100 kcal), è più che sufficiente per raggiungere uno stato di obesità in qualche anno. Attenzione, ovviamente tutto ciò è puramente ed esclusivamente di  interesse accademico poiché il gap di energia non è mai costante nella vita reale sia come apporto energetico sia come EE; questi fluttuano  giorno per giorno. Per di più, quando consideriamo questi gap di energia, soprattutto per un prolungato periodo di tempo, trascuriamo qualsiasi adattamento correttivo sia metabolico che comportamentale (vedi l’aumento o la riduzione dell’EE dato dall’adattamento degli ormoni tiroidei oppure il NEAT che si riduce, anche involontariamente);
  3. il peso corporeo assolutamente non è quasi mai costante, piuttosto è soggetto a continue fluttuazioni: anche per quegli individui che mantengono un corpo magro apparentemente in maniera costante e stabile per decenni (cioè, un soggetto, a 20 anni pesava circa 70 kg e a 35 anni la sua massa corporea era più o meno la stessa, in realtà il peso corporeo è stato soggetto, nel corso delle settimane, dei mesi e degli anni, a fluttuazioni di peso. Il peso corporeo in realtà fisiologicamente tende ad oscillare attorno ad un valore medio costante. Queste oscillazioni sono dovute a fattori culturali e sociali (feste di fine settimana , periodi di vacanza, matrimoni ed abbuffate, ecc.), psicologici (stress, ansia o emozioni forti) e fisiopatologici (da perturbazioni di salute minori, ad esempio influenza a stati di malattia più gravi). Secondo Garrow le oscillazioni di peso nel breve-brevissimo periodo (all’interno dello stesso giorno e da un giorno all’altro) hanno una deviazione standard di circa 0,5% del peso corporeo, mentre le osservazioni per periodi compresi tra i 10 e i 30 anni indicano che gli individui hanno sperimentato variazioni del peso corporeo anche intorno al 20%. Comprendiamo bene quanto detto: un soggetto di 70 kg anche all’interno dello stesso giorno può pesare, in media, anche 400 grammi in meno o in più. La grande capacità di regolazione del peso corporeo può essere apprezzata dall’estrapolazione delle misure ottenute giorno per giorno del peso corporeo per anni in condizioni di vita libera in un giovane uomo in buona salute di normale indice di massa corporea (BMI). In poche parole, nonostante un soggetto sano con BMI normale mantiene grosso modo uguale (poniamo una tolleranza di circa 1-2 kg sia in meno che in più al valore “set”) il proprio peso corporeo anche a distanza di 4 anni, questo subisce fluttuazioni notevole, anche di 1-2 kg in meno o in più, continuamente a distanza di giorni, settimane, mesi, anni.

In poche parole, ciò che possiamo concludere, è che il meccanismo di regolazione del peso corporeo è scarsamente preciso a breve-brevissimo termine, quando esaminiamo il peso corporeo giorno per giorno o comunque a distanza di brevi periodi di tempo (anche settimane o mesi), ma il sistema è regolato molto finemente se esaminiamo la regolazione del peso corporeo a distanza di anni.

Da tempo è stato proposto che, nel complesso, il sistema di mantenimento dell’omeostasi per quanto riguarda il peso corporeo è costituito da un relativamente semplice meccanismo fisiologico di feedback negativo. Qualsiasi squilibrio tra la richiesta di energia e l’introduzione di questa, si tradurrebbe in un cambiamento di peso corporeo, che, a sua volta, altererebbe il fabbisogno energetico in una direzione o un’altra e andrebbe, quindi, a contrastare lo squilibrio originario. In poche parole, il sistema presenta un equilibrio assolutamente dinamico soggetto a stabilizzazione dal sistema stesso (self-stabilization).

Ad esempio, un aumento del peso corporeo comporterebbe un aumento del dispendio energetico sulla base del supplementare costo energetico per la sintesi e la manutenzione della nuova massa magra o grassa, oltre che per l’aumento del dispendio energetico dato dal fatto che il peso è aumentato (un corpo più pesante richiede più energia per essere mosso o spostato). Tutto ciò produrrebbe, di riflesso, un bilancio energetico negativo (a meno che non ci si adatta a mangiare più di prima) e quindi il risultato sarà un successivo declino del peso corporeo al suo valore originale o “set point”.  Analogamente, una riduzione del peso corporeo sarebbe automaticamente corretto poiché l’EE diminuirà per via della perdita di peso e tutto ciò produrrà un saldo positivo per quanto riguarda il bilancio energetico e quindi un successivo ritorno verso il peso corporeo originario.

In realtà, tuttavia, il sistema omeostatico è molto più complesso di questo semplice effetto dato dall’aumento o meno della massa corporea poiché l’efficienza del metabolismo (efficienza o inefficienza metabolica) è in grado di modificarsi in risposta proprio ai cambiamenti del peso corporeo. Come dimostrato negli esperimenti di Leibel et al. che studiavano proprio il cosiddetto fenomeno dello “stallo”, i soggetti che, dopo un periodo di sovralimentazione hanno mantenuto il loro peso corporeo ad un livello del 10% superiore rispetto al peso solito, hanno mostrato un aumento dell’EE giornaliero di circa il 15% al di là delle variazioni previste sulla base dei cambiamenti del peso corporeo e della composizione corporea. Al contrario, soggetti che dopo un periodo di ipocalorica hanno mantenuto il peso corporeo ad un livello del 10-20% al di sotto del peso originario, hanno mostrato una diminuzione dell’EE giornaliero del 15% circa al di là delle variazioni dovute alla perdita di peso. Queste variazioni dell’EE (che aumenta o diminuisce) riflettono proprio le variazioni dell’efficienza metabolica che si oppongono al mantenimento di un peso corporeo differente dal solito; l’entità di tali adeguamenti nell’EE è risultato essere simile sia nei soggetti obesi che nei non obesi e, sia negli uomini che nelle donne.

Un esame più attento dei dati ricavati da questi esperimenti, rivela che c’è, però, una grande variabilità inter-individuale nelle variazioni di peso corporeo e di EE, con alcuni individui che mostrano una minima se non nessuna evidenza di alterata efficienza metabolica, mentre altri hanno mostrato un marcato cambiamento dell’efficienza metabolica nella direzione che si oppone alla variazione di peso corporeo (se stiamo dimagrendo e quindi riduciamo il nostro peso corporeo, l’efficienza metabolica aumenta, per fare in modo di dissipare meno energia in calore e quindi sfruttare maggiormente la ridotta disponibilità di cibo, e viceversa).

In effetti, la caratteristica più evidente degli studi di sovralimentazione fatta sull’essere umano (questi studi sperimentali hanno una durata che va da poche settimane a qualche mese) è proprio la vasta gamma di variabilità tra i singoli individui per quanto riguarda quantità di aumento di peso per lo stesso eccesso energetico. In poche parole, si è notato che presi 100 soggetti, con lo stesso stimato eccesso di energia, l’aumento del peso corporeo era differente tra i soggetti. Ovviamente alcune di queste differenze nell’aumento di peso può essere attribuito alla variabilità interindividuale nel guadagno di massa magra o grasso (cioè, la variabilità per quanto riguarda il guadagno di massa magra o grassa), ma c’è anche la possibilità che parte di questa variabilità è causata dalla variabilità interindividuale nel convertire le calorie in eccesso in calorie, cioè nella “diet induced termogenesi” (DIT). Dall’analisi di una moltitudine di studi è stato stimato che almeno il 40% dei soggetti che sono stati iperalimentati sono andati incontro ad un aumento del DIT, sia pure in misura diversa. I geni (la genetica) giocano un ruolo importante nella variabilità di aumento del peso corporeo; molti studi sui gemelli, in particolare l’esperimento di sovralimentazione a lungo termine di Bouchard et al. hanno indicato che i fattori genetici sono coinvolti nel partizionamento tra massa magra e tessuto grasso e nella risposta dell’EE. Le differenze tra accumulo di massa magra e grassa (e quindi il partizionamento dell’aumento di peso, tra grasso e muscolo principalmente), così come le variazioni dell’efficienza metabolica, giocano, insieme al controllo del comportamento alimentare, un ruolo importante nella regolazione del peso e della composizione corporea, e che le grandezze di queste risposte, definite come adattamenti metabolici atti a limitare la perdita o l’aumento del peso, sono fortemente influenzati dalla genetica individuale.

L’articolo: Cercarre di aumentare il metabolismo è di Domenico Aversano e Daniele Esposito

Domenico Aversano
Domenico è un personal trainer certificato ISSA (CFT3), istruttore di Body Building certificato IFBB italia, studente di biologia generale ed applicata presso l’università degli studi di Napoli Federico II e grande appassionato di tutto ciò che concerne l’allenamento e l’alimentazione.
Contatto Fb : https://www.facebook.com/domenico.aversano.1
Pagina FB : https://www.facebook.com/SkepticalDragoon
Blog :  http://skepticaldragoon.it

Dr Daniele Esposito
Laureto in Scienze Motorie e Nutrizione, lavora come personal traine a Napoli e provincia.
Sulla sua pagina Facebook pubblica molti articoli ed interventi interessanti da seguire.

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Lat Machine avanti o dietro la testa?

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L’antagonismo tra Lat Machine avanti e dietro è un’altra delle lotte intestine al mondo palestra ed è un’altra di quelle questioni da risolvere una volta per tutte. Fare la Lat Machine dietro la testa fa male? Quali sono i reali benefici? Cosa preferire e in quale contesto? Ce ne occuperemo in questo video-articolo dedicato, sempre tramite l’aiuto dell’analisi del movimento e della scienza applicata all’allenamento.

Generalmente l’esecuzione della Lat Dietro la testa è un retaggio della old school del body building e molto spesso un’analisi concreta riguardo ai reali o presunti benefici che apporta rispetto alla cugina Lat Machine Avanti viene a mancare. Si eseguo un po’ perché lo si è visto fare da qualcuno più grosso in rete o in palestra, un po’ perché si è sempre fatto così e quindi sarà giusto così.

Nonostante ciò, in alcuni casi, qualche argomentazione è portata avanti. Tra queste possiamo ricordare:

La Lat dietro allena di più il trapezio e la parte centrale della schiena”. “La Lat dietro isola di più ed è indicata anche per il deltoide posteriore”.

Lat machine muscoli

Analizzando l’esecuzione di una Lat Machine dietro la testa possiamo subito rilevare che:

1. è l’inverso del Lento Dietro, al posto che spingere sopra la testa “si tira” dietro la testa (figura 1). Il movimento è eseguito lungo un piano frontale ed è una pura adduzione dell’omero. Adduttori dell’omero (gran dorsale, grande rotondo e gran pettorale) e adduttori delle scapole (romboidi e trapezio medio) si attivano insieme per eseguire l’esercizio;

Lat machine dietroFigura 1. La lat machine dietro la testa consiste in un’adduzione pura dell’omero sul piano frontale. Gran dorsale, grande rotondo e gran pettorale sono i muscoli interessati in tale moviment

2. la posizione finale con la sbarra dietro la testa necessita di un’extrarotazione completa di spalla. In caso di scarsa mobilità scapolo-omerale i compensi frequenti saranno quelli di abbassare il collo o “spingere” i gomiti indietro (figura 2).

Lat machine fa maleFigura 2. La flessione del tratto cervicale e la spinta indietro dei gomiti sono due dei principali compensi attuati in chi esegue la lat machine dietro la testa e ha una scarsa mobilità scapolo-omerale in extrarotazione.

Punto numero 1: fisiologia articolare applicata alla Lat Machine

Fatta questa premessa, possiamo ora iniziare a ragionare partendo dalla fisiologia articolare. Avete mai visto un essere umano o un primate arrampicarsi da qualche parte all’indietro? Sicuramente no. Basterebbe forse già questo per classificare l’esercizio come poco funzionale per quella che è la nostra struttura anatomica, come fanno in molti. Ricordatevi sempre che più si “forza” un movimento più si alza il rischio infortuni (questo non significa che sicuramente vi farete male perché tanti altri sono i fattori in gioco, ma che sicuramente avrete più probabilità di farlo). La mobilità di spalle richiesta dall’esecuzione dietro la testa inoltre non è da tutti, specie per soggetti allenati con intrarotatori molto corti (gran dorsale e gran pettorale su tutti): eseguirla con una scarsa mobilità aumenterà così le forzature (tanto è vero che partono dei grandi compensi) e i rischi conseguenti. La variante “avanti” supera sicuramente tutti questi scogli: è un movimento da sempre nel bagaglio motorio dell’homo sapiens sapiens (rimanda all’arrampicata) ed è eseguibile in sicurezza da tutti, anche da chi ha una ridotta mobilità in extrarotazione dell’omero.

Punto numero 2: Lat Machine avanti o dietro:  attivazione muscolare e letteratura scientifica

Arriviamo ai muscoli. Giacché andiamo in palestra per stimolare i muscoli a crescere e migliorare, quale delle due varianti apporta i benefici migliori in questo senso? Analizzando il movimento è facile rispondere che entrambe le esecuzioni vanno a colpire i medesimi muscoli con lievi differenze a seconda della larghezza della presa e dell’orientamento dell’avambraccio nella Lat Avanti (la Lat Dietro non ammette varianti ed è eseguibile solo a presa larga). La Lat dietro non ammette movimenti all’infuori della pura adduzione dell’omero, mentre la Lat Avanti in questo senso ha molta più libertà e può associare all’adduzione anche l’estensione o permettere addirittura un’estensione pura come nel caso della presa stretta. Le leggende sul maggior lavoro del deltoide posteriore e della parte centrale della schiena sono facilmente giustificabili. Come per il lento dietro, l’extrarotazione forzata porta in massimo accorciamento il deltoide posteriore (assieme agli altri extrarotatori) e il risultato è una fallace sensazione di lavoro muscolare data dal mantenere tale posizione per portare la sbarra al collo. Inoltre la stessa posizione, con l’omero che spesso si estende per compensare, necessita di un’adduzione maggiore delle scapole e i muscoli che se ne occupano si “sentono” maggiormente. Insomma non c’è trucco e non c’è inganno se si impara a ragionare e ad analizzare i movimenti.

Cerchiamo ora di confermare quanto appena detto attingendo dalle evidenze scientifiche. Uno studio di Sperandei del 2009 ha analizzato l’attivazione muscolare di gran dorsale, gran pettorale e deltoide posteriore nell’esecuzione della Lat Machine “avanti” e “dietro”. Questo studio non ha riportato significative differenze nell’attivazione del gran dorsale tra le due varianti mentre ha riportato un’attivazione maggiore del gran pettorale nella lat “avanti” e del deltoide posteriore nella lat “dietro”, confermando quanto detto sopra.

Conclusioni Lat Machine aventi o dietro

Alla luce di tutto ciò sembrerebbe poco sensato eseguire la Lat Machine dietro la testa: da un punto di vista articolare è una forzatura e lo diventa soprattutto in soggetti poco mobili, da un punto di vista muscolare non vi sono benefici maggiori da giustificarne l’esecuzione rispetto alla cugina Lat “avanti” (figura 3). Quest’ultima dunque è sempre da preferire: stimola il gran dorsale e i muscoli della schiena quanto la Lat dietro, ma lo fa in un contesto di maggiore sicurezza e funzionalità, condizioni favorevoli specie se abbiamo a che fare con soggetti sedentari, mediamente attivi o con alterazioni della fisiologica mobilità scapolo-omerale.

lat machine avanti preseFigura 3. L’esecuzione corretta dell’esercizio Lat Machine con sbarra portata davanti alla testa: è la variante senza dubbio più sicura ed efficace in ogni contesto.

Se il contesto nella quale ci troviamo invece è quello del body building agonistico, se lo si ritiene opportuno, la Lat dietro la testa (figura 4) può essere inserita per brevi periodi con lo scopo di variare gli stimoli e gli angoli di lavoro ma ciò deve essere sempre fatto con buon senso e meglio ancora dopo aver testato la mobilità scapolo-omerale soggettiva dell’atleta: solo in caso di buona mobilità e di un’esecuzione priva di compensi la Lat dietro potrà essere proposta in sicurezza, rimanendo in uno scenario dove il beneficio muscolare è sempre favorevole in rapporto al rischio articolare.

lat machine avanti o dietroFigura 4. A sinistra, esecuzione priva di compensi della Lat Machine dietro la testa. A destra, test per la valutazione della mobilità scapolo-omerale in extrarotazione: in caso di ridotta mobilità, come in figura,

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Sono meglio gli alimenti naturali o quelli processati?

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Noi consumatori spesso diffidiamo dall’acquistare prodotti eccessivamente lavorati o trasformati, preferendo per quanto possibile alimenti freschi e naturali: il nostro pregiudizio nasce in maniera del tutto casuale, ma trova in minima parte un suo fondamento logico. Ma attenzione, non tutto il male vien per nuocere!
Per capire perché nei supermercati si trovano così tanti alimenti processati, occorre fare un po’ di chiarezza sulla struttura del sistema agro-alimentare. L’iter “from farm to fork” (dalla fattoria alla tavola) di un alimento è riassumibile nel seguente schema:

meglio alimenti naturali o biologici

In questo sistema articolato che coinvolge più settori economici (e che da ora prenderà il nome di filiera), l’alimento attraversa stadi consequenziali in cui acquisiscono un ruolo fondamentale le cosiddette tecnologie alimentari. Riassumendo molto sinteticamente, succede questo: le materie prime ottenute in agricoltura (sia vegetali, sia animali) grazie ad input meccanici/tecnici (trattori, mietitrici, mungitrici automatiche, concime, mangime, per citarne alcuni..), vengono sottoposte a processi di trasformazione da parte dell’industria alimentare, che vende quelli che sono ormai prodotti finiti ai distributori, presso i quali si riforniscono i ristoratori e i consumatori.

carne processata

C’è da aggiungere un piccolo particolare in più, visibile a livello grafico, ovvero che le uniche materie prime che saltano tutte le fasi intermedie sono i prodotti ortofrutticoli, in quanto freschi e consumabili direttamente.

All’interno di questo quadro molto articolato, le tecnologie alimentari rivestono un ruolo fondamentale un po’ ovunque (ad eccezione del primo punto, in cui collaborano diverse figure professionali):

  • La produzione di ottime materie prime nel settore agricolo passa per la conoscenza di corrette pratiche zootecniche (industria lattiero-casearia, della carne e degli ovoprodotti) e colturali (tutte le materie prime vegetali).
  • La lavorazione delle materie prime a livello industriale viene effettuata per adattare il prodotto alle esigenze del consumatore e il rispetto delle condizioni di processo è estremamente importante.
  • Al momento della commercializzazione del prodotto nei punti di distribuzione, la situazione viene presa in mano dalla logistica: quest’ultima è un piccolo nemico per il prodotto. Rappresenta dapprima un costo eccessivo a livello italiano (vedere dati Istat confrontati con gli altri Paesi), cosa che fa lievitare il prezzo dei prodotti sugli scaffali del supermarket, e costituisce dunque un pericolo per il prodotto in quanto fase cruciale per la shelf-life del prodotto (la vita commerciale, o durabilità). Le tecnologie alimentari possono metterci una pezza progettando modalità di packaging il più funzionali ed efficienti possibile, nella peggior ottica previsionale (supponendo che il prodotto venga sottoposto a molteplici ed esagerati stress di diversa natura).
  • Il consumo è la fase finale, in cui è appunto coinvolto unicamente il consumatore. Siamo noi a decidere se conservare un alimento sulla credenza, nel frigo o nel freezer. Siamo noi a decidere cuocere un alimento a tot gradi in padella, al forno o al microonde. Siamo noi a decidere le combinazioni alimentari da consumare. Le tecnologie alimentari possono soltanto darci (talvolta) delle istruzioni sull’etichetta, ma nulla di più.

industria alimentare

Dopo questa doverosa rassegna, è utile venire al clou della faccenda: gli alimenti sono meglio naturali o processati? Nessuno dei due. Ci sono dei pro e dei contro da analizzare in entrambi i casi. Vi faccio un piccolo esempio: il bianco d’uovo tale quale fa più male che bene. Il 45% della sua componente proteica è formata da ovalbumina, una proteina appartenente alla famiglia delle serpine: le serpine sono proteine inibitrici delle proteasi a serina, ovvero gli enzimi in grado di digerire le proteine presenti nel nostro tratto digerente superiore (fino al duodeno). Si tratta di un meccanismo di difesa dei depositori di uova dai predatori: in sostanza, ci stiamo bevendo il nulla. Che sfiga, eh? Ma non finisce qui. L’albume crudo contiene avidina, una proteina dal valore antinutrizionale in grado di sequestrare la biotina, una vitamina a noi essenziale (come tutte le vitamine, del resto). Indovinate un po’ come si risolvono questi problemi? Con la più banale e antica tecnologia alimentare, ovvero un semplice riscaldamento (pasteurizzazione). Le due proteine “nemiche” vengono denaturate e disattivate, e possiamo tranquillamente godere degli amminoacidi ramificati che ci offre il nobile profilo proteico dell’albume d’uovo.

È vero che più il prodotto viene lavorato, più rischia di perdere componenti nutrizionali: infatti, per quanto sia possibile farlo, conviene rifornirsi presso fruttivendoli, macellai, casari, pastai. Ma prima di farlo, ponetevi comunque delle domande: questi addetti seguono alla lettera le buone pratiche di igiene e di produzione? Si tratta di persone affidabili? Non lo potete sapere. I prodotti presenti sul mercato rispondono invece teoricamente a degli standard legislativi di qualità, ma soprattutto di sicurezza! È questo che conta. Oltretutto, anche se aveste la sicurezza e il tempo di fare tutti i giri del mondo per prendere prodotti “naturali”, vi ritrovereste a vivere per mangiare, e non più a mangiare per vivere. Perché i prodotti naturali hanno una scadenza molto breve, e devono essere consumati quanto prima. Gli alimenti che offre la distribuzione cercano di andare incontro alle esigenze del consumatore, infatti sono spesso caratterizzati da una durabilità elevata.

alimenti naturali o processati

Come in ogni cosa nella vita, bisogna cercare il giusto compromesso e non farsi eccessive seghe mentali. L’industria alimentare non è un mostro che vuole venderci prodotti pessimi, anzi: punta tanto sulla fidelizzazione del cliente, appunto per continuare a guadagnare. E se succedono scandali sono cazzi, perché ne va dell’immagine del marchio. Bisogna semplicemente essere in grado di scremare, all’interno di un supermercato, alimenti processati bene e alimenti processati male. Per fare due ultimi esempi:

  • Un cioccolato fondente, una merendina e un barattolo di Nutella possiedono grossomodo lo stesso grado di processualità (numero di lavorazioni delle materie prime). Quale scegliereste tra le tre? Se dovessimo stare a guardare l’ottica del “meno lavorazioni ha, meglio è”, i tre prodotti sarebbero equivalenti. Invece sappiamo bene che, rispetto a quello degli altri due, il consumo controllato di cioccolato fondente qualche beneficio lo apporta (polifenoli e serotonina).
  • Una forma di Grana Padano e una forma di un qualsiasi formaggio duro stagionato hanno lo stesso livello di processualità. Quale è il migliore? In tutta probabilità il Grana. Da una parte abbiamo un formaggio le cui vacche che producono il latte utilizzato nella sua produzione provengono da una ristretta area geografica e il cui processo avviene secondo un preciso disciplinare di produzione da rispettare (dettato dal Consorzio Italiano del Grana). Dall’altra parte abbiamo un formaggio processato “meno bene”, con vacche di cui non si conoscono la provenienza, lo stato di salute e lo stato di allevamento e con un processo che non è obbligato a sottostare a protocolli nazionali.

Quindi, il concetto che dovete portarvi a casa è questo: fornitevi, nel limite del possibile e tenendo conto della variabile tempo, di prodotti naturali (da acquistare presso rivenditori di assoluta fiducia) che prediligete (hanno un costo non indifferente!), e fate spesa intelligentemente al supermercato, dedicando alla lettura delle etichette la giusta dose di tempo (ma non dovete starci una giornata, chiaramente).

