Le spalle giocano un ruolo fondamentale sia per lo sportivo, il powerlifter, così come il bodybuilder natural, che proprio a partire da spalle e dorso ricercherà il famoso v-shape. L’allenamento e gli esercizi per le spalle risultano quindi di primaria importanza per un ampio numero di soggetti che si recano in palestra per allenarle, dal bodybuilder al powerlifter, passando per lo sportivo in cerca di una spalla sana, forte, resistente.
Selezionare accuratamente gli esercizi ed il tipo di lavoro è quindi estremamente importante, in quanto la specificità regna sovrana in palestra. Il bodybuilder avrà certamente bisogno di spalle massicce, grosse ed ampie, il powerlifter di deltoidi anteriori forti per l’alzata della panca piana.
I migliori esercizi per le spalle
Sono davvero molti gli esercizi a nostra disposizione per l’allenamento delle spalle che possiamo eseguire sia in palestra che a casa.
Tra i tanti, alcuni dei migliori esercizi per le spalle sono i seguenti:
Ricordiamoci inoltre che i deltoidi anteriori vengono ampiamente stimolati negli esercizi di spinta come panca piana o dip alle parallele.
I deltoidi posteriori spesse volte vengono reclutati in esercizi di trazione, anche se questi – da soli – non saranno stimoli sufficienti per ottenere il massimo dello sviluppo.
Secondo molti old-schooler, basterebbe la Military Press per costruire spalle forti e grosse. In realtà, come abbiamo più volte visto, stimolare i muscoli nelle sue diverse parti e da diverse angolazioni risulta sempre una scelta ottimale, in particolare per il bodybuilder in cerca di massa muscolare e simmetria. È altrettanto vero che utilizzando un’ottima progressione sulla Military Press e focalizzandoci su quella, otterremo comunque ottimi risultati in termini di prestazione e di massa muscolare.
Anatomia delle spalle
Per spalla comunemente si intende quella regione anatomica situata nella parte superiore e laterale del tronco tra la base del collo e l’inizio del braccio, superiormente al petto.
L’articolazione della spalla, o cingolo scapolo-omerale, è formata da tre strutture ossee:
Per semplificare, in questa guida utilizzerò il termine spalla e deltoide come fossero sinonimi, e parlerò dell’allenamento della spalla in riferimento ai muscoli:
deltoidi anteriori
deltoidi laterali
deltoidi posteriori
Allenamento spalle: Massa e Forza
La selezione degli esercizi per le spalle è fondamentale, ma la specificità deve guidarci nella scelta dei migliori esercizi da eseguire per i nostri scopi, che possono essere diversi.
Un powerlifter, per esempio, avrà sicuramente maggiore necessità di deltoidi anteriori forti, rispetto a quelli posteriori.
Un bodybuilder invece ricercherà massa muscolare, così come simmetria.
Per questo vedremo come allenare le spalle in soggetti diversi, con scopi diversi. Non cambierà quindi solo la selezione degli esercizi, ma anche gli schemi, la frequenza, l’intensità. Possiamo però fissare alcuni concetti chiave che possono accomunare powerlifters, bodybuilders, powerbuilders, e perché no: anche sportivi di ogni genere, che spesse volte sollecitano abbondantemente le spalle.
Come allargare le spalle?
Le spalle crescono come ogni altro muscolo del corpo, quindi grazie a:
tensione meccanica
stress metabolico
danno muscolare (anche se ora è stato molto ridimensionato secondo le ultime ricerche scientifiche)
Di particolare interesse è la tensione meccanica, specialmente per il powerlifter. Perché aumenti la massa muscolare delle spalle e la loro forza dobbiamo stimolarle a sufficienza, dar loro tempo di recuperare, ed indurre poi l’adattamento, per il processo di SRA: Stimolo, Recupero, Adattamento. Senza questa sequenza di eventi, indipendentemente da quali esercizi per spalle e schemi utilizziamo, i deltoidi NON cresceranno.
Se lo stressor non è significativo, le spalle non cresceranno. Se il recupero non è correttamente manipolato, i muscoli non avranno le risorse necessarie per crescere.
Come stimolare la massa muscolare delle Spalle
Come accennavo nell’articolo sui migliori esercizi per tricipiti, il volume di allenamento è il fattore maggiormente associato all’ipertrofia muscolare, e sarà quindi fondamentale anche nel caso dell’allenamento delle spalle.
Nel corso delle settimane, il volume di allenamento a carico delle spalle dovrà necessariamente aumentare, in quanto il corpo si abitua allo stressor, se tenuto costante, e smette di adattarsi.
Così come dovrà esserci sovraccarico progressivo:
l’allenamento delle spalle deve farsi più duro e/o voluminoso
per la massa muscolare devono aumentare serie e/o ripetizioni
per aumentare la forza delle spalle deve aumentare l’intensità (intesa come percentuale del massimale, insomma, i kg sul bilanciere / manubri).
Alcuni punti fondamentali da tenere in considerazione nell’allenamento delle spalle per farne crescere la massa muscolare sono:
I set di allenamento devono stare prevalentemente tra il 60 e l’80% del massimale
Il range di ripetizioni più comodo per l’ipertrofia è tra le 8 e le 20 ripetizioni
Non necessariamente dobbiamo lavorare a cedimento, ma andarci vicino
Possiamo allenare le spalle direttamente da 1-4 volte a settimana
Perché un range così vasto?
Dipende dalla programmazione e da quanta panca piana ed esercizi di spinta fai, e da quale porzione di spalla vogliamo lavorare.
I deltoidi anteriori, infatti, sono già particolarmente stimolati in panca piana, ad esempio. Se sei un powerlifter o un bodybuilder che predilige l’allenamento in multifrequenza, probabilmente neppure necessiti di allenamento in isolamento dei deltoidi anteriori, o puoi limitarti a poche serie settimanli ed anche una sola seduta a settimana di lavoro diretto. Deltoidi laterali, invece, possono essere stimolati un numero di volte sicuramente maggiore, spingendoci fino a 3-4 sedute settimali.
Quante serie e quante ripetizioni fare per allenare le spalle?
È impossibile rispondere a domande di questo tipo. Dipende dal tuo livello di partenza, dai tuoi obiettivi e da mille altre variabili in gioco, oltre che da quale esercizio per le spalle stiamo utilizzando. Una military press non è un’alzata laterale, e si usano schemi di set x reps sicuramente diversi. È più logico e diffuso usare range medio-bassi di ripetizioni in multiarticolari pesanti come la military press, ed alte ripetizioni negli esercizi di isolamento, come l’allenamento delle spalle ai cavi o con manubri.
Per lasciarti comunque un qualcosa di pratico sul quale strutturare un allenamento per le spalle, però, possiamo tenere a mente alcune linee guida di base, pur consapevoli che ognuno di noi regge un volume allenante diverso.
Vediamo il numero di set da eseguire nell’arco di una settimana per stimolare le spalle al meglio:
minimo di 6-10 serie allenanti
massimo di 15-25 serie allenanti
Ed il range di ripetizioni consigliato è dalle:
3 alle 6 per stimolare la forza
8 alle 20 ripetizioni per stimolare la massa
Combinare range di ripetizioni ed esercizi diversi è sempre meglio che focalizzarsi eccessivamente su di un singolo range di ripetizioni specifico. Possiamo quindi periodizzare l’allenamento delle spalle e lavorare, nei singoli microcicli settimanali, su intensità e range di ripetizioni diverse, per ottenere uno stimolo ottimale. Combinare multiarticolari pesanti ed isolamento leggero ad alte ripetizioni, che questo avvenga nel singolo microciclo o nei diversi mesocicli di allenamento, ci garantirà uno sviluppo completo sotto praticamente ogni punto di vista.
Allenamento Spalle per Powerlifters
Un powerlifter ricerca prevalentemente la forza nelle spalle, in particolar modo nei deltoidi anteriori, in quanto questi muscoli risultano di primaria importanza nella panca piana.
Per questo motivo, il focus del lavoro dei powerlifters in cerca di forza e massa delle spalle sono:
Military Press
Panca Piana
Dip alle Parallele
Se invece vogliamo indurre un aumento della massa muscolare delle spalle, allora aggiungere lavoro più specifico di isolamento come alzate laterali, alzate posteriori, arnold press,ecc. può essere una valida soluzione. Questo a condizione che non si tolga l’attenzione dagli esercizi fondamentali e dalla military press, che rimane l’esercizio per eccellenza nella costruzione di spalle forti e rocciose, utili nel powerlifting.
Esempio pratico di allenamento spalle nel Powerlifter
Proviamo a vedere come potrebbe essere strutturata una programmazione che preveda del lavoro mirato all’aumento di forza e massa delle spalle per il powerlifter.
Frequenza di 2 allenamenti diretti a settimana, pensato per atleti di livello di livello intermedio, da aggiungere al lavoro di panca piana (2-3 volte a settimana).
Giorno A:
Military Press 3×8 con 1 o 2 ripetizioni in riserva
Alzate Laterali 3×10 con 1 o 2 ripetizioni in riserva
Giorno B:
Military Press 3×5 con 2 ripetizioni in riserva
Alzate Posteriori 3×10 con 1 o 2 ripetizioni in riserva
Come puoi notare, pochi esercizi, poco volume totale, proprio per lo stress già indotto ai deltoidi dalla frequente panca piana. Nel corso delle settimane, se siamo in un blocco di allenamento dedicato all’ipertrofia potremmo aumentare in particolar modo il numero di serie allenanti, o le ripetizioni, o entrambe le cose. Se siamo invece in un blocco dedicato all’aumento specifico della forza in ottica powerlifting, potremmo aumentare l’intensità e, quando necessario, diminuire le ripetizioni totali.
Allenamento deltoidi per la Massa per BodyBuilders
Un bodybuilder necessita di aumentare la massa muscolare delle spalle, ed anche una certa simmetria e proporzione tra deltoidi anteriori, laterali e posteriori, ed indirizzerà quindi la maggior parte del proprio lavoro su range medio-alti di ripetizioni, conscio che la Military Press svolge comunque un ruolo primario nell’allenamento delle spalle. Ricordiamoci sempre che in questa disciplina rimane fondamentale avere spalle larghe e vita stretta.
I migliori esercizi per allargare le spalle nei bodybuilders sono:
Military Press
Distensioni coi manubri
Panca Piana
Alzate laterali manubri e cavi
Alzate posteriori
Tirate al mento
Facepull
Varianti con manubri, cavi, macchine
Nel bodybuilder, utilizzare a rotazione tutti questi esercizi, su vari range di ripetizioni, garantirà uno sviluppo ottimale delle spalle.
Nell’old school bodybuilding, la più volte elogiata Military Press rivestiva un ruolo primario nell’allenamento dei deltoidi, e dovrebber farlo ancora oggi nell’atleta natural. È raro vedere spalle enormi e stondate in soggetti natural con una military press da due soldi. Riservare però esercizi a ripetizioni più alte ai cavi e manubri è un ottimo modo per incementare il volume allenante totale a carico dei deltoidi. Così come altri muscoli piccoli, in particolar modo i deltoidi laterali e posteriori possono essere stimolati diverse volte a settimana. Perché limitarsi ad un solo allenamento diretto a settimana, quando muscoli così piccoli recuperano totalmente in davvero poche ore, più che giorni?
Esempio pratico allenamento deltoidi per il Bodybuilding
Proviamo a vedere come potrebbe essere strutturata una scheda per bodybuilders che si focalizzi proprio sullo sviluppo dei deltoidi.
Frequenza di 3 allenamenti con focus diretto a settimana, pensato per bodybuilders che macinano ghisa già da qualche anno.
Giorno A:
Military Press 3×5 con 2 ripetizioni in riserva
Arnold Press 2×6 con 2 ripetizioni in riserva
(Pause Medie)
Giorno B:
Arnold Press 2×12
Alzate Laterali 3×12 a cedimento
Alzate Posteriori 3×12 a cedimento
(Pause brevi)
Giorno C:
Military Press 3×8 con 1 ripetizione in riserva
Facepull 3×12 a cedimento
(Pause brevi)
Nel corso delle settimane dovrà necessariamente esserci sovraccarico progressivo, con particolare enfasi sull’aumento del volume totale di lavoro.Un bodybuilder di livello avanzato può anche usare tecniche di intensità come drop-sets, stripping, giant sets, ai quali muscoli piccoli come in particolar modo i deltoidi laterali rispondono particolarmente bene.
Allenamento spalle a casa a corpo libero
Le spalle, purtroppo, sono muscoli complessi da allenare anche a casa corpo libero, quantomeno per chi inizia. I piegamenti in verticale sono sicuramente l’esercizio per eccellenza, in questo caso, ma per nulla semplice per i principianti.
I piegamenti sulle braccia tradizionali sulle braccia possono invece quantomeno stimolare i deltoidi anteriori, fino a quando non saremo in grado di fare quelli in verticale.
Per questi muscoli, quantomeno l’esercizio di elastici, bande e manubri leggeri sarebbe davvero utile per un allenamento diretto dei muscoli in questione.
Conclusione sugli esercizi per le Spalle
Arrivati a questo punto, pare evidente come non esista un solo modo per allenare le spalle, un solo esercizio, un solo range di ripetizioni, ma innumerevoli esercizi, schemi, programmazioni.
I deltoidi sono muscoli importanti per i powerlifters, per i bodybuilders, per sportivi di ogni genere. Possiamo allenarli direttamente ed indirettamente più volte a settimana, dato che sono muscoli piccoli, che recuperano molto in fretta, e che rispondono particolarmente bene a medio-alti range di ripetizioni e di volume totale di allenamento.
Se dovessi definirmi, userei il termine Powerbuilder: a metà strada tra un powerlifter ed un bodybuilder.
Cerco di diventare un atleta più forte ed un uomo migliore.
Amo tutto ciò che riguarda il mondo della forza e dell’allenamento.
Diventiamo forti assieme!
Che cosa sono i grassi idrogenati e quali sono i grassi Trans?
I Grassi Trans (TFAs) sono un tipo di grassi insaturi che presentano una disposizione spaziale opposta degli atomi di Idrogeno nel/i loro doppio/i legame/i, al contrario degli acidi grassi CIS.
Essi sono presenti in natura nel rumine degli animali in piccolissime quantità, ad esempio nella carne, nel latte e nei prodotti caseari; tuttavia, la maggior parte dei TFAs assunti arriva dagli alimenti lavorati con l’utilizzo di Grassi Idrogenati.
Questi sono il prodotto del processo di Idrogenazione che consente di trasformare acidi grassi insaturi, quindi oli, in grassi più solidi, versatili, conservabili a lungo, ma soprattutto economici, come la margarina.
Quali sono i rischi collegati con l’assunzione eccessiva di Grassi Trans?
Il problema è che questi grassi sono ormai presenti in quantitàeccessive nella nostra alimentazione a causa della presenza sempre maggiore di prodotti industriali sulle nostre tavole; infatti, le industrie alimentari utilizzano sempre più grassi idrogenati per semplificare la produzione di un alimento ed abbatterne i costi. Tuttavia ci sono dei grossi rischi legati alla salute derivanti dall’ingestione di TFAs; il loro consumo, infatti, è fortemente associato all’aumento di problematiche cardiovascolari come infarti, alterosclerosi ed ictus [1][2][3]; si sospetta, inoltre, anche una relazione con lo sviluppo del Morbo di Alzheimer e con la depressione [4]. Il primo segnale che ci mostra la pericolosità di questo tipo di grassi è semplicemente il fatto che tendano a peggiorare gravemente il nostro profilo lipidico portando ad aumentare le LDL (Cosiddetto Colesterolo cattivo) e diminuire le HDL (Cosiddetto Colesterolo buono) [5], alterando negativamente questi parametri più dei grassi saturi.
Qual è la quantità di Grassi Trans suggerita?
I LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia), revisionati dalla SINU (Società Italiana di Nutrizione Umana) nel 2014 [7], relativi ai lipidi parlano chiaro, la quantità di TFAs consigliata per chiunque è: IL MENO POSSIBILE.
Lo stesso è suggerito anche dalla EFSA (European Food Safety Authority) in una pubblicazione del 2010 riguardante i grassi alimentari in generale [8].
Come puoi riconoscere i grassi idrogenati e dove si trovano?
Per avere un’idea di quali alimenti (i più comuni) contengano più o meno grassi trans, puoi dare un’occhiata a questa tabella (ordinati dai più ricchi di grassi trans ai meno ricchi):
Alimento
Grassi trans (in grammi)
Margarina
14,89 g
Gamberetti fritti
4,195 g
Burro
3, 278 g
Carne macinata (30% di grasso)
1,826 g
Torta al cioccolato
1, 318 g
Carne per hambuger
0,935 g
Wurstel di tacchino
0,789 g
Cheeseburger (Burger King)
0,777 g
Hamburger (Burger King)
0,542 g
Pollo fritto
0,495 g
Costolette
0,489 g
Crackers
0,443 g
Spezzatino
0,259 g
Chiodi di garofano
0,254 g
Controfiletto
0,189 g
Purè di patate istantaneo
0,175 g
Fegato
0,17 g
Dolcetti al cioccolato
0,165 g
Trippa
0,15 g
Purè di patate con burro
0,148 g
Patate fritte
0,131 g
Patatine fritte (McDonald’s)
0,131 g
Cioccolato fondente (45-60%)
0,112 g
Latte parzialmente scremato
0,085 g
Cioccolato fondente (60-70%)
0,079 g
Latte e cacao
0,078 g
Patatine
0,048 g
Pesce spada
0,047 g
Uovo
0,038 g
Braciola di maiale
0,035 g
Salmone rosa
0,034 g
Pane bianco
0,031 g
Cioccolato fondente extra (70-85%)
0,03 g
Salmone rosso
0,028 g
Vongole in vasetto
0,024 g
Mandorle
0,017 g
Vongole
0,015 g
Senape (salsa)
0,013 g
Petto di pollo
0,012 g
Aragosta
0,011 g
Melagrana
0,009 g
Gamberi
0,008 g
Mais dolce
0,007 g
Pasta al pomodoro
0,006 g
Salatini
0,001 g
È fondamentale notare come nella carne di manzo i livelli siano in media di circa 0.2g di TFAs per 100g di prodotto, mentre, arrivando al colpevole per eccellenza, la margarina, raggiungiamo livelli di circa 14.89g, prodotto simbolo dell’idrogenazione dei grassi.
Che cos’è la margarina e cosa c’entra con i grassi trans?
La Margarina è l’esempio per eccellenza di un prodotto contenente Grassi Idrogenati e, quindi, Acidi Grassi TRANS; è un grasso alimentare costituito da una parte lipidica ed una parte di acqua, amalgamate tra di loro, e viene ampliamente utilizzata nelle cucine domestiche ed industriali per la produzione di una gamma di alimenti molto vasta.
La margarina è stata proposta come alternativa “salutare” al burro in quanto non contenente grassi saturi, quando ancora i rischi relativi ai TFAs erano sconosciuti o ignorati. La Margarina è prodotta, infatti, attraverso l’idrogenazione di oli vegetali solitamente provenienti da arachidi, soia o girasole.
Recentemente in commercio sono state introdotte margarine senza grassi idrogenati, questo è possibile grazie all’utilizzo diretto di grassi saturi naturalmente.
Quali sono, quindi, gli alimenti più ricchi di grassi trans e quali quelli che ne contengono meno?
Come già accennato in precedenza gli alimenti più ricchi di Grassi Trans sono generalmente quelli di provenienza industriale, ovvero quelli che subiscono lavorazioni e trattamenti più o meno lunghi prima di essere immessi sul mercato.
Questo fa si che i prodotti a cui devi prestare particolarmente attenzione sono soprattutto creme spalmabili, merendine, dessert, gelati e semifreddi, preparati per dolci, cibi impanati, alimenti da fast food e snack fritti come patatine.
È fondamentale considerare che questi prodotti sono molto consumati da bambini.
Di conseguenza gli alimenti che ne contengono meno sono quelli meno lavorati e che subiscono pochi o nessun passaggio industriale, quindi cereali, frutta, verdura, carni bianche e pesce. Mentre per quanto riguarda carni provenienti da ruminanti e prodotti caseari possiamo trovare TFAs in quantità irrilevanti che non ti devono preoccupare.
Quanti grassi idrogenati contiene la nutella?
Stranamente, la Nutella, demonizzata a lungo per i suoi possibili riscontri negativi sulla salute, non contiene grassi idrogenati. La crema al cacao più conosciuta al mondo, infatti, è stata demonizzata soprattutto per il suo contenuto di Olio di Palma, prima da una politica francese, Ségolène Royal, nel 2015 per l’impatto sull’ambiente della produzione di quest’olio e poi nel 2016 dalla EFSAper l’impatto sulla salute di elementi cancerogeni presenti nel prodotto. Comunque la Ferrero si è sempre difesa affermando l’utilizzo di una filiera molto controllata e della produzione ed utilizzo di Olio di Palma Mitigato che limita la presenza di contaminanti cancerogeni a quantità inferiori a quelle imposte dalla EFSA.
Quali provvedimenti sono stati presi per ridurre i rischi e tutelare le persone?
In un workshop del Parlamento Europeo del 2013 è stato redatto un documento relativo all’argomento (Ne consiglio la lettura anche perché è usato un linguaggio molto “semplice”) [8]:
Ti traduco due estratti che, secondo me, sono significativi:
“…che il processo di idrogenazione dei grassi industriali può portare al 60% di TFAs tra i grassi totali (di un alimento), quando nei grassi dei ruminanti il livello di TFAs non supera il 5 o 6%.” (Pag. 17)
“…un aumento dell’intake di TFAs equivalente al 2% dell’energia giornaliera sembra aumentare il rischio di sviluppare problematiche cardiovascolari di circa il 25%.” (Pag. 18)
Nel 2015 La WHO (World Health Organization) ha rilasciato un brief per l’Europa che lasciava emergere come priorità la volontà di formare politiche di regolazione della presenza di TFAs negli alimenti industriali nel piano 2015-2020 [9].
Passaggi importanti:
“I prodotti industriali contenenti molti grassi trans tendono a costare meno e sono più frequentemente consumati da persone con uno status socioeconomico più basso.” (Pag. 8)
“Una politica sull’etichettatura obbligatoria richiede l’introduzione di un requisito legale che il contenuto di grassi-trans nei cibi industriali debba essere accuratamente mostrato…non è permessa sotto l’attuale legislazione Europea e, finché non verrà introdotta nuova legge, non è applicabile nell’EU.” (Pag. 9-10)
“Stabilire un limite legale sul contenuto di TFAs in tutti i cibi sembra essere l’opzione più efficace per diminuire l’introito di queste sostanze nella popolazione e potenzialmente l’unica opzione che ne riduce i rischi associati nei consumatori.” (Pag. 12)
Così arriviamo all’Ottobre 2018, quando l’Unione Europea ha portato avanti la proposta di limitare la quantità accettata di TFAs nei cibi a 2g per 100g di prodotto [10]. A questo ha risposto la SIPREC (Italian Society for Cardiovascular Prevention) positivamente, sottolineando come la legislazione in materia in Danimarca ed a New York City abbia portato ad una riduzione del 3-4% nella mortalità per cause cardiovascolari [11].
Infatti, la Danimarca è stato il primo paese a fare legge in materia di grassi Trans, anticipando di dieci anni l’UE. Nel 2003 questo paese ha inserito il limite di 2g ogni100g di cibo ottenendo, negli anni a seguire, una grossa riduzione delle problematichecardiovascolari all’interno dei suoi confini ed ispirando tutta una serie di altri paesi, nonché, ora, la nostra federazione [12].
Nel 2003 oltretutto la statunitense FDA (Food and Drug Administration) ha istituito l’obbligo per i produttori del settore alimentare di riportare sull’etichettatura dei cibi la quantità di grassiTrans presenti (A partire dal 1, Gennaio 2006), anche se, per cibi con una quantità <0.5g, avrebbe potuto essere riportato 0g [13].
Purtroppo, l’obbligo di riportare i TFAs in etichetta protegge soltanto il “consumatore consapevole”, ovvero il compratore che:
È informato e consapevole dei rischi cardiovascolari derivanti dal consumo di TFAs;
Presta attenzione al contenuto calorico e di macronutrienti degli alimenti;
Può economicamente permettersi cibi non industriali;
Ha abbastanza tempo per leggere le etichettature degli alimenti;
Ha effettivamente interesse nella propria salute.
Oltretutto nel 2018 i grassi Trans sono stati anche banditi a pieno negli USA ed entro il 2020 saranno totalmente spariti degli scaffali dei negozi [14].
Conclusioni sui grassi trans
Le informazioni che ho riportato in questa breve pubblicazione sono utili per renderci cittadini più consapevoli, capaci di comprendere quanto i cibi industriali, oltre a farci ingrassare perché molto densi energicamente, ci condannino a una vita tendenzialmente più breve. È necessario che, da persone consapevoli, genitori o futuri tali ci educhiamo ad uno stile di vita più sano e soprattutto EDUCHIAMO i più piccoli ad uno stile di vita più sano.
In fondo è facile dire: “Ma che me ne importa!”
Ma non sarà altrettanto facile dirlo quanto il frutto di anni di maleducazione alimentare si mostrerà.
Infine, ti consiglio anche di dare un’occhiata alle ricerche su Pubmed riguardo al rapporto grassi TRANS e rischio cardiovascolare.
Bibliografia Grassi Trans
[1] The Lancet. Association between trans fatty acid intake and 10-year risk of coronary heart disease in the Zutphen Elderly Study: a prospective population-based study.Oomen C.M., Ocke M.C., Feskens E.J., van Erp-Baart M.A., Kok F.J., Kromhout D. 2001. (Link)
[2]Trans Fatty Acids and Cardiovascular Disease.Dariush Mozaffarian, M.D., M.P.H., Martijn B. Katan, Ph.D., Alberto Ascherio, M.D., Dr.P.H., Meir J. Stampfer, M.D., Dr.P.H., and Walter C. Willett, M.D., Dr.P.H. 2006. (Link)
[3] Trans fat, aspirin, and ischemic stroke in postmenopausal women.Sirin Yaemsiri MSPH, Souvik Sen MD, MS, MPH, Lesley Tinker PhD, RD, Wayne Rosamond PhD, Sylvia Wassertheil‐Smoller PhD, Ka He MD, ScD, MPH. 2012. (Link)
[4] New data on harmful effects of trans-fatty acids.Ginter E, Simko V. 2016. (Link)
[5]Intake of saturated and trans unsaturated fatty acids and risk of all cause mortality, cardiovascular disease, and type 2 diabetes: systematic review and meta-analysis of observational studies. R. J de Souza, Andrew Mente, A. Maroleanu, A. I Cozma, V. Ha, T. Kishibe, E. Uleryk, P. Budylowski, H. Schünemann, J. Beyene, S. S Anand. 2015. (Link)
[6] Livelli di assunzione Lipidi SINU, 2014. (Link)
[7] Pubblicazione EFSA riguardante i LIPIDI, 2010. (Link)
Lorenzo De Simone è un corsista inVictus, appassionato di fitness e nutrizione. Lorenzo è stato per molto tempo in forte sovrappeso e, dopo aver coltivato la passione per la nutrizione e l’allenamento, ha deciso di migliorare la sua composizione corporea perdendo 60kg. Da questa conquista personale è nata la sua professione.
Capita di sentire o leggere cose che fanno rabbrividire; persone che pensano che gli alimenti integrali non facciano ingrassare, altre che pensano che questi alimenti siano frutto di sofisticate lavorazioni industriali, altre ancora che pensano che sostituendo alimenti raffinati con gli integrali automaticamente saranno immuni da ogni malattia.
Ma facciamo chiarezza: cos’è un alimento integrale?
Gli alimenti integrali sono, a differenza di quelli raffinati, ricavati dal chicco intero di un cereale.
Di conseguenza, ha senso consumare alimenti integrali?
Dipende.