Del Dott Cristian Rizzi
Nato a Giussano (MB) nel ’92, sono laureato in Scienze e Tecnologie Alimentari e studente magistrale dello stesso corso di laurea. Sono appassionato di biochimica, mi piace capire il funzionamento dei sistemi viventi, le loro azioni e le loro reazioni.

Riferimenti bibliografici:

[1] Oliviero N. & Russo V. (2013). Psicologia dei consumi – Capitolo 14: I consumi alimentari. pp 583-626.

[2] Messori F. & Ferretti F. (2010). Economia del mercato agro-alimentare – Capitolo 2: Il mercato e il sistema agro-alimentare. pp 11-44.

[3] INEA (2004). Il sistema ortofrutticolo italiano di fronte ai nuovi scenari competitivi – Capitolo 2: Il sistema delle imprese. pp 45-119.

[4] Heldmann D.R. (2006). Food technology – IFT and the Food Science Profession. p 11.

[5] FAO (2004). Good Agricultural Practices: a working concept – Background paper for the FAO Internal Workshop on Good Agricultural Practices.

[6] Regolamento CE 1169/2011 relativo all’etichettatura.

[7] Nelson D. & Cox M. (2014). I principi di biochimica di Lehninger – Capitolo 16: Il ciclo dell’acido citrico. p. 669.

[8] Norma ISO 9001:2015

[9] Kwok C. S. et al. (2015). Habitual chocolate consumption and risk of cardiovascular disease among healthy men and women. Heart. pp 1279–1287.

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Forza, controllo motorio ed implicazioni per l’ipertrofia

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forza controllo motorio ipertrofia

Del Dott Marco Testa

La correlazione tra forza e ipertrofia è un argomento molto dibattuto, e su di esso c’è spesso un confronto “feroce” tra sostenitori di teorie estreme ed opposte: chi si allenerebbe solo e soltanto con pesi elevati e basse ripetizioni (con protocolli che, nella percezione comune sono “da allenamento della forza”, anche se la forza non si allena solo così) e chi invece ritiene gli alti carichi assolutamente non indispensabili, vedendo come prioritaria invece la fantomatica “connessione mente-muscolo”.

Quest’ultima, però, spesso viene intesa in un modo errato e fuorviante.
Concentrati il più possibile sul muscolo target, sentilo, connetti la tua mente con il muscolo”, è quello che sostengono alcuni.

Addirittura sono stati fatti degli studi sulla questione, analizzati recentemente da Brad Schoenfeld ( Brad J. Schoenfeld. Attentional Focus for Maximizing Muscle Development: The Mind-Muscle Connection.  Strength and conditioning journal 38(1):1 · February 2016) che sembrerebbero dimostrare come concentrando la propria attenzione su un determinato muscolo, l’attivazione (misurata con l’emg, che già di per sé ha dei limiti nel misurare la vera e propria attivazione), l’attivazione di quest’ultima aumenterebbe.

Questi studi hanno però, a parer mio, un enorme limite: non misurano come il movimento cambia, in un caso (senza il focus sul muscolo) rispetto all’altro (con focus sul muscolo).

Se fossero stati confrontati gli angoli di movimento delle articolazioni interessate, le traiettorie del bilanciere, e tutti i vari aspetti del movimento, sono pronto a scommettere che si sarebbe riscontrato il fatto che non solo cambiava il segnale elettromiografico del muscolo interessato, ma che anche i movimenti stessi sarebbero risultati diversi.
Magari di poco, ma diversi.

traiettoria bilanciere

Quindi la domanda è: il muscolo si è attivato di più semplicemente perché ho messo focus su di esso, oppure si è attivato di più perché il movimento era diverso, e quindi abbiamo usato un angolo di lavoro che ha messo più in tensione quel muscolo?

Io qui proverò a dare una mia risposta, ma per poter fornire un’argomentazione sensata occorre fare qualche passo indietro e partire da più lontano.

Inizialmente occorre capire come il cervello esegue e controlla i movimenti del nostro corpo e poi, andando avanti nell’argomentare, come la capacità di esprimere forza sia legata a doppio filo proprio con questo controllo motorio.

Partiamo con una considerazione: quali sono gli aspetti che maggiormente influenzano la capacità di esprimere forza?

In ordine gerarchico direi:

  • capacità di reclutamento delle unità motorie,
  • coordinazione intramuscolare,
  • coordinazione intermuscolare
  •  sezione trasversa del muscolo.

I primi tre citati hanno attinenza più “neurale” e “neuromuscolare” che “muscolare” in se.
Quest’ultima affermazione ci mette già sulla strada giusta: la forza ha stretto legame con il sistema nervoso centrale, e con come esso gestisce il movimento.

Già, ma come viene appunto gestito il movimento?

Su questo argomento sono state elaborate varie teorie, che sostanzialmente concordano su alcuni punti:

  1. Ogni azione motoria parte da un input, che può essere interno o esterno (a proposito di input interno, anche un’idea è un input: “voglio sollevare quel bilanciere” è l’input che fa sì che parta l’azione del sollevarlo).
  2. C’è poi la fase di elaborazione dello stimolo a cui segue la programmazione della risposta e successivamente l’esecuzione di questa riposta, tramite l’esecuzione di un programma motorio, che porta all’output, che è il gesto vero e proprio.
  3. Durante l’esecuzione del gesto il cervello può poi elaborare in tempo reale i feedback che arrivano dai vari sistemi esterocettivi e propriocettivi e correggere il movimento stesso mentre viene eseguito, se ci troviamo in una condizione in cui il sistema di controllo “a circuito chiuso”, oppure il programma motorio una volta “lanciato” può seguire autonomamente il suo corso, se ci troviamo in una situazione di controllo “a circuito aperto”.

Questo ultimo argomento accennato necessiterebbe di una trattazione a parte e, non essendo indispensabile al fine di comprendere l’argomento di cui sto parlando qui, ne rimando la spiegazione approfondita ad un eventuale prossimo articolo.

Torniamo dunque a noi.

Ho accennato a un “programma motorio”, e su questo è necessario entrare nel dettaglio.
Il programma motorio, da definizione, è “una struttura astratta presente in memoria, che precede l’azione e contiene i patterns di contrazioni e decontrazioni muscolari che definiscono il movimento”.

controllo motorio

Può quindi essere considerato come una “rappresentazione astratta della sequenza di un’azione” e, secondo Schmidt, “contiene centralmente immagazzinato un set prestrutturato di comandi muscolari capaci di avviare il gesto determinando quali muscoli contrarre, in quale ordine, con quale forza, e per quanto tempo”.

In pratica, semplificando, tutti noi abbiamo memorizzato, a livello centrale, le sequenza degli impulsi che devono essere inviati per compiere un determinato movimento.

Quindi, secondo le teorie più accreditate, il cervello ragiona per movimenti, non per muscoli“.

Guardando la cosa da questo punto di vista, c’è qualcosa che stride nell’idea di “connessione mente-muscolo”.

Dunque cosa possiamo fare per far sì che un determinato movimento interessi maggiormente un muscolo specifico.

La risposta è assolutamente banale, ma penso che ripeterla non faccia male: semplicemente, analizzando la biomeccanica dell’articolazione interessata, capire in che modo il movimento può mettere maggior tensione su quel muscolo, e concentrarsi non sul muscolo stesso ma sull’eseguire il movimento esattamente in quel modo. Quindi, eseguire il movimento con la tecnica che meglio ci permette di avere tensione sul distretto muscolare target.

La “connessione mente-muscolo” è dunque più una connessione “mente-movimento” dove per movimento si intende il gesto che permette di mettere più tensione sul muscolo stesso.

Trattato questo punto, torniamo a uno degli argomenti citati nel titolo, la forza.

Ho detto sopra che la capacità di esprimere forza dipende, tra le altre cose, anche dalla coordinazione intra e intermuscolare.

Parlando di programma motorio ho usato frasi come “patterns di contrazioni e decontrazioni muscolari che definiscono il movimento”, o ancora “comandi muscolari capaci di avviare il gesto determinando quali muscoli contrarre, in quale ordine, con quale forza, e per quanto tempo”.

Non notate nessuna assonanza tra le frasi qui sopra riportate a la definizione di coordinazione intermuscolare?

Ebbene sì, c’è affinità tra la “precisione” di un programma motorio, e la capacità di esprimere forza in quel determinato movimento. Più sappiamo “applicare” quel determinato programma motorio, più efficienti saremo nel reclutamento delle unità motorio dei muscoli facenti parte della catena cinetica interessata da quel movimento.

Quindi più “controllo motorio” abbiamo, più recluteremo efficacemente (sia per quanto riguarda il numero di unità motorie che attiveremo, sia per il corretto timing della loro attivazione).
Abbiamo dunque stabilito la relazione tra controllo motorio e forza.

Ma tutto ciò cos’ha a che fare con l’ipertrofia?

Sappiamo che l’ipertrofia è un aumento delle dimensioni delle cellule muscolari. Possiamo distinguere un’ipertrofia sarcoplasmatica, caratterizzata da aumento delle componenti non contrattili della cellula, e un’ipertrofia miofibrillare, relativa appunto all’aumento delle mio fibrille.
In entrambi i casi, comunque, parliamo di fattori che modificano la cellula muscolare, la fibra.

ipertrofia sarcoplamatica

Abbiamo poi detto che avendo miglior controllo motorio, reclutiamo in maniera più efficace le unità motorie.
Come sappiamo, un’unità motoria è composta da un motoneurone e da tutte le fibre che esso innerva.

motoneurone

Quindi, unendo queste due informazioni, possiamo dire che “reclutare” un’unità motoria significa chiamare in causa le fibre muscolari che la compongono.

Bene, andiamo avanti. Sappiamo che l’ipertrofia è causata principalmente da tre fattori:

  • tensione meccanica,
  • stress metabolico,
  • danno muscolare.

Senza stare ad approfondire questi fattori (anche perché è già stato fatto altrove efficacemente su questo sito), sottolineiamo solo il fatto che una fibra va incontro ad ipertrofia solo se questi fattori sono applicati ad essa.

Quindi, se come detto prima, reclutare un’unità motoria significa chiamare in causa le fibre muscolari che la compongono, una fibra può andare incontro ad ipertrofia solo quando viene reclutata.

Quindi se una fibra non viene reclutata non viene allenata, e se non viene allenata non si può ipertrofizzare.

Da qui, dunque, con un passaggio logico arriviamo al ragionamento alla base di questo articolo:
miglior controllo motorio -> reclutamento più efficace di TUTTE le unità motorie -> possibilità di ipertrofia di TUTTE le fibre muscolari.

Se poi ci mettiamo anche in conto il fatto che le fibre maggiormente ipertrofizzabili solo quelle di tipo 2x, che sono quelle a più alta soglia di attivazione, quindi in un certo senso più “difficili” da reclutare efficacemente, capiamo ancor più l’importanza della cosa.

Ancora una piccola parentesi, e cito testualmente il libro “Essential of Strength Training and Conditioning” della NSCA: “A muscle does not requires as much neural activation to lift a give load after is size increased. (…) These result demontrate the importance of progressive overload during resistance training for allowing continual recruitment of an optimal amount of muscle tissue”. Questo è dimostrato da uno studio di Ploutz e colleghi del 1994 (Ploutz et al. Effect of resistance training on muscle use during exercise. J Appl Physiol 76: 1675-1681, 1994).

Sostanzialmente, un muscolo, una volta aumentato di volume (quindi dopo la sopraggiunta ipertrofia) avrà necessità di essere esposto ad un maggior carico rispetto a prima per poter reclutare lo stesso numero di unità motorie che reclutava prima di diventare ipertrofico.

Anche da qui, dunque, di evince l’importanza di cercare di aumentare la forza anche quando si lavora con l’ipertrofia come fine ultimo.

Per concludere, non voglio far passare il messaggio che ci si debba allenare come dei powerlifter, soltanto per la forza, se il vostro obiettivo è l’ipertrofia, ma voglio semplicemente fornire un diverso punto di vista sulla relazione tra controllo motorio (e di conseguenza forza) e riposta ipertrofica che è possibile ottenere, per far sì che ci si renda conto di come un determinato tipo di allenamento, votato al perfetto controllo del movimento, e dunque della tecnica, possa essere assolutamente produttivo nella ricerca della tanto agognata ipertrofia.

Note sull’autore.
Marco Testa, laureato in Scienze Motorie, è titolare del “Centro Chinesiologico Benessere in Movimento – Wellness e Performance Lab” a Savigliano (cn) e lavora con vivereinforma come personal trainer, docente e articolista.
Pagina facebook personale: https://www.facebook.com/MarcoTexWiller
Pagina facebook centro: https://www.facebook.com/benessereinmovimento/
Sito web: www.marcotestapt.it

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Distensioni manubri su panca piana: in intra o extrarotazione?

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L’allenamento del gran pettorale è da sempre argomento ricco, ricchissimo di confusione. Uno dei tanti dubbi che costellano gli esercizi rivolti alla stimolazione di questo agognato muscolo riguarda le Distensioni con manubri su panca piana. Non di rado, infatti, si assiste ad una totale discordanza per quanto concerne le diverse modalità esecutive che lo svincolo articolare garantito dai manubri permette. Nella fattispecie, durante la spinta degli stessi manubri, meglio intraruotare o extraruotare l’omero? Quali le reali differenze in termini teorici e pratici? Scopriamolo insieme in questo video-articolo.

Distensioni manubri prima variante: l’intrarotazione

La prima variante proponibile prevede l’intrarotazione dell’omero (figura 1). Questa modalità rispecchia fedelmente quelle che sono le funzioni anatomiche del pettorale, racchiudendo anche il movimento accessorio di intrarotazione all’interno dell’esercizio (attenzione a non confondere l’intrarotazione dell’omero con la pronazione dell’avambraccio: quello che è certo che i due movimenti si aiutano a vicenda durante l’esercizio, tuttavia è importante distinguerli per non prendere degli abbagli).

distensioni con manubri intrarotazione

Figura 1. Inizio e fine di una ripetizione di Distensioni su panca piana in assetto corretto con intrarotazione dell’omero finale.

Tale esecuzione segue il principio “massimo allungamento/massimo accorciamento”, con una partenza in posizione neutra e un arrivo in intrarotazione (come nell’atto di tirare un pugno), ragion per cui, in virtù del diagramma tensione/lunghezza, permetterà di esprimere meno forza con una con seguente riduzione dei carichi.Diagramma-forza-lunghezza-muscoloSe non avete complessi di inferiorità è un’esecuzione sicuramente sensata e consigliabile a patto che non si esageri con il movimento di intrarotazione onde evitare la perdita dell’assetto scapolare corretto e un aumentato rischio impingement. Sicuramente sconsigliata in soggetti con Hawkins e Yocum positivi (vedi il video), per i quali andrebbe comunque valutata anche la possibilità di sospendere del tutto tale categoria di esercizi.

Spinte Manubri seconda variante: l’extrarotazione

La seconda variante prevede l’extrarotazione dell’omero (figura 2). Questa modalità cozza un po’ con la naturalezza del gesto e l’anatomia, vista l’esecuzione di un movimento accessorio opposto a quello del pettorale. Tuttavia c’è da dire che l’extrarotazione dell’omero eseguita impedisce il raggiungimento del massimo accorciamento muscolare garantendo così un’espressione di forza maggiore (sempre secondo il diagramma tensione/lunghezza). È questo il motivo per cui in tale modalità generalmente si sollevano carichi superiori. In conclusione di questo punto ci tengo a precisare come le due varianti differiscono solo per il movimento accessorio del muscolo e non presentano (se eseguite entrambe in assetto scapolare corretto) particolari controindicazioni.

spinte con manubri extrarotazione

Figura 3. Inizio e fine di una ripetizione di Distensioni su panca piana in assetto corretto (inizio con omeri abdotti di 45-60°) con extrarotazione dell’omero finale.

Distensioni manubri su panca piana: conclusioni

Detto questo, al termine di questa breve disamina, è bene chiarire una cosa: ciò che conta, nella contesa tra le due opposte modalità esecutive, è il mantenimento dell’assetto scapolare, argomento già ampiamente dibattute nei precedenti articoli. Questo garantirà, oltre che un minor rischio infortunio alla spalla (specie con carichi elevati), anche una migliore performance del gran pettorale, muscolo target dell’esercizio. Come già detto, ribadisco che lo stimolo ipertrofico sarà adeguato in entrambe gli esercizi in presenza di condizioni esterne favorevoli quali, in primis, il carico.

Delle due modalità forse quella in intrarotazione (figura 1) favorisce maggiormente il mantenimento di questo assetto per una questione di inerzia del movimento: ciò non toglie comunque che anche in extrarotazione (e in assenza di rotazioni) possano essere rispettati i medesimi principi di fisiologia articolare così importanti per la salute delle spalle.

Assolutamente da abbandonare invece tutte le pseudo-teorie basate sulla sensazione e sul “sentito dire”. Molto spesso ho sentito parlare di “chiusura” del petto durante le spinte in extrarotazione, movimento che sembrerebbe stimolare la “parte centrale” del pettorale interno. Basta ripassare il decorso anatomico da origine a inserzione del gran pettorale per comprendere che una tale divisione del muscolo e un reclutamento a parti in quel senso non può esistere nell’essere umano.

Inoltre, molte persone si schierano in difesa dell’esecuzione in extrarotazione attribuendole sensazioni di lavoro muscolare maggiore. A tal proposito posso solo dire che rispetto chi si fa guidare esclusivamente dalla sensazione durante l’allenamento, giacché credo che quest’ultima sia un fattore importante. Tuttavia non credo che essa possa essere portata come argomentazione alla propria tesi, poiché come ce ne sono tanti che “sentono” un maggior lavoro in extrarotazione, ce ne saranno altrettanti che lo sentono in intrarotazione. Questione forse anche di abitudine e forma mentis. Meglio, a mio parere, un approccio più scientifico e razionale che non crei inutili slogan ma che analizzi la realtà in modo sensato come appena visto.

Per conoscere di più scopri PROJECT EXERCISE

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Crossfit ed alimentazione (Vademecum per il non agonista)

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crossfit ed alimentazione per dimagrire

Partiamo dall’assunto che Greg Glassman lanciò nel mondo del CrossFit agli albori: “Eat meat and vegetables, nuts and seeds, some fruit, little starch and no sugar. Keep intake to levels that will support exercise but not body fat.” (CrossFit Journal, September 2002, “The Garage Gym”).

Questo discorso è talmente disarmante, carico di generalità, banalità e noncuranza che ogni volta che lo rileggo mi si gela il sangue.
Speso i miei allievi si rivolgono a me chiedendo cosa mangiare prima di un WOD e, alcuni più interessati all’argomento: se la Zona, la Paleo dieta, la Paleo-Zona possono essere dei regimi adatti al CrossFit.
Io rispondo: ”Mmh, dipende” cit.

Berry Sears ai tempi ebbe la giusta intuizione sulla ripartizione dei macronutrienti, ma di certo non pensava inizialmente a rivolgersi ad un popolo di amatori o potenziali atleti.
Diciamo che la Zona può essere una guida iniziale ma ad ogni modo, la tecnica della “pesatura ad occhio” è del tutto fallimentare.

Articolo di Edoardo Tacconi

Alimentazione e Crossfit: La dieta Paleo.

crossfit dieta paleo

Bene o male il 90% dei veri appassionati o degli “infognati” del CrossFit ci hanno avuto a che fare.
Per farla breve il risultato era sempre diviso in tre fasi:

  1. Wow mi sento un mostro avendo eliminato tutti gli alimenti dell’uomo moderno. Adesso che possiedo tutti gli acidi grassi del mondo posso arrivare ai Games.
  2. Mmm, c’è qualcosa che non torna. Non spingo più come prima, non dimagrisco più e mi sento fiacco ed apatico.
  3. Ahhhh che me ne frega della Paleo! Da oggi pizza, lasagne e panzerotti tutti i giorni.

Fine dell’amore incondizionato tra l’uomo del 2000 e la Paleo.

Ci sono passato anche io dagli estremi. Una volta il mio precedente endocrinologo, da cui ero in cura per la tiroide, mi prescrisse insieme al suo assistente nutrizionista, una classica chetogenica (per di più Paleo) per scendere di peso ed era fermamente convinto che la mia performance sarebbe addirittura migliorata insieme alla mia composizione corporea. Facevo CrossFit da poco a quell’epoca, però potete immaginare l’inevitabile esito di due mesi di dieta chetogenica. Signori e signore mi dispiace dirvelo ma senza il carboidrato voi non farete proprio nessun Met-Con! O meglio, non spingerete mai come vorreste e dovreste.

Allora cosa dire all’allievo/cliente che si allena cinque giorni a settimana, facendo solo le classi, variando gli orari di allenamento?

  1. Fare un colazione bilanciata. Evitare prodotti dozzinali confezionati.
  2. Mangiare una fonte proteica a basso contenuto di grassi ad ogni pasto.
  3. Accompagnare i due pasti principali con verdure e almeno due porzioni di frutta al giorno.
  4. Non condire eccessivamente.

Se vabbè. Basta con queste raccomandazioni da rivista settimanale.

Andiamo più sullo specifico, perché il cliente se vuole veramente migliorare, si impegnerà a comprendere:

  1. Concentrare la quota dei glucidi tra il pre e post allenamento insieme ad una fonte proteica facilmente assimilabile.
  2. Minimizzare i lipidi alimentari nel pre e nel post workout se troppo a ridosso dell’allenamento.

Crossfit ed alimentazione: atto pratico Caso 1

 (WOD di mattina alle 7:00)
Il mio consiglio è quello di dormire e non di svegliarsi 3h prima per fare colazione e poi rimettersi a letto.
Abbiamo due soluzioni:

  1. Allenamento a digiuno
  2. Pre WOD liquido

Nel primo caso l’ultimo pasto importante sarà quello della sera. Probabilmente una delle scelte più applicabili a tutti potrebbe essere quella di dividere i pasti in questo modo:

alimentazione crossfit

La schematizzazione di questa giornata si può applicare anche nel secondo caso, dato che l’allenamento sarà sempre di prima mattina, concentreremo i carboidrati tra il PRE e POST e nell’ultimo pasto della sera prima di coricarsi.

Nel secondo caso ci faremo uno shaker Pre-WOD con un mix dei seguenti ingredienti:

crossfit alimentazioneLBM sta per Lean Body Mass (massa magra) e TBW sta per Target Body Weight (qualora aveste un obiettivo di peso da raggiungere).

Tenete presente che il rapporto ottimale per questi tipi di carboidrati in polvere e l’acqua è 1:1, quindi per 50 gr di Vitargo vanno bene 500 ml di acqua.
Sorseggiate il tutto nell’arco dei 30 minuti precedenti alla sessione. Dopo il riscaldamento e la tecnica potete consumare come fonte di Fruttosio- Glucosio, i classicissimi gel per i ciclisti, sono pratici e utili poco prima di iniziare (circa 10’ prima del WOD).

Per il post WOD valgono gli stessi principi del Pre WOD ma ricordate che il totale giornaliero sia di PRO che di CHO è più importante di quello relativo al PostWOD di una sessione, ad ogni modo ecco un po’ di numeri:

integrazione crossfit

Crossfit ed alimentazione: atto pratico Caso 2

(WOD dalle 9:00 del mattino alle 12:00)
Per coloro i quali invece si allenano solitamente dalle 9:00 in poi fino a ridosso del pranzo, possiamo allora parlare di un primo pasto solido ed eventualmente di uno spuntino pre-allenamento.
Qui il timing degli alimenti è importante non tanto per le finezze estetiche e di performance, ma per la corretta digestione. Avete mai provato a mangiare mezz’ora prima di una classe? Alzi la mano chi almeno una volta non ha rigettato tutto nel cestino!

pasti nel crossfit

Solitamente gli allievi che si allenano in questi orari lavorano a turni o part-time e spesso l’ultimo pasto del giorno precedente è a ridosso dell’orario in cui si coricano. Quindi se ci svegliamo ad un’ora accettabile possiamo consumare un primo pasto dalle 2:30 ore alle 2:00 ore prima del WOD.
In questo caso se non vogliamo prolungare i tempi di digestione potremmo effettuare una ripartizione Low Fat – High Carbohydrates – Medium Protein.
Ammettiamo che Marco (nome random), che lavora tutti i pomeriggi al centro commerciale dalle 15:00 alle 21:00, si alleni nella classe delle 9:00 di mattina e faccia colazione alle 7:00 in punto:

Quali cibi? I fiocchi di cereali integrali vanno bene, hanno un po’ di grassi ma nel giusto range; ottima la crema di riso; frutta; albume d’uovo; uova; yogurt greco (ci mette un po’ di più ad essere digerito); preparati con siero del latte o altre proteine vegetali.
Marco fa una colazione abbondante circa il 25% del totale calorico (2850 cal ca.), di solito lui partecipa alla classe “Advanced” del suo box dove fanno un lavoro di forza iniziale seguito da un lungo Met-con o una parte di accessori e un Met-con corto, quindi una sessione abbastanza sostenuta.

pasti crossfit

Il Post-WOD

A Marco piace che sia “tecnico” e allora lo accontentiamo:

  • 34 gr Whey idrolizzate (ho scelto un brand di cui non metterò il nome)
  • 3 bustine di miele da bar (18 gr)
  • 1 Banana grande (130 gr ca.) se è molto grande, ne tagliate un pezzo e ci fate cosa volete nel privato.

Alt! Attenzione: ci sarà qui qualcuno che storcerà il naso su tutto questo fruttosio, che poi vi assicuro che non è cosi tanto dato che il miele è per metà glucosio e fruttosio, la banana ha sia l’uno che l’altro, oltre che all’amido.
Il fruttosio ristabilisce le scorte epatiche molto più efficientemente del glucosio da solo, inoltre ingerendo più forme di carboidrati, dato che utilizzano differenti “transporter” vi assicurerete che sia gli organi glucosio-dipendenti, sia i vostri muscoli avranno ciò che gli spetta.

Nel resto della giornata Marco, ripartirà i macronutrienti rimanenti come meglio crede, tenendo conto del fatto che a lavoro, avrà soltanto tempo per uno yogurt greco da 170 gr e una manciata di noci (30 gr).
Pranzo e Cena quindi avranno quindi circa 55-60 % di carboidrati, 15-20% di lipidi e 25-30% di Proteine.
Laddove non ci sia una seconda sessione di allenamento, il timing dei nutrienti ai fini della performance, lo sappiamo, non ha una rilevanza così marcata. Ergo, possiamo stare tranquilli che al mattino seguente saremo di nuovo pronti per affrontare il WOD che ci aspetta, se abbiamo raggiunto la nostra quota di glucidi, lipidi e protidi nella giornata.

Crossfit ed alimentazione: atto pratico Caso 3.1

(WOD in pausa pranzo)
Ammettiamo che la mia sveglia sia alle 7:00, che alle 8:00 debba portare i bambini a scuola, alle 8:30 entrare a lavoro e abbia a disposizione un buco di due ore dalle 13:00 alle 15:00. Non voglio utilizzare integratori, quindi il mio pasto solido Pre-WOD sarà all’incirca 120-150 minuti prima della lezione. Anche il Post-WOD sarà un pranzo e non uno shaker.

post workout crossfit

Vi torna figlioli? Bene. Procediamo.

Crossfit ed alimentazione: atto pratico Caso 3.2

(WOD pomeridiani dalle 18:30 fino alle 20:30)
Stavolta senza bambini, magari un cane. In base al vostro orario di allenamento ricordate che è sempre meglio iniziare il WOD con la fame, piuttosto che con la digestione nello stomaco ancora in corso. Ad ogni modo il pasto più consistente lo lascerei alla sera. Spesso allenamenti ad alta intensità creano sensazioni di nausea e ritardano il senso della fame, per questo potete tranquillamente aspettare di esservi fatti la doccia, di prendere tutto il tempo necessario per tornare a casa e prepararvi la cena. Questo potrebbe essere uno schema applicabile appunto agli allenamenti svolti alla sera:

pre workout crossfit

Anche se grandi quantità di lipidi ingeriti insieme a grandi quantità di carboidrati sembrerebbero non ostacolare il ripristino di glicogeno sia nel fegato che nei muscoli, è preferibile agevolare la veicolazione con adeguate ripartizioni dei macronutrienti.

La ripartizione dei Macronutrienti nel Crossfit

macronutrienti crossfit

Finora abbiamo parlato in percentuali, ma adesso è il caso di calcolare proteine, carboidrati e grassi alimentari con dei coefficienti rilevati empiricamente e supportati da letteratura scientifica.
La tabella che vedete qui sopra rappresenta un mio umilissimo riassunto estrapolato dalle review di Eric Helms, Alan Aragon e Lyle McDonald per atleti (non necessariamente BodyBuilder), ma troverete queste linee guida anche sul Project Nutrition :
Stiamo parlando di CrossFitter non agonisti che praticano CrossFit 5-6 volte a settimana per circa 60 minuti di lavoro totale, ma effettivo intorno ai 40-20.

piramide alimentare A mio modesto parere, dato che nelle classi vengono effettuati prevalentemente lavori anaerobici alattacidi e lattacidi, diverrà importante ricreare una buona affinità con il glucosio e quindi concentrarsi nell’aumento dei glucidi a discapito dei lipidi, ovviamente non al di sotto del minimo richiesto per l’assorbimento di vitamine liposolubili. Potete anche optare per una ripartizione diversa nei giorni in cui non vi allenate, diminuendo i carboidrati e aumentando i grassi alimentari. Ad ogni modo l’intake lineare, per coloro i quali si allenano tutti i giorni e vogliono migliorare la performance, rimane l’opzione più efficace.

Attenzione, dovrete prima stimare il vostro dispendio calorico, ma le formule guida non basteranno, perché spesso ci si trova a che fare con persone che, avendo giocato con diete a ribasso, hanno demolito la loro capacità metabolica; altre invece che avranno un metabolismo inefficiente e si manterranno sopra il risultato delle stime effettuate tramite formule guida.
Vi invito comunque a scegliere un nutrizionista che conosca questa attività sportiva e che sappia quali substrati energetici vengono impiegati negli allenamenti, oltre a comprendere le vostre esigenze ed obiettivi.
L’ultimo consiglio che vi lascio è quello di scegliere i cibi secondo la vostra soggettiva tolleranza, digestione e gusto. Troppo spesso ci preoccupiamo di ripristinare le scorte di glicogeno più velocemente possibile, di dare la miglior proteina in polvere, il miglior supplemento in commercio, ma non ci interessiamo mai abbastanza della nostra salute intestinale. Sicuramente non come dovremmo.

NOTE SULL’AUTORE
Long story short di Edoardo Tacconi:
Chi sono io?
Nessun background sportivo degno di nota, musicista fin dalla tenera età, prima pianista poi batterista professionista dai 18 ai 23 anni. Mi sono avvicinato al CrossFit nel maggio 2013 e dopo 3 anni circa ho fatto divenire questa passione il mio lavoro, gareggiando all’interno del circuito internazionale come atleta Rx.
Sono laureando in giurisprudenza, dal 2013 lavoro come Tributarista in uno studio di commercialisti e da gennaio 2015 come Head Coach a CrossFit Prato.
Ma la passione per la nutrizione applicata agli sport ha preso il sopravvento sugli studi giuridici e adesso attendo di terminare la prima laurea, tempo permettendo, per poter poi prenderne una seconda in qualcosa che più si confà alle mie inclinazioni.
Nel contempo leggo, approfondisco e sperimento.
Contatti:
Facebook: https://www.facebook.com/theexplorertrainingandnutrition
Instagram: explorertrainingandnutrition

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Quante uova a settimana? Ed altri dubbi sul colesterolo

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Quante volte avete sentito, vostra madre, moglie/marito, fidanzata/o dirvi che mangiate troppe uova? Esiste una soglia massima, oltre cui le uova fanno male?
Purtroppo alla domanda: quante uova si possono mangiare a settimana? Non esiste una risposta univoca, cerchiamo di capire perché.

Uova e colesterolo

I nostri valori di colesterolo sono influenzati da:

  • fattori esogeni (quello che mangiamo), in un’alimentazione bilanciata corrispondono a 200-300mg al giorno;
  • fattori endogeni (ovvero il colesterolo che ci autoproduciamo), che corrisponde a 600-1000mg/die .

I due si influenzano a vicenda, più colesterolo mangiamo e meno ne produciamo e viceversa. In questo modo il corpo riesce a mantenere stabili i livelli. Un’ulteriore barriera è dato dall’assorbimento intestinale. Mediamente l’enterocita (la cellula dell’instestino) riesce ad assorbire il 50% del colesterolo introdotto, ma più questo aumenta e più si abbassa la sua capacità di captazione, fino a saturarsi.

L’influenza così esogena dell’alimentazione mediamente influenza soltanto un 20-30% i nostri valori.
Un uovo ha mediamente 200mg (la dose giornaliera raccomandata).

Ci sono tuttavia due categorie d’alimenti che stimolano la produzione endogena di colesterolo:

  • i grassi saturi
  • gli zuccheri

I primi in realtà vanno suddivisi a seconda della loro catena di carbonio.  L’uovo ha già di suo “pochi” grassi saturi avendo su 100g:

grassi monoinsaturi 3,6g
grassi polinsaturi 1,9g
grassi saturi 3,1g

Ma la sua composizione di grassi saturi non ha influenza sulla produzione del colesterolo avendo poco acido laurico (C:12) ed acido miristico (C:14).

colesterolo grassi uova

Un altro fattore importante della produzione del colesterolo endogeno è l’introduzione con l’alimentazione di molti zuccheri. La loro introduzione stimola l’insulina attivando l’enzima acetil-coA carbossilasi, responsabile della creazione di nuovo colesterolo. Questo spiega perché diete chetogeniche o la dieta metabolica possono abbassare i valori di colesterolo, pur introducendone molto con l’alimentazione. Va tuttavia ricordato che anche le proteine stimolano l’insulina (vedi aminoacidi insulinogenici). Un eccesso energetico in presenza di un’elevata quantità proteica stimola sempre l’enzima acetil-coA carbossilasi.

Quindi le uova fanno male?

le uova fanno male

La risposta è NO, in generale non dobbiamo preoccuparci di quante uova mangiamo alla settimana. Tuttavia dobbiamo fare attenzione a due fattori che potrebbero incidere negativamente sulla nostra salute:

  • cottura delle uova
  • colesterolemia familiare

La cottura nelle uova è importante. L’albume contiene l’avidina, una glicoproteina che chela la biotina e che causa carenza di questa vitamina. Bere le uova crude e l’albume pastorizzato, quotidianamente, non è un buona idea. Va cotto!
Al contrario il tuorlo contiene la lecitina che rende il colesterolo nell’uovo poco biodisponibile. La cottura, tuttavia, disattiva l’azione della lecitina, ma se avviene a temperature troppo elevate produce solfuro di ferro (quando cuocete troppo le uova sode ed il tuorlo diventa verdastro), una sostanza potenzialmente tossica per il nostro organismo.

Le uova così andrebbero sempre cotte alla coque o all’occhio di bue.

Altro fattore importante riguarda chi soffre di colesterolemia familiare. Esistono diverse colesterolemie familiare, ma mediamente chi le possiede non è in grado di regolare la propria produzione endogena in base a quella esogena. Questo vuol dire che il corpo continua a produrre colesterolo anche se noi lo introduciamo in abbondanza. Queste persone, devono così limitare l’assunzione di uova, di zuccheri, di grassi saturi e di tutti gli alimenti che contengono colesterolo.

Quante uova a settimana si possono mangiare?

Quante uova a settimana si possono mangiare

Dipende non esiste una risposta assoluta. Conviene partire dai propri esami ematici. Controllare il valore del colesterolo delle proteine di trasporto HDL/LDL e su quello regolarsi con la propria alimentazione. Mangiate 20 uova alla settimana ed i valori sono perfetti? Controllatevi con regolarità ma potete stare tranquilli. Se invece i parametri sono sballati è sicuramente bene provare a ridurle per poi verificare se ci sono stati cambiamenti.

I parametri di riferimento sono: valori colesteroloQuesti valori sono indicativi ed andrebbero confrontati con il medico di fiducia e con gli aggiornamenti della comunità scientifica.

Per concludere, la domanda: quante uova a settimana? rimarrà sempre senza risposta se non faremo lo sforzo di prendere dei dati per verificare quello che succede su di noi.

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Esercizi bicipiti: come cambia l’attivazione muscolare

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Vi siete mai chiesti che cosa cambia tra fare un Curl in piedi, alla panca Scott o su panca inclinata? Questo articolo ha come obiettivo quello di analizzare, spiegare e interpretare le differenze che intercorrono tra i vari esercizi per bicipiti e dare indicazione pratiche riguardo all’attivazione muscolare consultando anche la letteratura scientifica.

Iniziamo ricordando che il bicipite brachiale è un muscolo biarticolare che, in virtù di un’origine a livello scapolare con entrambi i capi e di un’inserzione comune a livello dell’avambraccio, possiede un potere cinetico sia a livello del gomito sia a livello della spalla (per approfondimenti vedi articolo sui muscoli biarticolari).

bicipite brachiale

In particolare, se è ben conosciuta la sua funzione di flessore di gomito, lo è un po’ meno quella di flessore di spalla con entrambi i suoi ventri muscolari. Tuttavia, tale nozione risulta imprescindibile, giacché, a livello pratico, possiamo giocare sul posizionamento della spalla durante un Curl (l’esercizio principe per la stimolazione di questo muscolo come flessore di gomito) per variare l’attivazione muscolare e cambiare lo stimolo allenante.
Nello specifico, le tre modalità d’esercizi per bicipiti a nostra disposizione saranno:

  1. Curl con spalla estesa;
  2. Curl con spalla flessa;
  3. Curl con spalla in posizione anatomica.

La modalità numero 1 è riprodotta dal Curl su panca inclinata (figura 1).

esercizi bicipiti curl inclinata

Con la spalla estesa il bicipite parte in completo allungamento (ricordate sempre che il bicipite è un flessore di spalla). Spalla estesa, gomito esteso, avambraccio pronato, è la combinazione di movimenti che caratterizza l’inizio di una ripetizione di un Curl su panca inclinata e anche quella che mette più in allungamento il bicipite. Sempre secondo il diagramma tensione/lunghezza, un eccessivo allungamento di un muscolo determina una riduzione dell’espressione di forza dello stesso e infatti l’esperienza ci insegna che in questa modalità si carica molto molto di meno.

diagramma tensione lunghezza muscolare

Discorso analogo ma opposto è possibile farlo per quanto riguarda la modalità numero 2 riprodotta da esercizi come la Scott o il Preacher Curl (figura 2). Questi due esercizi per loro natura mantengono la spalla in flessione mentre si esegue il Curl. Flettere e supinare il gomito con spalla flessa comporta il raggiungimento di un massimo accorciamento che, sempre secondo il diagramma tensione/lunghezza, è l’altra situazione nella quale il muscolo riesce a esprimere meno forza.

esercizi bicipiti curl concentrico

Avrete già intuito che invece nella modalità numero 3 (il Curl classico con manubrio, cavo o bilanciere eseguito in piedi con il braccio lungo il fianco) il bicipite si contrae a una lunghezza iniziale più funzionale all’espressione di forza, tant’è che in tale modalità si solleva generalmente di più.

curl con manubri

La soluzione all’enigma è quindi molto semplice: la differenza tra i tre tipi di Curl sta nel posizionamento della spalla e nella conseguente capacità del bicipite di esprimere forza, capacità che verrà influenzata in negativo da un eccessivo allungamento o da un eccessivo accorciamento iniziale (Curl su panca inclinata o Preacher Curl).

Esercizi bicipiti ed attivazione muscolare: studi scientifici e riflessioni pratiche

Approfondita e chiarita la questione sulla differenza concreta tra i diversi tipi di Curl proposti, vediamo ora di dare indicazioni per quanto concerne le differenze di attivazione del muscolo target tra le tre varianti.
Per fare ciò possiamo affidarci a due strumenti:

  1. dare un’interpretazione della fisiologia;
  2. affidarci alla presenza di studi scientifici validati che abbiano misurato con elettromiografo l’attivazione del bicipite durante un Curl con diverse posizioni della spalla.

Partiamo dalla fisiologia. Secondo il diagramma tensione/lunghezza un muscolo troppo lungo o troppo corto fatica a esprimere forza in maniera efficace (vedi articolo dedicato). L’espressione di forza sarà invece facilitata qualora lo stesso muscolo si trovi in partenza a una lunghezza ottimale. Alla luce di ciò le considerazioni che possono essere fatte a riguardo del Curl per i bicipiti sono:
il Curl a spalla flessa (Scott o Preacher Curl) porta il bicipite in accorciamento massimo e ciò potrebbe sfavorirlo nella sua funzione di flessore di gomito mano a mano che ci si avvicina alla massima flessione. Potrebbe essere in questo caso il muscolo brachiale (monoarticolare), posto subito sotto il bicipite, a divenire protagonista del Curl;
il Curl a spalla estesa (Curl panca inclinata) fa partire il bicipite in allungamento più o meno marcato a seconda dell’inclinazione della panca (meno la panca è inclinata, più il bicipite si ritrova allungato). Sicuramente un pre-stiramento non eccessivo aiuta la contrazione, la quale diverrà più importante all’aumentare della flessione del gomito e al ritorno graduale verso una lunghezza ottimale per esprimere forza;
il Curl in piedi è sicuramente un esercizio che impegna in maniera efficace e importante il bicipite come flessore di gomito, vista la partenza del ventre muscolare a una lunghezza ottimale (spalla in posizione anatomica).

Arrivando alla letteratura scientifica, cito qui ora uno studio del 2009 di Oliveira che ha provato a quantificare l’attivazione muscolare del bicipite nelle tre modalità di Curl analizzate ottenendo risultati che confermano le riflessioni sopra riportate.

studi scientifici curl bicipiti

È stata riscontrata un’attivazione muscolare maggiore del bicipite nel Curl su panca inclinata e nei Curl classici in piedi, sia in fase eccentrica sia concentrica, con differenze non rilevanti tra i due. Al contrario, nell’esecuzione a spalla flessa con Preacher Curl, il bicipite ha mostrato un’attivazione massima solo nei primi gradi di flessione, confermando che, all’avvicinarsi del massimo accorciamento, questo perde forza ed efficacia di contrazione a favore di altri flessori puri di gomito come il brachiale (Oliveira et al, 2009).

muscolo brachiale

A tal proposito, uno studio di Moon del 2013 ha voluto approfondire quale fosse il grado di flessione ideale della spalla da tenere durante il Preacher Curl per massimizzare l’intervento del bicipite rispetto agli altri flessori. L’autore è arrivato a concludere che fare il Preacher Curl con la spalla flessa a 75° è la soluzione migliore in questo senso (Moon et al, 2013). Figura 5.

attivazione bicipite curl inclinata
Fisiologia ed evidenze scientifiche sembrano a oggi concordi nel giudicare panca Scott, Preacher Curl e in generale la flessione del gomito a spalla flessa come meno efficaci nel generare un’attivazione massimale del bicipite per tutto il ROM dell’esercizio. Curl con panca inclinata e Curl standard appaiono maggiormente affidabili in questo senso. È tuttavia bene ricordare che un’attivazione muscolare maggiore non si traduce necessariamente in un’ipertrofia muscolare maggiore a lungo termine. Per quella sono necessari innumerevoli altri fattori.

Per saperne di più scopri Project Exercise

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Microbioma umano: cos’è e perché è così importante per la salute

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microbioma obesità

Ognuno di voi avrà sentito nominare, almeno una volta, qualcosa come microbioma, flora intestinale, probiotici o prebiotici. Perché?
Perché negli ultimi anni la ricerca scientifica sta dedicando particolare attenzione a questi microrganismi, che colonizzano il nostro corpo dalla nascita e ci accompagnano per il resto della nostra vita.

Vediamo di dare, innanzitutto, una definizione di microbioma umano: […]con questo termine viene definito l’insieme dei microrganismi che in maniera fisiologica, o talvolta patologica, vivono in simbiosi con il corpo umano e di tutti i geni che essi sono in grado di esprimere.[…]
Esatto, stiamo parlando essenzialmente di microbi. Qualcuno starà storcendo il naso, poiché siamo abituati ad associare automaticamente la parola microbo a qualcosa di negativo e dannoso per la nostra salute. Da qui nasce la sempre più diffusa abitudine di far ricorso, al primo sintomo, ad antibiotici, o alle eccessive pratiche igieniche che ci portano a disinfettare ogni angolo della casa.
È evidente che si ignorano le conseguenze di pratiche simili, soprattutto se accostate ad errate abitudini nella dieta e più genericamente ad uno stile di vita poco salutare.
Non dobbiamo pensare al nostro corpo come un organismo a se stante, immaginiamolo piuttosto come un super-organismo, complesso, che funziona in modo ottimale quando si instaura un perfetto equilibrio tra i geni umani e i geni dei batteri che lo colonizzano. Dobbiamo sapere, tra l’altro, che nel nostro corpo approssimativamente il 99% del corredo genetico è di origine batterica.
Appurato questo, molti di voi avranno già dedotto ciò che sto per dire: quando parte di questi microrganismi viene distrutta, si alterano gli equilibri del super-organismo e queste alterazioni possono permanere per mesi, se non anni, con tutte le conseguenze del caso.

Microbioma umano, obesità ed umore

Negli ultimi anni sono state condotte diverse ricerche e le scoperte emerse fin ora sono a dir poco sensazionali. Ad esempio oggi sappiamo che i batteri della flora intestinale forniscono geni fondamentali per la produzione di numerosi enzimi coinvolti nell’assimilazione dei nutrienti. Detto in parole semplici, si è visto che sono questi enzimi forniti dai batteri a determinare quante delle calorie introdotte con la dieta saranno assimilate e quante saranno eliminate con le feci. Tra l’altro, alcuni studi condotti sui topi, hanno evidenziato una forte correlazione tra la dieta seguita da un soggetto e la flora batterica presente nel suo intestino. Nei soggetti obesi si è osservata infatti la proliferazione di una tipologia di batteri, noti come Firmicuti, che aumentano notevolmente l’assorbimento intestinale di nutrienti diminuendo drasticamente le calorie espulse con le feci.
Viene da sé che spesso e volentieri, nel trattamento dell’obesità, non bisognerebbe limitarsi a diminuire l’introito calorico (mangiare meno), ma bisognerebbe al contempo modificare il microbioma del soggetto cercando di favorire l’instaurarsi di una popolazione di microbi in grado di accumulare un quantitativo minore delle calorie introdotte con la dieta.

Uno studio condotto in America ha dimostrato che trapiantando la flora batterica di un umano obeso in topi da laboratorio, questi hanno visto aumentare gradualmente il loro peso corporeo fino a diventare, come l’umano donatore, ovvero obesi.
Lo stesso esperimento è stato condotto per verificare le interazioni microbioma-umore. In questo caso è stata trapiantata, in topi normali, la flora intestinale di topi sottoposti a stress. Il risultato? Anche i topi normali hanno mostrato segni di ansia.
Alla luce di questi risultati sono in corso numerosi studi che hanno l’obbiettivo di capire e stabilire con precisione quale tipo di correlazione possa esserci tra un’alterazione qualitativa del microbioma e numerose patologie.