Troppo spesso ragioniamo per “partito preso”, escludendo automaticamente tutto ciò che non corrisponde all’idea iniziale che ci siamo fatti. In poche parole siamo preda del cosiddetto “bias della conferma” che ci induce ad avvalorare le nostre idee iniziali, precludendoci una visione più ampia sull’argomento.
Cibo integrale e calorie: cambia qualcosa o ingrassi lo stesso?
Dal punto di vista calorico alimenti non raffinati e raffinati non presentano particolari differenze, prendendo una nota marca di pane confezionato e confrontando le due tipologie dello stesso prodotto la differenza calorica è di meno di 10kcal a favore della versione integrale, differenza giustificata dalla quantità quasi doppia di fibre. Questa energia è totalmente trascurabile nell’arco dell’introito calorico giornaliero; anche i cibi integrali fanno ingrassare; se ti abbuffi di pane integrale o bianco, diventerai grasso allo stesso modo.
Dal punto di vista nutrizionalegli alimenti integrali hanno una quantità maggiore di fibre, vitamine, minerali e fitochimici, tutti elementi il cui introito ci viene perennemente consigliato di aumentare.
Le fibre alimentari sono dei carboidrati complessi di cui non siamo in grado di rompere i legami tra i vari singoli zuccheri che, di conseguenza, non vengono assorbiti e, quindi, non apportano calorie.
Le fibre dei cereali integrali sono del tipo INSOLUBILE, cioè il tipo che ha come effetto principale quello di “pulire l’intestino” ed aumentare la velocità di transito del bolo all’interno di esso, l’esempio più conosciuto di questo tipo di fibre è la Cellulosa.
Molto spesso le fibre vengono aggiunte all’interno di alimenti che non le contengono naturalmente (Spesso crusca).
L’apporto giornaliero consigliato è di circa 14g di fibra ogni 1000kcal assunte nella dieta (IoM, 2005), simili a quelli consigliati dalla SINU (Società Italiana di Nutrizione Umana), che suggerisce di non scendere mai sotto i 25g giornalieri (2014).
Le fibre alimentari, quindi, all’interno dell’intestino, rallentano la digestione e l’assorbimento dei nutrienti influenzando la glicemia e l’insulina per quanto riguarda l’ingestione dei carboidrati.
Inoltre, nell’intestino crasso la fibra viene utilizzata dai batteri presenti per produrre energia, con un effetto benefico sulla nostra flora batterica.
Fibre e malattie cardiovascolari
Alcune ricerche dimostrano la capacità delle fibre di prevenire le malattie cardiovascolari riducendo i livelli ematici di LDL e inibendo parzialmente la produzione di colesterolo epatico, di cui non c’è assolutamente da preoccuparsi in un’alimentazione bilanciata; infatti, è probabile. che i risultati ottenuti in queste ricerche siano dovuti semplicemente alla prescrizione di una dieta più sana.
Quanta sazietà danno le fibre?
Le fibre alimentari danno più sazietà a causa del maggior volume che generano nello stomaco e del rallentamento potenziale dello svuotamento intestinale.
Cosa succede quando si esagera con le fibre?
Un apporto troppo elevato di fibre causa distensioni e dolori addominali, “aria nella pancia” e, quindi, imbarazzo e malessere, nonché ad un potenziale malassorbimento dei minerali ingeriti; pertanto, è opportuno non esagerare con l’introito di questi elementi che sono presenti in grandi quantità anche in frutta e verdura (principalmente fibre del tipo SOLUBILE); infatti, soprattutto per la popolazione vegana e vegetariana, che assume gran parte delle proprie calorie da fonti vegetali, potrebbe essere utile utilizzare una buona parte di alimenti raffinati.
Alimenti integrali e vitamine
Il cibo integrale contiene molte vitamine del gruppo E e B: le prime contenute anche in oli vegetali, frutta secca, uova ed alcuni ortaggi, le seconde contenute anche in uova, verdura a foglia, pesce, fegato e molluschi. Potremmo, quindi, tranquillamente assumere queste molecole da altre fonti, ma, se per qualsiasi motivo queste dovessero mancare, allora potrebbe essere opportuno aumentare l’introito di alimenti integrali.
Cibi integrali e minerali
La biodisponibilità di minerali all’interno di cibi integrali è ridotta; di conseguenza una parte viene espulsa perché non assorbita; inoltre, come già detto, una quantità eccessiva di fibre potrebbe portare al malassorbimento di questi elementi.
Cibi integrali e fitochimici
I fitochimici, invece, sono dei composti chimici responsabili per colore e per altre caratteristiche organolettiche, come odore o sapore delle piante e della frutta e hanno una funzione attiva nel proteggere quest’ultime dall’attacco di virus, batteri, funghi e radicali liberi. Queste sostanze sono molto degradabilicon la conservazione e la cottura degli alimenti. Sembrano avere un’azione protettiva nei confronti della salute; di conseguenza, è importante assumere alimenti ricchi in fitochimici, anche perché la maggior di quest’ultimi non viene assorbita.
Conclusioni sugli alimenti integrali
In definitiva, i prodotti integrali non hanno effetti diretti sulla composizione corporea, ma di sicuro sono da prediligere nell’ambito di un qualsiasi percorso alimentare che sia definibile sano per l’apporto di fibre e micronutrienti e soprattutto in un percorso di dimagrimento a causa del potere saziante delle fibre.
Per quanto riguarda l’apporto di fibre e micronutrienti tutti i LARN (Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti ed energia per la popolazione italiana) consigliano preferibilmente il consumo di frutta e verdura; pertanto, in ottica ricomposizione corporea, la scelta tra integrale e raffinato, una volta che il piano è impostato sulla variabilità e sul non lasciare carenze (Piuttosto rare), va lasciata alle preferenze personali, soprattutto di gusto e all’influenza sulla compliance.
Quindi, ti piacciono gli alimenti integrali? Mangiali tranquillamente.
Il solo pensiero di masticare il pane integrale ti da la nausea? Evitalo.
Ti senti più sazio mangiando la pasta integrale? Fantastico!
Lorenzo De Simone è un corsista inVictus, appassionato di fitness e nutrizione. Lorenzo è stato per molto tempo in forte sovrappeso e, dopo aver coltivato la passione per la nutrizione e l’allenamento, ha deciso di migliorare la sua composizione corporea perdendo 60kg. Da questa conquista personale è nata la sua professione.
Il mercato del fitness e del bodybuilding è ormai saturo di professionisti, tra personal trainer, food coach, preparatori atletici, istruttori, sapersi distinguere non è affatto facile e scontato.
Dopo un lungo e impegnativo percorso di studi per diventare personal trainer, che tu abbia fatto scienze motorie, altre certificazioni (ISSA, ELAV, FIF, ecc.) o quella del Project inVictus, hai sicuramente acquisito le conoscenze e gli strumenti per intraprendere un nuovo percorso Ps. se ancora non l’hai fatto, il 2 settembre abbiamo riaperto le iscrizioni per il nuovo anno accademico!
Ma adesso arriva il bello, distinguersi tra i migliori e conquistare il tuo pubblico per essere un Coach di successo! La comunicazione è alla base di ogni rapporto sociale, saper comunicare partendo da zero può risultare però difficile se non sai da dove iniziare.
Come puoi fare, dunque, per differenziarti e farti valere?
Per farti valere come Personal Trainer devi innanzitutto:
1. individuare il tuo target: a chi ti rivolgi?
Per poter stabilire una comunicazione è necessario avere un interlocutore, condividere lo stesso codice linguistico ed essere comprensibile.
Letteralmente il target è il bersaglio, quindi l’obiettivo che devi prefigurarti di raggiungere e colpire. Inutile generalizzare la propria proposta, potrebbe colpire qualcuno, sì, ma non ti sarà facile capire chi hai conquistato e perché, se non sei tu a stabilire la strada da percorrere. Scegli un gruppo, segmenta il mercato e associa le tue potenzialità e capacità ai possibili fruitori interessati proprio al tuo prodotto tra i tanti. Il target group rappresenta l’insieme di individui con le stesse caratteristiche al quale ti rivolgi, focalizzati su questo segmento, è solo così che saprai quali mezzi utilizzare per proporti efficacemente.
In cosa pensi di poter essere il migliore?
Allenamento al femminile, Calistenico, allenamento della forza, ginnastica posturale… Sfrutta le tue capacità migliori e mettile in campo con passione, solo così non passerai inosservato e inizierai ad attirare i tuoi possibili clienti.
Una volta focalizzato il target, non partire da te ma dai bisogno del tuo cliente. Quali sono? Come rispondi? Gi soddisfi? Non incentrare su di te il tuo servizio, ma sul bisogno del cliente. È lui al centro dell’attenzione, non acquista un personal trainer, acquista il desiderio di soddisfare un bisogno, di raggiungere un obiettivo!
2. Attira e trattieni l’attenzione:
Il primo passo è compiuto, hai deciso a chi dedicare la tua offerta. Attirare la sua attenzione è il prossimo step, e per farlo ti vengono in aiuto le parole e, nell’era dei social, ancor di più le immagini.
In base al mezzo di comunicazione che hai stabilito di utilizzare, per proporti sul mercato, hai la possibilità di usare parole e immagini per attirare l’attenzione del target e ancorarlo al tuo messaggio, che deve essere in prima battuta breve e diretto.
Non perderti in chiacchiere, le prime battute sono quelle che apriranno ad un discorso più ampio e chiaro. Tratta il tuo servizio come un prodotto, i primi elementi che NON devono passare inosservati sono visual e slogan, che devono risultare complementari tra loro. E mi raccomando, non usare immagini e parole generiche, pensa a cosa vorrebbe il tuo cliente e dimostragli che sai già di cosa ha bisogno e che puoi semplicemente colmarlo.
Ricordati che come Personal trainer devi usare un linguaggio semplice, nella comunicazione non c’è nulla di più sbagliato, che affaticare chi ascolta, utilizzando termini complessi o incomprensibili per il tuo pubblico. Usare vocaboli tecnici non farà di te un personal trainer competente, ma abbasserà le probabilità di vendere il tuo servizio.
Se usi Facebook poni massima attenzione nella costruzione del tuo post, l’immagine in questo caso è secondaria, non dimenticare un link diretto al tuo sito (se ne hai uno, o almeno un collegamento per capire come contattarti);
Se usi Instagram, invece, l’immagine è FONDAMENTALE, il messaggio ti suggerisco di approfondirlo poi in un altro network o piattaforma, ma lascia una frase d’effetto che incuriosisca il pubblico e lo inviti a seguire il tuo profilo.
Ci sei? Bene, inizia ad applicare questi due principi della comunicazione efficace, inizia ad essere un Coach (Personal Trainer) di Successo!
Note sull’autrice
Giulia Valiani è una corsista inVictus, diplomata al Liceo Classico e laureata in Sociologia con la laureamagistrale è in informazione editoria e giornalismo. Negli ultimi anni si è occupata di ricerche di mercato, redazione di articoli e, più in generale, di marketing e comunicazione.
Il reset metabolico è una strategia alimentare atta ad “alzare” il metabolismo. In realtà è una credenza ed un mito, quello che il metabolismo si alza o si abbassa. Tuttavia per semplificare la questione prendiamo, inizialmente, questo mito come vero.
In cosa consiste il reset metabolico?
Praticamente si tratta di aumentare le calorie, di settimana in settimana, alzando i carboidrati di 10-50g al giorno (con una media di 20-25g). Se, per esempio, mediamente assumevamo 200g di glucidi, passiamo a 210-150g, per poi nella settimana seguente alzarli ulteriormente. Non fate l’errore di aumentarli tutti i giorni, la quota è giornaliera ma aumenta solo ogni settimana!
Questa pratica dovrebbe permettere all’organismo di abituarsi gradualmente ad un aumento calorico/glucidico, ma funziona veramente? Vediamo di scoprirlo.
Quando funziona o non funziona il reset metabolico
Questa strategia alimentare è ottimale quando abbiamo finito una dieta ipocalorica. Piuttosto che tornare rapidamente al nostro TDEE (fabbisogno calorico giornaliero), possiamo protrarre la dieta ancora per qualche settimana, alzando i carboidrati. Questo porterà facilmente, finché siamo in deficit, a continuare a perdere grasso pur alzando le calorie. La strategia è pertanto ottimale per chi ha ancora kg da perdere, se già avete raggiunto il vostro peso ideale, tornate rapidamente in normocalorica, impiegando al massimo 10-14 giorni.
Il reset metabolico ha lo scopo, d’incentivare la persona ad allenarsi di più e meglio e di aumentare il suo dispendio calorico indotto dall’attività non sportiva (vedi il NEAT). Ricordiamoci sempre che un aumento delle calorie in normocalorica, se non compensato da un maggior dispendio porta ad acquistare peso (sperando, che se ci alleniamo, l’aumento sia dato dal muscolo e non solo dal grasso corporeo).
L’obiettivo del reset è quello di portare la persona da 2500kcal a 3500kcal, nel caso di un uomo, o da 1500kcal a 2100kcal per una donna (sono esempi).
Una persona che si allena ed è attiva dovrebbe assumere le giuste calorie e non avere un “metabolismo lento“, loscopo del reset è quello di ristabilire il corretto assetto ormonale/metabolico della persona.
Questa strategia tuttavia non funziona se:
non vi allenate e non aumentate i parametri allenanti (intensità, volume, densità)
non avete una vita attiva
non siete graduali ed aumentate eccessivamente di botto i carboidrati
In questi casi è meglio utilizzare altri approcci alimentari.
Conclusioni sul reset metabolico
Il reset è sicuramente una strategia efficace se fatta correttamente nel momento opportuno. È facile, quando non si ha esperienza, sbagliare, dosando male i parametri. Per questo misuratevi settimanalmente prendendo almeno il peso corporeo e le circonferenze (dell’addome e degli arti), in questo modo potete ribilanciare l’aumento glucidico di settimana in settimana.
Sbagliando si impara, ma se farete le cose per bene, potrete ritrovarvi tra 6 mesi in una condizione metabolica sicuramente migliore. Un conto è mettersi a dieta partendo da 2500kcal, un conto è da 3500kcal. Infine ricordiamoci sempre che la fase di massa dovrebbe essere propedeutica a quella di definizione!
Qual è il nostro reale fabbisogno proteico? Quante proteine ti conviene assumere al giorno?
Tra i tanti argomenti controversi e vittime di “leggende da palestra” probabilmente in cima alla classifica c’è quello delle Proteine. Il Macronutriente cardine, essenziale, quello che fa mettere muscolo, la linfa vitale del Bodybuilder o del semplice appassionato di Fitness.
Si sente di tutto. Dai dosaggi comunemente raccomandati dai Medici, che faranno storcere il naso a molti (i famosi 0.8g/Kg die) ai “tonnellaggi” suggeriti da alcuni istruttori (5g/Kg).
Ma cosa é vero e cosa é infondato?
Fabbisogno proteico giornaliero: quante proteine devo assumere al giorno?
La risposta non può essere immediata ed univoca. E come in ogni cosa, eccedere, non è mai la strategia più intelligente. Personalmente, mi piace sempre raccomandare una quota proteica adeguata alle esigenze tanto da non assumerne ne in eccesso, ne in difetto. Ma vediamo di fare chiarezza.
Le stime “Standard” riguardo al fabbisogno proteico, che sentirete pronunciare più o meno da ogni medico, corrispondono sempre a circa 0,8g per kg di peso corporeo. Calcoli alla mano si tradurrebbe in 65 gr circa per un individuo di 80kg.
Questo valore non é casuale, ma corrisponderebbe a stime ricavate misurando e comparando l’escrezione urinaria di azoto (un fattore indice del Turnover Proteico, il “ricambio” e il “consumo” protidico giornaliero.
Ricordiamo che il bilancio azotato è un test quantitavo ma non qualitativo, perchè tiene in considerazione solo la quantità di proteine assunte ma non lo spettro aminoacidico (aminoacido limitante).
Verificando quindi il cosiddetto “bilancio azotato”, possiamo dire che le famose 0.8gr/kg-die (Dose Giornaliara Raccomandata o RDA) sono un valore medio abbastanza indicativo per un individuo sano, di età adulta, con una dieta normocalorica bilanciata nella sua composizione di macronutrienti, che non pratica attività sportiva.
Stiamo dunque inquadrando questo valore, contestualizzandolo e dandogli dei confini.
Ma cosa accade quando le esigenze sono differenti? In caso di attività sportiva intensa, di allattamento o gravidanza, e ultimo ma non meno importante, di dieta ipocalorica?
Ormai numerosi studi hanno dimostrato come non solo l’attività sportiva agonistica, ma anche quella che potremmo inquadrare nel Fitness, aumenterebbe la richiesta di assunzione proteica, rendendo non più soddisfacente il valore indicato dalla RDA.
Qui i dati che si possono estrapolare sono senz’altro interessanti e tendono a far variare l’assunzione tra i 1,4gr/Kg-die per atleti di Endurance ai 1,8gr-2gr/Kg-die per atleti di Sport di forza, mentre le richieste proteiche dell’utente medio di Fitness o quelle di sport cosiddetti “aciclici” sembrerebbero incrementare fino a 1gr/Kg-die per i primi e 1.6gr/Kg per i secondi.
Dunque tornando con la calcolatrice alla mano, 110gr/die per il tizio di 80kg di prima nel caso in cui si diletti a fare il Runner, 140gr-150gr/die circa nel caso in cui si dedichi al Sollevamento pesi.
Un po’ diverso dai 65 grammi di prima no? Abbiamo circa raddoppiato il valore.
Calcolare il fabbisogno proteico in base allo stile di vita
Proprio perché attività fisiche intense generano richieste energetiche e di macronutrienti (principalmente Proteine e Carboidrati) maggiori per la necessità di mantenere il peso corporeo: ricaricare le scorte di glicogeno e fornire un adeguata extra-quota proteica per la sintesi di nuovo tessuto muscolare, per ripristinare le microlacerazioni tissutali dovute agli sforzi meccanici e per tamponare la maggiore ossidazione di Amminoacidi.
Va detto che anche qui si tratta di stime e valori medi, che possono variare appunto in base alle soggettività, abitudini, capacità di adattamento biologico ed esigenze del singolo individuo.
Lyle McDonald (uno dei massimi ricercatori di fama mondiale) suggerisce per la quota proteica d’assumere i seguenti valori:
Livello di attività
Grammi: g
Sedentario
0,75
Attività aerobica
1
Attività contro resistenze (Pesi)
1,5
Il calcolo avviene attraverso la moltiplicazione della Massa magra in LIBBRE (peso totale- massa grassa) x coefficiente proteico della tabella.
Per calocolare il peso dai Kg alle libre basta moltiplicare per 2,2.
Un uomo di 80Kg che fa palestra seriamente 3-4 volte a settimana col 15% di massa grassa quante proteine deve assumere secondo Lyle :
Per prima cosa calcoliamo la sua massa magra che corrisponde al’85% del peso totale pari a 68Kg (80 x 0,85).
Moltiplichiamo 68Kgx2,2=150 libre.
Moltiplichiamo 150×1,5=225g di proteine
225g per una persona di 80Kg, come vedete un quantitativo nettamente superiore rispetto a quello che avevamo consigliato nel precedente articolo: 1.6-1,7g/Kg di peso corporeo.
Dove sta la verità sul fabbisogno proteico?
Probabilmente l’INDIVIDUALITA’ BIOCHIMICA è la miglior risposta. Studiate leggete la bioblografia scientifica a riguardo ma poi provate nel pratico la miglior combinazione. Sicuramente molti soggetti che assumono buoni quantitativi glucidici (carboidrati) hanno bisogno di meno proteine.
Quali funzioni svolgono le proteine?
Innanzitutto bisogna dire che svolgono un numero sorprendente di funzioni, solo per citarne alcune:
Strutturale (la gioia di ogni utente di palestra)
Recettori
Ormoni (Insulina, GH, Glucagone… )
Immunitaria
Di supporto alla replicazione del materiale genetico
Ecc.
Come si può subito notare, la funzione plastica o strutturale é solo una delle tante che questo Macronutriente svolge nel corpo umano.
Salta già agli occhi che mangiare “più proteine” non equivale solo a “avere più mattoni per il muscolo a disposizione”, ma la cosa é decisamente più articolata.
Struttura delle proteine: amminoacidi
Le proteine sono composte da monomeri chiamati Aminoacidi, composti organici costituiti da un gruppo amminico (NH2) e un gruppo acido (COOH), che si legano in sequenza a formare strutture più complesse. I legami tra gli amminoacidi sono detti “legami peptidici“, formando così, dipeptidi (2 Amminoacidi) tripeptidi (3 amminoacidi) e polipeptidi (più Amminoacidi) e articolandosi in strutture via via più articolate per assolvere le funzioni alle quali sono destinate
Gli amminoacidi si diversificano tra loro in base alla loro composizione chimica per un numero di 20 diversi (anche se ultimamente va di moda dire 22), di cui alcuni essenziali, quindi che devono assolutamente essere introdotti con l’alimentazione, mentre gli altri possono essere “sintetizzati” dall’organismo a partire da altri amminoacidi o macronutrienti.
Proteine o carboidrati?
Un altro parametro importante da tenere in considerazione quando parliamo di fabbisogno delle proteine é proprio “il resto” dell’alimentazione: quanti carboidrati e proteine sto assumendo?
Nel corpo umano troviamo dei tessuti cosiddetti “glucosio-dipendenti”, basti pensare agli eritrociti, in buona parte i leucociti o il SNC. In qualche modo, in caso di digiuno prolungato o di carenza di glucosio nel torrente ematico, il nostro corpo ha “ideato” diversi meccanismi che permettono la formazione di glucosio a partite da composti non glucidici.
Questo processo é chiamato Gluconeogenesi.
Per semplificare potremmo dire che durante il digiuno, quando il livello ematico di glucosio scende sotto una certa soglia, un ormone peptidico, il Glucagone (amico della tanto inflazionata e conosciuta nelle palestre Insulina) viene prodotto dal pancreas e, potremmo dire, “sposta l’attenzione” del corpo da carboidrati a grassi e proteine per produrre energia.
Cosa sono i GAA
Bisogna tenere presente che tra i principali precursori non glucidici dal quale l’organismo può attingere per la Gluconeogenesi vi sono gli Amminoacidi, o meglio i cosiddetti GAA (Glucogenic Ammino Acids)
I GAA nello specifico sono composti che possiedono una catena Carboniosa che il corpo può, nella totalità, o parzialmente, convertire in intermedi del Ciclo di Krebs.
Si tratta di un processo catabolico, chiamato “Proteolisi” che si innesca come abbiamo detto in caso di digiuno prolungato, basse scorte di glicogeno (il modo in cui il nostro corpo stocca il glucosio) o stress.
La trattazione dei processi biochimichi di questo Pathway metabolico esulano dalle tematiche di questo articolo, ma dal mio punto di vista occorre porre l’attenzione su un concetto abbastanza importante.
L’utilizzo di GAA come precursore del glucosio farà pendere nuovamente la “bilancia dell’Azoto” di cui parlavamo poc’anzi verso una perdita, aprendo la strada a una serie di strategie:
A) Prevenire appunto la Proteolisi mantenendo le scorte di glicogeno (o ripristinarle post-esercizio) per evitare di innescare la cascata di eventi che porterà alla Gluconeogenesi a partire da GAA.
B) Mantenere questo stato, incrementando l’intake proteico e sfruttando la situazione metabolica venutasi a creare. In questo modo sfrutteremo si la conversione di GAA, ma anche di trigliceridi per forzare l’organismo al dispendioso (metabolicamente parlando) meccanismo della Gluconeogenesi che avviene nel fegato. Questo avverrà grazie agli enzimi e all’energia fornita dalla demolizione dell’Acetil-CoA (proveniente dalla beta-ossidazione) nel Ciclio di Krebs.
Si calcola che in media per un individuo in salute, con un fabbisogno calorico di circa 1800 kcal in caso di digiuno il fabbisogno dei tessuti glucosio-dipendenti sia coperto dal catabolismo di 75gr di proteine strutturali sfruttando il percorso Proteolisi->Gluconeogenesi e 160gr di trigliceridi (lipolisi -> Gluconeogenesi)
Naturalmente, salvo particolari casistiche o esigenze, troviamo estremamente più efficace, semplice e immediata la prima strada, soprattutto se avete letto gli altri articoli presenti sul sito sull’importanza dei Carboidrati, sulla sensibilità insulinica e sul metabolismo glucidico. Soprattutto pensando ad Atleti con elevate e a volte elevatissime richieste energetiche giornaliere, che possono facilmente raggiungere le 3000-3500 kcal-die, la quota di proteine impegnate nella Gluconeogenesi arriverebbe a numeri importanti, divenendo così costretti ad aumentare l’intake di questo Macronutriente in maniera assolutamente massiccia (immaginiamo ad esempio un’extraquota di proteine da aggiungere al fabbisogno di un atleta di Forza di 90kg)
Mi ripeto: naturalmente non vi é un giusto o uno sbagliato, ma personalmente amo la semplicità, che trovo appunto una forma di intelligenza, soprattutto nell’alimentazione.
Se dunque ci si attiene alla semplicità ed all’efficacia, la prima strada appare subito quella più facilmente percorribile, soprattutto per chi non ha specifiche e particolari esigenze.
Alcuni consigli sulle proteine
Il muscolo scheletrico é composto da circa il 30% dagli Amminoacidi Ramificati (Leucina, Isoleucina e Valina, detti anche BCAA)
Recentemente abbiamo trovato come in letteratura scientifica la Leucina sembri avere un ruolo significante nella sintesi proteica, cosa che potrebbe suggerire a coloro che intendono richiedere dal loro allenamento un aumento di massa muscolare supplementare con BCAA.
Personalmente trovo questo tipo di integrazione interessante soprattutto alla luce di alcuni studi che sembrerebbero mostrare come i BCAA potrebbero attenuare diversi meccanismi della cosiddetta “fatica periferica”.
Va tuttavia ricordato che l’effetto anabolico dei BCAA e nello specifico della leucina si esaurisce con 2,5-3g/ per pasto. Se attraverso l’alimentazione o altri integratori (Whey, aminoacidi essenziali) avete già raggiunto questa quota, non avrete ulteriori benefici. A questo punto converrà prendere tutti gli aminoacidi assieme o almeno quelli essenziali per sfruttare la spinta anabolica completa e non solo quella selettiva della leucina e co.
Infine credo sia importante rassicurare tutti coloro che hanno spesso sentito voci riguardo alla “pericolosità” di una dieta che preveda relativamente alti apporti proteici, e che nello specifico vedrebbe questo Macronutriente come pericoloso per i reni oppure per il cosiddetto potenziale acidificante che avrebbero.
Nel primo caso, l’equivoco se così si può chiamare nascerebbe da alcuni studi che mostrerebbero come un eccesso di assunzione rispetto al RDA promuoverebbe patologie renali croniche, dovute all’aumento della pressione dei glomeruli dovuto a un incremento della loro attività di filtraggio.
Anche in questo caso gli studi sarebbero stati effettuati su soggetti con patologie renali già esistenti, e dunque poco applicabili ad individui sani, che invece non presenterebbero differenze nelle funzioni renali tra diete ipoproteiche ed iperproteiche, scagionando apparentemente questo nutriente dalle accuse, anzi occorre ricordare che fornendo substrati azotati parrebbe migliorare le capacità renali e la sua funzione tampone.
Riguardo all’assunzione proteica e alla perdita di calcio anche qui ad una prima occhiata si potrebbe cadere in equivoco
Le proteine alimentari aumentano l’assorbimento intestinale di calcio ed é palese comprendere come in tal caso ci sarà una maggiore escrezione renale, assolutamente slegata a una demineralizzazione ossea (della quale nei vari studi non sono mai stati trovati i marker caratteristici)
Differente é il rapporto tra proteine e tumori. O per meglio dire, molto più complesso e controverso, mi limiterò per questioni di spazio, conoscenze personali (la trattazione profonda esula dal mio campo) e scopo del’articolo ad accennare alcuni dati emersi da studi relativamente recenti.
Alcuni studi sembrerebbero aver trovato una correlazione tra eccesso Caseine e proliferazione di tumori del colon, anche se la cosa è decisamente in fase di studio e sinora si é trovato un riscontro soltanto IN VITRO e non in VIVO.
D’altra parte, altri studi sembrerebbero (condizionale d’obbligo) indicare proprio le Caseine come un fattore in grado di esercitare parziale funzione di soppressore e di prevenzione per il tumore al seno.
Menzione a parte merita il discorso sulle proteine animali, poiché difficilmente può essere svincolato dalle metodologie di cottura e conservazione che in alcuni casi genererebbero agenti cancerogeni (le cosiddette ammine eterocicliche).
Questa breve dissertazione non ha altra funzione che illustrare come sia estremamente complesso il campo, da rendere impossibile ai non specialisti del settore (ma anche a loro) pronunciare sentenze estreme e allarmistiche su determinati cibi.
Speriamo dunque di aver fornito qualche spunto e dato utile, inquadrando le varie raccomandazioni che spesso sentiamo pronunciare da riviste più o meno qualificate e Medici, che spesso troviamo contrastanti, generando confusione e spaesamento in alcuni casi, o sensi di colpa e allarmismo in altri.
Detto questo, buona Bistecca Fiorentina a tutti
Del Dr Fabio Campisi Fabio Campisi, senese, laureato in Dietistica presso l’Universita degli Studi di Siena, atleta agonista di Jiu Jitsu Brasiliano. Da sempre appassionato di movimento umano, allenamento e nutrizione. Tra le varie qualifiche istruttore di CrossFit e Z-Health Trainer. Lavora come Personal Trainer. Mail: fabio_campisi@hotmail.com
Proteine vegetali: le devo contare oppure no nel fabbisogno?
Ultimamente sui forum e gruppi FB vedo che ritorna sempre questa questione. Ma le proteine vegetali, si devono contare, oppure no?
Ora, che tra le proteine vegetali ed animali ci siano delle differenze comuni è evidente (in termine di composizione aminoacidica), ma arrivare a demonizzare le prime come se “non contassero” è sicuramente un’esagerazione.
Sebbene molti vegetariani e vegani si riescano ad organizzare ed orientare, in termini pratici, mangiando anche solo da fonti vegetali tutti gli aminoacidi di cui hanno bisogno (vedi Dieta vegana e bodybuilding), ho notato che pochi hanno chiara la base teorica che c’è sotto. Dove sta la differenza nell’assumere un pool di amminoacidi incompleto o meno ma soprattutto cosa vuol dire che un pool di aminoacidi sia incompleto? Perchè le proteine animali son considerate migliori e lo sono veramente? Secondo quali criteri e metodologie viene calcolata la qualità delle proteine?
Bene, partendo dall’analisi di queste problematiche arriveremo (forse) a dare una risposta definitiva da poter linkare ogni volta che sorge un topic sulle proteine vegetali.
Come funziona con le proteine che ingeriamo
Questa parte è abbastanza banale, ma credo che per qualcuno possa essere necessaria quindi tanto vale fare un breve ripasso.
Dunque, noi parliamo di quantitativo proteico, ma non sono di fatto le proteine che ci interessano, almeno non direttamente. Quello che a noi (e al nostro organismo) interessa, sono gli amminoacidi che le compongono. Il giocheto è semplice, noi introduciamo degli amminoacidi legati in un determinato ordine, il corpo li slega e li ricompone nell’ordine che serve a lui (anticorpi, enzimi, ormoni, trasportatori o anche proteine con funzioni strutturali). Ho banalizzato ovviamente, e non ho considerato evenutali altre destinazioni degli aminoacidi (per esempio come fonte energetica che segue la separazione del gruppo amminico) però teniamoci per buono questo quadro.
Ora, che succede se manca uno degli amminoacidi che servono per una determinata proteina? Ebbene in questo caso la sintesi proteica si blocca e possono avverarsi due scenari:
Si tratta di un amminoacido essenziale, il corpo quindi non può produrlo a partire da altri amminoacidi, la sintesi proteica non ha modo di avvenire (a meno di non pescarlo dal turnover proteico andando così a catalibolizzare alcune proteine del nostro corpo).
Si tratta di un amminoacido non essenziale, il corpo può produrlo convertendo altri amminoacidi (transaminazione) e quindi continuare la sintesi proteica.
In tutto questo si inserisce un ulteriore problematica, ossia che il nostro organismo non è in grado di conservare gli amminoacidi in eccesso che verranno dunque convertiti in riserve o trasformati in glucosio per essere utilizzati a scopi energetici (a tal proposito si rimanda all’articolo su: le proteine fanno ingrassare?).
In termini pratici come comportarsi con le fonti proteiche
Ora, ovviamente chiariamo un primo punto che ci aiuterà nel prosieguo. Quello che a noi importa non è la composizione amminoacidica degli alimenti che mangiamo quanto piuttosto la composizione del nostro pasto o della sequenza dei pasti (gli aminoacidi hanno emivita ematica di diverse ore). Da qui, come vedremo, nascono delle linee guida di abbinamento di fonti incomplete (ovvero mancanti di uno o più amminoacidi essenziali) al fine di ottenere un pool completo. L’esempio classico è quello dell’abbinamento legumi–cereali, i primi ricchi di lisina ma poveri degli amminoacidi solforilati (cisteina e metionina) e i secondi, viceversa, poveri di lisina ma ricchi di metionina e cisteina. Così, un’assunzione nello stesso pasto permetterà di avere un pool completo (n.b. la soia è un legume, ma ha un pool piuttosto bilanciato al punto che può essere considerata una fonte completa, la frutta secca invece è si piuttosto bilanciata ma manca un minimo di lisina analogamente ai cereali).
Va detto comunque che la nostra alimentazione è tendenzialmente ricca di proteine al punto che la quantità rende il discorso qualità relativamente importante (per la persona media). Motivo per il quale le linee guida non suggeriscono comportamenti alimentari specifici in proposito. Quando leggete in nutrizione del fabbisogno proteico è sempre considerato che parte delle proteine siano di provenienza vegetale.
Come si calcola la qualità proteica? – Indice Chimico
Ovviamente non è solo importante la quantità di proteine, ed il fabbisogno, ma anche la qualità. Dunque, fatto questo discorso sulla qualità si è posto subito il problema di poter stimare e calcolare in maniera comoda la qualità delle singole proteine, soprattutto al fine di poterla diffondere tra la popolazione in una maniera utile ad essere utilizzata. Vi sono a tal fine, diverse metodologie, ognuna con i propri pregi e difetti. L’analisi di queste è estremamente utile per poter arrivare a capire come potersi comportare nei singoli casi riguardo al conteggio proteico.
Primo problema è ovviamente quello di avere un punto di riferimento. La soluzione più logica sarebbe quella di utilizzare il pool amminoacidico del muscolo umano, vi sono anche tabelle tuttavia che utilizzano quella dell’uovo.
Vediamo quindi la prima metodologia, quella dell’Indice Chimico. Si tratta semplicemenete di calcolare la percentuale di un aminoacidi essenziali rispetto al valore di riferimento, così, prendendo l’esempio della pasta, il profilo amminoacidico sarà il seguente:
A questo punto andiamo a compararlo al pool necessario per la sintesi proteica e seguiamo il calcolo sopra visto.
Nulla di stupefacente, abbiamo i solforilati sopra il 100%, dunque in eccesso e la lisina al 35%, ponendosi dunque come aminoacido essenziale limitante.
Stesso discorso può farsi per le lenticchie:
Qui abbiamo invece la lisina abbondante e i solforilati come aminoacidi essenziali limitanti.
Ma vediamo cosa succede con l’uovo:
Come vediamo abbiamo quasi tutti gli aminoacidi essenziali sopra il 100% dunque “in eccesso”. Ne consegue che le fonti vegetali possono essere abbinate ad altre fonti vegetali o animali per completarne il pool.
Il valore biologico
Posto così il discorso può risultare banale, perchè basterebbe (spero nessuno seriamente lo faccia) mettersi a calcolare i singoli amminoacidi di ogni pasto per poter ottenere le proporzioni degli alimenti scelti che raggiungano quel famoso 100% (o maggiore). Il discorso è però, come detto, più complesso, bisogna gettare uno sguardo infatti anche all’effettivo assorbimento delle proteine.
Seconda metodologia che andiamo ad analizzare è quindi quella del Valore Biologico.
L’idea di base è quella di dar da mangiare un determinato alimento e vedere quante delle sue proteine che vengono assorbite vengono effettivamente utilizzate dall’organismo:
Valore Biologico = Proteine Utilizzate/Proteine Assorbite
Come abbiamo visto, laddove manchino degli amminoacidi essenziali, quelli in eccesso vengono scartati dunque le proteine utilizzate saranno poche rispetto a quelle assorbite (v.b. basso).
Per indicare il valore biologico delle fonti proteiche si verifica il rapporto del tra l’azoto trattenuto e quello assorbito.
Coefficiente di digeribilità delle proteine
Ultimo concetto che dobbiamo far nostro per poter arrivare a delle conclusioni precise è quello di coefficente di digeribilità. Qui non si parla più di variazioni interindividuali nell’assorbimento dei macronutrienti quanto piuttosto sulle differenze di digeribilità degli stessi nei vari alimenti.
Ora, mentre glucidi e lipidi hanno un coefficente di digeribilità vicino al 100% e praticamente costante, per le proteine è molto variabile e, nel caso di quelle dei vegetali, si aggira intorno all’80%. Le fonti animali hanno una migliore digeribilità, quelle dei vegetali (compresa ovviamente la frutta secca) ce l’hanno più bassa (questo è dato dalla presenza delle fibre, dei fitati ed antinutrienti).
Conclusione sulle proteine vegetali
Possiamo quindi tirare le fila del discorso e dare delle indicazioni generali su come comportarsi. Ovviamente la situazione dipenderà dai diversi casi:
Soggetti Vegani. In questo caso bisogna anzitutto vedere se e quanti alimenti a base di soia si assumono. Se questo viene fatto in ciascun pasto allora il consiglio generale è quello di calcolare le proteine come “valessero” circa 0.8 (prendere il proprio fabbisogno, moltiplicarlo per 10, dividerlo per 8 ottenendo così il quantitativo da assumere). Questo perchè bene o male, essendo la soia una fonte completa, andrà a coprire le carenze di amminoacidi essenziali delle altre fonti. Ovviamente, visto che non si può viver di soia, stesso discorso deve essere fatto bilanciando i pasti con il famoso accoppiamento cereali-legumi.
Nel caso in cui questo non avvenga, allora basti considerare questo esempio con le lenticchie: abbiamo visto che la lisina è pari al 35% del valore necessario per avviare la sintesi proteica, dunque solo il 35% delle proteine verrà utilizzato a tali fini. A questo ci si aggiunga una digeribilità di circa l’80%, otterremo che un 28-30% sono le proteine effettivamente utilizzate ai fini della sintesi proteica.
Soggetti onnivori. In questo caso, di nuovo, il consiglio è quello di assumere ad ogni pasto una fonte “nobile”. Ora, teniamo in considerazione che questo avviene molto frequentemente nei Bodybuilder (se c’è ancora un’ossessione che tiene è quella delle proteine 6 volte al giorno, o quantomeno ad ogni pasto!) ma ad ogni modo vale anche qui la regola dell’accoppiamento cereali-legumi. Rimane quindi il discorso digeribilità, che logicamente varia in base alle quantità di proteine vegetali che si mangiano.
La regola generale. Più la nostra alimentazione è incentrata sulle proteine vegetali, meno teniamo conto dei corretti accoppiamenti tra alimenti, e più per stare tranquilli basterà calibrare la quota proteica con dei dosaggi leggermente superiori (+0,2-0,3g/kg) rispetto a quelli previsti dalla propria programmazione, in modo da far fronte ad eventuali “perdite” o ad un assorbimento inferiore.
L’articolo Proteine vegetali: le devo contare oppure no? è di Ludovico Lemme Personal Trainer certificato ISSA e studente SaNIS (scuola di nutrizione e integrazione sportiva). Segue diversi atleti, sia dal vivo che online nel campo del Bodybuilding e del fitness in generale. Nel 2015 avvia il progetto Rhinocoaching con il quale si propone di creare una piattaforma di riferimento per i suoi atleti e per gli appassionati in generale.
Contatti: rhinocoachingofficial@gmail.com
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Quali sono gli esercizi fondamentali per le gambe e i quadricipiti? Come impostare un allenamento per le gambe e come aumentare la massa muscolare delle gambe? Queste risultano per molti il punto più ostico e difficile da lavorare, l’allenamento delle gambe e, in particolare, dei quadricipiti, spesso è impostato in modo sbagliato, principalmente per due ragioni:
Sono un distretto muscolare particolarmente grande (50% della muscolatura del corpo). La quantità di materia strutturale che servirà per dare quel determinato effetto estetico sarà maggiore.
Allenare le gambe è doloroso. Anche questo è collegato al fatto che sono un gruppo muscolare grande: la nostra capacità di spremerci e di “andare oltre” è fortemente limitata rispetto a gruppi muscolare più piccoli.
Questo, però, non vuol dire che i margini di miglioramento non ci siano ed anzi impostare un allenamento efficace per aumentare la massa muscolare delle gambe è più semplice di quanto non si creda.
In questo articolo vedremo quelle che sono le strategie e le metodiche per allenare le gambe, nello specifico i quadricipiti. Femorali e polpacci verranno infatti analizzati successivamente.
Come vengono suddivisi petto e schiena conviene, a meno che non ci alleniamo in fullbody, considerare le cosce in due parti: anteriore, posteriore. Questo articolo si concentrerà quindi prettamente sui quadricipiti.
Volume
Da 8/10 sino a 20/22 serie allenanti a settimana
Carichi
Da un 4RM sino ad un 20/25RM
Frequenza
Da 1 a massimo 3 volte a settimana
ROM ideale
ROM completo, tutti gli angoli di lavoro
Tecniche d’intensità migliori
Picco di contrazione, Superslow, Stretch muscolare
Il volume ideale per l’allenamento gambe e dei quadricipiti
I quadricipiti hanno bisogno almeno di 8/10 serie allenanti settimanali per un mantenimento della massa muscolare. Queste cifre sono valide per chi ha una buona genetica e non ha bisogno di migliorare la trofia. Nel caso invece essi rappresentino un punto carente, possiamo arrivare anche sulle 20/22 serie settimanali. Questo deve essere però bilanciato con l’allenamento degli altri distretti muscolari che, in questo caso, dovranno avere un volume totale inferiore. Altro consiglio è quello di scegliere soprattutto esercizi di isolamento in modo da stimolare i quadricipiti in maniera specifica ed efficace.
I carichi ideali per la massa muscolare delle gambe
Per quanto riguarda l’intensità di carico, i quadricipiti rispondono molto bene a stimoli meccanici come anche metabolici. Si tratta del distretto muscolare che ha, in assoluto il range di carico più ampio. Ben vengano allora lavori sulle 4 ripetizioni con squat e presse pesanti, ma anche esercizi di isolamento con carichi ridotti del 20-25RM. In generale i due estremi tendono a funzionare benissimo. Questi lavori andrebbero periodizzati nell’arco di almeno due settimane. Possiamo dunque inserirli entrambi nelle stesse sedute, in due sedute diverse della settimana o dedicare una settimana ai lavori meccanici ed una a quelli metabolici.
La frequenza ideale per l’allenamento delle gambe
I quadricipiti hanno una frequenza ideale di 1 fino a 3 volte a settimana. L’allenamento in monofrequenza porta ad uno stimolo inferiore in termini di risposta ipertrofica ma rappresenta una scelta sensata per chi ha questo gruppo muscolare geneticamente avanti. Nel caso invece in cui il gruppo sia carente possiamo aumentare la frequenza fino a 3 volte a settimana. Questo non solo comporta di per sè dei benefici in termini di risultati ma ci da la possibilità di utilizzare un volume settimanale maggiore. Come suggerito poco fa, in questi casi, ci converrà prediligere lavori di isolamento in modo da evitare un eccessivo stress a livello sistemico. Fare squat 3 volte a settimana in un protocollo tipico di bodybuilding può essere efficace ma non sempre è la soluzione ideale.
Prima il carico e poi le tecniche ad intensità per l’allenamento dei quadricipiti
Tra poco vedremo diverse proposte d’allenamento per i quadricipiti. È importante però ricordare che prima di perdersi nelle varie varianti d’esercizi e tecniche d’intensità raggiungere certi carichi allenamenti è d’obbligo per poi iniziare un lavoro qualitativo.
Nel tempo bisognerebbe mirare a sollevare un carico pari a 2BW nello squat (full). Questo è il traguardo a cui ambire per allenare seriamente le gambe.
ROM e Tecniche d’Intensità l’aumento della massa muscolare delle gambe
Per i quadricipiti è richiesto un arco di movimento completo, anzi esasperato. Partire dal massimo allungamento e raggiungere il massimo accorciamento è in generale la soluzione migliore. Questo permetterà di stimolarli in toto e massimizzare i processi di adattamento ipertrofico.
Per quanto riguarda le tecniche d’intensità, i quadricipiti rispondono molto bene a tutti i lavori che enfatizzano il danno muscolare e lo stress metabolico. Motivo per il quale allenamenti estremamente pesanti o estremamente metabolici funzionano in maniera divina! In questo senso utilizzare lo stretching (rimanere in massimo allungamento ad ogni ripetizione o alla fine della serie) o la contrazione di picco (rimanere in massimo accorciamento ad ogni ripetizione o alla fine della serie) ci permetterà di massimizzare i nostri risultati. Allo stesso modo la tecnica del superslow porta ad un estremo beneficio (enfatizzando lo stress metabolico).
Scheda di allenamento per le gambe
Vediamo ora un esempio di scheda per l’aumento della massa muscolare delle gambe.
Vediamo il primo allenamento della settimana concentrandoci sui quadricipiti. Il volume di allenamento è di 11 serie totali, di cui molte su esercizi che coinvolgono anche i femorali (squat e pressa).
Abbiamo un primo esercizio di pre-attivazione dei quadricipiti alla Leg Extension. Le ripetizioni vanno dalle 15 nella prima serie fino alle 10 nell’ultima. Il tempo di recupero è di 60”: abbastanza lungo da permettere un blando recupero; abbastanza corto da permettere di mantenere lo stato di iperemia locale (pump).
Il secondo esericizo è un classico Squat, 5 serie da 5 ripetizioni con un recupero generoso. La pre-attivazione sulla Leg Extension ci permetterà di coinvolgere maggiormente i quadricipiti. Aspettiamoci però un crollo dei soliti carichi (le gambe sono pre-affaticate!)
Il terzo esercizio è la pressa. Abbiamo qui 3 serie da 8/10 ripetizioni. La scelta di esser così “approssimativi” con il numero di ripetizioni è volta ad incentivare l’atleta a dare il massimo. I tempi di recupero sono qui un po’ più alti, proprio per permetterci di recuperare e spingerci sempre al limite.
Giorno 2: esercizi per quadricipiti e ischiocrurali
Esercizio
Serie
Ripetizioni
Recupero
Leg Curl
2
10
30”
Squat
6
10,8,6,4,4,10
120”-180”
Sissy Squat
4
12 sino a 15
60”
Leg Extension unil.
3
10
45”
In questo secondo giorno notiamo subito che il focus della scheda è rivolto allo Squat come gesto motorio e ai femorali come gruppo muscolare. Questo ci permette di dare un’enfasi equilibrata ai due distretti più importanti delle gambe e di migliorarle in maniera armonica. Concentriamoci però ancora sui quadricipiti. Come vediamo il volume è inferiore rispetto all’altro giorno: sono 7 serie (per un totale di 18 serie settimanali) il range di ripetizioni è leggermente maggiore e i tempi di recupero inferiori. Questo, in considerazione anche dell’affaticamento che avremo allenandoli a fine seduta, è indice di carichi molto bassi e della scelta di ricercare il massimo stress metabolico che possiamo.
Dopo un lavoro sullo squat e sui femorali abbiamo un primo esercizio di quadricipiti, il Sissy Squat. In questo caso sono 4 serie da 12/15 ripetizioni. I tempi di recupero sono di 60”, lavoriamo quindi sullo stress metabolico. Il Sissy Squat ci permette di portare i quadricipiti in massimo allungamento, possiamo quindi sfruttare l’esercizio per utilizzare uno stretching a fine serie o ad ogni ripetizione per dare un ulteriore stimolo in termini ipertrofici.
Il secondo esercizio è una Leg extension unilaterale. Effettueremo 3 serie da 10 ripetizioni per ogni gamba. I tempi di recupero sono molto stretti, solo 45”, lo scopo è, ancora una volta, quello di provocare un forte stress metabolico.
Scheda per l’allenamento in casa delle gambe
Posti questi consigli su come impostare un allenamento, come possiamo comportarci quando non abbiamo una palestra a disposizione? In effetti le gambe vengono normalmente allenate con diversi attrezzi, quando questi non sono utilizzabili come possiamo fare? Il trucco è quello di avere a disposizione qualche peso, molto equilibrio e un po’ di fantasia. Vediamo allora un esempio di una scheda per l’aumento della massa muscolare delle gambe in casa.
Il primo esercizio è un Sissy Squat, 4 serie da 10 ripetizioni con un recupero molto basso. Anche in questo caso lo scopo sarà quello di pre-attivare e pre-affaticare i quadriticipi per l’allenamento successivo.
Passiamo poi ad uno Squat allenato con un piramidale di Forza. 6 serie con un numero di ripetizioni che da 10 diminuisce pian piano. L’ultima serie è nuovamente da 10 ripetizioni, in modo da concludere il lavoro recuperando il feeling con lo schema motorio (che in genere viene perso lavorando a basse ripetizioni ed alti carichi).
Passiamo poi ad un bulgarian squat. In questo caso abbiamo 3 serie da 12 ripetizioni senza riposo, dovremo dunque passare da una gamba all’altra per sei serie totali.
Concluderemo l’allenamento con degli affondi. Ancora 3 serie da 10 ripetizioni. I tempi di recupero sono ancora bassi posto il poco carico di cui solitamente si dispone in casa.
Come notiamo questo allenamento ha un volume tendenzialmente basso e punta piuttosto ad dare enfasi a lavori metabolici e lattacidi. Questo ci permetterà di aumentare la massa muscolare delle gambe anche senza carichi eccessivi che in casa difficilmente si trovano.
Conclusioni su come allenare i quadricipiti
Il volume delle gambe è fondamentale per dare armonia al corpo. Molto spesso ci si focalizza su come stondare una spalla o aumentare le dimensioni del petto o ancora allargare la schiena quando il “lower body” passa del tutto in secondo piano. Con questo primo articolo sappiamo come muoverci per massimizzare i nostri risultati sui quadricipiti ma la storia non finisce qui. Prossimamente vedremo come migliorare anche i femorali e i polpacci in modo da arrivare ad un aumento completo della massa muscolare delle gambe.
In questo articolo vedremo quali sono i principi cardine per impostare una scheda per la massa muscolare. Quali sono i punti da tenere a mente e come strutturarla nel pratico. Non troverai la scheda già fatta, ma capirai come creartela su misura in modo semplice ed efficace.
Non esiste la scheda per la massa e per la definizione
Iniziamo subito col dire che la suddivisione: programma per la massa o per la definizione muscolare, fisiologicamente ha poco senso. Questo perché il dispendio energetico indotto dall’allenamento coi pesi non è così rilevante. Dimagrire grazie ad allenamenti su alte ripetizioni, oppure all’opposto mettere massa con un range medio-basso ed alti carichi, è pura utopia.
Le variazioni di peso dipendono esclusivamente dal bilancio calorico giornaliero, quello che noi dobbiamo fare con l’allenamento, è indurre la massima sintesi proteica che in un surplus energetico si trasformerà in nuovo tessuto contrattile, in un deficit energetico permetterà di preservare il muscolo dal catabolismo dei tessuti.
Tra scheda per la massa o per la definizione, quello che cambia sono i volumi dall’allenamento e le intensità raggiunte, ma i principi fondamentalmente rimangono gli stessi.
Come strutturare una scheda per la massa muscolare
Un allenamento per la massa dovrebbe essere composto principalmente da tre esercizi: fondamentale, complementare, accessorio.
Nel primo esercizio prenderemo in considerazione un grande multiarticolare:
Petto: panca piana
Schiena: trazioni
Spalle: lento in avanti
Gambe: squat e/o stacco
Su questo incentreremo degli schemi di forza/ibridi che possono andare da un 8×3, 6×4, 5×5, 4×6 (tutte queste combinazioni hanno mediamente 24-25 ripetizioni totali).
Qui possiamo non arrivare a cedimento ma dobbiamo utilizzare carichi mediamente dall’80% in su del nostro massimale. I recuperi sono dai 90″ in su.
Nel secondo esercizio facciamo un complementare sempre con bilancieri o manubri:
Petto: panca piana manubri, panca inclinata, dip, ecc.
Schiena: rematore bilanciere o manubri, lat machine, pulley, ecc.
Spalle: spinte verticali con manubri, tirate al petto, alzate laterali, ecc.
Gambe: affondi, stacchi a gambe tese, hip thrust, pressa, ecc.
Qui lavoreremo con % di carichi inferiori 70-80% ed un range che va mediamente da un 3-x8, 3×10, 2×12 (stiamo sempre su 24-30 ripetizioni totali).
Avendo carichi inferiori possiamo arrivare a cedimento, si consiglia di arrivarci almeno nell’ultima serie. Recuperi tra i 60-90″.
Nel terzo esercizio faremo degli esercizi di rifinitura, useremo tecniche ad alta intensità e lavoreremo con bassi carichi ed alte ripetizioni:
Petto: croci manubri o cavi, piegamenti sulle braccia, ecc.
Schiena: pulley, pull down, ecc.
Spalle: alzate laterali, posteriori, cavi, ecc.
Gambe: leg extention, leg curl, pressa alte ripetizioni, ecc.
Qui è d’obbligo esaurire le riserve energetiche, pompare sangue al muscolo, arrivare al cedimento concentrico e volendo anche oltre grazie a serie ad alta intensità che possiamo inserire (superserie, xrep, stripping, ecc.). Le ripetizioni devono essere dalle 12 in su e possiamo fare 1-2 serie ad esercizio (se ci spremiamo fino in fondo non ne servono di più).
Ricapitolando come strutturare il programma per la crescita muscolare
Il lento dietro è un esercizio che può fare solo chi ha un’ottima mobilità di spalle
La scheda di allenamento per la massa segue i principi dal metodo Hatfield. La buona disponibilità energetica ci permette di fare 60-80 ripetizioni allenanti per i gruppi muscolari grandi e 30-40 per quelli piccoli. Consigliamo di strutturare la scheda in multifrequenza; un esempio potrebbe essere su 4 allenamenti:
petto, schiena, spalle
gambe, braccia
petto, schiena, spalle
gambe, braccia
È solo un esempio, possiamo allenare meno o di più un distretto a seconda di quanto è sviluppato o carente rispetto agli altri. Possiamo metterci più o meno volume o intensità diversificano le sedute come col metodo PHAT. Insomma una volta capito i principi, poi strutturare la scheda diventa molto più semplice.
Il consiglio finale è quello di ricordarsi che la crescita muscolare è indotta dal principio del sovraccarico progressivo. Nel corso dei mesi, i carichi che utilizzate dovranno inevitabilmente migliorare se volete crescere. Per questo sfruttare il primo esercizio per diventare forti, per migliorare la vostra capacità di attivazione. Saranno i grandi multiarticolari a permettervi di generare maggiori tensioni e di riuscire nel tempo a macinare del reale volume allenante (vedi il video sopra).