Flora intestinale i fattori che la influenzano

flora intestinale effetti

Dunque, arrivati a questo punto dovrebbe essere chiara l’importanza del nostro microbioma e quanto possa essere dannosa una sua alterazione qualitativa. Quindi, come dobbiamo comportarci? Quali fattori contribuiscono a modificare (in meglio o in peggio) la flora intestinale?
Bene, i fattori sono numerosi. Tutto inizia dal parto. Il neonato è fondamentalmente privo di questi microbi, e la nascita rappresenta il primo contatto con questa enorme varietà di microrganismi. Ed è proprio il tipo di parto a determinare la qualità dei microbi che si instaureranno nel bambino. E’ stato dimostrato a tal proposito che nel caso di un parto tradizionale i primi batteri con cui il neonato entrerà in contatto saranno quelli facenti parte della flora batterica genitale della madre; al contrario in un parto cesareo la prima flora batterica con cui entrerà in contatto sarà quella della cute della madre. E quindi cosa cambia? Cambia molto, perché si è visto che quando il bambino nasce con parto tradizionale viene a contatto con microbi che gli forniscono da subito la capacità di metabolizzare il latta materno, nonché di avere difese immunitarie adeguate. Al contrario, un bambino nato tramite parto cesareo, avrà buone probabilità di presentare problemi digestivi e scarso sviluppo delle difese immunitarie. Leggete bene, ho detto probabilità, non certezza.
Tuttavia, per far fronte a questo problema, sembra essere sufficiente impregnare una garza nelle secrezioni vaginali della madre e successivamente tamponare la cute del bambino (naso, labbra ecc).
Successivamente, per circa due/tre anni, il microbioma del bambino subirà cambiamenti ed evoluzioni in relazione al tipo di ambiente e ai contatti che avrà con piante, animali, persone, alimenti e così via, insomma con tutto ciò che lo circonderà. Tanto più l’ambiente in cui crescerà sarà variegato, tanto più si svilupperà una flora intestinale adeguata. Ma l’ambiente non è il solo fattore determinante: tra le principali cause di regressione e quindi peggioramento del microbioma troviamo infatti una classe di medicinali di uso comune: gli antibiotici. Ogni qualvolta si somministra un antibiotico (questo vale anche per gli adulti, ma ancor di più per i bambini) la flora batterica umana regredisce, e considerando che questa prima fase di sviluppo del microbioma (i primi due-tre anni) getterà le basi per la salute del futuro individuo adulto, capiamo bene quanto l’utilizzo di questi farmaci sia sconsigliato.
Analizziamo ora un altro fattore in grado di modificare profondamente il tipo di microrganismi colonizzanti il nostro intestino: il cibo. Potremmo metterlo in cima alla lista, poiché escludendo protocolli di digiuno estremi, ogni giorno veniamo a contatto con il cibo – mangiando – e quindi, ogni giorno, abbiamo la possibilità di modificare il nostro microbioma (nel bene o nel male).
Prima di parlare nello specifico della dieta, è bene sapere che attualmente esiste una classificazione in enterotipi a seconda delle famiglie batteriche predominanti nel nostro intestino: Tipo BatteroidePrevotellaRuminococco.
Ma torniamo a noi: i due fattori principali che influiscono sulla composizione batterica sono la presenza – o assenza – di fibre alimentari e la presenza – o assenza – di latticini e carne. E’ infatti emerso che una dieta ricca di fibre alimentari, e con prevalenza di grassi vegetali rispetto a quelli animali, promuove lo sviluppo di una flora Tipo Prevotella (caratteristica delle popolazioni africane); al contrario una dieta povera di fibre e ricca di latticini-carne porta allo sviluppo di una flora Tipo Batteroide (caratteristica delle popolazioni dei paesi industrializzati).
Non è un caso che nei paesi industrializzati – dove mediamente si consumano pochi grassi vegetali e poca fibra alimentare, con abuso di latticini-carne e antibiotici – in tempi relativamente recenti, abbiano fatto la loro comparsa le cosiddette malattie del progresso, assenti nei paesi meno sviluppati. E’ evidente la correlazione con le modificazioni (negative) del microbioma umano.

Microbiota: cosa mangiare?

microbiota umano

Ma accantoniamo per un attimo la teoria e, alla luce di queste evidenze, parliamo di pratica: cosa mangiare? Innanzitutto una regola fondamentale è la varietà. Fate in modo che la vostra dieta sia variegata, non fossilizzatevi su tre alimenti da mangiare ciclicamente ogni santo giorno. Quindi stabilite le fondamenta – ossia la variabilità – all’atto pratico:

  1. cibi da prediligere: legumi (ceci, fagioli, lenticchie), cereali integrali (avena, quinoa, amaranto, farro, miglio, orzo ecc), frutta (kiwi, mele, prugne, fichi ecc), frutta secca (mandorle, nocciole, noci ecc), verdure (con particolare riguardo ad asparagi, carote, aglio, porri, cipolle, pomodori, piselli, cavolini di Bruxelles, barbabietole, finocchi, carciofi) e probiotici (tè kombucha, kefir di latte o di acqua).
  2. cibi da evitare o limitare fortemente: carne cotta, farine raffinate, zucchero, grassi animali, additivi, conservanti, dolcificanti artificiali.

Una nota per quanto riguarda la carne e gli zuccheri e grassi. Ultimamente si sta scoprendo che i problemi relativi alla relazione tra carne e microbiota umano sono dati più dalla cottura che dall’alimento in sé. Lo stesso tipo di carne se cruda, poco cotta o ben cotta, porta ad alterare, in modo diverso, il microbioma umano.

Altri studi mettono in correlazione l’eccessivo consumo di zuccheri e grassi ad una diminuzione delle capacità cognitive. Topi da laboratorio hanno consumato diete differenti e sono poi stati sottoposti a test (ad esempio labirinti). Dopo quattro settimane di dieta ad alto contenuto di grassi o di zuccheri si è notata una diminuzione della flessibilità cognitiva dei topi analizzati rispetto ai gruppi di controllo con dieta normale. Kathy Magnusson, Professore dell’OSU College of Veterinary Medicine e ricercatore presso il Linus Pauling Institute, ha detto : “è sempre più chiaro che i nostri batteri intestinali, o microbioma, siano in grado di comunicare con il cervello”. I risultati di questo studio sono stati pubblicati sulla rivista “Neuroscience” in un lavoro supportato dalla “Microbiology Foundation” e “National Science Foundation”.
Chiudiamo questa piccola parentesi e torniamo a noi, perché voglio parlarvi – sperando non stiate sbadigliando – di alcuni disturbi/patologie legati ad alterazioni del microbioma.

Disbiosi & sistema immunitario

Probabilmente saprete, a grandi linee, cosa sia il sistema immunitario. Tuttavia non è questa la sede dove approfondire l’argomento. Ciò di cui voglio parlare è la cooperazione che avviene tra la flora intestinale ed il sistema immunitario: i microbi – quelli buoni – presenti nel nostro organismo, riescono a vivere e proliferare dentro di noi perché il nostro organismo li identifica come organismi innocui, a differenza di tutti i microrganismi patogeni che invece, appena identifica, prova ad eliminare. E mi stupirei se non fossero identificati come “innocui”, considerando che vi è una forte interazione tra questi e le nostre cellule, con continui scambi di informazioni riguardo agenti patogeni da eliminare. Proprio così, i microrganismi presenti nel nostro intestino giocano un ruolo fondamentale nel corretto funzionamento delle difese immunitarie. Stabilito questo, è facile intuire come la distruzione della flora batterica intestinale vada a compromettere e – potenzialmente – a mettere in crisi l’intero sistema immunitario. Una condizione ancor più delicata nei bambini se consideriamo che la composizione del microbioma, nei primi tre anni di vita, getterà le basi per l’intero sistema immunitario del futuro individuo adulto. Impegniamoci quindi a nutrirli correttamente, con una dieta equilibrata, e limitiamo il più possibile l’utilizzo di antibiotici. Non è una legge universale, esistono molteplici fattori (genetici ed ambientali), ma una flora intestinale qualitativamente compromessa può dare il via a numerose malattie autoimmuni ed allergie (diabete di tipo 1, riniti, asma, patologie polmonari, malattie del connettivo).

Disbiosi & patologie cardiovascolari

In precedenza abbiamo detto che la flora intestinale svolge un ruolo chiave nel mantenimento di un perfetto equilibrio metabolico. Alla luce di ciò nel mondo scientifico è evidente come un’alterazione di questi microbi alteri – di conseguenza – l’assorbimento del quantitativo di nutrienti introdotti con il cibo, con la possibilità di causare insulino-resistenza e sindrome metabolica, nonché obesità, e di conseguenza patologie cardiovascolari. Se da un lato il fattore genetico (innato, sul quale non possiamo agire) è determinante nell’insorgenza di alcune di queste patologie, svolge un ruolo fondamentale anche la flora intestinale: se in meglio o in peggio dipende da quanto ce ne prenderemo cura. Quindi tutti noi – ed in particolar modo chi ha casi familiari di cardiopatie – dovremmo prestare attenzione a ciò che mangiamo, ricordandoci la lista dei cibi da prediligere e da evitare, scritta poco sopra.

Disbiosi & cancro

Sono in corso numerosi studi con lo scopo di stabilire precisamente quale sia l’eziologia di questa malattia, e quindi la correlazione con la disbiosi intestinale. Qualche risultato è disponibile già oggi: ad esempio, nei pazienti colpiti da tumore al colon-retto, si è notata una composizione simile del microbioma. Ciò che bisogna approfondire a fondo è se siano questi batteri a favorire l’insorgenza del tumore, o se sia il tumore a creare un ambiente favorevole per la proliferazione di questi microrganismi. In attesa di risultati attendibili da un punto di vista scientifico, un collegamento logico che non possiamo esimerci dal fare è il seguente: non è forse vero che la disbiosi intestinale causi un’alterazione del sistema immunitario, nonché favorisca l’obesità? E non è altrettanto vero che il deficit cronico delle difese immunitarie e l’obesità siano in grado di favorire l’insorgenza dei tumori? Se 2+2 fa 4, la composizione del microbioma potrebbe, indirettamente, favorire neoplasie. Qualche studio, tra l’altro, sta cercando di capire il meccanismo d’azione attraverso il quale i microrganismi che vivono nel nostro intestino riescano a favorire lo sviluppo di cellule tumorali in organi distanti, come ad esempio fegato, pancreas, polmoni. Una possibile causa potrebbe essere l’alterata permeabilità intestinale, che permetterebbe il passaggio di questi microrganismi al di fuori dell’intestino; e se nell’intestino il loro ruolo è, come abbiamo visto in precedenza, fondamentale, non possiamo dire lo stesso se questi si trovano a colonizzare altri organi del nostro corpo. Quindi, prendetevi cura della salute del vostro microbioma e, più genericamente, del vostro sistema gastrointestinale.

Disbiosi & sistema nervoso

Cosa c’entra il sistema nervoso con dei microrganismi che colonizzano l’intestino? Probabilmente vi starete ponendo questa domanda, magari con un pizzico di scetticismo, cercherò quindi in poche righe di spiegare quanto si è scoperto fin ora.
Nel corso della nostra evoluzione, che va avanti da svariato tempo e che è tutt’ora in atto, si sono venute a formare vie neurali (o collegamenti, se preferite) attraverso le quali i microrganismi – sia quelli “buoni” che quelli “cattivi” – riescono ad inviare segnali neuroendocrini al nostro cervello; segnali capaci di effettuare un controllo a feedback ed in grado, udite udite, di influenzare le emozioni. Una connessione talmente evidente che si è arrivati a definirla asse intestino-cervello (un pò come l’asse ipotalamo-adenoipofisi-tiroide, per fare un esempio).
Vogliamo entrare più nel dettaglio? Accomodatevi pure.

Molto probabilmente conoscerete le serotonina; per chi non lo sapesse, la serotonina è un ormone che restituisce una sensazione di benessere psico-fisico, tanto che viene soprannominata “ormone della felicità”. Ebbene, l’intestino è il maggior produttore di questo ormone grazie all’azione del Sistema Nervoso Enterico, un sistema in parte regolato dai batteri intestinali. Se vi risulta difficile credere nell’interazione microbioma-emozioni, dovete sapere che in seguito ad alcuni studi è emerso un fatto interessante: animali privi di questo microbioma (definiti per questo gnotobiotici) sembrano non sapere cosa sia l’ansia. Tuttavia, per “ripristinare” questa emozione, è sufficiente trapiantare in essi la flora batterica. Fantascienza? No, dati di fatto.
Ma andiamo avanti ed analizziamo un altro esempio. Il punto di collegamento tra le emozioni ed il comportamento alimentare è un fattore neurotrofico stimolante presente a livello cerebrale – brain derived neurotropic factor o BDNF – il quale è legato all’invecchiamento cognitivo: questo BDNF è influenzato proprio dal microbioma. Forse la cosa vi stupirà meno sapendo che le popolazioni con una dieta composta in gran quantità da cibi fermentati (un nutrimento ottimo per i microrganismi “buoni”), sono quelle – guarda caso – con un più lento invecchiamento cerebrale.

Microbioma umano: conclusioni

disbiosi intestinale

Bene, siamo giunti alla parte finale di questo articolo e spero vivamente di esser riuscito a trasmettervi qualche nozione utile, considerando quanto sia importante quest’argomento e quanto – purtroppo – venga ignorato/sottovalutato.
Per concludere vediamo un consiglio pratico seguendo le nozioni del Dr. Fabio Piccini, senza il quale saprei poco o nulla riguardo quest’argomento.
Arrivati a questo punto dovreste sapere che esistono diverse famiglie di batteri, alcune buone, altre meno buone (o cattive). Bene, il nostro obiettivo sarà ripristinare i microrganismi buoni (genere Prevotella) a discapito di quelli cattivi (genere Firmicuti).

Il primo cambiamento, drastico, consisterà in tre giorni di alimentazione basata su alimenti ricchi di fibre vegetali solubili, evitando carne/latticini. Indirizzarsi quindi su riso integrale, cereali, asparagi, carciofi, finocchi, broccoli, cardi, cavoletti di Bruxelles, porri, carote, cicoria, cipolle, patate, fagioli, ceci, lenticchie, topinambur, noci, mandorle, nocciole, kiwi, mele, prugne, banane, fichi e così via.
Trascorsi i tre giorni, reintrodurremo gradualmente carni e latticini, facendo attenzione ad assumere comunque un buon quantitativo quotidiano di fibre. Ma, c’è un ma. Oltre al tipo di alimento, dovremo prestare attenzione alla provenienza, nonché ai trattamenti subiti prima di arrivare sullo scaffale o al bancone del supermercato. Per questo motivo si consiglia caldamente di scegliere alimenti quanto più naturali, non processati industrialmente, non addizionati con zuccheri e grassi, senza l’aggiunta di coloranti o conservanti e, nel caso della carne, che all’animale vivo non siano stati somministrati antibiotici (pratica di uso comune in diversi allevamenti intensivi). Per tutti questi motivi, dovremmo indirizzarci prettamente su alimenti biologici (facendo attenzione alle numerose truffe che sfruttano la popolarità, negli ultimi tempi, di tutti gli alimenti etichettati con “Bio”).

Ok, l’articolo è veramente giunto al termine. Probabilmente molti di voi mi avranno maledetto per non esser stato abbastanza conciso, ciò che mi interessa è che sia riuscito a fornirvi nuovi spunti. Questo articolo non deve essere un punto di arrivo, ma un punto di partenza, vi invito caldamente a rimanere aggiornati sull’argomento e ad impegnarvi, giorno dopo giorno, a mantenere in salute la vostra flora intestinale: in questo modo, indirettamente, vi starete prendendo cura della vostra salute.

L’articolo sul microbioma umano è di Andrea Trionfera
Andrea è un ragazzo amante dello sport e della nutrizione, una passione che ha saputo trasformare in un percorso accademico. Dopo aver conseguito la qualifica di Chinesiologo attraverso la laurea triennale in Scienze Motorie e la qualifica di “Personal Trainer di Bodybuilding & Fitness” tramite un corso di formazione CSEN tenuto dal Prof. Filippo Massaroni, ha deciso di intraprendere un percorso magistrale in “Scienze della Nutrizione Umana”, con l’obiettivo finale di diventare Biologo Nutrizionista.

Dott. Andrea Trionfera – Pagina FB
Chinesiologo
Personal Trainer CSEN
Studente Laurea Magistrale in “Scienze della Nutrizione Umana”

Bibliografia:
1) Fabio Piccini: “Alla scoperta del microbioma umano: flora batterica, nutrizione e malattie del progresso”
2) American Association for the Advancement of Science, ScienceDaily: “Human gut microbes alter mouse metabolism, depending on diet” [September 5, 2013]
3) University of California – Berkeley: “Do gut microbes shape our evolution?” [April 21, 2016]
4) Robert F. Schwabe and Christian Jobin: “The microbiome and cancer” [October 17, 2013]
5) Oregon State University, ScienceDaily: “Fat, sugar cause bacterial changes that may relate to loss of cognitive function” [June 22, 2015]
6) W.H. Wilson Tang and Stanley L. Hanzen: “The contributory role of gut microbiota in cardiovascular disease” [October 1, 2014]
7) Isabelle C. Arnold, Nina Dehzad, Sebastian Reuter, Helen Martin, Burkhard Becher, Christian Taube and Anne Muller: “Helicobacter pylori infection prevents allergic asthma in mouse models through the induction of regulatory T cells” [July 1, 2011]
8) Premysl Bercik, Emmanuel Denou, Josh Collins, Wendy Jackson, Jun Lu, Jennifer Jury, Yikang Deng, Patricia Blennerhassett, Joseph Macri, Kathy D. McCoy, Elena F. Verdu, Stephen M. Collins: “The intestinal microbiota affect central levels of brain-derived neurotropic factor and behavior in mice” [August 2011, Volume 141, Issue 2, Pages 599-609.e3]
9) James M. Hill, Surjyadipta Bhattacharjee, Aileen I. Pogue and Walter J. Lukiw: “The gastrointestinal tract microbiome and potential link to Alzheimer’s disease” [April 4, 2014]
10) Samar H. Ibrahim, MBChB, Robert G. Voigt, MD, Slavica K. Katusic, MD, Amy L. Weaver, MS, and William J. Barbaresi, MD: “Incidence of gastrointestinal symptoms in children: a population-based study” [July 27, 2009]
11) Carlotta De Filippo, Duccio Cavalieri, Monica Di Paola, Matteo Ramazzotti, Jean Baptiste Poullet, Sebastien Massart, Silvia Collini, Giuseppe Pieraccini and Paolo Lionetti: “Impact of diet in shaping gut microbiota revealed by a comparative study in children from Europe and rural Africa” [June 30, 2010]

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Extrarotazioni spalla: sempre e comunque da fare?

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Nel precedente video-articolo sugli extrarotatori abbiamo appurato quali sono le modalità esecutive delle Extrarotazioni per il rinforzo della cuffia in palestra (trovi il filmato degli esercizi a fine articolo), ne abbiamo approfondito le dinamiche biomeccaniche evidenziando gli errori più comuni da evitare. Passiamo ora ad aspetti un pochino più funzionali. Le extrarotazioni della spalla fanno sempre bene? Possiamo considerarli sempre utili sia come prevenzione sia come cura in soggetti con problematiche alla spalla? Scopriamolo insieme.

Innanzitutto è bene chiarire l’attuale situazione in sala pesi. È sotto gli occhi di tutti come l’esecuzione degli esercizi per la cuffia in palestra sia considerata un dogma intoccabile, una sorta di panacea della spalla: chiunque abbia dolore a questa articolazione li deve fare mentre chi non ha dolore li deve fare comunque per prevenire . I loro benefici non sono mai stati messi in discussione in sala pesi anzi, chi li fa ha la sensazione di eseguire una specie di fisioterapia “fai da te” e ciò tranquillizza parecchio.

extrarotazioniExtrarotazioni con manubrio sul fianco

Come al solito, quando una visione di un argomento appare così grossolana e standardizzata, è bene sfoderare un po’ di sano spirito critico e mettere approfondire alcuni importanti concetti.

Se è vero come abbiamo detto finora che il ruolo dei muscoli della cuffia dei rotatori è cruciale nella corretta biomeccanica scapolo-omerale e che un loro adeguato trofismo possa contrastare disequilibri facilmente causabili con del bodybuilding approssimativo, è anche bene precisare che una loro possibile retrazione, in particolare dei due extrarotatori sottospinato e piccolo rotondo (quelli che di solito si allenano in palestra senza saper né leggere e né scrivere)

extrarotatoriExtrarotatori sottospinato e piccolo rotondo

può determinare una conseguente rigidità della capsula posteriore impedendo alla testa dell’omero di eseguire i corretti movimenti di scivolamento posteriore in una fisiologica abduzione. In presenza di una tale condizione la testa dell’omero si ritroverà letteralmente spostata in avanti (spalle anteposte) perché posteriormente ha un muro di muscoli rigidi che ne impediscono il corretto movimento.

spazio sub acromialeRiduzione dello spazio sub acromiale causato dall’anteposizione di spalla

Tale situazione è indicata in clinica riabilitativa come una delle possibili cause di impingement da alterata biomeccanica e da disfunzione del movimento. Pertanto fate attenzione a somministrare a tutti indistintamente questi esercizi. Il mio consiglio è sempre e comunque quello di valutare, valutare e valutare. Vediamo in che modo attraverso un semplice test di lunghezza muscolare.

Valutazione extrarotazioni di spalla

Il concetto del “valutare” si inserisce sempre bene in un contesto di personal training, e mai come ora deve tornare utile. Non fate eseguire esercizi per la cuffia a prescindere sia in presenza di spalle sane che lesionate. Valutate la persona analizzando l’allineamento delle spalle mentre si allena e mentre vi parla: spalle anteposte spesso palesano un disequilibrio muscolare e una possibile rigidità della capsula posteriore e dei muscoli extrarotatori. Proporre extrarotazioni contro resistenza in questo caso non farà che peggiorare la situazione o quantomeno non la migliorerà. Un semplice test vi potrà chiarire meglio le idee riguardo alla lunghezza e all’eventuale retrazione degli extrarotatori.

extrarotatori lunghezza fisiologicaLunghezza fisiologica extrarotatori: ok esercizi per gli extrarotatori della spalla

extrarotatori retrattiExtrarotatori retratti: no agli esercizi per gli extrarotatori della spalla

Il test viene eseguito col soggetto supino, anche flesse (per evitare compensi con la regione lombare), braccio abdotto a 90° e gomito flesso a 90° con avambraccio perpendicolare al lettino. Da questa posizione si stabilizza la spalla e si accompagna l’avambraccio in basso verso il piano del lettino parallelamente al busto facendo eseguire in tal modo una rotazione mediale alla spalla. A questo punto sarà valutato normale un movimento che permetta alla spalla di raggiungere i 70° di rotazione mediale formando un angolo di 20° tra avambraccio e lettino senza l’attuazione di compensi. Saranno valutati invece retratti quei rotatori laterali che non permettono tale escursione di movimento.

Ecco fatto. Non sarà una valutazione completa dell’equilibrio della spalla ma questo per un personal trainer è sufficiente a proporre schede ed esercizi con un minimo di senso. Con la presenza oggettiva di extrarotatori retratti si deve evitare di proporre esercizi per la cuffia in extrarotazione a persone sane e a maggior ragione a quelle doloranti specie se a ciò è associata la presenza di spalle anteposte. La personalizzazione in palestra passa anche da qui, poi possono seguire tutte le varianti di:

  • extrarotazioni manubri
  • extrarotazioni con elestastico
  • extrarotazioni al cavo
  • ecc

Scopri Project Exercise Vol.1

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Imparare a riempire la vita per smettere di riempire la pancia

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imparare a riempire la vita e non la pancia

La vita di ognuno è “composta” da diverse sfere che si intrecciano: il lavoro, lo studio, la parte affettiva (coppia, famiglia, figli) e relazionale, le diverse passioni ed i vari interessi. La quotidianità ed il tempo sono dunque riempiti da doveri e piaceri, in maniera più o meno equilibrata. Avviene che alcuni ambiti prevalgano su altri in base al periodo, ma questo è fisiologico e naturale (capiterà che ad esempio in sessione di esami uno studente si concentri più sullo studio che sulla vita sociale, come che in un periodo di “calma” sul lavoro una persona riesca a dedicarsi in maniera prevalente alle proprie passioni). A tutto questo si sommano le necessità primarie quali il dormire e il nutrirsi.

Molto spesso accade che non tanto lo “squilibrio” tra le diverse sfere, quanto piuttosto lo “svuotarsi” di una di esse (che porti ad insoddisfazione, frustrazione o altre esperienze emotive negative) porti a “sfogare” il proprio malumore, cercando di riempire il vuoto col cibo. Si innescano dunque meccanismi disfunzionali che portano a “nutrire” col cibo questioni che con esso non hanno niente a che vedere, a spostare l’attenzione, il tempo e i pensieri su ciò che da sempre è di immediato appagamento, quasi sempre disponibile: il “comfort food”. Riempire la testa in modo pervasivo con pensieri che lo riguardano, e lo stomaco con esso, fa in modo di “anestetizzarci” rispetto a situazioni che risulta difficile affrontare. Il cibo rischia di diventare dunque arma di attacco o di difesa, strumento di compensazione, sostituto, e viene utilizzato per “alimentare” la propria vita, privandoci della possibilità di esercitare la capacità di provare piacere in altre sfere e di sviluppare la propensione a far fronte agli stress in maniera funzionale.
Il motivo per cui la maggior parte delle persone normopeso riesce serenamente a mantenere la propria condizione è che si autoregola e non pensa in modo intrusivo al cibo, gestendo le situazioni negative o stressanti mediante altre strategie (non necessariamente più funzionali, sia chiaro). Il cibo appagante porta sì ad un sollievo momentaneo, ma dall’altra parte mantiene e peggiora spesso situazioni di sovrappeso che si vorrebbe risolvere.

È spesso un circolo vizioso in cui è difficile comprendere quanto sia stato il cibo ad inficiare determinati ambiti di vita, o quanto sia l’insoddisfazione in essi ad aver portato a trovare un “alleato” nell’alimento.
Questo discorso può valere per qualsiasi squilibrio sul piano dell’alimentazione, anche ad esempio quando si parla di un’ossessione malsana ed intrusiva riguardo al cibo sano (ortoressia) ma non ne tratterò in questo specifico contesto. L’ho più volte soprannominata la “gabbia d’oro”: una protezione nei confronti del mondo esterno, un sedativo, una barriera. Ed è così anche per il corpo.

Il sovrappeso viene vissuto in maniera disfunzionale perché ad esso talvolta si attribuiscono alcuni fallimenti o “blocchi” che con esso non hanno a che fare. E la pretesa di raggiungere un “peso ideale” è spesso intrecciata al voler rimuovere quei blocchi che però, talvolta inconsciamente, sappiamo non essere determinati dal proprio corpo. È il motivo per cui capita che non si giunga al corpo desiderato, costruendo impedimenti nel “partire” oppure creandosi ostacoli nel percorso: il toccare l’obiettivo prefissato comporterebbe infatti la necessaria presa di coscienza che il lavoro non era da fare “sul contenitore”, piuttosto sul “contenuto”; oppure potrebbe accadere che motivati a cambiare, si giunga a quel peso e non comprendendo che non fosse quello “il problema” si pretenda di scendere sempre di più continuando a fluttuare nella propria insofferenza o mancanza di autostima ledendo il proprio benessere fisico. Il rischio è di vedersi risucchiati in un vortice in cui l’insoddisfazione nei confronti della propria immagine e di malcontento nei confronti di se stessi porti a sentirsi svalutati e inadeguati agli occhi degli altri, “soffocando” lo status emotivo negativo col cibo.

Sì, ma quindi, NELLA PRATICA, come risolvo? Come esco da questo “circolo vizioso”? Non è affatto facile dare delle linee guida generali, non esiste un “libretto di istruzioni” valido per tutti. Quando si parla di psiche come e spesso più di altri ambiti, la soluzione di una condizione è determinata da ciò che ha contribuito a far nascere, crescere e mantenere quella situazione: ognuno di noi apprende, impara ad approcciarsi alle situazioni e vive conflitti ed eventi che lo rendono unico. Ed è proprio da questo intrecciarsi di “fili di vita vissuta”, che spesso divengono nodi da sciogliere, che bisogna partire per districare un disagio o un malessere. È il motivo per cui ciò che scrivo vuole fungere in primis da spunto di riflessione, piuttosto che da mera divulgazione di conoscenza o di spiegazione.

Bisogna cercare di comprendere quali sono gli ambiti e le sfere della propria vita il cui vi sono delle lacune, e se sono state quelle lacune ad impattare in modo disfunzionale sul rapporto col cibo o viceversa. Concentrarsi su altro, organizzare il proprio tempo e “riempirlo” con attività alternative soddisfacenti per non riempirsi di cibo, esercitare un’attitudine a “nutrire” la propria esistenza con qualcosa di soddisfacente ed appagante.
E non parlo di attività sporadiche come una vacanza, ma di attività quotidiane o nuove passioni che facciano affacciare ad interessi di altro tipo. Cercare di comprendere quanto e come il peso influisca con la propria situazione attuale, e se oggettivamente una situazione fisica diversa potrebbe modificare quegli ambiti che riteniamo insoddisfacenti (cercando, se necessario, anche il confronto nella realtà con situazioni similari). Ognuno ha delle potenzialità da esprimere: sta a noi saperle riconoscere, intercettare e mettere in pratica per incrementare la propria autostima.
Accade spesso infatti che nel sopravvalutare gli altri si sottostima noi stessi, concentrandosi solo su alcuni aspetti della realtà senza, appunto, visualizzare a 360° pregi e difetti (le chiamerei piuttosto “peculiarità”, per non dare accezione forzatamente positiva o negativa) nostri e degli altri.

Dare valore alla propria persona senza svalutarsi ma prendendo coscienza dei propri punti di forza a prescindere dal corpo e dal rapporto col cibo che non deve essere un mezzo, una gabbia o una “scusa” per evitare di “buttarsi” nella vita.

Della Dott.ssa Carolina Strada

carolinaSono una psicologa specializzata nei disturbi dell’alimentazione, mi occupo di benessere ed equilibrio a 360° tra il corpo e la mente, aiutando ad ottimizzare le risorse e a trovare le strategie per vivere serenamente.

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Esercizi per dimagrire: esistono?

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Chi vuole dimagrire, soprattutto chi vuole dimagrire velocemente, cerca d’abbinare a regimi dietetici anche degli esercizi dimagranti. Qui trova tutta una serie di proposte che vanno dalla semplice corsa, ai corsi di gruppo, agli esercizi da fare a casa, per concludere coi circuiti bruciagrassi ed il Crossfit.
Quali tra questi sono i migliori esercizi per dimagrire, esistono realmente? Scopriamolo.

Esercizi per dimagrire e dimagrimento localizzato

Quando una persona vuole perdere peso, spesso si ritrova con accumuli di grasso localizzato, pertanto cerca:

  • esercizi per dimagrire le gambe
  • esercizi per dimagrire la pancia
  • esercizi per dimagrire le cosce
  • ecc

ma esistono veramente esercizi in grado di far dimagrire in modo localizzato? La risposta è generalmente NO. La lipolisi locale non esiste (in modo rilevante) e può interessare soltanto atleti di bodybuilding con % di grasso molto molto basse e su distretti muscolari molto grandi come le cosce (per approfondire leggi: dimagrimento localizzato nelle gambe).

Per la persona comune non esistono esercizi per dimagrire nello specifico in qualche parte del corpo. Se avete il grasso sotto le braccia, allenare i tricipiti non ve lo farà scomparire, se avete il grasso sulla pancia e sulle maniglie dell’amore, non esistono esercizi per dimagrire sui fianchi, ecc.

Allenare le varie parti del corpo pensando che dove mi alleno dimagrisco di più, è prendere in giro la propria fisiologia.
Per perdere peso bisogna instaurare un deficit calorico. Prima, purtroppo, dimagrirete sui punti facili e solo alla fine perderete il grasso ostinato.

Pertanto, forse, conviene  in ottica di “consumare più calorie”, scegliere tutti quegli esercizi che alzano il più possibile il consumo calorico.

Esercizi per dimagrire velocemente: conviene la corsa o i circuiti?

esercizi per dimagrire le cosce

Normalmente le persone si trovano di fronte a due possibilità: dimagrire con esercizi aerobici (corsa, spinning, nuoto, ecc), oppure attraverso l’utilizzo di pesi (spesso pesetti) utilizzati in circuiti bruciagrassi. Cosa conviene fare?

La ricerca ci mostra che tra due gruppi di controllo che hanno lo stesso deficit calorico; uno indotto solo dalla dieta, uno indotto da un mix tra dieta ed allenamento, SI PERDE PESO NELLO STESSO MODO!

Quindi alla fine la scelta sta semplicemente tra scegliere se mangiare meno, oppure un po’ di più ma fare anche attività fisica.
In quest’ottica tra la corsa ed i circuiti conviene scegliere quello che fa consumare di più e mediamente è la corsa. L’esercizio aerobico permette al soggetto di bruciare più calorie, rispetto ad esercizi intensi che stimolano l’EPOC (il consumo di ossigeno post esercizio).

Purtroppo negli ultimi anni si è letto che esercizi HIIT bruciavano più calorie di quelli aerobici, ma questo è vero solo se vengono paragonati i tempi o il lavoro (l’HIIT essendo più intenso brucia di più), ma l’esercizio aerobico classico può essere protratto, a parità di fatica, per più tempo portando così a consumare di più (leggi: quanti grassi si consumano con la corsa).

Tuttavia anche se teoricamente l’esercizio aerobico è da preferire per dimagrire, cerchiamo di capire perché praticamente non lo è.

Perdita di peso o reale dimagrimento?

dimagrimento o perdita di peso

Quando induciamo un deficit calorico, il corpo sottopone i nostri tessuti al catabolismo. Brucia i grassi e questo è un bene, ma consuma anche il glicogeno e, purtroppo, catabolizza anche la massa magra. Le persone che perdono peso così vedono ridursi:

Nel lungo andare la disidratazione e la perdita di massa magra, sono due elementi che bloccheranno il dimagrimento. Pertanto fare attività fisica per “bruciare di più” è spesso la soluzione peggiore per perdere peso BENE!

Indurre un deficit calorico è facilissimo con la dieta, non servono esercizi per dimagrire, servono esercizi per preservare e proteggere la massa magra.

Conviene così allenarsi coi pesi, anche se siete delle ragazze o donne, e con pesi “pesanti”. Soltanto sovraccarichi superiori al 75% del nostro massimale, permettono di proteggere la massa magra durante il catabolismo indotto dal deficit energetico.

Pertanto non esistono esercizi che fanno dimagrire, esistono esercizi che aumentano il dispendio energetico ed esistono esercizi che proteggono la massa magra, fine!

Una buona dieta, abbinata ad un buon piano d’allenamento coi pesi, è la miglior combinazione per dimagrire correttamente!

Esercizi per dimagrire a casa

esercizi per dimagrire a casa

Molte persone cercano, soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate, esercizi per dimagrire velocemente a casa. Anche in questo caso valgono tutti i principi sopra esposti. È inutile che le donne si comprino pesetti da 2kg, elastici, attrezzi strani, per fare esercizi con 1000 ripetizioni. Conviene piuttosto scegliere quegli esercizi a corpo libero impegnativi, che permettono un numero di ripetizioni limitato.

Questo programma d’allenamento a corpo libero di: trazioni, piegamenti, squat può essere un buon compromesso tra un certo consumo calorico ed uno stimolo meccanico per preservare la massa magra. Le donne potranno fare la versione facilitata degli esercizi:

  • trazioni > body row o trazioni col salto
  • piegamenti > piegamenti sulle ginocchia
  • squat > squat

ma la direzione rimane comunque quella.

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Esercizi pettorali: l’importanza dell’assetto scapolare

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L’allenamento del gran pettorale è un vero e proprio must della sala pesi in un qualsiasi centro fitness di ieri e di oggi. Gli appassionati dedicano al suo allenamento ripetizioni su ripetizioni nella speranza di vederlo lievitare e direi che non è un caso se questo muscolo viene allenato, in moltissimi casi, il lunedì, eleggendolo a muscolo prioritario da “richiamare all’ordine” subito dopo l’astinenza del weekend. Pertanto in sala pesi è comunismo osservare i più svariati esercizi per i pettorali.

Non entrerò qui ora nel merito della frequenza di allenamento adeguata (forse non bisognerebbe allenarlo solo il lunedì?), del numero di serie e di ripetizioni sufficienti a provocare uno stimolo efficace e di tutte quelle questioni, seppur affascinanti, legate alla programmazione dell’allenamento. Qui e nei prossimi video-articoli terrò un taglio maggiormente biomeccanico dell’argomento, occupandomi di chiarire alcuni aspetti importanti riguardo all’esecuzione degli esercizi a esso dedicati, abbandonando per un attimo la visione muscolo-centrica, per abbracciare quella della fin troppo misconosciuta fisiologia articolare, presupposto fondamentale per tutti gli esercizi per pettorali alti, bassi che siano.

L’articolo si divide in due parti, la prima parte è rivolta a farti capire l’atteggiamento corretto per non farti male negli esercizi per i pettorali. Il secondo invece mostra una serie di tutorial sull’allenamento dei pettorali e relativi esercizi.

Allenamento pettorali: l’atteggiamento scapolare

Generalmente il gran pettorale è adeguatamente stimolato tramite alzate contro resistenze che prevedono movimenti cosiddetti di spinta verso l’avanti, eseguite o sdraiati su un panca oppure tramite macchinario a carrucole (figura 1).

esercizi pettorali

Figura 1. Gli esercizi pettorali indicati per la stimolazione del gran pettorale consistono in adduzioni lungo il piano orizzontale contro gravità.

Il movimento antigravitario di spinta così ricercato si traduce, spostandoci su un piano prettamente biomeccanico, in un movimento di adduzione lungo il piano orizzontale. È proprio questo uno dei movimenti in assoluto più sottovalutati in palestra, vista l’elevata frequenza di infortuni articolari alla spalla (tipicamente a esordio lento con dolori interni “a spillo” anteriormente all’articolazione) che si registra in seguito ad una scorretta esecuzione di questi esercizi.

Iniziamo quindi a introdurre una degli accorgimenti più importanti nell’esecuzione degli esercizi sopracitati per prevenire tali problematiche: l’assetto scapolare sulla panca. Ancor prima di impugnare l’attrezzo che avremo scelto per eseguire l’esercizio sarà importante raggiungere il corretto posizionamento delle scapole. Ebbene sì, ci stiamo solo sdraiando sulla panca, ma già siamo di fronte ad un aspetto fondamentale a garantire sicurezza alle nostre spalle. Cosa c’entrano esattamente le scapole in tutto ciò? Come posso sfruttarle per prevenire infortuni?

La struttura veramente messa in crisi alla Panca è la spalla, questo mettetevelo bene in testa (figura 2). In questo esercizio possono essere sollevati carichi anche superiori di molto al vostro peso corporeo e la struttura che si sobbarca questo peso è proprio lei (non la schiena, ma questo lo approfondiremo in un successivo video-articolo). La Panca eseguita “a caso” e con carichi importanti è uno dei modi migliori per infiammare, ledere, infortunare questa articolazione. Alla panca ho visto ragazzi non curare l’assetto scapolare e farsi male dopo pochi mesi di training.

esercizi per i pettorali

Figura 2. Durante la Panca Piana la struttura maggiormente a rischio infortuni è la spalla. 

Arriviamo ora al dunque. Come prevenire? Come tutelare la spalla anche sotto carichi importanti? La risposta è una sola: curando il posizionamento delle scapole appunto. Vediamo come e soprattutto cerchiamo di capire perché un determinato tipo di assetto scapolare contribuisca a mantenere la spalla in salute.

Scapola e omero costituiscono l’articolazione principale e la più critica da un punto di vista del rischio infortuni per via dell’intimo rapporto funzionale che caratterizza queste due ossa in particolare durante movimenti di flessione-abduzione, e per via dei tendini della cuffia dei rotatori che sono interposti tra loro all’interno dello spazio sub-acromiale. Particolari condizioni possono modificare l’ampiezza di questo piccolo spazio anatomico, mettendo maggiormente a rischio impingement la spalla in caso di una sua riduzione oppure tutelandola da insulti articolari in caso di un suo aumento.

I fattori che modificano l’ampiezza di questo spazio anatomico tanto importante sono principalmente due:

  1. le rotazioni dell’omero in flessione-abduzione;
  2. l’allineamento scapolare.

Ed è proprio quest’ultimo il punto che va approfondito per comprendere come possiamo migliorare la nostra Panca Piana e renderla più sicura per le nostre spalle.

Studi scientifici che valutano i possibili differenti assetti scapolari alla panca non ce ne sono purtroppo. Siamo costretti quindi a interpretare le conoscenze che altre discipline apportano cercando di trasportarle nel nostro mondo. L’osservazione degli allineamenti scapolari più frequenti in pazienti con impingement della cuffia ci permette di estrapolare informazioni importanti. Tendenzialmente questi hanno postura cifotica, con la scapola eccessivamente abdotta e in tilt anteriore, un allineamento che diminuisce di molto lo spazio di scorrimento dei tessuti molli sotto la volta acromiale (Sahrmann, 2008; figura 3).

spazio sub acromiale

Figura 3. L’allineamento scapolare in abduzione e tilt anteriore associato a un’ipercifosi riduce lo spazio sub-acromiale di scorrimento dei tessuti molli aumentando il rischio impingement alla spalla durante la panca.

Nella clinica riabilitativa il trattamento rivolto a questi soggetti è proprio un rinforzo di quei muscoli (divenuti deboli e poco efficienti) che con la loro azione determinano un allineamento opposto della scapola, condizione nella quale aumenta l’ampiezza dello spazio sub-acromiale. L’allineamento ricercato si compone di quattro movimenti scapolari:

  • depressione;
  • adduzione;
  • rotazione craniale;
  • tilt posteriore.

Quindi, ancor prima di impugnare l’attrezzo che avremo scelto per eseguire l’esercizio, che sia un bilanciere o un manubrio, un cavo o un macchinario, sarà importante il corretto posizionamento delle scapole in adduzione, depressione, rotazione craniale (determinata dalla combinazione di adduzione e depressione) e tilt posteriore (vedi figura sopra). Tale assetto, mantenuto durante l’esecuzione della Panca Piana, garantirà oltre a stabilità e congruenza articolare anche il mantenimento di uno spazio sub-acromiale ottimale a favorire lo scorrimento dei tessuti molli durante il movimento e a evitare “pinzamenti” con annessi spiacevoli dolori alle spalle.

Importante sarà il lavoro degli adduttori, depressori e rotatori delle scapole (trapezio inferiore e medio su tutti) soprattutto in concentrica, dove l’inerzia del movimento di spinta eseguito andrà a creare una forza contraria all’assetto desiderato, rischiando di portare le scapole in abduzione e tilt anteriore (spalle che vanno in avanti staccandosi dalla panca), un allineamento che può favorire l’insorgere di una patologia da “impingement” per la riduzione dello spazio sub-acromiale che determina. Portare le spalle in avanti mentre si spinge il bilanciere è forse il fattore di rischio più importante in questo contesto e, infatti, normalmente i dolori compaiono più facilmente in chi è solito farlo .

Quindi, se volete uno spassionato consiglio, visti i carichi potenzialmente sollevabili in tali esercizi, date importanza a questo assetto (figura 7). Se siete all’inizio, spendete un po’ più di tempo a imparare correttamente l’esercizio con un carico gestibile, aumentandolo poi nel tempo una volta acquisita e automatizzata la tecnica corretta. Le vostre spalle vi ringrazieranno.

Allenamento pettorali: gli esercizi per il petto

Pettorali esercizi di distensione manubri:

Esercizi pettorali alti e bassi con le croci ai cavi

Esercizi pettorali spinte-croci

Esercizi per pettorali: la Panca Piana

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Tecniche intensità nel bodybuilding: quando l’uso diventa abuso

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superset

Le tecniche di intensità, hanno avuto da prima il loro momento di gloria nel mondo del bodybuilding classico e poi nel mondo dei sistemi BII, dove lo spingere il corpo oltre ogni limite era giustificato dal fatto che un gruppo muscolare venisse stimolato ogni 9-14 giorni.
Oggi sappiamo, che a parte rari casi ed escludendo momenti specifici della programmazione, per un natural bodybuilder la monofrequenza probabilmente non è la scelta migliore, poichè se da una parte si riesce a fornire uno stimolo maggiore dall’altra cadiamo in uno stato di “deallenamento generale” oltre che in un marcato calo della performance (soprattutto in neofiti ed intermedi) dovuto alla “perdita di confidenza col gesto tecnico“, con tutte le conseguenze che ne derivano (vedi “il rapporto che c’è tra stimolo e recupero” ). Presa coscienza di ciò la multifrequenza ha ripreso piede trai nuovi e i vecchi bodybuilders, ma mantenendo le vecchia concezione del tirare ogni serie alla morte, e dello “spremere fino alla fine” aggiungendo superset, triset, gian set, stripping e chi più ne ha più ne metta, al proprio workout. Questo non ha avuto gran successo ed ha portato molti natural a “snaturarsi” e molti altri a rinunciare, o a credere di avere una scarsa genetica.

supercompensazione tecniche intensitàL’allenamento è uno stress. Più stresso l’organismo e più tempo di recupero avrò bisogno (soprattutto per il SNC). Stimoli troppo intensi o troppo distanziati tra loro, portano nel tempo o a fare il botto o a deallenarsi. Bisogna trovare il rapporto ottimale tra stimolo e recupero ricordando che, nei natural, la sintesi proteica rimane potenziata, dopo l’allenamento, solo per 24-72h.

Una panoramica sulle più comuni tecniche d’intensità

“Le tecniche d’intensità, almeno per la loro concezione originaria, sono tecniche da utilizzare per andare oltre al cedimento

tecnice intensità bodybuilding

Super-Set: Si tratta di eseguire due esercizi in modo consecutivo senza pausa tra loro, raggiungendo in entrambi il cedimento concentrico, a cui seguirà un tempo di recupero prefissato. Originariamente i due esercizi erano previsti per muscoli antagonisti, oggi si è soliti colpire invece il medesimo gruppo muscolare utilizzando questa tecnica.

JumpSet: Simile alla superserie e solitamente applicata a gruppi antagonisti, prevede però un breve tempo di riposo tra un esercizio e l’altro. Una sorta di “superserie senza fretta”.

Serie gigante: Si tratta dell’estremizzazione della superserie dove, vengono eseguiti consecutivamente senza recuperare 4-5 esercizi, prima  di recuperare.

Stripping: Letteralmente “strisciare via” prevede il raggiungimento del cedimento concentrico con un determinato carico. Dopodichè, nel minor tempo possibile viene effettuato un “drop” pari solitamente al 5-15% del carico, per raggiungere un secondo cedimento concentrico, e così via per il numero di volte prefissate (almeno 3).

Power rest-pause: Si tratta di una metodica per “ritardare” il cedimento con un dato carico, eseguendo un numero di ripetizioni altrimenti ineseguibile con i metodi tradizionali. Nalla sua versione originale prevedeva l’applicazione di carichi del 90% o superiori, coi quali venivano eseguite una serie di singole intervallate da c.a 10 secondi di pausa fino ad arrivare a cedimento muscolare.

Rest-pause: Si tratta di selezionare un carico con il quale poter eseguire un numero di ripetizioni variabile (solitamente tra 6 e 10) e di raggiungere il cedimento concentrico. A questo punto, l’atleta riposa 10/15 secondi per poi compiere qante ripetizioni possibili raggiungendo così un secondo cedimento concentrico. Si recupera ancora 10/15 secondi e si ripete per il numero di volte programmato.

Serie pesante/leggero: Consiste nel caricare il bilancere con il nostro 3/5RM eseguendo il numero massimo di ripetizioni possibile. Dopodiche nel minor tempo possibile si esegue un “drop” del 25-35% per eseguire nuovamente in numero massimo di ripetizioni possibili.