Questo articolo non vuole in alcun modo incitare all’uso improprio e illegale di farmaci, tantomeno a scopo dopante, in quanto il loro utilizzo senza supervisione e prescrizione medica specialistica è reato. L’obiettivo è quello di rendere più consapevole l’utente su cosa siano realmente gli steroidi e sugli effetti che hanno sul nostro corpo.
In particolare, scoprirai che cosa sono gli steroidi anabolizzanti, come funzionano, che effetto hanno sulla massa muscolare, sul dimagrimento e i rischi connessi.
Cosa sono gli steroidi?
Gli steroidi, chimicamente sono composti derivati dallo sterano o ciclopentanoperidrofenantrene, rappresentato graficamente come 3 anelli carboniosi esagonali e un anello pentagonale, per un totale di 18 carboni.
Dal punto di vista biologico il più diffuso derivato dello sterano è il colesterolo, che è uno sterano a cui è stato aggiunto un ossidrile (-OH) in posizione 3 del primo anello (C3) e una ramificazione carboniosa nell’ultimo carbonio dell’ultimo anello (C17).
Esso è parte integrante e fondamentale di numerose strutture come il doppio strato fosfolipidico della membrana cellulare e le guaine mieliniche dei neuroni (materia bianca).
Il colesterolo deriva da un lungo processo di condensazione di unità carboniose, che originano dalla molecola chiave dei processi energetici, l’acetil-coenzima A.
Il colesterolo è anche alla base della sintesi degli ormoni steroidi, come il testosterone, l’estradiolo, il cortisone, il cortisolo, l’aldosterone e la vitamina D3. Inoltre è precusore degli acidi/sali biliari, che sono il principale metodo di “escrezione” del colesterolo dal corpo.
Gli steroidi sono quindi dei derivati del colesterolo, condividono la struttura base steranica ma presentano una o più modifiche nei legami degli anelli (comune è la rimozione della catena in C17, sostituita spesso da ossidrili o chetoni) che ne modificano completamente l’attività biologica.
Steroidi: quali funzioni svolgono?
In generale possiamo dire che l’uso medico più comune per gli steroidi è antinfiammatorio e immunosoppressivo per i derivati del cortisolo, terapia androgenica sostitutiva per gli androgeni (per lo più testosterone) o anabolizzanti vari in casi di sarcopenia o cachessia (cancro e terapia antiblastica, invecchiamento, infezione da HIV, gravi traumi e ustioni estese…)
Ecco una breve lista delle loro funzioni, comprendente diversi usi presenti, passati e futuri:
Sintesi proteica muscolare, prevenzione e cura della sarcopenia, cachessia, stati ipermetabolici indotti da condizioni o malattie (AAS)
Terapia ormonale sostitutiva per ipogonadismo o transessuali (AAS, Estrogeni)
Cura di varie forma di anemie e inappetenza (AAS)
Prevenzione e cura di osteoporosi, distubri post-menopausa (AAS, Estrogeni)
Allevamento del bestiame (proibito in UE) e uso veterinario (AAS, Progestinici, Estrogeni, Glucocorticoidi)
Steroidi come si assumono ?
Gli steroidi e derivati, sono molecole generalmente poco solubili in acqua e molto solubili in liquidi apolari (come l’olio).
INIEZIONI IM/SC. La somministrazione preferibile è parenterale sotto forma di iniezione intramuscolare (IM) o talvolta sottocutanea (SC), garantisce massima biodisponibilità e scarsa o nulla tossicità epatica. Spesso sono esterificati in C17 beta, allo scopo di diminuire ulteriormente la loro polarità e rallentarne la loro immissione in circolo e prolungarla per giorni, settimane o mesi (come i preparati di testosterone per la terapia sostitutiva). Molto usato per AAS e corticosteroidi.
TRANSDERMICO. Per terapie sostitutive in caso di ipogonadismo è molto utilizzata la via transdermica, lo steroide è solubilizzato in un gel alcolico o cerotto che si applica sulla cute, l’alcool evapora e viene assorbito lo steroide che viene ceduto gradualmente dal deposito cutaneo in circa 24 ore. La biodisponibilità è più scarsa, circa il 10% ma è più accettato dai pazienti rispetto alle iniezioni. Anche i corticosteroidi e gli estrogeni/progestinici sono disponibili in preparati topici, per i medesimi motivi.
ORALE. La somministrazione orale avviene per particolari steroidi sintetici modificati con aggiunta di gruppi metile in C17 alfa (alfa si riferisce alla posizione del radicale rispetto al piano del carbonio) che modifica la struttura della molecola rendenola resistente al primo passaggio intestinale ed epatico, a scapito di una significativa tossicità epatica.
Anche steroidi non alfa alchilati sono somministrati per via orale, quando non è necessaria (o si è disposti a sacrificarla) un’alta biodisponibilità (anticoncenzionali, glucocorticoidi sintetici, testosterone undecanoato in softgel).
ALTRO. Esistono altre fome di somministrazione meno comuni, alcune approvate altre in via di sperimentazione come ad esempio via mucosa orale (gengive) o nasale, i pellet a lento rilascio sottocutanei/intramuscolari (come si faceva/si fa all’estero nell’allevamento del bestiame) allo scopo di fornire al paziente alternative terapeutiche.
Steroidi come cura
In questo caso è comodo distinguere tre tipi di steroidi con funzioni talvolta opposte, ma spesso usati per curare patologie in medicina:
i corticosteroidi, i mineralcorticoidi e gli steroidi androgeni anabolizzanti o AAS.
Corticosteroidi o glucocorticoidi
Spesso in gergo medico quando si parla di terapia steroidea, è riferito ai corticosteroidi sintetici, utilizzati per sopprimere stati infiammatori gravi, diffusi o cronici (malattie reumatiche, asma, broncopolmonite ostruttiva, glomerulonefrite…) reazioni autoimmuni (artrite, lupus, trapianti d’organo), talvolta anche come antiemetici e stimolatori dell’appetito (ad esempio in terapia oncologica) o come terapia ormonale sostitutiva in rare malattie genetiche o acquisite (morbo di Addison).
Dal punto di vista antinfiammatorio, differiscono dai classici NSAID (come l’aspirina e l’ibuprofene) perchè questi ultimi agiscono a livello delle COX, enzimi che sintetizzano prostaglandine infiammatorie a partire dall’acido arachidonico, mentre i glucocorticoidi agiscono a monte, a livello delle fosfolipasi (inibendole) che liberano l’acido arachidonico; inoltre sono potenti immunosoprresivi che inibiscono l’attività delle cellule bianche (molto utile nelle malattie autoimmuni o infiammazioni croniche).
Steroidi anabolizzanti
Gli steroidi androgeni/anabolizzanti (AAS) invece sono il testosterone e i derivati sintetici, sono usati principalmente per la terapia ormonale sostitutiva nell’ipogonadismo maschile, dove per diversi motivi vi è carenza androgenica.
Altri utilizzi sono in casi di deperimento psicofisico (che spesso coincide con ipogonadismo ad insorgenza ritardata, LOH), come terapia oncologica di supporto anabolizzante o palliativa (tumori allo stadio terminale, per migliorare la qualità di vita dei pazienti).
Attualmente in Italia come AAS ad uso umano è rimasto solo il Testosterone, mentre all’estero come negli USA o in altri paesi sono rimasti disponibili altri farmaci usati come anabolizzanti a ridotto potere androgeno come Nandrolone, Oxandrolone e Ossimetolone.
Steroidi per il doping
Gli steroidi sono comunemente e legalmente considerati farmaci dopanti; se si consulta la lista antidpoing della WADA (lista di sostanze e metodi proibiti) troviamo gli steroidi anabolizzanti e non, così numerosi altri farmaci come beta-agonisti, narcotici, peptidi sintetici/umani, ormoni umani/ricombinanti, THC, oppiacei/oppioidi, diuretici, anfetamine, autotrasfusioni di sangue etc…
Gli steroidi anabolizzanti conferiscono un chiaro vantaggio in termini prestazionali e di recupero sia dall’allenamento che dagli infortuni, mettendo però a rischio la salute dell’atleta e rendendo la competizione scorretta nei confronti di chi non fa uso di sostanze.
A seconda del tipo di steroide usato si hanno diversi tempi di rilevamento, estremamente variabili da persona a persona, e in caso di test positivo si possono avere gravi conseguenze legali oltre che le sanzioni e provvedimenti stabilite dall’antidoping.
Ad esempio una sola iniezione di nandrolone (150mg) è rilevabile fino a 9 mesi (link), mentre una iniezione di testosterone (200-300mg) potrebbe non essere rilevabile nemmeno durante l’assunzione in tutti i soggetti secondo i criteri della WADA (link), che prevedono di valutare il rapporto tra Testosterone ed Epitestosterone coniugati (6-4:1), in quanto quest’ultimo è un metabolita che viene prodotto indipendemente dalle dosi somministrate.
Paradossalmente esistono persone che hanno un alterato metabolismo del testosterone e risultano oltrepassare il limite senza assumere testosterone esogeno.
Steroidi: che effetti hanno?
I corticosteroidi nel lungo periodo o a dosaggi elevati possono causare la sindrome di Cushing; caratterizzata da depauperamento della massa magra, accumulo di grasso sottocutaneo e viscerale, alterazioni dell’omeostasi del glucosio (insulino resistenza, diabete di tipo 2), dislipidemia, ipertensione e alterazioni idro-elettrolitiche, rallentata guarigione da traumi o ferite, immunosoppressione, sindrome metabolica, aumento dell’appetito, osteopenia/riduzione della densità ossea, soppressione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, alterazioni dell’umore, infezioni ricorrenti.
Gli steroidi anabolizzanti hanno effetti collaterali variabili dipendenti anche essi dal tempo e dalle dosi, a cui ovviamente si vanno ad aggiungere predisposizioni genetiche.
Effetti collaterali comuni degli AAS (lista non esaustiva; possono manifestarsi a qualsiasi dose minima efficace/dopante)
SISTEMA CARDIOVASCOLARE ed EMOPOIETICO : dislipidemia, aumento dell’indice aterogeno (più LDL-c e meno HDL-c), ipertensione, aritmie cardiache dovute ad alterazioni elettrolitiche (rapporto Na/K e Ca/Mg), ridotta vasoreattività dell’endotelio, cardiopatie ischemiche, ipertrofia ventricolare, cardiomegalia, eritrocitosi (aumento dei globuli rossi e viscosità del sangue), ridotta coagulazione, non sempre reversibili anche dopo il cessato uso.
SISTEMA RIPRODUTTIVO: ipogonadismo ipogonadotropo; effetto collaterale certo al 100%, primario dopo la sospensione dei farmaci, e con il ripetuto abuso, secondario (la PCT “non funziona più”), riduzione della fertilità fino all’azoospermia, atrofia testicolare, ipertrofia prostatica benigna ed esacerbazione in caso di carcinoma prostatico, tumori testicolari.
RENI : ipertensione glomerulare che può sfociare in blocco renale o insufficienza renale cronica, ritenzione di elettroliti (Na+, Ca++) e acqua, sclerosi o necrosi dei tubuli renali, la temibile glomerulosclerosi focale e segmentale (più comune di quanto si creda).
PSICHE : peggioramento e comparsa di disturbi psichiatrici, alterazione dell’umore e della libido, danni neurologici, psicosi, schizofrenia, depressione (specie alla sospensione dei farmaci), manie, talvolta “roid-rage” ovvero rabbia da steroidi (fenomeno in realtà poco comune e poco documentato).
ESTETICA : androgenizzazione (permamente?), virilizzazione nella donna, alopecia androgenetica, irsutismo, acne, acne cistica, pelle grassa, smagliature, ginecomastia nell’uomo e riduzione del seno nella donna.
SISTEMA IMMUNITARIO : a basse dosi sembrano supportarne la funzione (specialmente i derivati del DHT e l’estradiolo), ad alte dosi incerto in quanto si altera pesantemente la funzionalità dei globuli bianchi e si altera l’equilibrio delle citochine infiammatorie/antifiammatorie.
In soldoni ecco cosa può succedere di “grave” nell’immediato o diversi anni dopo, con maggior frequenza rispetto chi non usa AAS (nulla di certo o incerto) : infarto, insufficienza epatica o renale, lesioni o tumori al fegato, ipogonadismo, infertilità, psicosi, ginecomastia, perdita delle caratteristiche femminili e acquisizione caratteristiche maschili nella donna, acne cistica, ateromatosi, malattie cardiovascolari, disturbi di immagine corporea (dismorfia) e vigoressia.
Bodybuilder morti per steroidi
Spesso si sentono due correnti opposte, da un lato chi è contro l’uso di AAS o non li conosce e dall’altro chi li usa e non li conosce nemmeno lui.
Il primo dice che che sono molto pericolosi, sono causa di morte per cancro, infarto, cirrosi e altro.
Il secondo dice che non sono così pericolosi, perchè c’è di peggio come il fumo o l’alcool.
La realtà è più ci si allontana dai dosaggi terapeutici e più ci si avvicina ai dosaggi tipici di abuso più aumentano i rischi, ma è molto difficile avere una statistica metodologicamente accettabile che permetta di stabilire quale sia il rischio, dovuto anche al fatto che spesso non sono usati per tutta la vita a differenza di alcool o fumo. Inoltre non esiste una dose letale di steroidi, ovvero il sovraddosaggio non ha effetti dannosi nell’immediato.
Le morti più comuni nel BB agonistico durante la carriera sono spesso dovute ad altri farmaci o pratiche: l’uso di diuretici molto potenti (furosemide) e la supplementazione farmacologica di potassio che inducono aritmie e fibrillazioni ventricolari fatali; anche la disidratazione in concomitanza con ipertensione e iperviscosità del sangue, che è la ricetta perfetta per la formazione di trombi e quindi infarti del miocardio o ictus ischemici.
I danni fatali che possono svilupparsi dopo anni di abusi (infarto, ictus) sono spesso mediati dall’ipertensione, la formazione di ateromi (la loro ulcerazione da luogo ad un trombo), la cardiomegalia e l’ipertrofia ventricolare, tutte indotte da elevata esposizione (tempo x durata) di AAS e talvolta GH e Beta-agonisti.
Tra i bodybuilder morti, molto probabilmente a causa del ripetuto abuso di farmaci (non necessariamente solo steroidi) ricordiamo:
Mohammed Benaziza (diuretici)
Robert Benavante (infarto)
Mike Matarazzo (insufficienza cardiaca)
Dan Puckett (insufficenza cardiaca)
Daniele Seccarecci (infarto)
Scott Klein (insufficienza renale acuta)
Matt Duval (infarto)
Mike e Ray Mentzer (malattie cardiovascolari, renali)
Nasser el Sonbaty (insufficienza cardiaca e renale)
Greg Kovacs (insufficienza cardiaca)
Andreas Munzer (cancro al fegato)
Rich Piana (trauma cerebrale, dovuto a collaso cardiocircolatorio)
Dallas McCarver (insufficienza cardiaca)
N.B. (l’età media di molti di loro si aggira sui 30 anni)
Steroidi per dimagrire
Seguire una dieta ipocalorica ed allenarsi decentemente non è sempre molto facile o divertente e richiede un minimo di impegno però è sicuro ed efficace.
In ogni caso al di là della legge e della morale, usare anabolizzanti da sovrappeso o peggio obesi è il miglior modo per amplificare effetti collaterali, pericolosità nel breve e lungo termine degli anabolizzanti.
Gli steroidi (alcuni più di altri) androgeni anabolizzanti hanno effetti dimagranti, infatti è stato dimostrato in diversi studi clinici sia su sedentari, anziani che giovani e atleti.
Ci sono molteplici meccanismi di azione, i più importanti sono:
Effetto diretto lipolitico –> gli adipociti esprimono il recettore per gli androgeni, che analogamente a quelle delle catecolammine stimola la lipolisi.
Effetti indiretti lipolitici –> gli androgeni aumentano il numero di recettori per le catecolammine
Effetto antilipotrofico –> inibiscono la differenziazione delle cellule staminali e dei pre adipociti in adipociti
Effetto termogenico –> aumentando il dispendio energetico a riposo e durante l’attività fisica
Effetto insulino-sensibilizzante –> favoriscono la captazione di glucosio nel muscolo direttamente e indirettamente aumentando la sintesi proteica e quindi la richiesta energetica
Aumentando il recupero psicofisico consentono allenamenti più pesanti, voluminosi e frequenti.
Steroidi per palestra
La maggior parte degli utilizzatori di steroidi a livello amatoriale o a scopo “estetico” avviene da chi frequenta le palestre e non è nell’ambiente agonsitico (sì, la maggior parte degli utilizzatori non gareggia).
I benefici dell’uso di steroidi in teoria, sono il maggior aumento relativo e assoluto di massa muscolare, la riduzione della massa grassa, il maggior aumento di forza e recupero psicofisico dalle sedute allenanti e talvolta un senso generale di benessere psicofisico.
Verosimilmente (opinione personale che non pretendo sia condivisibile) l’uso da parte di molti utenti è non come PED (performance enhanching drug) come fanno gli atleti professionisti, ma per colmare lacune in materia di allenamento e alimentazione o per gratificazione istantanea (tutto e subito).
Ad esempio : ” mi voglio definire per l’estate, quindi farò una dieta tosta tipo carne insalata e acqua; per non ridurmi come un prigioniero americano in un campo vietcong, farò un ciclo di testosterone e winstrol con un pò di clenbuterolo”;
al posto di: “mi voglio definire per l’estate, quindi mi preparo con mesi di anticipo con una dieta ben calibrata, con modesto deficit calorico e allenamento a seguire in modo sostenibile per tutti i mesi necessari sapendo che probabilmente sarà un percorso faticoso e spesso poco piacevole”
Steroidi e massa muscolare
Chiaramente quando si parla di steroidi per la massa muscolare, si parla di AAS (testosterone e derivati, progestinici), volendo si può includere anche l’estradiolo che però non è chimicamente classificabile come androgeno.
Esistono numerose pubblicazioni e libri (vedi il recente libro di Brad Schoenfeld, Science and development of muscle hypertrophy) di centinaia di pagine che trattano in modo molto approfondito e dettagliato l’argomento, pertanto vediamo solo alcuni punti :
Il meccanismo di azione più certo è attraverso l’attivazione del recettore AR presente nel citoplasma o nucleo della cellula muscolare che induce la trascrizione genica e sintesi di diverse proteine ed enzimi, tra cui le catene pesanti di miosina e actina (le fibre muscolari insomma).
Meccanismi secondari all’attivazione di AR o “collaterali”, sono rappresentati dalla fosforilazione di mTOR, inibizione della famiglia delle proteine cataboliche FOXO e sistema ubiquitna-proteasoma.
Attivazione, proliferazione, differenziazione e fusione di cellule satelliti con conseguente aumento di numero di nuclei per cellula (maggior potenziale di sintesi proteica e risposta agli anabolizzanti, la fusione di nuclei è forse perenne)
Sono stati dimostrati anche effetti “non genomici” ovvero attraverso recettori di membrana accoppiati a proteine che danno una risposta biologica nel giro di pochi secondi, come ad esempio regolazione del passaggio di elettroliti, amminoacidi e piccole molecole.
Aumento dei recettori per l’IGF-1 e aumentata secrezione, spesso mediata dall’estradiolo.
Inibizione della miostatina e geni correlati, che bloccherebbe la crescita muscolare…in realtà non è solo messo lì per farci un dispetto, in quanto è fondamentale nel mantere l’integrità dei tendini e la struttura muscolare nel complesso (gli infortuni muscolo-tendinei sono molto più frequenti in chi usa AAS).
Amplificazione degli effetti dello stress dell’allenamento sul bilancio azotato muscolare, ovvero amplificano notevolmente gli effetti ipertrofici dell’allenamento con i pesi.
Aumentata ritenzione e sintesi di glicogeno muscolare
Gli studi di S.Bahsin sono i più famosi e accreditati (il famoso studio randomizzato su 50-125-300-600mg testosterone a settimana), dove è stato inequivocabilmente dimostrato che il testosterone in dosi sovrafisiologiche fa aumentare la massa magra (e muscolare) anche stando seduti su una poltrona. L’incremento di massa magra è risultato proporzionale alla dose fino ai 600 mg a settimana studiati, mentre il maggior incremento forza/massa muscolare è stato visto a 300mg, che corrispondono a circa 5-15 volte le quantità prodotte da un uomo giovane e sano (dati misurati con DEXA, forza massimale e MRI).
N.B. i soggetti seguirono tutti una dieta ipercalorica e moderatamente iperproteica (1.2g/kg di peso).
Steroidi per donne
Le donne, se vogliono rimanere tali non dovrebbero nemmeno pensare di usare steroidi anabolizzanti, tutti quanti presentano un rischio molto concreto di androgenizzazione che è permanente.
Gli AAS hanno una intrenseca componente androgena, più forte in alcuni e più mite in altri; ma anche dagli studi clinici su steroidi usati in medicina (Oxandrolone, Ossimetolone) è emersa una variabile androgenizzazione, anche a dosi molto basse (circa 2mg, ovvero 1/5- 1/10 dei quantitativi minimi usati a scopo dopante nelle donne), ridicole per ottenere qualsiasi risultato in termini estetici o di composizione corporea.
Gli effetti, rispetto all’uomo, sono esacerbati dal fatto che viene soppressa la funzione ovarica e quindi crolla l’estradiolo, alterando profondamente l’equilibrio a favore degli androgeni mimando un ambiente tipico dell’uomo; che infatti per natura ha un maggior profilo androgeno.
Steroidi legali in italia
In Italia l’uso di steroidi androgeni/anabolizzanti (testosterone esterificato o base) è consentito dalla legge solo ed esclusivamente sotto prescrizione di medico specialista (endocrinologo, andrologo, urologo, centri ospedalieri autorizzati).
Sono usati per la terapia ormonale sostitutiva nell’uomo ipogonadico, in particolari casi nelle donne in post menopausa, nel passaggio transgender da genere femminile a maschile.
Meno restrittiva la legge sui corticosteroidi (cortisone, corticosteroidi sintetici), esistono preparazioni ad uso topico di idrocortisone a basso dosaggio SOP/OTC (non necessitano di prescrizione). Per gli altri preparati è invece necessaria prescrizione medica non specialistica.
C’è una parte “grigia” della legge per quanto riguarda prodotti a basso rischio come il DHEA e alcuni derivati, non sono vendibili in Italia (non notificati dal Ministero della Salute come integratori sicuri) ma al contempo non sono sostanze controllate o di possesso illegale. Questi sono spesso usati come “ottimizzatori” ormonali, e sembrano avere un potenziale impiego nella donna post menopausa al posto degli estrogeni.
N.B. Queste sostanze sono ugualmente inserite nella lista antidoping della WADA, per cui utilizzare sostanze di questo genere (DHEA etc…), anche se non illegali, è illegale in ambito sportivo agonistico.
Steroidi illegali in italia
In pratica tutti gli steroidi androgeni/anabolizzanti, estrogeni, corticosteroidi e derivati sono legali solo con prescrizione medica.
Ovviamente esistono numerosi altri steroidi, assenti nei registri dell’agenzia del farmaco (AIFA) la cui compravendita e possesso è configurabile di reato penale (ricettazione, incauto acquisto o pericolo) punibile con la reclusione e multe.
Per quanto riguarda l’uso personale a scopo “estetico” e non agonistico, secondo una recente sentenza della cassazione è depenalizzato, in quanto è una scelta personale che non interessa la comunità o la salute di altre persone (come invece avverrebbe per la compravendita a scopo di guadagno).
Steroli e steroidi sono la stessa cosa ?
Può sembrare un sinonimo ma non è così, presentano infatti alcune differenza fondamentali dal punto di vista chimico: condividono la stessa base steranica, ma lo sterolo ha un gruppo ossidrile (-OH) in C3 ovvero nel primo anello steranico, mentre lo steroide ne è privo; anche se spesso ma non sempre, è presente invece un gruppo chetonico nello steroide (C=O).
Gli steroli presentano spesso anche una ramificazione carboniosa nell’ultimo anello in posizione C17, assente invece negli steroidi (da non confondere con l’esterificazione in 17 beta o l’alchilazione in 17 alfa, che può accompagnare gli steroidi sintetici).
Anche se sembra una differenza di poco conto, queste sostituzioni chimiche cambiano la disposizione spaziale della molecola e il suo “ingombro sterico”, si ha una differente distribuzione delle cariche (polarità) e conseguentemente differenti attività biologiche.
Mineralcorticoidi
Sono talvolta dei corticosteroidi a scarsa azione glucocorticoide ma a forte azione mineralcorticoide, ovvero stimolano la ritenzione di acqua, sodio e secrezione tubulare di potassio e idrogenioni (Fludrocortisone, che sostituisce l’Aldosterone). Sono usati nella terapia sostitutiva in malattie dell’asse ipotalamo-ipofisi-rene/surrene (ipoplasia surrenale, danni ipofisari, morbo di Addison).
Altri steroidi mineralcorticoidi sono funzionalmente anti-mineralcorticoidi, in pratica è modificata la struttura chimica per legarsi al recettore dell’aldosterone ma senza attivarlo: è il caso dello spironolattone, un diuretico risparmiatore di potassio anti ipertensivo con proprietà antiadrogene.
In realtà sia i glucocorticoidi che gli AAS presentano una variabile affinità per il recettore dell’aldosterone, mimandone gli effetti.
Conclusione sugli steroidi
Possiamo dire che la parola steroidi, per quanto nell’immaginario collettivo la si associ al testosterone o al doping, comprende in realtà una classe piuttosto ampia di sostanze con funzioni e usi anche molto distanti tra loro.
Abbiamo infatti: steroidi anabolizzanti (testosterone, nandrolone etc…), steroidi antinfiammatori derivati dal cortisone/cortisolo, steroidi derivati dall’aromatizzazione del testosterone (estrogeni), steroidi derivati dal progesterone, steroidi derivati dall’aldosterone.
L’uso di tali sostanze è comune in medicina, ma anche in ambito dopante, in particolare per gli AAS. Risulta ridondante dire che il loro abuso è pericoloso e potenzialmente fatale, nonostante non esista una statistica ufficiale sui rischi a lungo termine, il che dovrebbe far ragionare l’utilizzatore potenziale sui rischi a fronte dei sicuramente tangibili benefici, che sono però limitati nel tempo e reversibili alla sospensione del farmaco. Non è saggio demonizzare queste sostanze senza conoscerne i loro utilizzi, pregi e difetti, così come fingere che non abbiano nessun effetto collaterale, specie nel lungo termine.
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Gli ormoni maschili, anche definiti ormoni androgeni, sono ormoni steroidei che si legano allo specifico recettore degli androgeni che viene attivato e determina una cascata di eventi cellulari.
L’androgeno più famoso è senza dubbio il Testosterone, l’ormone sessuale più abbondante nel maschio, da cui derivano altri due ormoni steroidei molto importanti: il DHT (Diidrotestosterone, androgeno) e il 17-Beta Estradiolo (estrogeno).
Il testosterone ha un ruolo importante come pro-ormone, si ritiene infatti che buona parte dei processi in cui è coinvolto, ad esclusione della sintesi proteica muscolare, siano mediati dal DHT e dall’estradiolo.
Prima di tutto però, vediamo in linea generale come e dove vengono prodotti questi ormoni.
Come e dove vengono prodotti gli ormoni maschili?
Analogamente a molte altre ghiandole endocrine, l’asse endocrino testicolare comprende il sistema ipotalamo-ipofisi.
L’ipotalamo produce fattori peptidici di rilascio, in questo caso si parla di GnRH (da non confondere col GHRH) che stimola la secrezione ipofisaria di gondatropine LH e FSH. L’attività di secrezione del GnRH è regolata dal punto di vista biologico-temporale (si attiva nell’adolescenza), da diversi fattori ormonali (Leptina, Kisspeptina) e non (circuiti neurali).