Forzate: Raggiunto il cedimento, con l’aiuto dello spotter, il quale applia una forza progressiva al bilancere, delle ripetizioni aggiuntive.

Negative: Si tratta di utilizzare un carico sopramassimale (o submassimale ma a patto che si sia prima raggiunto il cedimento concentrico), per eseguire soltanto la parte eccentrica del movimento. Sarà compito dello spotter occuparsi della fase concentrica.

Tutto molto interessante, se non fosse che ci stiamo dimenticando un particolare. Il cedimento muscolare non è il fine ultimo di ogni serie di ogni esercizio, ma è anch’esso una tecnica d’intensità da utilizzare con parsimonia e in modo strategico laddove sia necessario

Quando l’uso e l’abuso di tecniche d’intensità

Siamo macchine concepite per reggere un alto volume di lavoro se correttamente condizionate.
Pur avendo un limite anch’esso, e pur non essendo io un amante dell’ High volum Training (vedi il mio approccio al bodybuilding e qualche esempio di scheda –), devo riconoscerlo che sovente quello che invece ci frega è l’intensità. L’intensità rompe l’omeostasi organica più di ogni altro stimolo. La rompe a tal punto che spesso non siamo in grado di determinarne i tempi e le modalità di recupero, e questo perchè ci si abitua e ci si condiziona soltanto “relativamente” all’intensità.
Uno sforzo sovramassimale è pur sempre uno sforzo sovramassimale. Inoltre non siamo sempre capaci di recuperare allo stesso modo poichè gli stimoli stressogeni esterni (che vanno dalla dieta, alla qualità del sonno finno ad arrivare alle componenti più intime come famiglia, lavoro e affetti) sono difficilmente gestibili nei dilatati tempi di recupero richiesti dall’impiego di tali metodiche, e questo è un fattore di rischio per l’overreaching.

Quindi? Tutto 4 x 10? Certo che no.
Possiamo vedere tali tecniche semplicemente come semplici strumenti in grado di fornire uno stimolo metabolico specifico, senza per forza raggiungere ogni volta l’esaurimento muscolare, soprattutto se facciamo natural bodybuilding.

Verso un uso “accorto” delle tecniche di intensità. Quando l’uso non è abuso (Punti Chiave)

jump set bodybuilding

• Il cedimento è una tecnica di intensità (e non è detto che sia soltanto concentrico), e come tale va utilizzato e programmato in modo intelligente e non utilizzato senza criterio.
• L’ultilizzo di una tecnica specifica può essere programmato al di là del raggiungimento del cedimento concentrico sia nella serie classica che nella tecnica stessa.
• Le variabili per l’ipertrofia sono molteplici quindi focalizzarsi soltanto su una è il voler vedere il dito a tutti i costi al posto della luna
• La modifica della modalità di esecuzione del gesto (velocità, fermi, ecc) è anch’essa una tecnica di intensificazione in quanto aumenta il carico interno
• Un esempio pratico potrebbe essere un dropset a buffer, dove il drop avviene mantenendo una reps in canna in modo da aumentare il TUT mantenendo un intensità gestibile (e quindi una frequenza adeguata).

L’articolo Tecniche intensità nel bodybuilding è di Mattia Lorenzini
Autore del progetto divulgativo: CorporeSano – Food&Training System Diplomato col massimo dei voti presso la Federazione Italiana Fitness. Amante del Natural Bodybuilding e della nutrizione sportiva, specializzato nel Power-Building. Opero in Toscana one to one o online in tutta italia, per lo sviluppo estetico e la performance atletica. Il mio approccio è pluridirezionale e personalizzato, per ottenere il massimo risultato, nel rispetto e nella conciliabilità con la vita quotidiana. Nell’ambito del web-writing e della divulgazione, amo rendere semplici concetti difficili, e semplificare il delicato passaggio che c’è, dalla teoria alla pratica. Troppo spesso dietro una maschera di carattere tecnico “leggiamo di tutto portandosi a casa il niente”. I miei articoli, si rivolgono a quell’utente che, saturo di tecnicismi vuol sapere cosa fare, in sala pesi e a tavola,per cominciare da subito a migliorarsi

Lorenzini Mattia

Pagina facebook: www.facebook.com/ptcorporesano/
Sito internet: www.corporesanofitness.com
Email: mattiapersonaltrainer.fif@gmail.com

Vedi anche il mio primo articolo per Project Invictus: L’importanza della tecnica e di non scappare dai punti difficili

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Quadra Bar: cos’è, che vantaggi ha e come utilizzarla

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Tra i vari strumenti da palestra uno dei più particolari è la TrapBar, un oggetto che negli anni 90 era ritenuto semplicemente indispensabile, tanto che chi non lo trovata se lo faceva saldare, e che poi è finito del dimenticatoio per iniziare a tornare in voga di recente.
Essenzialmente parliamo di un “banale” bilanciere “quadrato), i nomi sono diversi perché può assumere differenti forme geometriche, si partì con un quadrato “Quadra Bar”, poi si pensò a un rombo “TrapBar”, oggi vanno per la maggiore gli esagoni “Hex Bar Squat” , ne ho viste pure tonde, ovali, ma la funzione non è mai mutata.
Esistono quelle con i blocchi di carico, anche detto “Pendalic “, vi assicuro che è basilare diversamente caricarla è una rottura unica!

quadra bar

Il Peso oscilla grosso modo sui 20/24kg.

Lo scopo di questo articolo è spiegarvi in quanti modi vi ci potete allenare e quali sono i suoi vantaggi.
Notoriamente l’Quadra Bar ( da ora la chiamerò così, o Q.B ) viene utilizzata per Deadlift, e Squat.
Sullo squat occorre soffermarsi di più dato che è un esercizio fondamentale nei programmi di forza e condizionamento per molti atleti.
Sui dettagli dello stacco non mi soffermo molto dato che ho scritto 5 articoli (Clicca qui) , le impostazioni di base e i set up restano identici, ma la con Quadra Bar non esiste il passaggio al ginocchio dato che le mani sono laterali e non frontali, il che fa risultare l’esercizio molto più semplice.

E’ un ottimo modo per far fare stacchi a chiunque, eliminando la parte difficile del movimento diventa pratico per tutti.
Ovviamente esistono un infinità di studi, uno dei più interessanti, eseguito con 19 powerlifter, ci dice che con questo strumento nello Stacco si ottiene più potenza e velocità rispetto alla versione classica con bilanciere regolare. La motivazione è proprio la posizione delle mani che consente di poter generare meno forza su lombari, anche e caviglie, mentre permette di avere più spinta col ginocchio.

Come si vede in questa foto cambiano proprio gli angoli di spinta

trap barFoto trap bar da trengthandconditioningresearch.com

Con un altro studio, si è rivelato che mentre il Deadlift regolare è più hip ( ischriocrurali ) dipendente , la versione con Trap Bar. è più vasto laterale e quadricipite dominante. Dipende tutto dalla posizione del ginocchio.

A sinistra questo va meno avanti, dato che il bilanciere ne impedisce lo spostamento, saremo quindi costretti a flettere l’anca e ci si dovrà per forza avvalere della catena cinetica posteriore.
A destra invece, dato che il ginocchio è libero di muoversi, la spinta viene data dalla sua estensione e quindi è a carico dei quadricipiti .
Capito questo passaggio possiamo dire che lo stacco con l’HexBar diventa più simile a un Sumo Deadlift , o a uno squat, rispetto alla versione base.

Tra le altre cose fu questo studio che portò me e Luca Usai a scrivere l’articolo sulle EMG. Dato che personalmente mi occupo di Bobybuilding, e quindi non mi importa allenare i movimenti ma i distretti muscolari, vi faccio notare come da queste differenze si genera un diverso sviluppo muscolare ed è quindi importante tenerle presente quando programmate le varianti per i vostri workout. Grazie a questi studi “pare” che la Quadra Bar sia migliore per sviluppare potenza, forza, e velocità da poter poi trasferire ( per gli agonisti ) sul movimento classico.

Ad onor del vero va fatto notare, che una ricerca simile alla prima citata ha dato risultati diversi, in sostanza ingaggiando nello studio dei professionisti invece che gli amatori, non ci sono state differenze sui massimali tra il bilanciere dritto e l’Hexbar, e sicuramente questo avviene per la maggiore esperienza dei partecipanti.
Ma i vantaggi diventano evidenti anche per chi ha avuto lesioni o traumi spinali, infatti un’altra serie di studi ha dimostrato come la zona lombare soffra notevolmente di meno con la TrapBar piuttosto che un bilanciere dritto, tanto che nei programmi di allenamento Americano, soprattutto nel rugby, si inizia a preferire questa versione. Ma empiricamente basta vedere la foto precedente per notare come a parità di altezza di presa sul bilanciere la schiena sia più verticale e meno sotto stress.

Il centro della discussione è che come per tutti gli esercizi, ma a maggior ragione per i tre big che sembrano erroneamente intoccabili, non tutti i soggetti possono fare tutti gli esercizi e lo Stacco da terra non fa differenza.

Com’è facile intuire da quanto evidenziato prima, ci possono essere problemi di ROM alle anche, alle caviglie, problemi di stabilità spinale, alle ginocchia, di elasticità degli ischiocrurali ecc ecc… in questi casi anche facendo un movimento corretto i vantaggi muscolari saranno l’ultima cosa che ci darà l’allenamento, mentre si andranno solo a stressare inutilmente legamenti, capsule articolari, dischi vertebrali e giunture in genere.
Ma noi alleniamo i muscoli e allora che senso ha ostinarsi a fare dei movimenti che non ci danno vantaggio? E’ vero che il Deadlift con bilanciere dritto ha una storia più lunga, ed è vero che un HexBar nella mente dei puristi è una variante “bastarda” figlia della fornicazione di un duca con una sguattera, ma a voi interessa cosa pensa la gente o siete più interessati a portare risultati a casa?

E’ evidente che in presenza di simili problemi, la QuadraBar consenta una meccanica migliore, da meno forze di taglio sui lombari, lascia più tranquille tutte le parti non contrattili del corpo e consente un maggiore focus sui muscoli target, quindi perché insistere ?
Tanto per non discutere dei fatti in astratto, come chi mi segue sà, io ho una lesione spinale operata, quando faccio determinati esercizi non posso spingere come dovrei/vorrei perché la preoccupazione maggiore va alla sicurezza del movimento , e alla qualità di esecuzione. Il risultato è che i miei Squat sono diventati esercizi complementari , e una sorte simile è toccata allo stacco, finche non ho comprato un HexBar, che mi consente di caricare in modo più tranquillo senza avere troppe preoccupazioni. Tutti i vantaggi con meno svantaggi. Per la cronaca sono pure circa tre anni che non uso la panca piana.

Su Amazon abbiamo trovato questo prodotto che sembra buono, se lo acquistate fateci sapere:

Adesso però vediamo i mille modi in cui possiamo divertirci con un bilanciere cosi strano.
Intanto come avete visto con le foto dei vari modelli di bilanciere è possibile sfruttare una presa più rialzata o una a livello base, quindi usando il livello di grip inferiore, per le esatte motivazioni sovra esposte , si può tranquillamente eseguire un sostituto dello squat.
Esistono poi una sfilza di esercizi a presa neutra che si possono sfruttare:

body row con trap barBody row con TrapBar

Piegamenti instabili con quadrabarPiegamenti instabili con QuadraBar

rematore con hexe barRematore con Hex Bar

panca stretta quadra barFloor Press e Panca Stretta con la Quadra Bar

curl inverso quadra barCurl inverso Quadra Bar

Stacco gambe tese hexebarStacco gambe tese HexBar

Military press hexebarMilitary press Hex Bar

scrollate quadra barScrollate Quadra Bar

esercizi trap barFront squat e piegamenti TrapBar

esercizi hexe barQuesti più mille altri esercizi…

Vi lascio con tre video per prendere altri spunti (1, 2, 3) ed un po’ di riferimenti e con questo abbiamo finito.

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21659894
https://www.researchgate.net/publication/292437161_An_Examination_Of_Muscle_Activatio n_And_Power_Characteristics_While_Performing_The_Deadlift_Exercise_With_Straight_And_H exagonal_Barbells
http://journals.lww.com/nsca- jscr/Abstract/2016/05000/An_Examination_of_Muscle_Activation_and_Power.2.aspx
http://nrl.northumbria.ac.uk/5534/

Note sull’autore
Alessandro Gambadoro o Alexei Stratos per la rete :
“Chi sono? Non c’è moltissimo da dire, sono solo uno dei tanti che un giorno è entrato in una sala pesi per sbaglio e ha avuto un colpo di fulmine. I primi anni sono stati pieni di insuccessi, però ho cominciato a sentirmi a casa. Dopo un po’ di tempo ho iniziato a informarmi per conto mio perché il personale in sala ne sapeva quanto me. Ho cominciato dalle riviste del settore poi ho iniziato a fregare dei libri al mio mentore del tempo che intanto mi spiegava quello che facevamo. Internet non c’era e non avevi alternativa, imparavi dall’esempio che ti davano gli altri.
Amo questo settore perché non smetti mai di provare, di imparare, di capire… Dopo 17 anni ancora so di non essere ad un grande livello. Probabilmente sono più conosciuto per le mie disavventure sanitarie che per altro. Lavoro in sala da sempre, anche se per tantissimi anni gratis. Era evidente da subito che non avessi chissà quale talento fisico, ma fortunatamente ho sempre trovato più soddisfazione nel seguire gli altri. Dal 2008 mi diletto a scrivere e raccontare tutto quello che so sul mio blog http://www.palestratos.it e da un pò di tempo ho anche una pagina facebook ( La Barriera ) che gestisco con un collega e amico ( Danilo Russo) e ho un profilo IG https://www.instagram.com/palestratos/

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Tirate al Mento: verità, miti e leggende

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Le Tirate al Mento in palestra sono da sempre proposte per la stimolazione diretta e mirata del muscolo trapezio superiore e costituiscono spesso il salvagente consigliato a chi ha la necessità, vera o presunta, di attivare questo muscolo allo scopo di colmare un punto carente. Negli anni attorno all’esecuzione di questo esercizio sono nati dubbi e questioni che abbracciano un po’ tutti i campi di analisi: dal famigerato rischio articolare paventato da molti professionisti, fino al reale beneficio muscolare per il muscolo indicato da tutti come target dell’esercizio.

Una rapida analisi delle due questioni, affrontate come sempre con il fondamentale mix di scienza applicata e spirito critico, aprirà la strada a considerazioni oggettive e impermeabili alle opinioni e alla corrente del “sentito dire”. È proprio vero che le Tirate al Mento col bilanciere attivano in maniera efficace il trapezio superiore? Sono pericolose per la spalla? Scopriamolo insieme.

Tirate al Mento: per il deltoide o per il trapezio?

Da un punto di vista meramente biomeccanico, l’esercizio prevede l’esecuzione di un’abduzione che supera di poco i 90° con l’omero in rotazione interna. Assodato che, decodificando l’esercizio nella grammatica biomeccanica, parliamo di abduzione dell’omero, non sbagliamo se affermiamo che tale movimento è regolato da quello che in fisiologia articolare viene definito ritmo scapolo-omerale. Questo principio mette in relazione il movimento omerale con quello della scapola durante il sollevamento dell’omero e di rimando ci dà informazioni quindi sui muscoli che muovono questi due segmenti ossei, tra cui deltoide e trapezio superiore. Sarà quindi conveniente e consigliabile rifarsi a questi principi per dirimere la questione attivazione muscolare nelle Tirate al Mento.

ritmo scapolo-omerale

Tutti i sacri testi di fisiologia articolare, tra cui Kapandji e Neumann, sembrano essere concordi nel ritenere l’attività del trapezio superiore maggiore di quella del deltoide oltre i 90° di abduzione dell’omero, pur precisando che i due muscoli sono sempre attivi in simultanea lungo tutto l’arco di movimento (parliamo di enfasi maggiore).

In particolare, analizzando invece la letteratura scientifica e gli studi elettromiografici, uno studio di Bagg e Forrest del 1988 ci consegna una visione più precisa e veritiera della biomeccanica scapolo-omerale in abduzione concludendo che:

  • nei primi 80° di movimento di abduzione il ritmo scapolo-omerale è di 3:1 in favore dell’omero, con un coinvolgimento maggiore del deltoide;
  • tra 80° e 140° di abduzione il ritmo è di 2:1 in favore dell’omero, con un aumento dell’attività del trapezio superiore;
  • tra 140° e 170° di abduzione il ritmo è di 1:1, con il trapezio che invece aumenta la sua attività a scapito di quella del deltoide.

Con una rapida analisi del movimento durante le Tirate al Mento con manubri o bilanciere, osserviamo facilmente che l’abduzione dell’omero ricercata non raggiunge mai i 120°, anche con gomiti molto alti, non entrando quindi nel range di movimento 140°-170° considerato dalla letteratura più stimolante per il trapezio superiore. Se incrociamo quindi l’analisi del movimento effettuata con la letteratura scientifica possiamo concludere con assoluta certezza che, in un contesto sia chiaro dove i due muscoli in questione si contraggono in simultanea, il trapezio superiore non è stimolato in maniera efficace come si crede, bensì è il deltoide che si sobbarca un lavoro maggiore. Le Tirate al Mento non possono così essere catalogate con sicurezza nella categoria “esercizi per il trapezio”.

gradi tirate al mento bilanciere

Tirate al Mento bilanciere: il rischio articolare per la spalla

L’impugnatura stretta del bilanciere durante le Tirate al Mento Bilanciere, associata all’indicazione classica “gomiti alti”, comporta necessariamente una combinazione di abduzione e intrarotazione dell’omero. Questa combinazione biomeccanica può effettivamente essere giudicata un fattore di rischio per la spalla nella generazione della sindrome da conflitto sub-acromiale. È possibile affermare ciò in base a quattro fattori:

  1. numerosi studi in letteratura riportano una diminuzione dello spazio sub-acromiale e una maggiore pressione sui tessuti molli intra-articolari della spalla durante l’associazione di abduzione e intrarotazione dell’omero;
  2. in fisioterapia e in riabilitazione la spalla viene sempre trattata attraverso movimenti associati di abduzione ed extrarotazione parziale, scoraggiando da sempre l’associazione di abduzione e intrarotazione seguendo l’indicazione di sacri testi del settore clinico;
  3. osservando la casistica di infortunio degli sport si registrano sindromi da conflitto alla spalla con maggiore frequenza in quegli atleti che, nell’attività sportiva agonistica, si trovano costretti a eseguire abduzioni associate a intrarotazioni dell’omero (nuoto e baseball su tutti);
  4. numerosi test clinici di evocazione del dolore prevedono di associare abduzione e intrarotazione dell’omero proprio per generare volontariamente un conflitto all’interno dell’articolazione e indirizzare la diagnosi ancor prima dell’imaging biomedica. Su tutti il test di Hawkins è quello che in assoluto assomiglia di più all’esercizio Tirate al Mento.

tirate al mento dolore

In base a tutto ciò, non si sbaglia se si considera le Tirate al Mento un esercizio potenzialmente più rischioso di altri in palestra, specie se il soggetto è già predisposto (storia clinica di dolore alla spalla da impingement o alterazione della statica scapolare o dell’equilibrio muscolare) e si utilizzano alti carichi nel lungo periodo.

Conclusioni di buon senso: Tirate al Mento, che fare?

In definitiva quindi, che fare? Sicuramente in base a quanto ci dice la scienza e a ciò che possiamo adeguatamente interpretare per il fitness, l’esercizio Tirate al Mento costituisce una forzatura poco utile della quale si può sicuramente fare a meno. Infatti, è bene non considerarlo a tutti gli effetti un esercizio mirato per il trapezio superiore, come invece si crede, ma più un esercizio per il deltoide. Inoltre, la struttura in sé dell’esercizio lascio poco spazio a correzioni che lo facciano rientrare maggiormente nella fisiologia articolare della spalla.

L’unico accorgimento che può essere attuato per ridurre i rischi è quello di abbassare il più possibile i gomiti per neutralizzare parzialmente l’intrarotazione, consapevoli che comunque così facendo si ridurranno ancor di più i gradi di abduzione, trasformando l’esercizio in un Alzata Laterale con gomiti flessi.

tirate al mento tirate al petto

L’abbondante presenza di esercizi più fisiologici per trapezio e per il deltoide (Lento Avanti e Alzate Laterali) fa delle Tirate al Mento un esercizio con poco senso e tranquillamente sostituibile. Né dal punto di vista articolare né da quello muscolare vi è una ragione valida per eseguirlo e proporlo con costanza in una scheda di allenamento per le spalle.

In generale piuttosto che eseguire le tirate al mento, conviene fermare prima l’escursione di movimento e fare delle tirate al petto.

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GH e composizione corporea

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La nostra composizione corporea è influenzata da 1000 fattori, tra questi ci sono anche quelli ormonali. Ma quanto contano? Quanto sono rilevanti? In questo articolo studieremo l’ormone della crescita anche chiamato somatotropo o GH. Nell’adulto quanto influenza la composizione corporea l’ormone della crescita e quali sono le strategie per alzarlo?

Alcune nozioni basilari sul GH

La somatotropina (il GH), ricopre svariate funzioni nell’essere umano. In questo paragrafo ci concentreremo sui suoi effetti nell’adulto e non durante il periodo di crescita. Il GH è un ormone peptidico (composto da 191 aminoacidi) con secrezioni pulsatorie. Ovvero l’organismo lo immette nel flusso sanguigno ad intervalli “regolari” aumentando notevolmente la sua secrezione nelle prime ore del sonno. Vedremo a breve che alcune strategie alimentari cercano di sfruttare i suoi ritmi circadiani.

ritmi circadiani GH

La sua produzione ha una funzione principalmente iperglicemizzante (controinsulinare) e serve per stabilizzare la glicemia durante il digiuno (notturno o in chi fa il digiuno intermittente).

L’ormone della crescita ha anche una funzione positiva sulla sintesi proteica, sulla ritenzione d’azoto e sul risparmio del tessuto muscolare. Questi effetti sono mediati dall’influenza che ha il GH su un altro ormone prodotto dal fegato: l’IGF-1 . L’effetto anabolico del GH è tuttavia poco rilevante nei soggetti natural.

Più marcato è invece la sua azione lipolitica. L’ormone GH aumenta la lipolisi e l’ossidazione degli acidi grassi nel mitocondrio. Il somatotropo shifta il metabolismo da quello degli zuccheri (metabolismo glucidico) a quello dei grassi. Il corpo così consuma maggiormente, come combustibile, gli acidi grassi rispetto al glucosio.

Arrivati a questo punto sorge la domanda, ma allora il GH fa dimagrire di più?
La risposta è purtroppo NO.

Un miglior metabolismo lipidico, una miglior lipolisi ed ossidazione degli acidi grassi non vuol dire che la persona sta dimagrendo di più, ma semplicemente che sta utilizzando maggiormente (in acuto) come carburante i lipidi.
Confusi? Ora spieghiamo.

L’omeostasi del nostro grasso corporeo è dato dal bilancio tra quello che mangiamo e quello che consumiamo (nel medio-lungo termine). Il corpo umano consuma solo quando ne ha bisogno, non si mette a bruciare le sue riserve di grasso inutilmente. Il metabolismo glucidico e lipidico sono due facce della stessa medaglia che contribuiscono a metabolizzare le riserve per rispondere alle esigenze organiche. Ma sono sempre quest’ultime a decretare quanto dimagriremo.

Se seguo una dieta chetogenica shifto il mio metabolismo quasi esclusivamente sui grassi, ma se mangio troppo ingrasso uguale.
Nello stesso modo se seguo una dieta mediterranea shifto il mio metabolismo in buona parte sugli zuccheri, ma se mangio meno dimagrisco.