Le gonadotropine vanno a stimolare direttamente diverse cellule gonadiche, infatti LH agisce sulle cellule di Leydig stimolando la sintesi di steroidi, in particolare il testosterone, mentre FSH (e il Testosterone stesso) stimola nelle cellule del Sertoli la produzione della ABP, una proteina che lega il testosterone, mantenendo quindi alti livelli intratesticolari di testosterone, fondamentale per la fertilità maschile.
Il meccanismo a feedback negativo avviene principalmente ad opera degli steroidi, infatti il testosterone e soprattutto l’estradiolo derivante dall’aromatizzazione del testosterone, sopprimono il rilascio di GnRH e quindi gonadotropine.
Anche altri ormoni intervengono: infatti le cellule del Sertoli secernono inibina B, che agisce inibendo in modo più specifico la secrezione di FSH, inoltre la Prolattina, il Cortisolo, diversi Cannabinoidi gli Oppioidi/Oppiacei inibiscono la secrezione di GnRH.
Il sistema pertanto è strettamente regolato, l’assunzione esogena di steroidi anabolizzanti (AAS) va a perturbare fortemente questo meccanismo, segnalando all’ipotalamo e all’ipofisi la presenza di elevati livelli di steroidi nel sangue (come farebbe il testosterone e l’estradiolo endogeni), con forte o praticamente totale soppressione della secrezione di gonadotropine LH e FSH, inibendo fortemente l’attività del testicolo.
Anche a basse dosi questo avviene, in quanto nella normale fisiologia dell’asse si hanno livelli pulsatili di gonadotropine e quindi della stessa attività testicolare, nel momento in cui le gonadotropine o gli androgeni/estrogeni raggiungono livelli costanti nel tempo, questo asse endocrino viene fortemente disturbato e interrompe la sua attività secretiva.
Questo effetto è infatti sfruttato in medicina nella terapia di privazione androgenica (ADT) per il carcinoma prostatico androgeno dipendente, in pratica si somministra un analogo a lunga azione del GnRH (triptorelina) che causa un iniziale aumento di gonadotropine e testosterone, seguito da una totale soppressione dell’asse.
Testosterone: che cos’è e che funzioni svolge?
Il testosterone nell’uomo è in gran parte prodotto dalle cellule di Leydig del testicolo, in una quantità di 3-7mg al giorno. Viene prodotto a partire dal colesterolo, che è donato dalle LDL plasmatiche e trasportato attraverso la membrana per subire diversi passaggi enzimatici prima di diventare testosterone.
A proposito di questo aspetto, la broscience vuole che aumentando l’assunzione di colesterolo (con le uova ad esempio) aumenti il testosterone… ecco non accade per diversi motivi:
il colesterolo plasmatico (nell’adulto sano è in una concentrazione media di 50-129 mg/dl in diversi litri di plasma, fatevi due conti) non è mai un fattore limite, il nostro corpo ne metabolizza diversi grammi al giorno tra sintesi, catabolismo e assorbimento dagli alimenti; il Testosterone è sintetizzato sotto stimolo del LH che non ha alcun legame con l’assunzione alimentare di colesterolo (che per giunta, è metabolizzato dal fegato non dalle gonadi).
il testosterone, come già accennato, si comporta più da “pro-ormone”, infatti le sue azioni durante lo sviluppo sono mediate in buona parte dal DHT (crescita di peli, allargamento della laringe, libido, temperamento più aggressivo etc…) e dall’estradiolo (ossificazione, libido, crescita tessuti connettivi). Il testosterone è invece responsabile della diversa composizione corporea tra uomo e donna, infatti aumenta la sintesi proteica muscolare, specialmente nei muscoli più ricchi di recettori androgeni (parte alta del tronco) e riduce l’accumulo di tessuto adiposo.
il testosterone tende fisiologicamente a diminuire con l’età, per insufficienza relative delle cellule di Leydig, ovvero diventano sempre meno responsive alla secrezione di LH ipofisario che non risulta necessariamente ridotto. Questa condizione può portare ad ipogonadismo dell’età adulta (LOH, Late Onest Hypogonadism), che beneficia di terapia sostitutiva con testosterone (TRT).
Tra le varie funzioni del testosterone (e dei metaboliti) nei tessuti, possiamo riassumere le più importanti:
Muscolo –> aumento della sintesi proteica, ridotto trasporto inverso degli amminoacidi, aumento dell’efficacia di scarica dei motoneuroni, aumento beta-ossidazione e sintesi di glicogeno, reclutamento e mantenimento del pool staminale di cellule satelliti
Tessuto adiposo–> inibizione della differenziazione delle cellule staminali in adipociti, aumento della lipolisi, riduzione della sintesi di leptina
Cuore ed endotelio –> mantenimento della funzione cardiovascolare, della sintesi di Ossido Nitrico ma se in eccesso favorisce il suo deterioramento
Fegato –> aumento del catabolismo e riduzione della sintesi di trigliceridi, se in eccesso aumento della sintesi di LDL e catabolismo HDL
Reni e Midollo osseo –> stimolo eritropoietico, mantenimento della massa renale, Ritenzione di Sodio e H2O
Ossa –> ossificazione nello sviluppo, mantenimento della desnità e attività di rimodellamento osseo favorendo la deposizione del calcio
Sistema Nervoso centrale e periferico –> inibizione dell’apoptosi, modulazione stimolatoria (principalmente dopaminergica) e inibitoria (principalmente GABAergica) nel SNC, stimolatoria a livello dei motoneuroni
DHT: che cos’è e come funziona?
Il diidrotestosterone o DHT è la versione 5-alfa ridotta del Testosterone, cioè ha subito un processo enzimatico nel quale è saturato (ridotto) il doppio legame nel primo anello della molecola, rendendo questo ormone circa 5 volte più efficiente nel legame col recettore AR e rappresenta fino al 10% della conversione del testosterone. Questo aspetto ha fondamentale importanza nello sviluppo, infatti i tessuti che esprimono localmente alte quantità dell’enzima sono la cute, i genitali e il sistema nervoso e sono quei tessuti fortemente coinvolti nella pubertà.
I metaboliti del DHT, come gli isomeri dell’androstenediolo sembrano mediare gli effetti ansiolitici, “energizzanti”, pro-cognitivi e antidepressivi della somministrazione o sostituzione del testosterone, così come mediare parte degli effetti di diversi farmaci antidepressivi (SSRIs).
Per motivi poco chiari, forse interpretabili dal punto di vista evoluzionistico, il cuoio capelluto di molti uomini è molto sensibile al DHT: la comparsa e la progessione delle calvizie (alopecia androgenetica) è spesso mediata dal DHT, mentre negli altri distretti corporei ha l’effetto opposto cioè la crescita dei peli.
In medicina infatti sono usati farmaci (Finasteride) allo scopo di ritardare questo effetto negli uomini predisposti, che inibiscono l’enzima del cuoio capelluto riducendo quindi il segnale androgenico. Sono spesso accompagnati da spiacevoli effetti collaterali e disfunzioni sessuali, dovute alla carenza di DHT nel sistema nervoso.
Il DHT inoltre, purtroppo per noi, è inattivo sul muscolo scheletrico: la natura non ci vuole troppo muscolosi, infatti è presente in grandi quantità un enzima (3-Beta HSD) che inattiva il DHT convertendolo in metaboliti privi di rilevanti attività proteosintetica, come isomeri dell’androstenediolo.
Estradiolo: perché è importante anche nell’uomo?
Nell’uomo l’estradiolo è presente ed è necessario alla salute psicofisica, condivide numerosi ruoli analoghi agli ormoni femminili, quindi composizione corporea, equilibrio psichico, salute articolare e cardiovascolare. Deriva principalmente dall’aromatizzazione periferica degli androgeni, in particolare il testosterone ad opera di fegato, tessuto adiposo e tessuto muscolare.
Nell’uomo avere livelli troppo bassi di estradiolo è correlato ad astenia, osteoporosi, ipercolesterolemia e disfunzioni psicologiche e sessuali.
Anche valori troppo alti sono correlati a problematiche di vario tipo, come psicosi, disfunzione erettile, ipogonadismo, ritenzione di fluidi e sodio quindi ipertensione ed edema, ginecomastia (crescita della ghiandola mammaria) sovrappeso, obesità, diabete mellito di tipo 2 e sindrome metabolica.
A differenza del testosterone, l’estradiolo non sembra diminuire con l’avanzare dell’età, probabilmente per aumento della conversione periferica del testosterone.
Esami ormonali nell’uomo: come e perché variano i valori ormonali?
Nel sangue la maggior parte degli steroidi sono legati a proteine, nel caso degli androgeni le SHBG sono le proteine con maggior affinità di legame (60% del totale), mentre l’albumina lega in maniera più labile il testosterone (38% del totale). Le SHBG possono aumentare in caso di epatopatie, malnutrizione o elevate assunzioni di grassi, assuzione o elevati livelli di estrogeni o SERM e ormoni tiroidei; diminuiscono invece nel caso di assunzione o livelli elevati di androgeni, corticosteroidi, GH, obesità e diabete mellito di tipo 2, così come in una dieta ricca di glucidi (per stimolo insulinico).
La frazione libera (circa 2%) è quella che risulta “attiva” cioè in grado di essere convertita nei suoi metaboliti o di esplicare le funzioni di ormone tramite legame con proteine di membrana o recettori citosolici che verranno internalizzati nel nucleo cellulare.
Ormone
Testosterone
T. Libero
DHT
Estradiolo
LH
FSH
Valori fisiologici
260 – 1000 ng/dl
50 – 210 pg/dl
27 – 75 ng/dl
15 – 50 pg/dl
1.5 – 9.3 UI/L
1.6 – 8.0 UI/L
Gardner & Shoback, 2009 – Greenspan’s endocrinologia generale e clinica
L’alterazione più freuqente di questi valori nell’uomo è data da ipogonadismo che può essere (semplificando):
primario –> cioè causa testicolare come ad esempio la sindrome di Klinefelter (cromosoma X in più) così come un danno al testicolo dovuto a traumi, interferenti endocrini o altre cause, insufficienza o insensibilità all’ LH delle cellule di Leydig, ripetuto abuso di AAS;
secondario –> dovuto all’insufficienza di secrezione delle gonadotropine (LH e FSH) che può essere anche in questo caso genetica (sindrome di Kallman) o avere altre cause come l’obesità, traumi ipofisari o abuso di AAS.
L’ipogonadismo necessita di terapia sostitutiva, che spesso (ma a seconda del tipo può variare) è basata sul testosterone iniettabile (T. enantato o undecanoato i più usati), transdermico o più raramente in capsule oleose o pellets.
Altre terapie sono a base di gonadotropine umane come l’hCG (estratta dalle urine di donne gravide) o i SERM (come il clomifene o il tamoxifene) che antagonizzano il feedback negativo a livello dell’asse stimolando la secrezione di LH e FSH.
I metodi naturali per aumentare il testosterone, o meglio massimizzare la propria e individuale capacità endogena sono assolutamente low-cost, poco sensazionali ma affidabili al 100%.
Il più efficace è il dimagrimento! (sempre se necessario, ovviamente). Riducendo a livelli accettabili la massa adiposa, riduciamo l’eccessiva conversione di Testosterone in estradiolo, che come visto va a ridurre la secrezione di LH quindi riducendo a sua volta la produzione endogena di testosterone. Inoltre se come spesso purtroppo accade siamo insulinoresistenti o abbiamo il diabete di tipo 2, abbiamo una iperinsulinemia che riduce le SHBG liberando più testosterone…
Qualcuno giustamente si chiederà: ma non è il testosterone libero quello attivo?
Certamente, ma il problema è che se il nostro testosterone liberato dalle SHBG viene convertito in estradiolo (perchè abbiamo troppo grasso), non abbiamo nessun beneficio dato dalla sua quota libera.
Recuperando la sensibilità insulinica inoltre si fa un grosso favore al testicolo e al sistema cardiovascolare, che ritorna a produrre fisiologicamente la giusta quantità di ossido nitrico (NO) un potente vasodilatatore endogeno e si riduce la formazione di radicali liberi (ROS) e prodotti di glicazione avanzate (AGE), tutto a beneficio della salute psicofisica.
Anche il problema opposto esiste, infatti come visto nell’articolo sulla leptina, una carenza di tessuto adiposo è dannosa anche nell’uomo, la leptina infatti segnala all’ipotalamo che è presente una adeguata riserva energetica e che quindi si possono mantere anche i processi non vitali, quali la riproduzione.
Rimanere tirati al 5% tutto l’anno non fa bene nè piscologicamente nè fisicamente.
Ormoni maschili in pillole
Il testosterone è poco biodisponibile per ingestione anche se esistono dei preparati per l’assunzione orale. Sono poco pratici, vanno assunti con pasti ricchi in lipidi più volte al giorno per arrivare a livelli fisiologici di testosterone.
Diverso è il caso di AAS in passato testati per la terpia sostitutiva come il metiltestosterone e il fluossimesterone, androgeni sintetici piuttosto tossici per il fegato, che hanno un limitato effetto di primo passaggio epatico grazie ad una modifica chimica cioè un legame 17-alfa metilico che modifica letteralmente la “forma” della molecola, rendendola difficile da metabolizzare dal fegato. Inoltre sono piuttosto deleteri sui livelli di coelsterolo, arrivando fino a dimezzare il colesterolo “buono” HDL e aumentando quello “cattivo” LDL.
In tempi recenti si sta sperimentando la “pillola maschile” ovvero un anticoncezionale orale per l’uomo.
Questo nasce dalla variabile affidabilità dell’uso del solo testosterone, anche a dosi sovrafisiologiche, nell’indurre azoospermia nell’uomo. Complicato inoltre dal periodo medio di 3 mesi per completare la spermatogenesi, cioè il processo deve essere bloccato per almeno 3 mesi di fila per essere efficace a differenza della donna, e non vi è garanzia di tempo entro il quale si abbia questa soppressione della fertilità.
Rimangono numerosi dubbi e necessità di sperimentazioni su questa nuova pillola, in quanto non è fisiologico sopprimere il testosterone e rimpiazzarlo con un ormone piuttosto differente (il dimetandrolone, DMAU, cugino del famoso nandrolone) che non aromatizza (carenza di estrogeni), non si alfa riduce (possibile carenza a livello del sistema nervoso) e che ha forte attività progestinica (assente nel Testosterone e DHT).
Dai trial risulta inoltre che causa aumento di peso (non specificato se grasso o magro), riduzione del colesterolo HDL, disfunzioni sessuali, reversibilità a lungo termine sulla feritilità ancora non così chiara, vista la diversa fisiologia maschile.
Conclusioni sugli ormoni maschili (o androgeni)
Concludendo, gli ormoni “maschili” anche definiti come androgeni, sono responsabili delle differenze piscofisiche tra i sessi biologici e fondamentali nella salute psicofisica. Il testosterone è responsabile soprattutto della maggior muscolarità rispetto alla donna, mentre gli effetti tipicamente androgeni sono mediati dalla conversione in DHT. L’estradiolo per quanto spesso associato al mondo femminile è fondamentale nella salute anche dell’uomo da un punto di vista di fisico che psicologico, anche se chiaramente in rapporti quantitativamente diversi.
Riassumendo in punti quanto visto:
Il Testosterone è il principale androgeno nell’uomo
La sua sintesi è regolata dall’asse endocrino ipotalamo-ipofisi-testicolo ed è strettamente regolato
Gli effetti androgeni sono in realtà in gran parte mediati dal DHT
L’estradiolo è ugualmente importante nella salute psicofisica dell’uomo
Esistono dei range fisiologici di tali ormoni, e come per altri ormoni l’equilibrio è la chiave di tutto
Quantità sovrafisiologiche sono pericolose in modo dose-dipendente
In futuro probabilmente saranno disponibili pillole anticoncezionali al maschile, che tuttavia sono ancora in fase di sperimentazione
Per aumentare il testosterone senza farmaci bisogna avere un livello di grasso corporeo accettabile e non estremo, alimentarsi adeguatamente senza estremismi sui macronutrienti
Il colesterolo alimentare non aumenta il testosterone, tantomeno il colesterolo LDL endogeno
Bibliografia sugli ormoni maschili
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Gardner & Shoback, 2009 – Greenspan’s endocrinologia generale e clinica
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Il mondo del fitness e dello sport in generale negli ultimi anni sta innalzando nettamente la caratura intellettuale con la quale siamo soliti riversarci in questi ambiti.
Ora vorrei che provassi a immedesimarti un attimo giusto per capire di cosa ti stia parlando:
immagina una storia di cinquemila anni: cinquemila anni formati da miliardi di persone che si sono spese in una ricerca ed analisi di tutte le possibili connessioni tra mente e corpo andando a sviscerare, modificare, correggere ogni singola posizione che la disciplina propone tenendo in stretta osservazione cosa ogni posizionamento riportasse nelle più sottili sensazioni incamerate dalla nostra mente.
Che cos’è lo Yoga?
Lo Yoga a margine di questo percorso, motivo per cui è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, è di fatto la più antica, metodica e la più particolareggiata scienza che fonde psicologia e cultura fisica su un soggetto normale e non tipizzato nell’ambito clinico.
Lo Yoga risulta, di fatto, il più grande ed utile gainer che uno sportivo possa implementare nell’attenzione alla sua prestazione, pensiero comprovato dalla sempre più facile constatazione su quanto tale disciplina si sta facendo strada nei più eccelsi professionisti dello sport mondiale.
Nella Bhagavad Gita (uno dei testi indiani che descrivono la disciplina) Yoga viene definito come abilità nell’azione ed è su questa definizione che vorrei poneste la vostra attenzione.
Poco fa ho dichiarato lo Yoga come scienza metodica e vorrei partire proprio da questa affermazione per potervi far capire i primi e subitanei benefici.
Su che cosa si fonda lo Yoga?
La disciplina ha come elemento fondante uno studio metodico di ogni singola traiettoria che mira all’estensione muscolare, tendinea e miofasciale imponendo fin da subito degli allineamenti in cui l’elevato numero di particolari inseriti consegnano dei feedback che le attuali metodiche di stretching non sono minimamente in grado di replicare.
Il metodo è scalare e progressivo e la somministrazione dei particolari nel posizionamento vengono erogati in maniera graduale passando dallo studio di un atteggiamento grossolano sino a convergere in attenzione verso la parte più sottile del nostro corpo e della nostra mente.
L’elemento fondante che fin da subito è declinabile è che nulla è lasciato al caso e tutto è a servizio di una maggiorata consapevolezza nella disposizione del corpo nello spazio tenendo da conto l’elemento temporale con cui lo dirigiamo, imparando a strutturare percorsi di estensione sempre coerenti.
L’introduzione iniziale di concetti come il radicamento da terra asservono alla creazioni di movimenti che non hanno bug di attivazione nelle varie unità motorie e catene cinetiche che asservono all’esecuzione del gesto e che conferiscono al praticante ottime abilità di coordinazione intra ed inter muscolari, base oggettiva della finalizzazione in ogni sport.
Nelle mie lezioni continuo a dire che lo Yoga è disciplina subdola perché sarà facile ritrovarsi nella condizione in cui, cominciando una assidua pratica nei posizionamenti ed ingenerando più che palpabili benefici in termini di allungamento e rinforzo del core, ti ritroverai immerso in uno strutturato ampliamento della vostra capacità di donare attenzione ai minimi dettagli del tuo corpo cominciando ad assaporare ogni singola fibra che pensavate sino ad allora di non avere e sarà proprio in quel momento in cui, completamenti immerso nella ricerca dell’ennesimo micro-movimento da ingenerare, ti renderai conto di aver completamente spento quell’incessante monologo interno che ti distrae dal tuo obiettivo.
Comincerai allora a percepire i canali in cui si muove l’organizzato flusso della disciplina che parte da benefici tangibili misurabili nel corpo, ma con ingente rebound nella tua capacità di focus ed in una rinnovata chiarezza mentale che vi predisporrà sempre di più verso i tuoi obiettivi.
Questo è ciò che a me è capitato e che sempre di più sto ritrovando strumento validissimo da riportare anche in settori più prestativi come l’attività sportiva amatoriale ed ancor più ,agonistica.
Penso fortemente che lo Yoga sia una delle più belle opportunità che uno sportivo possa imparare a cogliere perché parte con l’utilizzo di un mezzo familiare come il corpo e vira lentamente, tramite il suo utilizzo, verso l’acquisizione di capacità mentali che asservono completamente alla finalizzazione nell’attività fisica prestativa.
Uno spunto pratico per iniziare
Nel video troverai un piccolo approccio pensato per decaricare i tensori delle anche ed il piriforme due dei più grandi rompiscatole per ogni persona che sta cominciando ad incamminarsi verso l’attività sportiva.
Autore
L’autore dell’articolo è Simone Carbonaro, Maestro e Formatore certificato Yoga Alliance. E fondatore della Turiya Yoga Academy e della accademia on line che troverete su www.turiyayoga.it, Personal Trainer, Istruttore Aif e Kru di Muay Thai.
L’insulina è un ormone indispensabile per il corretto funzionamento del metabolismo energetico e in particolare del metabolismo glucidico. Senza un corretto funzionamento dell’insulina non saremmo assolutamente in grado, ad esempio, di regolare la glicemia e mantenere i livelli di glucosio nel sangue in concentrazioni fisiologiche.
L’insulina è un ormone cosiddetto ipoglicemizzante, cioè ha la funzione di abbassare i livelli di glicemia quando questa è troppo elevata (nello stato postprandiale, cioè dopo aver mangiato). Esplica tale importantissimo controllo agendo principalmente su 3 tessuti: il tessuto muscolo-scheletrico, il tessuto adiposo, e il tessuto epatico.
Nello specifico, per quanto riguarda il metabolismo glucidico, l’insulina aumenta la captazione di glucosio da parte delle fibre muscolari, e ne promuove il suo utilizzo a scopo energetico e il suo utilizzo per ripristinare le scorte di glicogeno, una forma di deposito di energia che troviamo nel tessuto muscolo-scheletrico e nel tessuto epatico.
A livello epatico, l’insulina promuove ancora una volta la sintesi di glicogeno e inibisce la via della gluconeogenesi, ovvero quel percorso metabolico necessario per produrre glucosio de novo. Infine, a livello del tessuto adiposo, l’insulina aumenta la captazione di glucosio e il suo accumulo sotto forma di trigliceridi.
Chiaramente l’insulina ha un ruolo importante anche nel metabolismo proteico e lipidico, in quanto stimola la sintesi proteica muscolare quando vi è disponibilità adeguata di aminoacidi essenziali, e inibisce il catabolismo proteico. Inoltre, blocca la lipolisi, ovvero la mobilizzazione dei grassi, e l’utilizzo di questi a scopo energetico (inibendo la beta-ossidazione). Dunque, nel complesso, l’insulina è un ormone che ha sia un ruolo anabolico sia un ruolo anti-catabolico, in funzione dei tessuti su cui agisce e del contesto metabolico in cui la si osserva.
Che cos’è l’insulino resistenza?
Chiaramente, perché l’insulina possa esplicare tutte queste azioni sui tessuti sopra-menzionati, deve legarsi a specifici recettori (appunto “recettori specifici per l’insulina”) che sono presenti sulla superficie delle cellule dei tessuti. La capacità dell’insulina di “funzionare” quando agisce su un determinato tessuto si chiama “insulino-sensibilità”.
In termini leggermente più tecnici, la sensibilità all’insulina indica la quantità di insulina necessaria per esplicare un’azione, ad esempio permettere l’ingresso di una certa quantità di glucosio in una cellula. Se si è insulino-sensibili è necessario che il pancreas liberi una piccola quantità di insulina per permettere tale azione, se si è insulino-resistenti, invece, è necessaria molta più insulina per permettere la deposizione della stessa quantità di glucosio.
Un aspetto interessante che è conseguente ai concetti di insulino-sensibilità e insulino-insensibilità dei tessuti, è rappresentato dalla valutazione dei livelli basali di insulina e dalla risposta insulinica in seguito a un evento che perturba l’omeostasi glicemica (ad esempio il consumo di un pasto).
Infatti, se il nostro organismo è insulino-sensibile, allora c’è bisogno di una minor quantità di insulina perché questo ormone esplichi i suoi effetti, e ciò si traduce con livelli basali di insulina nel sangue che sono più bassi (entro un range fisiologico). Viceversa, nel caso di insulino-resistenza, è necessaria una maggiore quantità di insulina per esplicare l’azione, e questo si traduce in livelli di insulina alti e risposte insuliniche al pasto particolarmente elevate: iperinsulinemia.
Dunque, per insulino-resistenza (IR) si intende ogni condizione nella quale una determinata quantità di insulina evoca una risposta biologica alterata (ridotta). Ci sono molti motivi per cui un tessuto può essere insulino-resistente, ma bene o male i meccanismi eziopatogenetici principali sono i seguenti:
Difetti nella produzione e secrezione dell’insulina da parte delle cellule β– pancreatiche. Ovvero, potrebbe essere il pancreas a non funzionare bene, o essere l’insulina stessa a essere difettosa.
Difetti nella ricezione del segnale dell’insulina da parte delle cellule dei tessuti bersaglio (cellule muscolari, adipose, epatiche, e via dicendo).
Che cosa comporta l’insulino-resistenza?
L’insulino-resistenza è una condizione che comporta la necessità di un aumento dei livelli di insulina per esplicare una funzione che, in condizioni sane, avrebbe necessitato di quantità in realtà minori dell’ormone. Più nello specifico, l’insulino-resistenza è una condizione in cui si manifesta una diminuzione della capacità dell’organismo di eliminare una quantità di glucosio dal circolo in risposta all’azione esercitata dall’insulina. Dunque, l’insulino-resistenza, comporta:
Una minor capacità di regolare la glicemia (nello specifico, di abbassare i livelli glicemici in risposta a un pasto che fisiologicamente porta all’innalzamento dei livelli di glucosio nel sangue).
Un aumento dei livelli basali di insulina e un aumento dei livelli di insulina in risposta a un pasto, quale conseguenza di un tentativo delle beta-cellule pancreatiche di rimediare alla ridotta funzionalità dell’insulina aumentando la quantità secreta dell’ormone.
Chiaramente, quando il trasporto di glucosio stimolato dall’insulina nel muscolo scheletrico e nel tessuto adiposo è ridotto, come avviene nelle persone appunto insulino-resistenti, con sindrome metabolica o con il diabete di tipo 2, il risultato è l’incapacità di mantenere la glicemia entro valori definiti fisiologici.
Che cos’è l’iperinsulinemia?
L’iperinsulinemia è una condizione in cui i livelli di insulina sono alterati rispetto ai livelli fisiologici e, nello specifico, sono più elevati. Sulla base di quanto abbiamo detto anche precedentemente, potremmo semplicemente definire l’iperinsulinemia come l’espressione plasmatica dell’insulino-resistenza, in quanto l’aumento dei livelli di insulina altro non è che la conseguenza di una ridotta funzionalità dell’insulina – a livelli più bassi – per insulino-resistenza di vari tessuti (es. muscolo scheletrico, tessuto adiposo, fegato).
Che cosa comporta l’insulina alta?
In realtà, l’aumento dei livelli di insulina non ha nessuna particolare conseguenza, in quanto è solo una risposta alla ridotta risposta all’ormone da parte di alcuni tessuti. Pertanto, le condizioni fisio-patologiche e patologiche, e così le eventuali complicanze di tipo metabolico, sarebbero in genere da attribuire all’insulino-resistenza, all’iperglicemia e al difetto dell’intero metabolismo energetico (l’insulina, come abbiamo visto, agisce sia sul metabolismo glucidico, sia su quello lipidico, sia su quello proteico).
Detto ciò, ci sono alcuni studi che documentano che un eccesso cronico di insulina (cioè che si osserva in soggetti con insulino-resistenza e patologie conseguenti) può aumentare il rischio di sviluppo di alcuni tipi di cancro, in quanto l’insulina è comunque un ormone con azione anabolica che non ha solo funzioni di regolazione del metabolismo energetico.
Un’altra conseguenza che potremmo attribuire all’iperinsulinemia è anche una certa ritenzione idrica. Molti si chiederanno cosa può c’entrare l’insulino-resistenza, e la conseguente iperinsulinemia, con la ritenzione idrica. Il motivo è che l’insulina potrebbe agire anche sul bilancio idro-elettrolitico e così essere implicata sia in conseguenze di tipo “estetico” come la ritenzione idrica, sia in conseguenze più gravi quali ipertensione.
Infatti, la maggior parte dei pazienti con caratteristiche della Sindrome Metabolica ha una pressione sanguigna elevata, e tra i fattori che contribuiscono all’elevazione della pressione vi è anche l’iperinsulinemia, che aumenta il riassorbimento di Na + (sodio) e attiva il sistema nervoso simpatico (che stimola il surrene a lavorare ulteriormente).
Inoltre, il rilascio di fattori proteici dal tessuto adiposo potrebbe stimolare la secrezione di aldosterone indipendentemente dall’angiotensina II, dal K + o dall’ACTH. Ancora, la fonte locale di angiotensina II nel tessuto adiposo può anche essere aumentata in soggetti obesi ipertesi, e ciò suggerisce la partecipazione del sistema renina-angiotensina nella sindrome da insulino-resistenza.
Dunque, alcuni problemi di ritenzione idrica, non sono sempre dovuti a uno squilibrio nell’apporto dietetico di sodio, potassio o acqua, piuttosto da una condizione di insulino-resistenza e dall’obesità in genere, e dell’iperinsulinemia. Va da sé che per correggere tali alterazioni bisogna focalizzarsi sul migliore la sensibilità all’insulina e quindi “trattare” la condizione di insulino-resistenza.
Quali sono le cause dell’insulino-resistenza?
Fondamentalmente, l’insulino-resistenza è una marcata riduzione – in certi casi patologica (quando parliamo di “insulino-resistenza patologica”) della sensibilità all’insulina da parte di alcuni tessuti. L’insulino-resistenza sistemica – quella che osserviamo nel soggetto con “pre-diabete” o con diabete, è il risultato finale di una complessa serie di eventi eziopatogenetici che originano dall’insulino-resistenza locale, quindi specifica di un tessuto, che poi ha come conseguenza alterazioni anche negli altri tessuti e poi nell’intero organismo. Ad oggi non è realmente chiaro qual è l’origine dell’insulino-resistenza sistemica, tanto che si studiano principalmente due modelli:
Insulino-resistenza epatica > aumento patologico della produzione di glucosio e di grassi > eccesso di glucosio nel sangue di acidi grassi liberi nel sangue (FFA) > infiammazione e deposizione di grasso ectopico > eccesso di grassi (grassi ectopici) a livello muscolare > insulino-resistenza muscolare > incapacità del muscolo di captare glucosio e utilizzarlo a scopo energetico > ulteriore aumento della glicemia e di FFA.
Insulino-resistenza del tessuto adiposo > incapacità degli adipociti di trattenere e accumulare sempre più grassi > mobilizzazione eccessiva dei grassi (perché la lipolisi non è più inibita dall’insulina) > eccesso di FFA nel sangue > infiammazione e accumulo di grasso ectopico (ad es. nel fegato e nel tessuto muscolare) > il fegato grasso diventa insulino-resistente > il muscolo-scheletrico diventa insulino-resistente > aumento della glicemia e dei trigliceridi.
Descritte, sinteticamente e schematicamente, i meccanismi eziopatogenetici dell’insulino-resistenza patologica, andiamo a vedere, da un punto di vista pratico, quali sono i fattori e le cause dell’insulino-resistenza. Questi fattori possono essere classificati in non modificabili e modificabili.
I fattori non modificabili sono appunto la genetica di base (ci sono anche alcune etnie come quella afro-americana, o gli ispanici, con maggior predisposizione a sindrome metabolica e diabete) e l’età. Infatti, alcuni studi suggeriscono che la sensibilità all’insulina è negativamente associata all’età, ovvero, con l’aumentare dell’età abbiamo una progressiva riduzione della sensibilità dei tessuti all’insulina.
Sebbene in realtà la resistenza all’insulina è molto più correlabile allo stile di vita che all’età in sé (e spesso più si è adulti/anziani più aumenta la probabilità di seguire uno stile di vita più sedentario), possiamo partire dal presupposto realistico che, a parità di condizioni, un soggetto di 65 anni ha una sensibilità all’insulina individuale probabilmente minore di un soggetto di 20 o 35 anni.
Chiaramente l’età è un fattore non modificabile, perché purtroppo (o per fortuna) non possiamo decidere di smettere di far passare gli anni della nostra vita. Tuttavia, un aspetto positivo osservato è che la capacità di invertire la resistenza all’insulina da parte dell’esercizio fisico non sembra essere differente tra giovani e anziani (cioè, è efficace allo stesso modo). Non a caso l’esercizio fisico tende ad essere consigliato agli individui più anziani proprio per migliorare anche il metabolismo glucidico e lipidico.
Per quanto riguarda i fattori modificabili, possiamo sicuramente dire che esiste un’associazione tra obesità e insulino-resistenza, con individui insulino-resistenti che di solito hanno più grasso corporeo totale (e soprattutto a livello addominale). Tuttavia, anche questa relazione sembra essere particolarmente influenzata dallo stile di vita generale, poiché gli aumenti della sensibilità all’insulina nei soggetti obesi possono verificarsi anche senza perdita di peso. Quindi, oltre l’obesità, l’altro enorme fattore di rischio è la sedentarietà. Infine, non per importanza, troviamo sicuramente le abitudini dietetiche quotidiane.
Quali sono i sintomi dell’insulino resistenza?
Uno dei motivi per cui la condizione di insulino-resistenza e, in realtà, anche di sindrome metabolica, è subdola, è che nella maggior parte dei casi è asintomatica. In effetti, un soggetto con IR che ha 120 di glicemia potrebbe non presentare alcun sintomo, esattamente come un soggetto sano con glicemia a 88.
Tuttavia è possibile osservare determinate caratteristiche per ipotizzare un’eventuale insulino-resistenza e quindi riconoscere il paziente a rischio che dovrà poi essere sottoposto a esami diagnostici specifici. In primo luogo, il sovrappeso o l’obesità, soprattutto se addominale, è un segno che potrebbe far pensare all’eventualità della presenza di insulino-resistenza (non è l’obesità a essere la conseguenza dell’IR piuttosto è la causa, attenzione).
Ancora, la presenza di familiarità per sindrome metabolica o diabete, oppure la presenza di altri segni e sindromi di eventuale insulino-resistenza estrema [leprecaunismo, sindrome di Rabson-Mendenhall, Sindrome da insulino-resistenza di tipo A con acanthosis nigricans (una lesione cutanea che spesso viene associata all’insulino-resistenza), lipodistrofie e via dicendo], o la presenza di altre patologie che spesso presentano IR come, nelle donne, la sindrome dell’ovaio policistico (PCOS).
Insulino resistenza e obesità
Come detto più volte, l’insulino-resistenza è più la conseguenza che la causa dell’obesità, in quanto l’infiammazione e la graduale riduzione della sensibilità dei tessuti all’insulina è una conseguenza dell’aumento di grasso corporeo, soprattutto a livello addominale (perché generalmente associato a un aumento del grasso viscerale, che è quello più “infiammatorio”).
Dunque, la convinzione che sia l’insulino-resistenza a causare l’obesità è assolutamente errata, sebbene l’individuo obeso e insulino-resistente sperimenterà, molto probabilmente, una difficoltà maggiore nel perdere successivamente peso e grasso corporeo, e soprattutto nel mantenere il peso che eventualmente, proprio a causa di difetti nel metabolismo energetico che possono essere dovuti all’insulino-resistenza.
Come ridurre l’insulino resistenza?
L’esercizio fisico è l’intervento elettivo per migliorare l’insulino-resistenza, sia nei soggetti sovrappeso sia nei soggetti. Anzi, alcuni studi notano anche benefici maggiori nella sensibilizzazione all’insulina nei soggetti obesi, probabilmente perché questi soggetti partono da condizioni di base peggiori. Insomma, più è grave una condizione, e più è facile notare un miglioramento effettivo (se, chiaramente, l’intervento è efficace). Quali sono questi interventi efficaci?
L’esercizio fisico, sia di tipo aerobico (ad es. jogging) sia di tipo anaerobico (ad es. sollevamento pesi). Nello specifico, l’esercizio aerobico sembra essere in grado di migliorare acutamente la resistenza all’insulina aumentando l’assorbimento di glucosio nelle cellule. Ad esempio, una sessione di allenamento di 25-60 minuti (al 60-95% della VO2 max), per 3-5 giorni, può causare un “immediato” aumento della sensibilità all’insulina.
Ancora, i miglioramenti, in alcuni studi, si sono visti anche dopo una sola settimana di allenamento aerobico, che consisteva nell’eseguire per lo più 2 sessioni brevi di 25 minuti di camminata al 70% della VO2 max. L’aspetto però interessante e importante da sottolineare è che, purtroppo, è vero anche il contrario: il ritorno allo stile di vita sedentario riduce la sensibilità all’insulina in appena 2 settimane.
Chiariamo che l’esercizio aerobico, eseguito routinariamente, porta cambiamenti benefici nella sensibilità all’insulina anche e soprattutto a lungo termine. E un aspetto importante da sottolineare è che il miglioramento della sensibilità all’insulina a seguito dell’esercizio fisico può verificarsi indipendentemente dalla perdita di peso.
Anche gli esercizi di forza (sollevamento pesi) sono associati ad un aumento della sensibilità all’insulina. Chiaramente l’esercizio anaerobico, esattamente come l’esercizio aerobico, tende ad aumentare la sensibilità all’insulina indipendentemente dal miglioramento della composizione corporea, ma in questo caso l’effetto maggiore lo si ottiene, nel tempo, proprio attraverso l’aumento di massa muscolare – obiettivo primario dell’esercizio con i pesi.
Infatti, poiché il tessuto muscolo-scheletrico è a tutti gli effetti un organo metabolico che contribuisce alla regolazione glicemica (perché fa da “tampone”, aumentando l’assorbimento del glucosio in eccesso e, soprattutto, utilizzandolo quando si fa attività fisica), maggior quantità di massa muscolare abbiamo e maggiore è la sensibilità periferica all’insulina.
Infine, anche la dieta è un fattore modificabile che può essere causa o rimedio per l’insulino-resistenza. Una dieta ipo-normocalorica che abbia delle caratteristiche generali ben precise: aumento di frutta e verdura (aumento principalmente dell’assunzione di fibre e micronutrienti utili per la regolazione glicemica), una riduzione dei grassi saturi e trans e un aumento dei grassi insaturi, un eventuale riequilibrio tra assunzione di grassi omega 6 e omega 3, porta anche all’aumento della sensibilità all’insulina indipendentemente dalla perdita di peso.
Dunque, abbiamo tre macro-fattori che possiamo utilizzare per migliorare la sensibilità all’insulina:
Perdita di peso
Esercizio fisico (sia aerobico sia anaerobico)
Interventi dietetici
Questi sono tutti fattori che, indipendentemente l’uno dall’altro, migliorano la condizione di insulino-resistenza, ma che ovviamente danno il loro meglio quando sfruttati insieme: una riduzione dello stile di vita sedentario prevedendo sessioni di esercizio aerobico routinario anche di soli 20-30 minuti e prevedendo sessioni di allenamento anaerobico (ad es. allenamento con i pesi) per almeno 2-3 sessioni di 50 minuti a settimana, una correzione delle abitudini alimentari. Questi interventi, inoltre, possono probabilmente essere sfruttati per causare anche la perdita di peso (e soprattutto grasso corporeo), e quindi permettere un ulteriore miglioramento della tolleranza ai carboidrati e della regolazione glicemica.
Cosa mangiare in caso di insulino resistenza?
In effetti, un soggetto insulino-resistente non ha nessun motivo valido, dal punto di vista scientifico, per abolire dalla propria dieta alcun tipo di cibo, al netto degli alimenti ultra-lavorati che dovrebbero invece essere consumati in maniera minima – o per niente – dall’intera popolazione in generale e non solo per i soggetti insulino-resistenti.
Quello che però possiamo dire è che sicuramente ci potrebbero essere abitudini alimentari e interventi dietetici che possono assecondare la condizione fisio-patologica del soggetto insulino-resistente, evitando di andare a forzare un sistema di regolazione dell’omeostasi che è invece difettoso. Nello specifico, dunque, è bene intervenire aumentando l’apporto di fibre, che si possono ottenere consumando una maggior quantità di alimenti integrali, legumi, verdure e frutta poco zuccherina, quando possibile con la buccia.
Ancora, evitare pasti e diete troppo abbondanti in carboidrati, in quanto i soggetti insulino-resistenti sono meno in grado di tollerare i glucidi e di mantenere i livelli fisiologici di glicemia postprandiale. Questo non significa dover seguire necessariamente diete low carb o chetogeniche, ma semplicemente tener presente che un minor carico glicemico dell’intera dieta può aiutare a rendere meno evidente la condizione di insulino-resistenza.
Insulino resistenza e dimagrimento: come dimagrire se si ha l’insulino resistenza?
Se si è sovrappeso/obesi e si è insulino-resistenti è necessario ottenere una perdita di peso, graduale, andando ad agire su due aspetti:
Miglioramento della sensibilità all’insulina e utilizzo di modelli alimentari che non mettono a dura prova il metabolismo glucidico che è difettoso.
Lo stile di vita attivo e l’attività fisica anche strutturata, possibilmente mista, cioè in parte aerobica in parte anaerobica, che è di fondamentale importanza.
Dieta dimagrante per l’insulino resistenza
Ad oggi, la letteratura scientifica documenta, attraverso moltissimi studi controllati con risultati coerenti tra loro, che non esiste, in assoluto, una dieta migliore per la perdita di peso. Questo vale per soggetti obesi che vogliono perdere peso e, in linea di massima, anche per i soggetti insulino-resistenti.
Le diete low carb e le diete chetogeniche potrebbero avere dei leggeri vantaggi metabolici per la perdita di peso nei soggetti con diabete o con insulino-resistenza. Tuttavia, soprattutto la dieta chetogenica, può presentare degli effetti collaterali in questi soggetti, e quindi necessita che il paziente sia sotto monitoraggio e che gli effetti vengano valutati più volte nel corso del trattamento.
Ad ogni modo deve essere chiaro che, come documentano anche le meta-analisi più recenti sull’argomento, la perdita di peso e grasso corporeo è dovuta sempre alla restrizione energetica, e questo è il caso anche delle diete low carb o chetogeniche, che in molti studi mostrano perdite di peso simili rispetto ad altri tipi di diete ipocaloriche nei soggetti insulino-resistenti.
Una volta imposto un deficit calorico adeguato, e una volta che ci si è assicurati un apporto proteico ottimale per il mantenimento della massa muscolare (o in alcuni casi per la ricomposizione corporea – nel caso di soggetti ipoallenati, con sarcopenia, che seguivano diete ipoproteiche, e che iniziano ad allenarsi con i pesi), la proporzione tra grassi e carboidrati non è così fondamentale.
Dunque, la conclusione deve essere che esistono veramente molti modi, molte strategie e molti modelli alimentari per indurre la perdita di peso, anche nei soggetti insulino-resistenti, e che non bisognerebbe fossilizzarsi su un’ottimale distribuzione dei macronutrienti (che al momento non è conosciuta, se mai esistesse un’ottimale distribuzione dei macronutrienti per questi soggetti) ma piuttosto nel seguire semplici e corrette abitudini alimentari e tenere a mente l’importanza delle dosi (quindi degli aspetti quantitativi della dieta) e delle fonti (da preferire alimenti poco densi energeticamente e alimenti più ricchi in fibre).
Insulino resistenza e integratori
Sono tantissime le sostanze e gli integratori che, nel tempo, sono state proposte come efficaci per migliorare la sensibilità all’insulina e quindi per ridurre i livelli insulinici e glicemici. Tuttavia, la maggior parte di questi ha in realtà uno scarso o nullo effetto, e solo poche eccezioni possono essere realmente interessanti secondo un giudizio evidence based.
Il cromo, ad esempio, è spesso utilizzato per ridurre la resistenza all’insulina, tuttavia, quando è integrato da persone con livelli di cromo normali o elevati, non si ottiene alcun effetto affidabile. Discorso diverso quando vi è una carenza subclinica o conclamata. Stesso identico destino per il magnesio, che nonostante venga spesso promosso come vera e propria panacea per il miglioramento della glicemia e della sensibilità all’insulina, ha un (limitato) effetto solo nei soggetti carenti.
Si tenga conto, però, che poiché i cereali non sono in realtà una buone fonte di magnesio, e quest’ultimo lo si ritrova principalmente nella frutta secca e in alcune verdure, che non vengono consumate spesso nella dieta tipica occidentale, una buona percentuale di persone è in realtà carente di magnesio (molte sono anche inconsapevoli di esserlo).
Gli omega 3 e l’integrazione di olio di pesce non sembra, contrariamente a quanti molti pensano, migliorare significativamente la sensibilità all’insulina e migliorare, quindi, la glicemia. Sebbene gli omega 3 siano sostanze con conclamate azioni anti-infiammatorie, con effetti benefici riguardanti il profilo lipidico, non sono osservate differenze significative né di riduzione della glicemia né di riduzione degli eventi e/o della mortalità per eventi cardiovascolari, con la loro integrazione.
Un altro integratore inutilmente mitizzato è la curcumina, il principale principio attivo della curcuma, che seppur è una sostanza con conclamate azioni anti-infiammatorie, e sembra poter essere utile per ridurre (lievemente) i sintomi di ansia e depressione, ha poche evidenze a supporto di un suo eventuale effetto di riduzione della glicemia e di miglioramento del profilo lipidico.
Al contrario, un integratore un po’ più interessante è la berberina, un alcaloide estratto da alcune piante, che grazie alla sua capacità di attivare AMPK, sembra avere un effetto di riduzione della glicemia. Studi recenti hanno dimostrato che 1500 mg di berberina, assunti in 3 dosi da 500 mg ciascuna, può avere ottimi effetti di riduzione della glicemia (addirittura simili a 1500 mg di metformina, anche se vanno condotti ulteriori studi per valutare tali effetti benefici e soprattutto la sicurezza e gli effetti collaterali a medio-lungo termine).
Infine, un integratore interessante è l’inositolo, che ha mostrato buone evidenze per il trattamento dell’intero spettro di sintomi della sindrome dell’ovaio policistico (che è una sindrome con IR associata); nello specifico, dosi elevate (da 3.000 a 4.000 mg) sembrano essere più efficaci nel migliorare la sensibilità all’insulina. Tocca tuttavia specificare che questi effetti benefici dell’inositolo sono studiati principalmente nelle donne con PCOS e non in altre popolazioni caratterizzate da insulino-resistenza.
Quali analisi e quali esami fare per diagnosticare e scoprire l’insulino resistenza?
Generalmente, nello screening di base si va sempre a valutare la glicemia a digiuno e il profilo lipidico (trigliceridi, colesterolo totale, C-HDL e C-LDL). In genere si parla di “pre-diabete” (negli ultimi anni l’espressione di prediabete è stata abolita e sostituita con “alterata glicemia a digiuno” per valori di glicemia a digiuno di 100/110-125 mg/dl.
Se un soggetto presenta tali valori, abbinati a un profilo lipidico alterato, con altri segni e fattori di rischio per la sindrome metabolica/diabete, come l’obesità (soprattutto addominale) e la familiarità per il diabete, allora potrebbe essere il caso di richiedere un test di tolleranza al glucosio, che è utile per valutare la risposta all’innalzamento del glucosio (si misura la glicemia ad intervalli di tempo prestabiliti dopo un’importante somministrazione di glucosio in forma liquida).
Tuttavia, se vogliamo valutare realmente l’insulino-resistenza, non dobbiamo fossilizzarci solo sulla misurazione della glicemia e sulla curva glicemia, ma ci potrebbe essere d’aiuto andare a guardare proprio anche i valori di insulinemia. Infatti, ricordo a tutti che nei casi di insulino-resistenza la glicemia può comunque rientrare nei livelli fisiologici, ma questo necessiterà di livelli di insulina maggiori della norma. Dunque, è stato elaborato un indice (Indice HOMA, Homeostatic Model Assessment) che è basato sulla misurazione dei livelli non solo di glucosio ma anche di insulina. La formula per l’indice HOMA è la seguente:
Indice HOMA = (glicemia x insulinemia) / 22.5 (dove la glicemia è espressa in mmol/L e l’insulina in mU/L). Valori < 2.5 si traducono in un’assenza di insulino-resistenza, mentre valori > 2.5 indicano la presenza di insulino-resistenza.
Conclusioni sull’insulino resistenza
Al termine di questo articolo devono apparire chiari determinati concetti:
l’insulino-resistenza è una condizione che si manifesta per opera di molteplici fattori integrati tra loro in seguito all’eccessivo aumento di grasso corporeo, soprattutto se l’accumulo è a carico principalmente dei depositi viscerali.
L’iperinsulinemia che osserviamo nei soggetti con IR è, nella maggior parte dei casi, un adattamento che per certi versi è protettivo, da parte del pancreas (compensazione pancreatica alla resistenza all’insulina), per ottenere la regolazione glicemica (riduzione della glicemia)
Non sempre sono presenti sintomi che possono suggerire la presenza di insulino-resistenza, ed è per questo importante fare check up di base con frequenza almeno annuale, e nel caso si osservi una glicemia o un profilo lipidico alterato, procedere con analisi più specifiche come il test OGTT e l’esame dell’emoglobina glicata.
L’insulino-resistenza è una conseguenza dell’obesità e non una causa. Tuttavia, un soggetto obeso insulino-resistente potrebbe sperimentare una difficoltà maggiore nel seguire un percorso di dimagrimento.
Da un punto di vista puramente pratico, per dimagrire e migliorare l’insulino-resistenza, è importante sintonizzarsi con una forma mentis che prevede almeno 3 step: 1) miglioramento dell’IR a prescindere dal miglioramento della composizione corporea; 2) miglioramento della composizione corporea con perdita di grasso e aumento di muscolo; 3) mantenimento della forma fisica raggiunta grazie al mantenimento delle buone abitudini alimentari e di stile di vita generale.
Il primo passo da fare è migliorare la resistenza all’insulina, sia nel breve che nel lungo periodo, aumentando i livelli di attività fisica (quindi avere uno stile di vita attivo) e prevedere almeno 3 sessioni di esercizio fisico strutturato a settimana, preferibilmente che consista in almeno 2 sessioni di allenamento con i pesi.
Inoltre, è fondamentale instaurare un deficit energetico (dieta ipocalorica) ricorrendo a interventi dietetici che siano mirati all’ottimizzazione della compliance e dell’aderenza alla dieta. Ciò è di vitale importanza in quanto, ad oggi, non è stata trovata una dieta migliore rispetto a un’altra, per il dimagrimento e la riduzione della resistenza all’insulina, a parità di apporto calorico e apporto proteico.
La raccomandazione generale è di creare un deficit calorico giornaliero di circa 500 kcal (si possono seguire protocolli nutrizionali di diverso tipo che prevedono una normocalorica in alcuni giorni e un’ipocalorica più marcata in altri, con il risultato di un deficit calorico complessivo di circa 3500 kcal settimanali).
Proprio in merito all’apporto proteico, per chi ha un’assunzione proteica inferiore a 1,2 g per kg di peso corporeo, è bene che aumenti l’apporto proteico (fino ad anche 1,6 g/kg) per preservare o aumentare la massa muscolare. Un aumento del tessuto muscolare causerà benefici sia estetici, sia nella qualità della vita (miglior funzionalità fisica), sia dal punto di vista metabolico (miglior salute). Preferibilmente utilizzare fonti proteiche vegetali o fonti animali prevalentemente magre.
Infine, per soggetti che hanno difficoltà a gestire quantità elevate di glucidi (cosa probabile, nei soggetti con IR), può essere maggiormente efficace una dieta a basso contenuto di carboidrati (che preveda comunque l’assunzione di verdure e alimenti ricchi in fibre, come potrebbero essere i legumi, alcuni frutti, e piccole quantità di cereali integrali). Questa raccomandazione è valida ed efficace solo se tale tipo di dieta risulti attraente e fattibile dal soggetto in questione.
Il calisthenics (o calisthenic, in italiano calistenia) è un tipo di allenamento a corpo libero che ti permette di migliorare la tua forza, la tua coordinazione e la tua composizione corporea, imparando moltissimi esercizi, da semplici ad avanzati. In questo articolo vedremo come puoi iniziare ad allenarti nel calisthenics, come impostare un programma di base. In particolare, scoprirai da quali esercizi (fattibili anche a casa) puoi partire, quali errori devi evitare per prevenire gli infortuni, quali sono i migliori esercizi di spinta, di trazione e per allenare l’addome e se è possibile aumentare la massa muscolare col calisthenics..
Calisthenics: da dove partire
Volevo (sono Erik Neri) scrivere un programma di base per chi si approccia al calisthenics(o calistenia), sia che il tuo obiettivo sia migliorare la forza e le skill, sia aumentare la massa muscolare a corpo libero, ma ciò non sarebbe del tutto utile per un motivo molto semplice: mentre fare una routine per chi si approccia ad uno sport di forza massimale può essere sensato, grazie al fatto che basta “semplicemente” cambiare il carico sul bilanciere in base al proprio livello, nel calisthenics questo non può avvenire. Possiamo avere gente alle prime armi sedentaria che non fa neanche una trazione e pochi piegamenti, altri che magari vengono dall’arrampicata e macinano trazioni su trazioni, ma con gli esercizi di spinta non sono allo stesso livello; ancora, gente che magari viene dalla sala pesi, che non riesce a fare neanche una trazioni ma si butta schiena al muro e fa una dozzina di piegamenti in verticale e via discorrendo.
Da questa breve analisi (ah, tutti casi reali che mi sono capitati, non ho inventato nulla), se ne deduce che un programma base per chi si approccia al calisthenics sarebbe fuorviante e quanto meno inefficace, dato che potrebbe funzionare solo su una manciata di persone, escludendo tutte le altre. Insomma il calisthenics workout program universale non esiste.
Vediamo quindi come costruire un programma di base per chi decide di approcciarsi al calisthenics.
Esercizi per principianti nel calisthenics
La prima cosa da fare quando si vuole effettuare una programmazione per la calistenia, è domandarsi quale sia il proprio livello atletico: cioè, in soldoni: chiedersi cosa si sa fare, cosa si vuole imparare e quali sono i passaggi intermedi per raggiungere i propri obbiettivi.
In quanto principianti, ciò che dovete chiedervi è:
È inutile se non controproducente quando siamo agli inizi nel calisthenic, saltare gli esercizi base e puntare subito al muscle up, al front lever o alla planche.
Importantissimo in questa fase è basarsi sulla tecnica CORRETTA degli esercizi di base, in quanto il tipico errore del principiante è quello di valutarsi usando forme errate negli esercizi, come kippando gli esercizi, facendo mezze ripetizioni e cosi via.
Molto spesso, per chi ha iniziato da autodidatta semplicemente appendendosi o buttandosi a terra macinando ripetizioni, è molto facile che si presentino gli errori di cui sopra; utilissimo quindi riprendersi quando ci si allena in modo da poter verificare la bontà dell’eseguzione tecnica: in ogni caso mettiamo qui sotto i video tutorial per eseguire correttamente gli esercizi base.
Nel caso il vostro livello sia pari a quello di Peter Griffin, non disperate; OGNI esercizio ha una propedeutica, e le spiegazioni di seguito possono essere adattate anche a piegamenti al muro e body row inclinate di mezzo grado.