Questo avviene perché è il bilancio energetico a decretare se si attivano processi anabolici o catabolici, i metabolismi sono solo degli strumenti che l’organismo utilizza per raggiungere il medesimo risultato. Grazie all’ormone GH posso mobilizzare di più i grassi, ma senza deficit calorico rimarranno nel flusso ematico e saranno ossidati esclusivamente in base alle richieste energetiche.

Carboidrati a cena e picco del GH notturno

Negli anni, a partire dalla cronodieta, si è sentito che non bisognava mangiare i glucidi la sera perché altrimenti l’insulina smorzava il picco del GH notturno. Anche se questa considerazione può essere in parte vera, la letteratura ha dimostrato che a livello di dimagrimento non cambia assolutamente nulla tra avere il picco notturno più o meno alto. Una condizione cronica di ipo produzione dell’ormone della crescita favorisce l’obesità, ma il GH va sempre letto in relazione agli altri ormoni.

Si è visto che mangiare i carboidrati alla sera favorisce la produzione di leptina, un altro ormone che ha ancora di più un effetto positivo sulla composizione corporea. Avremo così meno GH ma più leptina. Alla fine il bilancio sulla composizione corporea non varia. Volete mangiarvi i glucidi a cena? A parità di quantità nelle 24h non vi cambia niente (state solo attenti che è più facile abbondare a cena rispetto agli altri pasti).

ritmi circadiani leptina

Proteine, arginina e produzione del GH

Si è visto che un pasto proteico stimola la produzione di GH. In realtà si è scoperto che sono alcuni aminoacidi, in particolare modo l’arginina a stimolare la produzione dell’ormone della crescita. Fatta questa scoperta l’industria dell’integrazione ha provato a vendere l’arginina anche per i suoi effetti sull’aumento della sintesi proteica.

Purtroppo assumere integratori d’arginina non vi farà diventare più grossi, a meno che non siate soggetti anziani, ospedalizzati, che mangiano poche proteine ed a cui viene somministrata l’arginina endovena (ovvero i soggetti dello studio in cui l’aminoacido aumentava in modo significativo la sintesi proteica).

Concludendo possiamo dire che è vero che le proteine hanno un effetto benefico sulla composizione corporea,  ma questo non avviene perché stimolano il GH, ma perché assieme a questo fattore ne innescano altri 999 positivi sulla ritenzione d’azoto e sui segnali cellulari.

arginina e GH

Allenamento ed ormone della crescita

Si è visto che allenamenti lattacidi con carichi medio-bassi e brevi recuperi stimolano la produzione di GH (l’ormone della crescita se stimolato in acuto favorisce l’ingresso del glucosio nella cellula). Pertanto negli anni per favore il dimagrimento, oltre che a strategie come l’HIIT, durante la fase di definizione si abbassavano i carichi per aumentare le ripetizioni. Ha senso fare tutto questo per aumentare di più l’ormone somatotropo?
Ovviamente la risposta è NO.

Sappiamo di già che per dimagrire bisogna instaurare un deficit calorico. Non esistono esercizi dimagranti, esistono esercizi che aumentano la spesa energetica. Tuttavia durante un periodo ipocalorico, in cui tutti i tessuti sono sottoposti a catabolismo è essenziale preservare il muscolo. Se abbassiamo i carichi perdiamo l’effetto positivo che hanno i pesi sul risparmiare i muscoli dal catabolismo indotto dalla dieta.

Servono carichi maggiori del 75% per segnalare all’organismo di preservare il tessuto muscolare. Se abbassiamo i pesi per stimolare il GH e consumare di più, otterremo si un “maggior” dimagrimento ma anche una maggior perdita di massa magra.

ormone della crescita e acido lattico

Conclusioni sul GH

In fisiologia è normale sentire tutto ed il contrario di tutto, semplicemente perché un ormone a seconda dei suoi livelli e delle interazioni che ha con altri ormoni, può fare una cosa come il suo esatto opposto. L’ormone GH può migliorare la composizione corporea come può portare all’insulino resistenza ed al diabete.

Bisogna pertanto leggerlo nel suo contesto e dargli la giusta importanza. Se adotto una strategia alimentare o d’allenamento, semplicemente perché prendo in considerazione solo il GH, rischio di fermarmi a guardare il dito, perdendomi la possibilità di contemplare la luna.

gh ormone

 

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Distensioni con manubri sopra la testa: come farle correttamente.

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Le distensioni con manubri sopra la testa, sono uno degli esercizi per i deltoidi più famosi del panorama fitness e bodybuilding, nonché uno dei più proposti a tutte le tipologie di persone per la stimolazione di quel gruppo muscolare che nelle schede di allenamento di ieri e di oggi viene codificato con il termine “Spalle”. In questo gruppo muscolare vengono racchiusi inconsciamente diversi muscoli tra cui, su tutti, il deltoide e il trapezio superiore, protagonisti durante l’esercizio di un movimento di abduzione dell’omero lungo il piano frontale.
Nonostante l’esecuzione di questo esercizio appaia semplice a un primo approccio, essa nasconde invece numerosi dubbi e altrettante sfumature esecutive che scatenano le domande degli appassionati sempre più alla spasmodica ricerca di risposte credibili e finalmente univoche. Come eseguire le distensioni sopra la testa in maniera efficace e sicura? Vediamo in pochi punti, attraverso l’applicazione pratica di materie scientifiche, come sia possibile guidare a un esecuzione più performante e consapevole.

Distensioni con manubri sopra la testa: escursione di movimento e attivazione muscolare

distensioni con manubri sopra la testaDistensioni con manubri sopra la testa partendo da 90°

Un primo dubbio che sorge riguarda l’escursione di movimento. Quasi sempre si vede eseguire le distensioni manubri sopra la testa  con un’escursione che va dai 90° ai 180° di abduzione, ossia con il gomito che parte all’altezza della spalla. Tale esecuzione può essere considerata corretta per l’attivazione efficace del deltoide? Se analizziamo i sacri testi di fisiologia articolare e la letteratura scientifica ad oggi validata, scopriamo che il movimento di abduzione che contraddistingue l’esercizio segue le regole del cosiddetto ritmo scapolo-omerale, che governa i movimenti di scapola e omero e di rimando ci informa sull’attivazione dei muscoli motori dei segmenti ossei in questione tra cui appunto, semplificando, deltoide e trapezio superiore.
ritmo scapolo omoraleRitmo scapolo-omerale

In particolare, uno studio di Bagg e Forrest del 1988 suggerisce come nei primi 80° di movimento di abduzione il ritmo scapolo-omerale sia di 3:1 in favore dell’omero, tra 80° e 140° di abduzione sia di 2:1 in favore dell’omero e tra 140° e 170° di abduzione sia di 1:1.
In virtù di ciò possiamo affermare che, in un contesto nel quale omero e scapola si muovono sempre in simultanea e in simultanea si contraggono trapezio superiore e deltoide, sicuramente il contributo del deltoide nei primi 90° è maggiore (3:1) rispetto al trapezio, che invece aumenta la sua attività a scapito di quella del deltoide a gradi maggiori di abduzione (1:1).
Semplificando molto possiamo quindi affermare con più consapevolezza che, se l’obiettivo è un’efficace stimolazione del muscolo deltoide, l’esecuzione che spesso viene consigliata con l’omero che parte a 90° gradi di abduzione è da sconsigliare, a favore di un ROM in abduzione completo che contempli anche i primi 90° di movimento. Tale accorgimento, ottenuto partendo con le braccia lungo i fianchi e i gomiti flessi, permetterà una migliore attivazione del deltoide, come confermato anche da uno studio elettromiografico di Paoli del 2010.

distensioni sopra la testa con manubriPartenza distensioni manubri partendo lungo i fianchi

Distensioni sopra la testa: disfunzioni scapolari e salute articolare

Durante un movimento di abduzione completo fino a 180° come quello che avviene nelle distensioni con manubri, la scapola deve effettuare un corretto movimento di elevazione, rotazione craniale di circa 60° e tilt posteriore per garantire un movimento fluido nel quale il trochite ritarda il contatto con l’acromion ed evita di intrappolare i tendini della cuffia dei rotatori, condizione predisponente la sindrome da impingement (Atalar H et al., 2009). È quindi di fondamentale importanza valutare i movimenti scapolari durante l’esercizio, ponendosi alle spalle della persona e rilevando eventuali asimmetrie di movimento.

valutazione scapolareValutazione scapolare

Non di rado si possono osservare deficit di elevazione e di rotazione craniale di una delle due scapole, condizione che può aumentare il rischio infiammazione tendinea specie con alti carichi e nel lungo periodo. Per questo dovere del professionista sarà quello di aiutare la persona a eseguire un movimento scapolare corretto anche tramite feedback tattili e verbali, supportando manualmente se necessario il movimento deficitario.

Distensioni sopra la nuca: il rispetto del piano scapolare

Molto spesso si vede eseguire le distensioni sopra la testa lungo un piano frontale puro, con i gomiti mantenuti molto indietro e con l’omero perpendicolare al tronco. Tale esecuzione cozza un po’ con la funzionalità della spalla. Parlando di articolazione scapolo-toracica notiamo che la scapola, seguendo l’andamento curvo della gabbia toracica, prende posto formando un angolo di 30° con il piano frontale: è il cosiddetto piano scapolare. Praticamente il 99,9% dei movimenti di vita quotidiana nei quali solleviamo il braccio avvengono lungo questo piano, basti pensare a come portiamo il cibo alla bocca o a come ci pettiniamo (Kapandji, 2002).

assetto scapolareLinea della scapola

Anche se analizziamo la clinica riabilitativa possiamo notare che ogni esercizio di recupero funzionale per la spalla (Sahrmann, 2008) viene somministrato rispettando tale piano soggettivo di movimento. Alla luce di queste considerazioni sembrerebbe quindi altrettanto auspicabile rispettarlo anche in palestra, dove la spalla viene spesso sottoposta a carichi importanti come durante il Lento Avanti.
Eseguire un’abduzione con sovraccarico lungo il piano scapolare favorisce così il rispetto di un’importante caratteristica strutturale, elimina possibili forzature e garantisce una totale naturalezza del gesto (Escamilla, 2009). In particolare, durante le distensioni con manubri, il rispetto del piano scapolare garantisce:

  • una tensione-lunghezza ottimale del complesso muscolare della cuffia dei rotatori, che può così espletare la sua funzione di stabilizzazione-scivolamento caudale della testa dell’omero in maniera efficace;
  • l’esecuzione di un movimento nel quale la capsula risulterà completamente detorta;
  • il mantenimento di un buon allineamento della testa dell’omero nella glena risultante in un’ottima congruenza articolare, in una conseguente maggiore stabilità e in un diminuito rischio impingement specie in soggetti con spalle anteposte.

In palestra è possibile beneficiare di tutto ciò solo se eseguiamo le distensioni rispettando il piano scapolare, ovvero eseguendo un’abduzione associata a flessione con omero anteposto di circa 30° e non un’abduzione pura lungo il piano frontale come spesso si vede fare.

distensioni linea scapolaDistensioni con manubri in linea con la scapola

Distensioni con manubri da seduto o sopra la testa?

Un’altra domanda frequente riguarda l’esecuzione delle distensioni con manubri da seduto o in piedi. In generale è possibile dire che l’esecuzione in piedi è da preferire specie in persone sedentarie con bacino retroverso e lordosi lombare rettilineizzata. Tale variante garantirà il mantenimento di una lordosi lombare in leggera estensione, mobilizzando questa regione anatomica in direzione opposta alla postura alterata consolidata nel quotidiano.

distensioni con manubri in piediDistensioni con manubri da in piedi

Per le persone con lombalgia cronica o sporadica sarà importante valutare caso per caso la natura del problema (ernia/protrusione discale o contrattura muscolare lombare) e agire di conseguenza, consapevoli che la posizione seduta aumenta la pressione sui dischi intervertebrali e quella in piedi carica maggiormente la muscolatura paravertebrale e del core, sovraccaricando in misura maggiore le faccette articolari specie in soggetti con iperlordosi.
Se si decide di optare per l’esecuzione da seduti è consigliabile portare le gambe leggermente indietro (estensione d’anca). In tal modo verrà preservata una lordosi lombare fisiologica funzionale al sollevamento del carico e aumenterà la resistenza della vostra colonna anche attraverso una concomitante attivazione della fondamentale muscolatura trasversa dell’addome e del mutlifido.

distensioni con manubri da sedutoDistensioni con manubri da seduto

Conclusioni sulle distensioni sopra la testa con manubri

Tirando le somme di quanto detto finora, vediamo di riassumere i punti fondamentali da seguire per un’esecuzione del Lento Avanti con manubri scientifica e ottimale sotto tutti i punti di vista.

  • L’inizio del movimento è fissato a 0° di abduzione, con l’omero lungo i fianchi, e non a 90° di abduzione come sempre si vede fare. In questo modo verrà eseguita un’abduzione a ROM completo utile per un’efficace stimolazione di deltoide e trapezio superiore.
  • I gomiti devono trovarsi sotto i polsi e l’avambraccio si trova in posizione neutra (ne pronato ne supinato) e perpendicolare al pavimento.
  • Da questa posizione spingete in alto i manubri portandoli fin sopra la testa estendendo completamente i gomiti. Durante la spinta mantenete i manubri paralleli tra loro (avambraccio in posizione neutra) con una rotazione esterna parziale dell’omero. L’eventuale rotazione dei manubri è del tutto irrilevante in quanto è conseguenza della pronazione dell’avambraccio che è un movimento ininfluente per la stimolazione del deltoide e del trapezio.
  • Ogni ripetizione deve concludersi con le braccia lungo i fianchi, solo così si avrà un’efficace contrazione del deltoide e un ROM completo. Eseguite l’esercizio seguendo il piano scapolare, ovvero con l’omero anteposto di circa 30°, in modo da favorire una maggiore congruenza articolare e la funzionalità della cuffia dei rotatori.

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Longevità e terza età: come l’allenamento le migliora

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Programmare e personalizzare l’allenamento in età avanzata in maniera completa e professionale per rallentare un fenomeno fisiologico come l’invecchiamento, è di primaria importanza, per prevenire tante patologie a cui si può andare incontro con il passare degli anni. Proporre un intervento, ben strutturato, diventa più importante rispetto a qualsiasi altra cosa, prima che sia troppo tardi e sia necessario l’intervento del medico o di altre figure professionali. Sono ancora poche le persone anziane che si allenano con sovraccarichi e al contrario sono ancora tante le persone anziane e non che si intimoriscono al solo sentirsi proporre un allenamento con i pesi.

Negli ultimi anni qualcosa sta cambiando grazie alla ricerca e ai nuovi studi che danno buoni spunti per cercare di rallentare la sarcopenia (processo fisiologico complesso e multifattoriale).

I nuovi studi a riguardo possono notevolmente servire al personal trainer ed alle altre figure professionali per collaborare al fine di aumentare e mantenere il benessere fisico e l’integrità strutturale del soggetto, mediante un’attenta valutazione degli aspetti dell’invecchiamento con una programmazione mirata dell’allenamento.

Spesso viene consigliato alle persone senior di camminare, andare in bici o altre attività similari, ma tutto ciò non è sufficiente a rallentare la sarcopenia. Anche eseguire per interi mesi sedute di stretching e mobilità non è per nulla utile per tale declino, dal momento che il vero professionista consiglia le giuste sedute in base alle necessità.

L’obbiettivo è ragionare a 360° proprio partendo dalla conoscenza della sarcopenia e dai fenomeni che si instaurano nell’invecchiamento.

Ciò che personalmente mi auguro accada in futuro è che il soggetto anziano, nel momento in cui lamenta fastidi e problemi legati al fisiologico indebolimento fisico, venga supportato dal medico di base non solo attraverso la prescrizione di medicinali, ma anche mediante invito a seguire UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO STRUTTURATO, PERSONALIZZATO E DOSATO DA UN BRAVO PERSONAL TRAINER.

Lo scopo dell’articolo non è fornire un’analisi completa sulla sarcopenia, ma, partendo da un po’ di fisiologia, condividere alcun mie conoscenze apprese grazie agli studi e ai continui aggiornamenti, per poi proporre un esempio di strategia di allenamento ANTI-AGING, avvalendomi anche dei risultati ottenuti da un soggetto da me allenato.

Ritengo sia questo l’approccio più congeniale da adottare con i soggetti ormai non più giovani e, con il tempo, mi piacerebbe ricevere feedback da altri colleghi e così facendo permettere a più figure professionali di interagire. Teoria, pratica e collaborazione per garantire longevità!

Invecchiamento ed adattamenti fisiologici

Con il passar dell’età si ha una riduzione della massima capacità di prestazione fisica e la cosa più sbagliata è proprio ridurre l’attività fisica. Uno degli aspetti più importanti che viene meno è la POTENZA, ovvero la perdita di forza e velocità di contrazione, ma nonostante ciò le indicazioni e le proposte sono la maggior parte di carattere aerobico. Ricollegandomi a quanto scritto prima non ho ancora avuto la fortuna di conoscere (in base alla mia esperienza) nessun medico di base consigliare ad un soggetto anziano di avvicinarsi ad un allenamento con sovraccarichi seguito da un bravo personal trainer.

Questi ultimi hanno da sempre consigliato lunghe camminate che indubbiamente possono essere molto utili all’inizio e un’ottima terapia per un soggetto sedentario o su un soggetto iperteso, ma in età avanzata non è solo il sistema cardio-respiratorio ad essere meno efficiente.

La sarcopenia

Già dopo i 40 anni si ha una perdita di massa e funzione muscolo scheletrica e questo fenomeno viene definito SARCOPENIA (Rosenberg – 1988). Il muscolo è un trasformatore di energia che dopo i 40-50 anni diminuisce quantitativamente e qualitativamente, portando conseguenze alla funzionalità motoria associate ad un aumento di massa grassa soprattutto profonda-viscerale, che incidono negativamente a livello metabolico.
I muscoli svolgono un ruolo fondamentale nella salute generale e nel benessere in tutte le fasi della vita, ma soprattutto in età avanzata.

La sarcopenia quindi è una sindrome caratterizzata da una progressiva perdita di massa muscolo scheletrica e della forza che porta ad una disabilità fisica e ridotta qualità della vita. E’ importante sottolineare che la perdita di forza non è lineare alla perdita di massa muscolare.

La perdita di massa muscolare legata all’età è un fattore indipendente e predittore di mortalità: avere pochi muscoli riduce le aspettative di vita e aumenta il rischio di morte per tutte le cause.

Il declino della massa muscolare è dovuto ad una diminuzione delle dimensioni delle cellule muscolari (ATROFIA) e ad una diminuzione del numero di cellule muscolari (IPOPLASIA).  SI ha un’atrofia ed ipoplasia di tutte le fibre muscolari, ma in particolare di quelle che esprimono “FORZA”.

sarcopenia anziano

Queste alterazioni muscolari generano ulteriori problemi come instabilità posturale, trofismo osseo, stanchezza e debolezza, perdita di autonomia funzionale/indipendenza, aumento delle morbilità.

L’atrofia muscolare è anche associata a obesità e miosteatosi (obesità sarcopenica), che portano ad un aumento del grasso viscerale e intramuscolare e relativo aumento dell’infiammazione e citochine pro-infiammatorie (IL-6, IL-1, TNF-alfa). Tutto questo favorisce l’insorgenza di malattie cardiovascolari, diabete, infarti, ictus.

L’insieme di tutti questi elementi da origine ad un circolo vizioso che contribuisce ad aggravare uno stile di sedentario, accelerando la perdita muscolare e facilitando l’aumento di massa grassa.

E’ molto importante distinguere i vari tipi sarcopenia perché un soggetto sarcopenico è diverso da un soggetto obeso sarcopenico, cosi come quest’ultimi sono diversi da un soggetto osteosarcopenico.
Il soggetto più deficitario è quello obeso osteo-sarcopenico (OSO) ossia la condizione in cui si presentano ostepenia/osteoporosi, sarcopenia e obesità in contemporanea. Riconoscerli è fondamentale perché sono 4 tipi di interventi differenti con priorità diverse.

La muscolatura risponde a un principio anglosassone importante “use- it-or-lose-it” ( “o la uso o la perdo”)

invecchiamento muscolo grasso

La perdita della capacità di sviluppare forza muscolare dipende anche da altri fattori:

  • perdita di densità minerale ossea (osteoporosi /osteopenia);
  • alterazione della cartilagine articolare dei tendini e legamenti con riduzione della trasmissione di forza;
  • modificazione dell’architettura muscolare (angolo di pennazione) in seguito ad atrofia ed ipoplasia;

Cause e modifiche neuromuscolari con l’invecchiamento 

  • perdita del numero dei motoneuroni soprattutto quelli veloci. Alcuni motoneuroni lenti possono re-innervare alcune fibre di motoneuroni veloci morti comportando una minore finezza dei movimenti;
  • modifiche strutturali delle giunzioni neuromuscolari. La giunzione neuromuscolare è il punto in cui il nervo manda un segnale chimico (acetilcolina) al muscolo per dire a quest’ ultimo che cosa fare. Cosi con l’età si riduce sia la velocità che la qualità dei messaggi che vanno dai nervi ai muscoli (abbassamento della qualità di trasmissione chimica e infiltrazione della guaina mielinica);
  • diminuzione della frequenza di scarica, velocità di conduzione;
  • diminuzione della forza, velocità, potenza e forza isometrica;
  • diminuiscono i ponti actomiosinici;
  • atrofia selettiva di tutti i tipi di fibra.

 Sarcopenia e stress ossidativo

I muscoli anziani sono soggetti ad uno stress ossidativo causato dai radicali liberi (ROS: Reactive Oxigen Species) che porta ad un accumulo di aldeide tossiche, provocando il danneggiamento del DNA, l’invecchiamento e specifiche patologie. A seguito di tutto ciò si hanno inoltre disfunzioni mitocondriali con deficit di produzione di ATP e minore Vo2max

Sarcopenia e cellule satellite 

Le cellule satelliti mediano la crescita muscolare post natale e sono cellule mononucleate in stato di quiescenza, finché stimoli tipo stress meccanici, lesioni e anche contrazioni rapide ne determinano l’attivazione. L’incremento di massa muscolare e soprattutto l’attività rigenerativa del muscolo sono correlati ai micro-danni da CONTRAZIONE ECCENTRICA.

Con l’aumentare dell’età si ha una ridotta capacità di proliferazione e riparazione delle cellule satelliti e l’attività di quest’ultime risponde allo stimolo del danno anche in età avanzata.  Quindi la riparazione delle cellule satelliti è strettamente legata ad una contrazione ad alta intensità.

Un altro problema del muscolo invecchiato è la minor quantità di elastina, quindi è meno efficiente il ritorno elastico tendineo e assieme all’aumento della quantità di collagene inducono con l’allenamento maggiore infiammazione  diminuendo la capacità di recupero. Tutto questo non vuol dire che non si possano svolgere allenamenti d’ipertrofia e di forza , ma devono essere PERSONALIZZATI e DOSATI tenendo conto del soggetto e svolti con una corretta esecuzione biomeccanica. Cosi come personalizzato dovrà essere la seduta di allungamento e postura per aumentare ROM, mobilià e flessibilità… quindi niente corsi di gruppo!

modifiche muscolo con l'età

Cambiamenti endocrini 

La funzione endocrina , in modo particolare quella dell’ipofisi, del pancreas, della tiroide e delle ghiandole surrenali si modifica con l’età. La maggior prevalenza di malattie negli anziani si correla a fattori controllabili quali una dieta qualitativamente povera, un’attività fisica inadeguata e un incremento del grasso corporeo, in modo particolare nella regione viscero-addominale

  • IPOFISI ANTERIORE: DIMINUIZIONE DI GH E IGF1 = SOMATOPAUSA
  • GONADI: DIMINUZIONE DI ESTRADIOLO E TESTOSTERONE = MENOPAUSA E ANDROPAUSA
  • SURRENALI: Ridotta produzione della corteccia surrenale di deidroepiandrosterone (DHEA) = ADRENOPAUSA

Con il passar dell’età quindi i sistemi e gli ormoni anabolici diminuiscono, ma il soggetto anziano mantiene comunque la capacità di aumentare la secrezione ormonale (GH) in risposta allo stimolo rappresentato dall’esercizio fisico, soprattutto ad alta intensità.