Altri esercizi DI BASE fondamentali per il calisthenics sono la Plank a terra e la Barchetta, assolutamente indispensabili e da non tralasciare; questi esercizi hanno una doppia funzione, in primis aumenterete forza e resistenza del core (indispensabile e sollecitato nel 99,99% degli esercizi a corpo libero), in secondo luogo sono utilissimi per apprendere e sviluppare la hollow position (vedi la prossima foto), utilizzata nella maggior parte degli esercizi avanzati del calisthenics (per esempio, la planche è una plank senza che le gambe tocchino terra, il front lever è una barchetta da appesi alla sbarra.
Planche:
Front lever:
Ovviamente per il core non esistono solo questi due, anzi ve ne sono una miriade e diversi sono molto validi (guardate l’articolo sull’esercizio più completo per gli addominali), quindi non abbiate paura di variare; diciamo che questi sono quelli che danno di più anche in ottica di proiezione futura (cosa basilare in questa attività: ogni esercizio ha delle propedeutiche e a sua volta è propedeutico per esercizi più avanzati, una sorta di piramide dal più facile al più difficile, dove tutti gli esercizi sono in qualche modo collegati).
Con quale attrezzatura allenarsi nel calisthenics?
Una volta che vi siete risposti sul vostro livello atletico, prestando come sottolineato grande attenzione alla tecnica degli esercizi, la domanda seguente che vi dovete porre è: di quale attrezzatura dispongo?
Indipendentemente che vi alleniate a casa od in palestra, questa, che può sembrare una domanda banale, è invece cruciale per la vostra programmazione.
Il motivo di ciò è che più attrezzatura avete, più possibilità di esercizi ci sono; per esempio se avete la sbarra per le trazioni solo due volte a settimana quando andate in palestra, è ovvio che dovete concentrare gli esercizi di tirata in quelle sedute, e quindi la programmazione sarà ESTREMAMENTE influenzata da questo evento. Un altro esempio possono essere gli anelli: se gli disponete molto lavoro di trazione sarà fatto qui, in quanto a livello articolare sono il miglior supporto possibile, grazie al fatto di non essere fissi ma di poter ruotare. Ancora, se non avete parallele potete usare delle sedie per gli esercizi più semplici (come i dip), ma quando ci si muoverà a fare le propedeutiche per la planche sarà un supporto difficilmente usabile e dovrete ripiegare sul pavimento.
Come abbiamo visto l’attrezzatura a disposizione può influenzare la redazione di un workout di allenamento nel Calisthenic, perché amplia le possibilità: l’indispensabile, in ogni caso, è una sbarra ed il pavimento! In molte città ci sono parchi adibiti dove potete fare street workout.
Ora abbiamo il nostro livello atletico, l’attrezzatura che abbiamo a disposizione, ci manca solo di mettere in ordine gli esercizi e farci il programma!
Come strutturare un programma (scheda) base di calisthenics?
La redazione di un programma è ovviamente subordinata al vostro tempo: l’ideale, per un principiante, sarebbe di fare tre o quattro sedute la settimana, su per giù per un ora e mezza di allenamento, in modo da poter lavorare con calma sulle base e poter inserire anche qualche esercizio complementare di contorno.
Nel caso abbiate meno tempo, l’ideale è usare strategie che permettano di condensare un buon volume nel tempo che avete a disposizione (un esempio può essere il metodo del giro della morte nelle trazioni ), spesso però a discapito di esercizi di contorno (che possono essere variazioni dello schema motorio principale, come piegamenti a diamanti o trazioni pliometriche, od ancora esercizi di “isolamento” come possono essere i curl agli anelli); ci sono esercizi di serie A e serie B, se si ha tempo sono utili entrambe le categorie, altrimenti meglio concentrare il poco tempo sui primi.
Per quanto riguarda l’ordine degli esercizi, essendo il corpo libero una disciplina in cui il peso è costante, la cosa migliore da fare è partire con gli esercizi più tosti all’inizio della seduta, in modo da poterli affrontare con la massima freschezza, e via via gli altri a seguire. Per esempio, se volete fare trazioni, di cui ne avete 2 massimali, ed australian pull up (body row), conviene partire dalle prime macinando diverse singole e poi fare i secondi, perché al contrario non riuscireste poi ad effettuare le trazioni essendo stanchi dal primo esercizio; allo stesso modo, conviene prima fare esercizi di “forza” e poi quelli di “resistenza”, perché la seconda influenza molto di più la prima di quanto non avvenga al contrario (per esempio, dopo aver fatto un 100 trazioni nel minor tempo possibile, l’eventuale massimale zavorrato sarà molto inferiore a quello reale; al contrario, se prima fate il massimale zavorrate, poi il tempo che impiegherete per macinarne 100 non sarà troppo superiore rispetto a partire da freschi). La suddivisione all’interno della stessa seduta può seguire l’alternanza di esercizi di spinta ad esercizi di tirata, in questo modo:
In questo modo, dopo le trazioni, riposate gli attori principali di quell’esercizio andando a lavorare su un’altra parte del corpo, in modo da affrontare il successivo esercizio di tirata in maniera più fresca rispetto ad una suddivisione che mette gli australian pull ups subito dopo le trazioni.
Si possono anche fare “salti” di due esercizi, nel caso, per esempio, di fare due esercizi di difficoltà simile, dove nel primo si è speso molto, alternando a due esercizi che interessano un’altra parte del corpo ma con una differenza di difficoltà più elevata, per esempio:
In questo esempio, se alla fine delle serie di trazioni in L-sit si è speso molto, affrontare prima i piegamenti in verticale e poi i piegamenti classici (molto più semplici di quelli in verticali, che quindi vengono influenzati relativamente poco dalla performance sui primi), può aiutare a recuperare di più ed affrontare le serie successive di trazioni in maniera migliore.
Per quanto riguarda le serie e le ripetizioni, non c’è UN metodo, bisogna giocare tra il volume e l’intensità, cercando di giungere ad un buon compromesso; per esempio, se si hanno 3 trazioni non ha senso fare serie da 2/3 ripetizione perché si arriva a fine corsa molto in fretta: allo stesso modo, se si hanno 12 trazioni, fare singole di queste è decisamente sottoallenante.
Diciamo che generalmente conviene fare diverse serie a buffer (cioè non andando a cedimento) con poche ripetizioni degli esercizi più impegnativi (per esempio, con 3/4 trazioni può aver senso fare una decina di singole), e macinare diverse ripetizioni per serie, lasciando meno margine ad ogni serie di quelli meno impegnativi (dopo le singole di trazioni, fare serie da 8/10 di australian pull ups).
Vediamo ora una lista degli esercizi a cui i principianti dovrebbero dare la priorità.
Esercizi per principianti nel calisthenics
Esercizi di trazione:
Australian pull up;
Trazioni piedi a terra;
Mezze trazioni (si arriva con la testa alla sbarra, in modo che le braccia formino un angolo di 90 gradi);
Questo breve elenco di esercizi indica, in ordine di difficoltà, i principali esercizi di spinta e trazione (trascurando cioè le varianti) su cui un principiante deve allenarsi duramente.
Importante non escludere le propedeutiche precedenti degli esercizi dalla programmazione, in modo da arrivare a totalizzare un buon volume totale di allenamento.
Se per esempio fate singole di trazioni, dopo di esse è utile aumentare il lavoro facendo esercizi più semplici su cui si riesce a tenere un numero discreto di ripetizioni, come possono essere gli australian pull up o le mezze trazioni. Indicativamente, un buon numero di ripetizioni totali di un allenamento è di almeno sessanta/settanta: nel caso abbiate come massimale 3 trazioni, si può dividere in questo modo:
Trazioni 8×1; (8 ripetizioni qualitative)
Mezze trazioni 8×3; (24 ripetizioni)
Australian pull ups 5×8 (40 ripetizioni per la resistenza)
In questo modo avrete fatto un discreto volume sugli esercizi di trazione.
I migliori esercizi del calisthenics per gli addominali
Errori da evitare nel calisthenics
Vediamo infine quali sono le cose che dovete assolutamente evitare:
Inserire esercizi al di sopra del vostro livello, eseguendoli con forma orrenda;
Basare la programmazione su dati non reali;
Inserire esercizi per i quali non si è condizionati e/o avete la mobilità ma che si ha la forza di eseguire (farsi male è un attimo: un esempio possono essere le trazioni dietro la nuca, se per eseguire una dislocazione vi serve il bastone allungabile di chibi goku, lasicatele perdere);
Dividere la programmazione per muscoli e non per esercizi (Non è bodybuilding, non isolerete un bel nulla, ma molti non lo vogliono capire!).
Come si allena un atleta avanzato nel calisthenics?
In questo video ti darò alcuni spunti partendo dalla mia esperienza di allenamento.
Aumentare la massa muscolare col calisthenics: è possibile?
Quale fisico è possibile ottenere con il calisthenics? Quanto è possibile aumentare la massa muscolare con il calisthenics? Scoprilo in questo video
Buona Programmazione!
Articolo di Erik Neri
Guarda anche il canale youtube sulla calistenia di Erik Neri
Il freddo, per l’essere umano, è sempre stato un grande fattore di stress. Adattarsi ad esso è sempre stato un necessità importante per la sopravvivenza di intere popolazioni nelle latitudini più vicine ai poli. L’organismo umano, come quello di tantissimi altri animali, si è adattato alle basse temperature attraverso dei sistemi che gli permettono di auto generare calore e mantenere la temperatura corporea stabile, anche in condizioni estreme.
Quali sono i meccanismi che permettono al corpo umano di adattarsi al freddo?
37 gradi, è la temperatura di funzionamento di molti processi biologici all’interno del nostro organismo.
Variazioni anche di pochi gradi per periodi di tempo prolungati non permettono il funzionamento di molte reazioni enzimatiche importanti per la sopravvivenza.
Per questo, quando ci esponiamo al freddo, il nostro corpo mette in atto una serie di strategie atte a preservare la temperatura ideale per la vita.
Il primo organo a percepire il freddo è la pelle. Esiste una classe di recettori, chiamata termocettori (TRP), che si attivano quando la temperatura esterna subisce forti variazioni. I TRP sono collegati direttamente con il midollo spinale ed inviano segnali all’ipotalamo, una zona del cervello situata sopra il tronco celebrale, deputata, tra le altre cose, a mantenere la temperatura del corpo stabile.
Una volta che il freddo viene percepito il corpo va incontro ad una vasocostrizione periferica, cosa significa?
Le arterie,i vasi che portano il sangue dal cuore ai tessuti, sono interamente avvolti da tessuto muscolare liscio. Il sistema nervoso, per proteggere gli organi più importanti (situati tutti nel tronco), diminuisce la circolazione negli arti periferici riducendo il diametro dei vasi grazie alla contrazione della muscolatura delle arterie.
Facendo così, gran parte del sangue caldo rimane al centro del corpo a protezione delle strutture più importanti.
Un altro meccanismo importante per mantenere la temperatura stabile è la contrazione muscolare involontaria, comunemente chiamata brivido. Il brivido è il meccanismo più comunemente usato dal corpo per aumentare la temperatura La contrazione muscolare è un meccanismo poco efficiente, il che significa che gran parte dell’energia prodotta per contrarre il muscolo viene dispersa in calore.
Le forti contrazioni involontarie del brivido andranno a produrre il calore necessario al corpo per ritardare l’insorgere dell’ipotermia, ovvero l’abbassamento della temperatura corporea sotto i 35° Celsius.
Termogenesi non da brivido
Il limite della termogenesi (ovvero la produzione di calore interna al corpo) da brivido è la scarsa efficacia nel mantenere la temperatura corporea ad un livello ottimale per un periodo prolungato.
Inoltre, il brivido, a causa delle contrazioni muscolari involontarie, ostacola anche i movimenti più semplici.
Il corpo umano ha adottato altre due strategie, molto più efficaci, per aumentare la temperatura interna, entrambi rientrano nella definizione di “termogenesi non da Brivido”.
La prima è l’attivazione del grasso bruno. Il grasso bruno è un tipo di tessuto adiposo molto ricco di mitocondri (le centrali energetiche della cellula), esso non ha la funzione di immagazzinare energia, ma, al contrario, di usarla per generare calore. I mitocondri al suo interno utilizzano i nutrienti e l’ossigeno per produrre calore con un processo chiamato “disaccoppiamento della fosforilazione ossidativa”. Tale processo è molto simile al concetto di schiacciare contemporaneamente acceleratore e frizione della macchina.
Il motore gira, consuma ossigeno e carburante, ma invece di muoversi produce solo calore e scarti. Lo stesso avviene nel mitocondrio (il motore), le proteine disaccoppianti (UCP) sono la frizione ed il risultato è tanto calore e poca energia.
Il grasso bruno è presente in grandi quantità nei neonati, ma tende a diminuire con l’avanzare dell’età.
I bambini, a causa di un sistema neuro-muscolare acerbo, non sono in grado di provocare i brividi e quindi di scaldarsi, pertanto possono solo fare affidamento a questo tessuto.
Grazie a delle ricerche fatte negli ultimi anni si è visto che il grasso bruno può essere sintetizzato ex novo, partendo dal tessuto adiposo “bianco” quando è necessario.
Si è anche visto che diventa un’importante fonte di calore solo in periodi di esposizione al freddo molto lunghi (si parla di settimane).
Quale è, allora, il meccanismo che permette alle persone di rimanere per molte ore esposti al freddo intenso senza che la temperatura corporea subisca variazioni?
Esporsi al freddo fa bruciare più calorie?
In uno studio del 2014 si è visto chiaramente che il meccanismo che mantiene la temperatura del corpo invariata durante le esposizioni al freddo è la contrazione isometrica dei muscoli intercostali.
I muscoli intercostali, quando l’organismo percepisce un forte abbassamento della temperatura esterna, iniziano a quadruplicare il consumo di glucosio.
Il consumo extra di glucosio è sintomo di un forte aumento della contrazione.
Una forte contrazione protratta nel tempo aumenta di molto il calore nell’area del busto. Il calore prodotto viene trasmesso al sangue della circolazione polmonare e da lì poi inviato al resto del corpo.
Il consumo energetico extra durante l’esposizione al freddo si aggira intorno ai 2 kJ/min, tradotto in calorie siamo intorno a mezza kcal al minuto extra.
Anche la quantità di acidi grassi liberi aumenta quando si è esposti a temperature più basse: si passa dalle circa 200/600 mmol/L di una persona normale a circa 700/800 mmol/L.
Come adattarsi al freddo?
Come abbiamo visto il nostro corpo sa esattamente come contrastare il freddo, tali adattamenti, però, sono possibili solo dopo una esposizione graduale.
Il freddo è una fonte di stress molto potente, pertanto è importante dare modo al proprio organismo di abituarcisi in maniera progressiva e non traumatica.
Un metodo molto efficacie è quello delle docce fredde. Si inizia la doccia con l’acqua calda, quando si è pronti si passa all’acqua fredda. Il primo impatto con essa è sempre forte, probabilmente farà sobbalzare e trattenere il fiato, tutto quello che dovete fare è contrastare questo shock ed iniziare a respirare in maniera controllata, dilatando la fase espiratoria. Il ritmo giusto di una respirazione “nel freddo” è quello di 4-6 (4 secondi di ispirazione e 6 secondi di espirazione).
Noterete che il vostro corpo si abituerà alla bassa temperatura dell’acqua, continuate fin quando iniziate a non riuscire più a concentrarvi sul respiro ed iniziate a sentire di nuovo il freddo.
Da qui terminate la doccia, asciugatevi e continuate la giornata.
Oltre alla doccia fredda è importante anche cercare di non coprirsi con troppi indumenti quando fuori le temperature si abbassano. In inverno cercate di uscire di casa con uno strato di vestiti in meno.
Mettetevi alla prova sentendo sempre leggermente freddo.
Esistono molti metodi per adattarsi, ma alla base di tutti c’è l’esposizione graduale e non traumatica, questo vi permetterà di aumentare la resistenza al freddo senza compromettere la salute.
Il metodo Wim Hof è un protocollo sviluppato proprio per trarre i benefici maggiori da tale, potentissimo, elemento.
“Licurgo dispose, per evitare che i loro corpi perdessero vigore nell’effeminatezza dell’abbigliamento, l’abitudine ad indossare ad un’unica veste per tutto l’anno, convinto che in tal modo sarebbero stati meglio preparati a far fronte sia al freddo che al caldo.
Senofonte, Costituzione degli Spartani”
Correre e allenarsi al freddo
Se siete amanti della corsa potrete sviluppare un’ottima resistenza alle basse temperature semplicemente applicando lo stesso principio spiegato nel paragrafo precedente: allenatevi con indumenti leggeri. La contrazione muscolare è, come abbiamo visto in precedenza, altamente inefficiente, pertanto svilupperà tantissimo calore. Andare a correre in maglietta e pantaloncini quando fuori ci sono 5° sarà fastidioso solo nei primi minuti, dopo pochi km i vostri muscoli produrranno una quantità di calore sufficiente a mantenervi caldi durante tutto l’allenamento. Un fattore importantissimo da curare durante la corsa al freddo è la respirazione: esclusivamente nasale e diaframmatica, al massimo utilizzate la bocca solo per espirare.
Il naso riscalda ed umidifica l’aria, inoltre nella cavità nasale viene prodotta una buona quantità di ossido nitrico, il quale aiuterà il sangue caldo a raggiungere le estremità più fredde.
Respirare con la bocca espone il cavo oro-faringeo alle basse temperature, questo causerà vasocostrizione ed un abbassamento locale delle difese immunitarie, aumentando il rischio di infezioni.
Consiglio: durante gli allenamenti al freddo indossate sempre calzini caldi, guanti e cappello.
Allenarsi e sollevare pesi al freddo
Un allenamento di tipo anaerobico ha un impatto diverso sulla muscolatura rispetto all’aerobico. I muscoli si contraggono in maniera più intensa ma per un lasso di tempo inferiore. Questa modalità di allenamento non produce una grande quantità di calore in eccesso.
Una possibile strategia da adottare per adattarsi alle basse temperature durante gli allenamenti con i pesi è quella di vestirsi leggeri, ma a strati.
Durante il riscaldamento generico, quando la temperatura corporea aumenta iniziate a liberarvi di uno strato di vestiti, mantenendo sempre quella lieve sensazione di freddo.
I benefici del freddo
I benefici maggiori di una costante esposizione al freddo sono sicuramente quelli a livello cardo-vascolare ed immunitario.
Il passaggio dal freddo al caldo e viceversa funziona come una ginnastica per i vasi sanguigni, essi reagiscono al cambio di temperatura dilatandosi e stringendosi.
Grazie a questa alternanza l’apparato circolatorio si elasticizza migliorando valori come la pressione arteriosa e abbassando il rischio di malattie cardi-vascolari.
In uno studio del 2016 si è visto che la pratica giornaliera di docce fredde della durata di 30/90 secondi riduce gli episodi di malattie infettive come raffreddore ed influenza.
Il sistema immunitario trae giovamento dal freddo per due importanti motivi:
l’esposizione al freddo aumenta il numero di globuli bianchi.
L’esposizione al freddo riduce gli stati di infiammazione cronica grazia al suo effetto soppressivo nei confronti delle citochine pro-infiammatorie (i messaggeri del sistema immunitario) ed aumenta il numero di citochine anti-infiammatorie.
Un altro modo per sfruttare gli effetti benefici del freddo è quello di fare la doccia fredda DOPO l’allenamento, così facendo i metaboliti della contrazione verranno smaltiti più in fretta, velocizzando il recupero.
Il freddo è una forza incredibile, può uccidere e fortificare allo stesso tempo.
Il modo migliore per dominarlo è quello di esercitarsi tutti i giorni con la giusta dose di stimolo.
All’inizio, esporsi alle basse temperature, richiederà una buona dose di coraggio, ma la sensazione di benessere che ne conseguirà dopo vi premierà dell’audacia.
Bibliografia
The Effect of Cold Showering on Health and Work: A Randomized Controlled Trial. Geert A. Buijze, PLoS One. 2016
Voluntary activation of the sympathetic nervous system and attenuation of the innate immune response in humans. Proc Natl Acad Sci U S A. 2014. Kox M1, van Eijk L
Frequent extreme cold exposure and brown fat and cold-induced thermogenesis: a study in a monozygotic twin. Vosselman MJ. PLoS One. 2014
“Brain over body”-A study on the willful regulation of autonomic function during cold exposure. Muzik, Reilly. Neuroimage. 2018
La spalla è una delle articolazioni più complesse del corpo umano e per questo anche più soggetta ad infortuni e dolori. La spalla è un’articolazione capace di eseguire moltissimi movimenti che permettono di svolgere attività di tutti i giorni e gesti sportivi specifici che coinvolgono l’arto superiore. In questo articolo approfondiamo l’anatomia della spalla, scopriamo quali sono i muscoli che ne permettono i movimenti e in ultimo vediamo come queste strutture possono andare incontro a quadri patologici di natura traumatica, degenerativa e infiammatoria.
Anatomia della spalla
La spalla è un complesso articolare che prende vita grazie all’insieme di quattro ossa: la parte prossimale dell’omero, la scapola, la clavicola e lo sterno. Queste quattro ossa distinte concorrono a formare quattro articolazioni distinte che insieme formano tutto il complesso articolare della spalla. Le quattro articolazioni principali della spalla sono:
la sterno-clavicolare, formata dallo sterno e dall’estremità mediale della clavicola;
la acromion-claveare, formata dall’acromion della scapola e dall’estremità laterale della clavicola;
la scapolo-toracica, formata dalla scapola che giace sulla gabbia toracica posteriormente;
la gleno-omerale, formata dalla glena della scapola e dalla testa dell’omero.
La sinergia di movimento tra queste quattro articolazioni permette alla spalla di compiere movimenti di grande ampiezza lungo tutti i piani.
L’articolazione sterno-clavicolare è rinforzata anteriormente e posteriormente dai legamenti sterno-clavicolari, dal legamento interclavicolare e dal legamento costo-clavicolare che appunto unisce la prima costa con la clavicola. Tramite questa articolazione la clavicola è in grado di eseguire movimenti di elevazione e depressione, protrazione e retrazione e rotazione intorno al proprio asse. L’insieme di questi movimenti contribuisce alla buona riuscita dei movimenti globali del cingolo scapolare.
L’articolazione acromion-claveare possiede delle superfici articolari pressoché piatte ed è rinforzata da legamenti superiori e inferiori e dal cosiddetto legamento coraco-clavicolare che si divide in due fasci robusti: il legamento trapezoide, più laterale, e il legamento conoide, più mediale. A questo livello avvengono piccoli movimenti di rotazione e aggiustamento che supportano i movimenti della scapola che tra poco vedremo e che risultano determinanti per il sollevamento dell’intero braccio sopra la testa.
Articolazioni sterno-claveare e acromion-claveare
L’articolazione scapolo-toracica non è un’articolazione vera e propria non essendo composta da superfici articolari ricoperte di cartilagine. È invece un piano di scorrimento anatomico tramite il quale la scapola giace letteralmente sulla cassa toracica, dalla quale è separata da uno strato di muscoli comprendente il muscolo sottoscapolare, il gran dentato e gli erettori spinali. In posizione anatomica la scapola è posizionata sul torace secondo coordinate spaziali ben precise che possono variare leggermente a seconda della postura del soggetto: essa si ritrova estesa tra la seconda e la settima costa, distante circa 6-7 cm dalla colonna e leggermente rivolta verso l’avanti secondo un piano specifico di movimento, detto piano scapolare, che in media forma un angolo di 30° con il piano frontale. È lungo questo piano che generalmente avvengono la maggioranza dei movimenti della spalla. La scapola, quale osso triangolare posto sul torace, può compiere numerosi movimenti lungo tutti i piani. È infatti in grado di effettuare movimenti di elevazione e depressione, di adduzione e abduzione (avvicinandosi e allontanandosi dalla colonna), di rotazione craniale e rotazione caudale (la scapola “guarda verso l’alto o verso il basso), di rotazione interna ed esterna (movimento di scapole alate e non alate) e di tilt anteriore (spalle in avanti) e tilt posteriore (bascula in avanti e indietro in visione laterale).
Articolazioni scapolo-toracica e gleno-omerale
L’articolazione gleno-omerale è forse la più famosa del complesso articolare della spalla. Essa si compone dall’incastro tra la convessità della testa dell’omero e la leggera concavità della glena della scapola. La glena della scapola è rivolta in avanti e lateralmente, mentre la testa dell’omero è rivolta medialmente e posteriormente (retroversione omerale). L’articolazione è rinforzata da una robusta capsula articolare anteriore, inferiore e posteriore e da legamenti importanti tra i quali il legamento gleno-omerale e il legamento coraco-omerale. La discreta instabilità dettata dalla forma delle superfici articolari (la testa dell’omero è molto più estesa e convessa della concavità della glena della scapola) è parzialmente compensata da un labbro o cercine glenoideo, un anello fibrocartilagineo che ha la funzione di aumentare la concavità della glena e favorire una maggiore stabilità dell’articolazione. A supportare ulteriormente la stabilità articolare viene in soccorso anche un complesso muscolare fondamentale come la cuffia dei rotatori. La cuffia dei rotatori è formata da quattro muscoli che per loro localizzazione letteralmente abbracciano la testa dell’omero favorendone la stabilità nella glena grazie alla loro contrazione. Questi muscoli sono il piccolo rotondo, il sottospinato, il sovraspinato e il sottoscapolare. Alcuni autori considerano parte attiva della cuffia anche il tendine del capo lungo del bicipite brachiale il quale, per via del suo decorso sopra la testa dell’omero, contribuisce in maniera determinante alla stabilità articolare. I movimenti dell’articolazione gleno-omerale permettono al braccio di orientarsi in ogni direzione della spazio e prendono vita grazie al contributo anche delle altre articolazioni. Questi movimenti verranno analizzati nel prossimo paragrafo.
Legamenti e muscoli stabilizzatori
Alcuni autori inseriscono una quinta articolazione all’interno del complesso della spalla: l’articolazione acromion-omerale. Questa articolazione non possiede superfici articolari vere e proprie ma può essere considerata anch’esso un piano di scorrimento anatomico. Esso mette in stretta relazione omero e acromion a formare il cosiddetto spazio sub-acromiale delimitato appunto da omero, acromion e dal legamento coraco-acromiale. All’interno di questo spazio sono presenti alcuni tessuti tra cui il tendine del muscolo sovraspinato, la borsa sub-acromiale, il capo lungo del bicipite e parte della capsula superiore. Lo spazio sub-aromiale nell’adulto ha un’ampiezza di circa 1 cm quando il braccio è lungo il corpo e tale ampiezza può variare a seconda del movimenti. L’ampiezza in questione se ridotta eccessivamente può alla lunga creare pressioni e stress eccessivi sui tessuti sfociando in sindromi dolorose come la periartrite scapolo omerale, la lesione della cuffia dei rotatori e la borsite. La borsa in particolare è spesso protagonista di quadri infiammatori. A questo livello inoltre è presente una seconda borsa tra il sovraspinato e il muscolo deltoide chiamata borsa sotto-deltoidea. Le borse sono estensioni della membrana sinoviale dell’articolazione che fungono da strutture in grado di diminuire gli attriti in alcuni punti cruciali soggetti a eccessiva frizione e potenzialmente più a rischio infiammazione. Se la borsa si infiamma può gonfiarsi ed evocare dolore in un quadro di borsite.
Movimenti e muscoli della spalla
La spalla nel suo complesso è in grado di effettuare movimenti lungo tutti i piani attraverso i muscoli della spalla. La gleno-omerale in particolare grazie alla sua morfologia permette di portare il braccio sopra la testa, dietro la schiena e davanti al tronco in un’infinità di combinazioni che permettono innumerevoli attività di vita quotidiana. L’articolazione gleno-omerale è la protagonista in questione ma la sua funzionalità non può esprimersi al massimo del potenziale senza il determinante contributo delle altre articolazioni. Vediamo come tutto ciò diventa possibile.
L’articolazione gleno-omerale è in grado di compiere quattro coppie di movimenti lungo tre differenti piani.