Declino e cambiamento con il passare dell’età di altre funzioni e capacità

  • DECLINO DELLA FUNZIONE CARDIOVASCOLARE, DECREMENTO DELLE FUNZIONI CENTRALI E PERIFERICHE, collegati con il trasporto e l’utilizzo dell’ossigeno che influenzano il declino della capacità aerobica
  • DIMINUZIONE DELLA MASSIMA FREQUENZA CARDIACA: 1 battito/min all’anno. Stima approssimativa della riduzione della fc max in funzione dell’età è rappresentata dall’ equazione  FCmax = 220 – età (anni)
  • DIMINUZIONE DELLA MASSIMA GITTATA CARDIACA a causa della riduzione della massima frequenza cardiaca e anche della riduzione della gittata sistolica dovuto ad una maggiore resistenza periferica (perdita di elasticità dei vasi) ed una diminuzione della contrattilità del ventricolo sinistro.
  • AUMENTO DELLA PRESSIONE ARTERIOSA SIA A RIPOSO E SIA IN CONDIZIONE DI ESERCIZIO
  • DIMINUZIONE DELLA FUNZIONE RESPIRATORIA dovuta ad una progressiva riduzione dell’elasticità del polmone e della gabbia toracica
  • DIMINUZIONE DELLA MOBILITA’ ARTICOLARE, COORDINAZIONE, EQUILIBRIO.
  • DIMINIZIONE STATURA DOVUTA A DEGENERAZIONE E COMPRESSIONE DEI DISCHI INTERVERTEBRALI E SPAZI ARTICOLARI
  • DIMINUISCE LA CAPACITA’ DI SINTESI PROTEICA, MA ABBIAMO ANCHE UNA DIMINUZIONE DELLA DEGRADAZIONE. Il meccanismo e la via di segnale principale della degradazione è FOXO nel quale le proteine vengono eliminate una volta ubiquinate / riconosciute dal proteosoma. Nel soggetto anziano quindi non abbiamo più una condizione di equilibrio tra sintesi e degradazione

Personalizzare l’allenamento in età avanzata

FIT CHECK E QUESTIONARIO ANAMNESI MEDICA.

Soggetto: DONNA DI ANNI 64, NESSUNA CONTROINDICAZIONE ALL’ATTIVITA’FISICA COME INDICATO DAL MEDICO DI RIFERIMENTO. ASSENZA DI IPERTENSIONE, ASSENZA DI SINDROME METABOLICA. LA VISITA CARDIOLOGICA CONFERMA CHE NON CI SONO PATOLOGIE AL CUORE.

Sintomatologia: DOLORI E FASTIDI A LIVELLO CERVICALE E LOMBARE, CON ASSENZA DI ERNIE. PRESENZA DI OSTEOPOROSI

 SOGGETTO IN OSTEOSARCOPENIA

(Esempio di informazioni raccolte)
(In caso di disabilità e di soggetti patologici valutare il programma di allenamento con altre figure professionali e prendere come riferimento le varie linee guide dell’ACSM).

Dopo un fit-check ed un’anamnesi generale e medica vengono apportati ed eseguiti i vari test. Ogni tipo di allenamento deve essere supportato e coordinato da test di valutazione.

Test ad uso del Personal Trainer al fine di definire la sarcopenia

Inizialmente è necessario effettuare un’analisi della composizione corporea tricompartimentale attraverso esame bioimpedenziometrico o analisi bicompartimentale attraverso semplici circonferenze e pliche.

In seguito è importante la valutazione della quantità e la qualità della parte muscolare metabolicamente attiva e stimare la massa muscolare e l’idratazione sia nel complesso (TBW) sia come distribuzione qualitativa (ECW e ICW), al fine di individuare eventuale ritenzione con fenomeni di infiammazione e monitorare la salute e l’idratazione cellulare e confrontarle con il tempo.

Personalmente ho utilizzato una bioimpedenziometria più sofisticata che stima tanti altri valori importanti, che contestualizzati con altri indici, permette di ricavare ulteriori importanti informazioni, in modo da monitorare e personalizzare l’allenamento.

Un esempio è la stima indiretta del grasso viscerale tramite BIA funzionale, contestualizzata con una circonferenza addominale (quest’ultima è una spia fedelissima).

Test per valutare la funzionalità aerobica

Test del cammino dei 6 minuti o test di ROCKPORT: è un semplice test di valutazione della funzionalità aerobica. Si effettua rilevando la massima distanza che un soggetto riesce a percorrere su di una superficie pianeggiante (percorso lineare di 30 m o uno rettangolare di 20 x 5 metri) nel tempo di 6 minuti.
E’ una variazione adattata alla popolazione anziana e/o portatrice di patologie cardiorespiraratorie ed il test evidenzia l’aspettato declino delle prestazioni di endurance aerobica nei vari gruppi di età.

Nel mio caso ho sottoposto il soggetto al test di BALKE (camminata in salita su tapis roulant), riconosciuto ufficialmente in ambito medico-sportivo, per valutare con buona precisione l’efficienza cardiorespiratoria (VO2MAX). Il test di BALKE su tapis roulant è un protocollo submassimale indiretto per STIMARE il VO2MAX. (il consiglio è sempre quello di vagliare la numerosa letteratura internazionale ed attingere i test più adatti per semplicità di applicazione e convalida dei risultati, a seconda della popolazione da valutare: anziani, sedentari in buona forma, amatori, donne o uomini in sovrappeso, ecc).

test aerobici anziano

STIMA VO2max tramite risoluzione grafica e griglia

test VO2max anziano

Valutazione della forza

Test di forza dinamica

La forza dinamica generalmente viene misurata con una ripetizione massima (1 –RM), ovvero il massimo peso che può essere sollevato in un unico movimento. I test di forza 1-RM possono essere sostenuti con sicurezza da individui di tutte le età, prendendo ovviamente le corrette precauzioni per diminuire il rischio di traumi durante il sollevamento di pesi massimali (riscaldamento, pesi iniziali al 40-60% di 1 RM, adeguato recupero ecc). Si possono usare anche delle stime indirette per il calcolo del massimale teorico con formule scientifiche di riferimento. Esempio tramite equazione di Brzycky. (Raccomandazioni ACSM)

test forza anziano

Personalmente spendo sempre tanti allenamenti ad insegnare una corretta esecuzione del movimento, al fine di avvicinare il soggetto all’esecuzione biomeccanica desiderata. I soggetti non allenati e sedentari hanno un deficit di consapevolezza del proprio schema corporeo, tali da metterli in crisi anche in movimenti che possono sembrare banali (ruotare il braccio, addure le scapole, estendere una spalla ecc)

Il 5 dicembre 2016 ho eseguito il primo test e come si evince dalla tabella e dal grafico si può notare l’aumento di forza dinamica (1RM) confrontando i vari test eseguiti sino ad ora.

allenamento anziani

(In foto assieme ad un altro mio cliente SENIOR durante un test di forza dinamica alla panca piana)

Forza relativa

Per determinare la forza relativa del cliente dividere i valori di 1-RM per il peso corporeo. Tramite tabelle di riferimento si forniscono i parametri e la valutazione per gli uomini e le donne.

test fisiologici anziani

Test resistenza muscolare dinamica

La resistenza muscolare dinamica si può valutare facendo svolgere al cliente più ripetizioni possibili con un carico che rappresenti una data % del peso corporeo o della sua forza massima (1-RM). Studi raccomandano di utilizzare un carico che si il 70% di 1 RM ( Pollock, Wilmor, Fox, 1978)

Per questo test non sono stati stabiliti parametri, gli autori ritengono, in base ai test eseguiti e in base alla letteratura, che mediamente un soggetto sia in grado di completare 12-15 ripetizioni.

test resistenza muscolare dinamica

Test dell’equilibrio: test di Romberg oppure unipedal stance test

NEL MIO CASO HO ESEGUITO IL TEST DELLA POSIZIONE SU UN PIEDE SOLO (UNIPEDAL STANCE TEST). Questo test serve per fare una semplice valutazione dell’equilibrio. La validità di questo test è dimostrata dal suo rapporto con la possibilità di oscillare, con il rischio cadute e con la capacità di svolgere le attività giornaliere negli anziani (Bohannon, 2006). (Punteggi e tabelle di riferimento in V.H. Heyward “FITNESS UN APPROCCIO SCIENTIFICO”, edizioni Sporting Club Leonardo da Vinci-Milano, 2013)

test

OPPURE TEST TRAMITE DISPOSITIVO GYKO PER VALUTARE LA STABILITA’ IN MANIERA OGGETTIVA E CON DATI PRECISI ALLA MANO. (Il dispositivo gyko è uno strumento di misura eccezionale che analizza anche la potenza, oltre ad altre capacità.  Sia chiaro nessuno strumento vi dirà cosa fare; saper usare la tecnologia, raccogliere dei dati non vuol dire sapere allenare ed essere preparati…).

test propriocettivo anzini

(Nella figura sopra soggetto sottoposto ad un test per la valutazione dell’equilibrio ad occhi aperti . Nella figura sottostante ad occhi chiusi. Analisi tramite dispositivo gyko – microgate)

(Meglio eseguire il test senza scarpe)

test propriocettivo anzini occhi chiusu

-ESERCIZI CON L’OBIETTIVO DI MIGLIORARE LA COORDINAZIONE E L’EQUILIBRIO PROPOSTI SU BASI INSTABILI E PROPRIOCETTIVE, MA SOLO SE REALMENTE NECESSARIO E QUANDO IL SOGGETTO E’ IN POSSESSO DI BUON LIVELLO DI FORZA /RESISTENZA

test propriocettivo

Valutare la forza degli arti inferiori, per esempio attraverso il chair sit to stand test

test forza arti inferiori anziani

INSERIRE NEL PROGRAMMA DI ALLENAMENTO ESERCIZI CON SOVRACCARICHI SEMPRE BIOMECCANICAMENTE CORRETTI. LAVORI ECCENTRICI E DI FORZA ADATTATI, PERSONALIZZATI E DOSATI TENENDO CONTO DEL SOGGETTO E DELLE INFORMAZIONI RACCOLTE NEL FIT-CHECK INIZIALE. (ricordiamo quanto scritto sulla SARCOPENIA , dell’importanza dei muscoli  e dei sovraccarichi sulla salute ossea)

allenamento anzini

Sono numerosi gli studi a riguardo, affermando che gli esercizi con sovraccarichi determinano un mantenimento o un aumento della densità ossea e un rallentamento dell’invecchiamento osseo.

INSERIRE ESERCIZI PERSONALIZZATI DI ALLUNGAMENTO MUSCOLARE (STRETCHING SETTORIALE) SUI DISTRETTI MUSCOLARI EFFETTIVAMENTE RIGIDI O STRETCHING IN CATENA MUSCOLARE PER RIEQUILIBRIO POSTURALE. ESERCIZI DI MOBILITA’ ARTICOLARE. (NIENTE CORSI INUTILI ED INTERE SEDUTE DI STRETCHING)

mobilizzazione anziano

Grazie al notevole allungamento dell’aspettativa di vita che interessa i nostri secoli, al giorno d’oggi un soggetto anziano, godendo di buona salute, si trova a poter utilizzare il proprio tempo libero praticando numerose attività, tra cui appunto un allenamento personalizzato con l’ausilio di un personal trainer che abbia professionalità, disponibilità, sensibilità e soprattutto conoscenze tecniche e specifiche mirate a rallentare l’invecchiamento.

PER CONCLUDERE, E’ IMPORTANTE UNIRE IL SUPPORTO DI ALTRE FIGURE PROFESSIONALI CHE DIANO CORRETTE NORME ALIMENTARI PERSONALIZZATE, COME AD ESEMPIO L’ASSUNZIONE DEL CORRETTO APPORTO PROTEICO, DELLA GIUSTA INTEGRAZIONE (nell’anziano è importante e ha senso) AL FINE DI MASSIMIZZARE I RISULTATI.

vecchi ed allenamento

MATERIALE E TESTI USATI

  • Lezioni magistrali di fisiologia dello sport con prof.ssa M. Canepari (Università degli Studi di Pavia)
  • Fisiologia applicata allo sport McArdle, Katch & Katch
  • FITNESS un approccio scientifico,H. Heyward, edizioni Sporting Club Leonardo Da Vinci-Milano 2013
  • Linee guide: come raggiungere e mantenersi in forma da Senior, Joseph F. Signorile, edizione italiana Sporting Club Leonardo Da Vinci-Milano 2016
  • Convention e aggiornamenti ISSA
  • Articolo “Invecchio ma non mollo “, prof S.Zambelli e prof. C. Suardi su Fitness e sport
  • Test funzionali nella popolazione anziana di Gian Nicola Bisciotti

NOTE SULL’AUTORE:

Alessandro carbone

Dottore in scienze motorie, laurea presso Università degli Studi di Pavia.
Personal Trainer CFT1 ISSA
Specializzato in analisi della composizione corporea.
Programmi di allenamento e strategie alimentari finalizzati a dimagrimento, ipertrofia, ritenzione, cellulite.
Product Specialist nel progetto Motustech

Attualmente iscritto alla laurea magistrale in Scienze Tecniche dello Sport presso Università di Pavia. (Prevista laurea entro il 2018)

Email: alecarbone90@gmail.com
Pagina fb: https://www.facebook.com/alessandro.carbone.33

Sono affascinato dal mondo della valutazione funzionale, cercando di analizzare, raccogliere dati oggettivi con strumenti a disposizione e attraverso test scientifici di riferimento in modo tale da determinare e programmare protocolli di allenamento che portano al miglioramento della salute e della performance sportiva. Non sono un preparatore di bodybuilding, non sono un fisioterapista, ma sono un personal trainer in continuo studio e aggiornamento che attraverso le mie competenze, studi e conoscenze unisce la teoria alla pratica.

Il personal trainer deve ricercare la collaborazione con colleghi e altre figure professionali e credo fortemente che solo attraverso lo studio si possa sconfiggere la sola esperienza da campo, la scarsa preparazione e i falsi miti del nostro settore.

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Esercizi trapezio superiore: lo Shrug

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L’esercizio “Shrug”, tradotto in lingua italiana con “elevazione delle spalle” o come più comunemente si sente dire in palestra “Scrollate”, è uno dei più famosi nel panorama dell’allenamento con i sovraccarichi (specie se di stampo body building) e di conseguenza anche uno dei più proposti nelle schede di allenamento. In palestra è proposto all’unanimità con lo scopo di stimolare e ipertrofizzare il “trapezio”, come si dice in gergo, che poi in realtà è il trapezio superiore vista la netta distinzione funzionale tra questa porzione e le altre due del medesimo muscolo in toto che si suddivide ulteriormente in trapezio medio e inferiore. Pertanto possiamo considerare tra gli esercizi per il trapezio, lo shrug come il principale.

Di questo famoso esercizio esistono due varianti. La prima, decisamente più famosa (e forse anche l’unica conosciuta ai più), prevede l’elevazione delle scapole con l’omero in posizione neutra lungo i fianchi. La seconda invece, spesso ignorata o misconosciuta, prevede la medesima elevazione delle scapole con omeri abdotti/flessi sopra i 90° ovvero con le braccia elevate sopra la testa e i gomiti estesi. Quali muscoli vengono reclutati in questi esercizi? Quali sono le differenze biomeccaniche e i conseguenti risvolti pratici sulla stimolazione muscolare confrontando le due modalità di esecuzione? Scopriamolo nel video-articolo di oggi.

Esercizi trapezio: partiamo dall’anatomia

Partiamo innanzitutto con il capire quali sono i muscoli coinvolti nel movimento per poi comprendere con maggior facilità come loro intervengano durante le “Scrollate” nelle due diverse modalità. Il trapezio superiore (rosso), muscolo target di questo esercizio nella maggioranza dei casi, come ben si può immaginare non è l’unico muscolo avente tra le sue funzioni l’elevazione della scapola. In particolare è fortemente coadiuvato dall’elevatore della scapola (giallo) e dai romboidi piccolo e grande (blu). Per capire come questo possa avvenire dobbiamo necessariamente intraprendere un viaggio fugace nell’anatomia e nella biomeccanica di questi muscoli. Per comprendere meglio la loro azione mi servirò dei diagrammi Free Body nei quali rappresenterò la scapola sinistra (in visione posteriore) come un triangolo avente come centro di rotazione una X e l’azione muscolare tramite una freccia che riprodurrà fedelmente il percorso del muscolo che va da origine a inserzione.

esercizi trapezio anatomiaLinee di forza dei muscoli coinvolti negli esercizi per il trapezio

Appurato ciò abbiamo iniziato a porre un tassello in più al nostro mosaico di conoscenze: lo shrug non stimola solo il trapezio superiore bensì in modo importante anche l’elevatore della scapola e i romboidi e questo non per un atto di fede nel libro di anatomia ma semplicemente perché l’abbiamo compreso da un punto di vista biomeccanico.

Shrug: analisi biomeccanica numero 1

Tramite gli schemi proposti è possibile ora analizzare il loro potere sull’elevazione della scapola in posizione anatomica, ovvero con le braccia lungo i fianchi come nello “Shrugs” classico tipico del body building. In questa posizione la scapola è posta (tralasciando le possibili lievi e soggettive alterazioni del suo allineamento) a circa 7,5 cm dalle spinose (col margine vertebrale parallelo ad esse) e si estende grosso modo dalla seconda (angolo superiore) alla settima vertebra toracica (angolo inferiore). Aiutandoci con un diagramma osserviamo che un’elevazione della scapola a partire da questa posizione garantirà un evidente e inconfutabile vantaggio biomeccanico all’elevatore della scapola (giallo) e ai romboidi (azzurro) che in virtù del loro specifico decorso anatomico avranno una linea d’azione favorevole in tal senso. Il tutto a discapito del trapezio superiore (rosso) che interverrà nel movimento ma sarà sicuramente meno favorito rispetto ai colleghi.

esercizi trapezio scrollateTrapezio esercizi: shrug classico

Shrugs: analisi biomeccanica numero 2

Analizzando invece la seconda modalità esecutiva di “Shrugs” notiamo delle differenze biomeccaniche in termini di linee d’azione muscolare dei tre protagonisti. Questa modalità eseguita con omeri abdotti/flessi a 180° determina un differente posizionamento della scapola all’inizio dell’esercizio e ciò si ripercuote sul reclutamento muscolare. La scapola secondo fisiologia (anche qui tralasciando le possibili lievi e soggettive alterazioni del suo allineamento in dinamica) con l’omero abdotto a 180° si presenterà elevata e ruotata cranialmente di 60° con l’acromion che giungerà nei pressi della settima vertebra cervicale (C6-C7). Il diagramma sottostante ci aiuterà meglio a comprendere quali siano le conseguenze di ciò sulla biomeccanica dei muscoli coinvolti durante una successiva e ulteriore elevazione come questa modalità di “Shrugs” propone.

esercizi trapezio braccia elevateTrapezio esercizi: shrugs braccia elevate

Possiamo facilmente notare che la nuova posizione assunta dalla scapola annulla la componente elevatoria dei romboidi (azzurro) la cui linea d’azione “si sdraia” garantendo esclusivamente un’adduzione. La conseguenza diretta di ciò sarà un aumentato lavoro a carico degli altri due muscoli, in particolare del trapezio superiore (rosso) che in questo caso sarà decisamente il protagonista in virtù anche della rotazione craniale della scapola di partenza (il trapezio superiore è l’unico dei tre che ruota cranialmente la scapola). L’esercizio sarà sicuramente eseguito con un peso minore (ma non per questo meno stimolante) per questioni logistiche e fisiologiche, vista la partenza in pre-accorciamento dei due muscoli coinvolti e la conseguente riduzione della forza potenzialmente esprimibile (vedi diagramma tensione lunghezza).

Esercizi per il trapezio: riflessioni pratiche e letteratura scientifica a supporto

In virtù di quanto appena visto abbiamo ora più chiaro quali siano le differenze biomeccaniche tra le due modalità di “Shrugs” e possiamo effettuare una scelta più consapevole nel proporre o eseguire una delle due. Attraverso una semplice analisi biomeccanica abbiamo appreso come, tra le due, l’esecuzione che pone uno stimolo maggiore e più mirato al trapezio superiore è quella con le braccia elevate che quasi mai si vede eseguire in palestra perché spodestata dalla classica esecuzione a braccia lungo i fianchi (che invece vede protagonisti l’elevatore della scapola e i romboidi).

A conferma di ciò vi riporto solo ora (ed è stata una scelta voluta per stimolare il ragionamento) uno studio presente in letteratura che ha avuto come scopo proprio quello di comparare i livelli di attivazione del trapezio superiore tra la modalità “Shrugs” classica e quella a braccia elevate. Il risultato elettromiografico va nella stessa direzione di ciò che la biomeccanica ci ha rivelato poco fa: il trapezio superiore fa registrare un’attivazione maggiore quando la scapola è posizionata in rotazione craniale come durante lo “Shrugs” a braccia elevate (Pizzari T et al, 2014).

Voglio precisare, anticipando le probabili perplessità di alcuni, che il trapezio superiore diventerà grosso anche facendo “Shrugs” classici, non è questo il punto. Lungi da me creare discussioni di scarso valore a proposito, le quali potrebbero distogliere l’attenzione dall’interessante analisi biomeccanica effettuata così feconda di indicazioni utili per la quotidianità dell’allenamento in palestra.

Shrugs: cosa fare?

In definitiva, cerchiamo di tirare le somme e trasformare le riflessioni appena fatte in consigli utili da trasportare nella pratica lavorativa, personalizzando le indicazioni a seconda dei contesti e dei soggetti da allenare.

  • Nel caso si avesse a che fare con una persona media, senza particolari problematiche e con l’obiettivo “ipertrofia muscolare”, la stimolazione del trapezio superiore potrà essere eseguita in maniera efficiente e con ottimi risultati anche grazie a movimenti di abduzione dell’omero con sovraccarico (Lento Avanti e Alzate Laterali), nei quali il trapezio sarà reclutato in maniera importante seguendo le regole del ritmo scapolo-omerale. Verrebbe così meno la necessità di ricorrere a movimenti isolati di elevazione delle scapole (Shrugs). In ogni caso, se si volesse optare comunque per tale modalità di rinforzo, la biomeccanica consiglia sicuramente lo Shrugs con braccia elevate con manubri o bilanciere.
  • Nel caso ci si trovasse di fronte un soggetto sano, ben allineato e dedito al bodybuilding con mire agonistiche alla ricerca di maggior dettagli muscolari, entrambe le modalità andranno alterante durante la programmazione annuale per variare gli stimoli allenanti e gli angoli di lavoro. Ciò, assieme a un’accurata gestione dei carichi di lavoro, massimizzerà i risultati estetici.
  • Nel caso ci si trovasse di fronte una persona con dolore da disfunzione scapolo-omerale conclamata e si rilevasse tra le cause una debolezza del muscolo trapezio superiore, la modalità di rinforzo selettivo con Shrugs a braccia elevate è sicuramente da preferire in quanto non solo aumenta l’attivazione di questo muscolo ma neutralizza anche l’azione dei romboidi, la cui retrazione spesso riduce il ROM di rotazione craniale della scapola in abduzione favorendo l’instaurarsi della disfunzione (Sahrmann 2005).
  • Nel caso ci si trovasse di fronte una persona con rigidità, dolore cervicale o mal di testa cervicogenico, qualsiasi modalità di Shrugs andrebbe evitata per evitare l’ulteriore accorciamento di una muscolatura già contratta (specie l’elevatore della scapola) da probabili vizi posturali indotti dall’attività lavorativa. Andrebbe inoltre valutata anche la possibilità di eliminare gli esercizi di abduzione dell’omero o di limitarne l’escursione.

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