Il movimento di abduzione permette al braccio di allontanarsi lateralmente dal corpo e avviene lungo il piano frontale. Ha un’ampiezza di 180°. L’escursione completa è garantita da movimenti omerali e scapolari. In particolare i movimenti omerali sono garantiti dal muscolo deltoide e dal sovraspinato che permettono all’omero di ruotare verso l’alto, e dalla cuffia dei rotatori che stabilizza e fa scivolare l’omero permettendo un’ottimale allineamento con la scapola. I movimenti scapolari, che sono favoriti dai movimenti della clavicola, permettono di portare il braccio sopra la testa. Nella fattispecie la scapola ruota verso l’alto e si eleva leggermente grazie all’azione del muscolo trapezio superiore e dentato anteriore. Nella fase finale del movimento l’escursione è completata da un movimento di estensione toracica che è limitato in caso di ipercifosi. In generale possiamo dire che l’abduzione è governata da un ritmo scapolo-omerale di 2:1 con la prima parte del movimento caratterizzata dal movimento omerale e la seconda parte del movimento caratterizzata da movimenti scapolari. Dei 180° totali possiamo dire che 120° sono determinati dall’omero e 60 dalla scapola e dalla clavicola assieme.
Il movimento di adduzione permette al braccio di avvicinarsi al corpo e avviene lungo il piano frontale. Ha un’ampiezza di pochi gradi solo quando associata alla flessione o all’estensione (braccio davanti o dietro al corpo). Il movimento è garantito da numerosi e potenti muscoli tra i quali il gran dorsale, il gran pettorale e il grande rotondo.
Adduzione e abduzione possono avvenire anche lungo il piano trasversale quando portiamo rispettivamente il braccio davanti e dietro al tronco mantenendolo sollevato all’altezza della spalla. Hanno un’ampiezza di 140° e 30°. Il movimento di adduzione orizzontale è garantito dal gran pettorale, mentre il movimento di abduzione orizzontale dal muscolo deltoide posteriore.
Il movimento di flessione permette al braccio di sollevarsi davanti al corpo e avviene lungo il piano sagittale. Ha un’ampiezza di 180°. Il movimento è garantito muscoli come il deltoide anteriore, il gran pettorale con i suoi fasci più alti e il bicipite brachiale. Il movimento di estensione permette invece al braccio di sollevarsi dietro al corpo e avviene anch’esso lungo il piano sagittale. Ha un’ampiezza di 50°. Il movimento è garantito muscoli come il deltoide posteriore, il gran pettorale con i suoi fasci più bassi, il tricipite brachiale, il gran dorsale e il grande rotondo.
Il movimento di rotazione esterna avviene lungo il piano trasversale e si valuta a gomito flesso a 90°. Prevede di portare l’avambraccio verso l’esterno partendo con il gomito lungo il fianco. Ha un’ampiezza di 80°. Il movimento è garantito muscoli come il deltoide posteriore, il piccolo rotondo, il sovraspinato e il sottospinato. Il movimento di rotazione interna avviene lungo il piano trasversale e si valuta a gomito flesso a 90°. Prevede di portare l’avambraccio verso l’interno davanti alla pancia partendo con il gomito lungo il fianco. Ha un’ampiezza di 100° che per essere completata necessita di portare il braccio dietro alla schiena. Il movimento è garantito muscoli come il gran pettorale, il gran dorsale, il grande rotondo e il sottoscapolare.
Dolore alla spalla
La spalla è un’articolazione tanto affascinante quanto sofisticata. Anche per questo è molto soggetta a problematiche di varia natura che possono sfociare in sindromi dolorose. Il dolore alla spalla è un’eventualità che può colpire tutti, dal sedentario allo sportivo, e che prima di essere adeguatamente trattata va diagnosticata e inquadrata attraverso l’intervento di un medico e di un professionista sanitario. In generale, la spalla può andare incontro a condizioni dolorose dalle cause differenti. Esse possono essere di natura traumatica, come nel caso di una frattura dell’omero o di una lussazione di spalla, oppure di natura infiammatoria/degenerativa, come per esempio la lesione della cuffia dei rotatori, l’impingement, la periartrite scapolo omerale o la borsite.
Ovviamente in caso di trauma con impatto laterale sulla spalla in soggetti anziani o osteoporotici un dolore alla spalla può essere un campanello di allarme per una frattura dell’omero prossimale. Le fratture a un frammento sono le più frequenti e prevedono una terapia conservativa con reggi braccio per 30 giorni e fisioterapia. Per le fratture a due, tre o quattro parti la terapia dipende da tipo di frattura, condizioni del paziente e qualità dell’osso e sarà conservativa o chirurgica con mezzi di sintesi o protesi.
Periartrite spalla
La periartrite spalla è una delle principali cause di dolore alla spalla ed è una condizione che può includere diagnosi come la tendinite spalla, tendinopatia della cuffia dei rotatori, la tendinopatia con calcificazione, la lesione della cuffia dei rotatori, le borsiti, la lesione del sovraspinato, la lesione del capo lungo del bicipite. Tutte queste diagnosi sono possono essere racchiuse a loro volta in una manifestazione clinica chiamata impingement. La diagnosi è di pertinenza medica ed eseguita attraverso esami come ecografia e risonanza magnetica. La periartrite è caratterizzata spesso da un quadro infiammatorio prima e degenerativo poi che può essere causato da fattori legati all’invecchiamento o all’uso eccessivo dei tendini della cuffia, oppure a cause legate più strettamente alla funzionalità come per esempio una rigidità articolare, una ridotta forza della cuffia dei rotatori e dei muscoli scapolari, una postura scorretta in ipercifosi. Spesso è un mix di più fattori a determinare nel lungo periodo usura articolare e dolore.
Per curare la periartrite è necessaria un’attenta valutazione medico-fisioterapica volta a individuare le cause del dolore. Generalmente in una fase acuta ghiaccio e riposo possono aiutare a risolvere il quadro infiammatorio, ma il consiglio è di riprendere a muovere la spalla appena il dolore diminuirà spontaneamente di intensità evitando movimenti eccessivamente dolenti. I principi riabilitativi prevedono un sovraccarico progressivo, fornendo alla spalla via via stimoli sempre maggiori per riabituarla e rieducarla al movimento e al carico. È fondamentale inoltre ripristinare la forza e la resistenza dei muscoli della cuffia dei rotatori e dei muscoli stabilizzatori scapolari come il trapezio e il dentato anteriore, attraverso esercizi mirati come le extrarotazioni con elastico o manubrio e le aperture a pancia in giù. Alcune disfunzioni ulteriori della spalla possono essere trattate con stretching o esercizi di mobilizzazione allo scopo di prevenire possibili recidive. Sarà importante poi una volta guariti mantenere il livello funzionale raggiunto attraverso un allenamento in palestra costante che mantenga mobilità articolare e forza muscolare.
Borsiti spalla
Le borsiti della spalla sono infiammazioni delle borse sierose che contraddistinguono questa come altre articolazioni. Le borse nella spalla servono a lubrificare l’articolazione e a diminuire gli attriti interni in punti critici. Se una o più borse si infiammano, la produzione di liquido infiammatorio può aumentare la grandezza della borsa e ridurre la funzionalità e il movimento della spalla. Normalmente una borsite alla spalla viene causata da un eccessivo sovraccarico che può essere tipico di molti sport come il tennis, il nuoto, il baseball o il bodybuilding. Esistono poi come per la periartrite spalle possibili cause funzionali come la rigidità articolare o una postura scorretta che è importante indagare con un fisioterapista per trattarle e favorire così una guarigione duratura priva di recidive future. La borsa più colpita da infiammazione nella spalla è quella sub-acromiale.
Lussazione spalla
Come abbiamo visto la spalla è un’articolazione tanto mobile quanto instabile. Per questo non sono rari i casi di lussazione traumatica di spalla. La lussazione è da definizione la perdita permanente del rapporto anatomico tra le due superfici articolari, in questo caso omero e scapola. È il classico caso del “mi è uscita la spalla!”. Scapola e testa dell’omero perdono completamente contatto ed è necessaria una manovra (a carico del personale sanitario riconosciuto) per la riduzione della lussazione e il ripristino della normalità articolare. Essenzialmente una spalla può lussarsi in conseguenza di un trauma diretto (di solito durante sport di contatto quando abbiamo il braccio sollevato e riceviamo un colpo verso l’indietro), oppure per via di un suo uso ripetuto, o ancora per un quadro di lassità dei legamenti. Tutti questi fattori a modo loro possono portare a un quadro di instabilità e quindi a un aumentato rischio lussazione.
In assoluto la lussazione di spalla anteriore è la più frequente ed è spesso riscontrata da sola talvolta in seguito a un trauma, mentre quella posteriore la meno frequente. Tendenzialmente soggetti giovani tra i 15 e i 25 anni impegnati in sport da contatto sono fortemente a rischio per future recidive e spesso in questi casi si consiglia l’intervento chirurgico. Viceversa, soggetti meno giovani tra i 25 e i 40 anni o sopra i 40 anni, specie se non sono impegnati in attività sportive a rischio, hanno una possibilità di recidiva enormemente più bassa, e per questo la terapia conservativa basata sulla fisioterapia e sugli esercizi è generalmente quella d’elezione. La fase riabilitativa seguente al trauma e all’eventuale intervento inizia con un periodo di alcune settimane di immobilizzazione della spalla, condizione utile a favorire la guarigione dei tessuti peri-articolari. Successivamente il trattamento fisioterapico si baserà sul ripristino della normale funzionalità della spalla in termini di mobilità, forza e stabilità.
Il gomito è una delle principali articolazioni che compone l’arto superiore insieme alla spalla e al polso. Il gomito è un’articolazione capace di eseguire movimenti che permettono di svolgere attività di tutti i giorni e gesti sportivi specifici che coinvolgono il braccio, come per esempio il lancio di una palla o il portarsi il cibo alla bocca. In questo articolo approfondiamo l’anatomia del gomito, scopriamo quali sono i muscoli che ne permettono i movimenti e in ultimo vediamo come queste strutture possono andare incontro a quadri patologici di natura traumatica, degenerativa e infiammatoria.
Anatomia del gomito
Il gomito è un complesso articolare che prende vita grazie all’insieme di tre ossa del braccio: la parte distale dell’omero e la parte prossimale di ulna e radio. Queste tre ossa distinte che uniscono braccio e avambraccio concorrono a formare tre articolazioni distinte che insieme formano l’articolazione del gomito. Le tre articolazioni del gomito sono:
l’omero-ulnare, formata dall’estremità distale dell’omero e dall’estremità prossimale dell’ulna;
l’omero-radiale, formata dall’estremità distale dell’omero e dall’estremità prossimale del radio;
la radio-ulnare prossimale, formata dalle estremità prossimali di radio e ulna.
La sinergia di movimento tra queste tre articolazioni permette al gomito di compiere movimenti di flessione ed estensione, e di pronazione e supinazione dell’avambraccio (con l’aiuto dell’articolazione radio-ulnare distale a livello del polso).
L’articolazione omero-ulnare possiede due superficie articolari ad incastro: la troclea omerale e l’olecrano dell’ulna. L’articolazione si trova all’interno della capsula articolare ed è caratterizzata da un legamento collaterale mediale che contribuisce alla stabilità trasversale del gomito, opponendosi alle forze impresse sull’avambraccio in senso laterale. L’articolazione omero-radiale possiede due superfici articolari: la convessità del condilo omerale posto lateralmente (una mezza sfera) e la concavità della testa del radio. L’articolazione si trova anch’essa all’interno della capsula articolare ed è caratterizzata da un legamento collaterale laterale che contribuisce alla stabilità trasversale del gomito, opponendosi alle forze impresse sull’avambraccio verso l’interno. Infine l’articolazione radio-ulnare prossimale è formata da una depressione laterale dell’ulna chiamata incisura radiale che accoglie proprio l’estremità del radio. La testa del radio viene stabilizzata in maniera determinante dal legamento anulare, un anello fibroso ricoperto internamente da cartilagine che abbraccia letteralmente la testa del radio e la mantiene a contatto con l’ulna formando con essa un anello osteo-fibroso. A completare il “pacchetto” articolare contribuisce anche il legamento quadrato che si estende dalla parte inferiore dell’incisura radiale dell’ulna, fino al collo del radio.
Movimenti e muscoli del gomito
Il gomito è in grado di effettuare una coppia di movimenti lungo un solo piano attraverso i muscoli del gomito. I movimenti in questione che analizzeremo sono la flessione e l’estensione. Inoltre, con l’aiuto dell’articolazione radio-ulnare distale contribuisce ai movimenti di pronazione e supinazione dell’avambraccio, portando il palmo della mano rispettivamente verso il basso e verso l’alto. Le due coppie di movimenti garantiscono attività importanti di vita quotidiana come portare il cibo alla bocca, raggiungere o spingere un oggetto distante da noi. Vediamo come tutto ciò diventa possibile.
Il movimento di flessione permette alla mano di sollevarsi avvicinando le ossa dell’avambraccio all’omero. La flessione avviene lungo il piano sagittale e ha un’ampiezza di 145°. A limitare il movimento vi sono fattori ossei strutturali, la tensione dei tessuti posteriori e dei muscoli estensori. Il movimento è garantito principalmente da muscoli come il bicipite brachiale e il brachiale.
Il movimento di estensione permette alla mano di raggiungere oggetti lontano da noi allontanando le ossa dell’avambraccio e dell’omero. L’estensione avviene lungo il piano sagittale e ha un’ampiezza nei soggetti molto mobili di 5°, mentre consideriamo la posizione neutra a 0°. A limitare il movimento vi sono fattori ossei e tissutali, con la tensione della capsula anteriore e dei muscoli flessori. Il movimento è garantito da muscoli come il tricipite brachiale e l’anconeo.
Dolore al gomito
Il gomito può essere protagonista di traumi e dolore. Il dolore al gomito può derivare da cause differenti e talvolta difficili da inquadrare. Innanzitutto il gomito può riferire dolore dopo un trauma (un colpo o una caduta), nel quale l’articolazione può nei casi migliori subire una contusione e nei peggiori presentare una frattura del gomito o una lussazione del gomito. Il gomito può inoltre essere protagonista di un dolore riferito causato da articolazioni più lontane come per esempio una periartrite alla spalla o una problematica come l’ernia cervicale o l’artrosi cervicale. In caso di dolore al gomito privo di trauma e concomitante a un dolore alla spalla o alla cervicale è necessaria sicuramente una visita specialistica per cercare di inquadrare al meglio il problema e indirizzare il trattamento verso la reale struttura che causa il dolore al gomito (spalla, cervicale).
Il dolore ai gomiti può infine insorgere da cause di natura infiammatoria o degenerativa. In questo senso abbiamo due quadri differenti. Un quadro di artrosi del gomito può riferire dolore e rigidità articolare conseguente a una degenerazione delle superfici articolari e della cartilagine che le ricopre. Questa condizione è tipica dei soggetti più anziani. Altri quadri infiammatori/degenerativi possono invece coinvolgere alcuni tendini che proprio nei pressi del gomito trovano il loro punto di inserzione. Parliamo, nella fattispecie, del dolore laterale al gomito, chiamato anche epicondilite o gomito del tennista, che colpisce i tendini dei muscoli estensori del polso inseriti sull’epicondilo, e del dolore interno del gomito, chiamato anche epitrocleite o gomito del golfista, che colpisce i tendini dei muscoli flessori del polso inseriti sull’epitroclea.
In entrambi i casi siamo possiamo essere in presenza di una tendinopatia inserzionale dei tendini in questione, condizione che è generalmente causata da un eccessivo lavoro dei muscoli dell’avambraccio che muovono il polso e le dita. Sono tipicamente colpite le persone che svolgono lavori manuali e ripetitivi come muratori, elettricisti, falegnami, ma lo possono essere anche soggetti sedentari che lavorano al computer tutto il giorno. Non sono esenti da questo tipo di problematiche anche giovani sportivi, come per esempio i tennisti, i bodybuilder, i lanciatori, i golfisti, nella cui disciplina è richiesto un iper lavoro di questi muscoli che può favorire un quadro degenerativo e doloroso dei tendini inseriti sul gomito. Generalmente un dolore al gomito nato in assenza di trauma, molto localizzato laterale o interno, evocato effettuando una presa e conseguente a un’intensa attività manuale (lavorativa o sportiva) può essere ricondotta all’epicondilite o all’epitrocleite.
Dolore nella parte interna del gomito detto anche epitrocleite
Il dolore interno del gomito può essere anche causato da una lesione del legamento collaterale ulnare del gomito e una problematica al nervo ulnare, che in questi casi può dare anche sintomi all’avambraccio e alle ultime dita della mano come formicolio e intorpidimento. Il dolore laterale al gomito può anche essere dovuto a una problematica cervicale o al nervo radiale. Per questo è sempre consigliata una visita specialistica che possa individuare le cause di dolore prima di affidarsi a qualsiasi tipo di cura.
Gomito del tennista o epicondilite
Il gomito del tennista, detto anche epicondilite del gomito è la principale causa di dolore laterale al gomito. L’epicondilite viene chiamata anche tendinopatia laterale del gomito, ed è una tendinopatia inserzionale dei muscoli estensori del polso e delle dita, inseriti anatomicamente proprio a livello dell’epicondilo laterale dell’omero. A dispetto del nome e del suo suffisso -ite, che richiama a un’infiammazione, il quadro è prettamente degenerativo e caratterizzato da alterazione dei tendini degli estensori del carpo e delle dita.
Come per tutte le tendinopatie che possono affliggere il corpo umano, le cause possono essere ricercate in uno squilibrio tra lavoro dei muscoli estensori, e capacità di recupero dei muscoli stessi. I muscoli in questione sono utilizzati durante attività che coinvolgono una presa. Ne soffrono quindi maggiormente persone che svolgono lavori manuali ripetitivi come elettricisti e musicisti. Il gomito del tennista generalmente ha una manifestazione tipica. Questa è caratterizzata da dolore alla pressione laterale sul gomito, dolore nell’effettuare una presa e dolore nell’effettuare l’estensione del polso contro una resistenza esterna. La diagnosi è sempre di pertinenza medica. Da un punto di vista della prognosi, nell’85% circa dei casi il dolore svanisce spontaneamente entro un anno ed è caratterizzato da frequenti recidive e riacutizzazioni del dolore. Il restante 15% può andare incontro invece a quadri cronici che perdurano per oltre un anno.
Dolore laterale sul gomito detto anche epicondilite
Come rimedi utili per l’epicondilite possiamo avere due possibilità.
Se il dolore laterale al gomito è presente da poche settimane (6-12) ed è nato dopo un’attività manuale intensa e nuova (come può essere una nuova scheda più “pesante” in palestra o anche un’attività lavorativa o di vita quotidiana manuale fuori dall’ordinario svolta di recente), è consigliabile una gestione basata sul riposo, antinfiammatori, ove possibile sulla ricalibrazione delle attività lavorative e quotidiane, e sulla modificazione del dosaggio di allenamento negli esercizi di presa. Il rientro all’attività supporterà la guarigione spontanea e sarà graduale e in funzione del miglioramento del dolore, evitando i movimenti e le attività che lo evocano. Associate esercizi mirati di rinforzo e allungamento con carico graudale.
Se il dolore laterale al gomito è presente da più di 3 mesi, e soprattutto se è cronico e presente da oltre un anno, è utile un approccio multiplo e personalizzato, con l’associazione di terapia manuale, esercizi per l’epicondilite, tutore per epicondilite e una corretta gestione del carico sui muscoli estensori del polso. Ovviamente starà alla figura professionale di riferimento stabilire le strategie più utili nei vari casi. Per ciò che riguarda un dolore insorto durante l’allenamento in palestra, è necessario allenarsi “attorno al dolore”, non sovraccaricando il gomito colpito e dando tempo di agire ai provvedimenti terapeutici. Una volta scomparso il dolore è necessario programmare una fase di riatletizzazione adeguata.
Borsite gomito
La borsite del gomitoè un’infiammazione della borsa che è situata a livello dell’olecrano dell’ulna, un osso del gomito posteriore sull’articolazione del gomito. Le borse a livello articolare hanno la funzione di cuscinetto che attutisce e neutralizza gli attriti a livello di strutture delicate come tendini e legamenti. Le borse hanno forma piatta e sono caratterizzate dalla presenza fisiologica di liquido sinoviale al loro interno. Se la borsa si infiamma diventa più gonfia, aumenta il liquido al suo interno e può divenire anche visibile posteriormente sul gomito. Tra le cause di borsite al gomito possiamo avere un trauma posteriore, una pressione sul gomito costante e prolungata come per esempio su un tavolo, una scrivania o sul pavimento, un’infezione conseguente a un taglio o l’artrite reumatoide.
La borsite al gomito è caratterizzata da gonfiore e dolore posteriore
Generalmente una borsite non necessita di esami di approfondimento e la diagnosi medica avviene grazie all’anamnesi, all’analisi dei sintomi, della storia e del gomito dolente. I sintomi tipici sono il dolore al gomito specie posteriore, il gonfiore del gomito e la conseguente rigidità dei movimenti. Il trattamento è in genere conservativo con riposo, ghiaccio, antinfiammatori, antibiotici in caso di infezione, sospensione dell’attività che sviluppa dolore, l’utilizzo eventuale di un cuscinetto in caso di borsite da compressione. Nei casi più gravi e resistenti al trattamento si ricorre alla chirurgia con la rimozione della borsa infiammata.
L’HIIT (High Intensity Interval Training) è un’attività adatta all’essere umano e che vantaggi porta alla nostra composizione corporea (se ci fa dimagrire e “tonificare”). Un articolo che descrive tutto quello che c’è da sapere di scientifico su questa attività, dando spunti pratici ed esempi di allenamenti (workout) pratici per ricollegare la teoria all’allenamento quotidiano.
“There are two contrary impulses which govern this man’s brain. The one sane, and the other eccentric. They alternate at regular intervals.” – Franz Shubert.
Articolo del Dott Davide Marchese
Che cos’è l’HIIT (High Intensisy Interval Training)?
L’ High Intensity Interval Training (HIIT) descrive una modalità di esercizio caratterizzata da brevi e intermittenti esplosioni di vigorosa attività, inframezzate da periodi di riposo o di bassa intensità. Le modalità di esecuzione, così come gli adattamenti fisiologici indotti da questa forma di esercizio, sono variabili in relazione ad una molteplicità di fattori, quali la precisa natura dello stimolo utilizzato, l’ intensità, la durata e il numero degli intervalli eseguiti, così come anche la durata e il pattern di attività durante le fasi intercritiche di riposo (tra un burst e l’ altro). Le variabili coinvolte in un protocollo HIIT sono molteplici e sono elencate nella Tabella 1.
“Se qualcosa non può essere espresso in numeri non è scienza: è opinione”.. diceva Robert Anson Heinlein.
Se correlato ad un tradizionale training di resistenza l’ HIIT si è dimostrato superiore nell’ indurre alterazioni positive a carico dei markers di performance e salute-correlati, sia nella popolazione sana che affetta da patologia (Wisloff et al. 2007; Tjonna et al. 2009; Hwang et al. 2011). Burgomaster et al (2008) e Gibala et al (2006) hanno dimostrato che solo 2 settimane di HIIT sono in grado di determinare un aumento della capacità ossidativa del muscolo scheletrico, come dimostrato sia da un incremento dell’ attività massimale che dall’ aumento del contenuto di enzimi mitocondriali. In aggiunta all’ aumento della capacità ossidativa, altri adattamenti documentati nel muscolo scheletrico dopo alcune settimane di HIIT sono stati:
– un aumento del contenuto di glicogeno a riposo,
– una riduzione del tasso di utilizzo del glicogeno e della produzione di lattato durante l’ esercizio,
– un incremento della capacità (sistemica e del muscolo scheletrico) di ossidazione dei lipidi,
– un miglioramento a carico di struttura e funzione del sistema vascolare periferico,
– un miglioramento della performance (misurata mediante “time-to-exhaustion” test),
– un aumento dell’ uptake massimale di ossigeno
(Burgomaster et al. 2005, 2008; Gibala et al. 2006; Rakobowchuk et al. 2008).
Senza dubbio la capacità dell’ HIIT di rimodellare il muscolo scheletrico è da mettersi in relazione con l’elevata capacità di reclutamento delle fibre (soprattutto le fibre di tipo II) e una buona parte dei meccanismi molecolari responsabili delle alterazioni (biochimiche e strutturali) del muscolo scheletrico nel training intervallato ad alta intensità risiedono nella sua capacità di incrementare la capacità mitocondriale, come dimostrato dall’influenza che il training intervallato ad alta intensità esplica sul (PGC)-1α (recettore attivato dai proliferatori dei perossisomi gamma) che è considerato il principale regolatore della biogenesi mitocondriale nel muscolo scheletrico. I mitocondri sono organuli deputati alla produzione di energia nelle cellule, e un aumento del loro numero e della loro funzione si rifletterà in un miglioramento della capacità di produrre energia, in particolare con l’avanzare dell’ età (la funzionalità mitocondriale si riduce con il passare degli anni).
Alcuni lavori (Norrbom et al. 2004; Egan et al. 2010) dimostrano che pochi minuti di HIIT provocano un aumento dell’ espressione di RNA messaggero del (PGC)-1α del tutto paragonabile a quello indotto dall’esercizio di resistenza continuativo. L’ aumento della concentrazione nucleare di (PGC)-1α osservato dopo HIIT coincide con l’incremento della espressione di RNA messaggero di numerosi geni mitocondriali, suggerendo che questi picchi di attività ad alta intensità inducano modifiche a carico della espressione mitocondriale (Little et al, 2011). I processi a monte in grado di attivare (PGC)-1α e la biogenesi mitocondriale in risposta ad un training intervallato di alta intensità non sono stati completamente chiariti, ma è probabile che siano legati alla notevole variazione nel rapporto ATP:ADP/AMP in seguito all’ esercizio e alla concomitante attivazione della 5’-adenosina monofosfato protein-chinasi attivata (AMPK) (Gibala et al 2009, Little et al 2011). L’ attivazione della p38-protein chinasi di attivazione mitogena (MAPK), verosimilmente mediata da una aumentata produzione di specie reattive dell’ ossigeno (ROS) potrebbe altresì essere coinvolta (Gibala et al. 2006; Little et al. 2011).
Burgomaster et al (2008) hanno messo in evidenza che 6 settimane di HIIT incrementano la produzione di (PGC)-1α del 100% in soggetti sani. Date le evidenze che mettono in relazione modesti incrementi nella (PGC)-1α muscolare con il miglioramento a carico di capacità ossidativa, sistema di difesa anti-ossidante, uptake del glucosio, capacità di contrastare la sarcopenia età-correlata e i vari pathways anti-infiammatori (Sandri et al. 2006; Benton et al. 2008; Wenz et al. 2009), l’ incremento nella (PGC-1)α che fa seguito alle sedute di HIIT è alla base dell’ enorme potenziale di benefici che esso ha in termini di salute. In aggiunta, l’ HIIT è caratterizzato nel post-workout da una maggiore dissipazione di calorie rispetto ad un allenamento aerobico tradizionale: si definisce EPOC (Excess Post-exercise Oxygen Consumption) l’ incremento del metabolismo totale e del dispendio energetico che fa seguito alle ore successive all’ allenamento, e l’ HIIT ha un EPOC del 15% superiore rispetto ad un classico training aerobico. E’ stato investigato anche l’ impatto del training intervallato ad alta intensità sulla funzione e sulla struttura cardiovascolare: un periodo pari a sole 2 settimane di HIIT Wingate-Based (picchi di 30 secondi di cyclette ad altissima intensità separati da pochi minuti di recupero, ripetuti 4-6 volte) ha incrementato la capacità cardiorespiratoria, come riflesso dalla variazione del più alto valore di consumo di ossigeno raggiunto durante test da sforzo (VO2 di picco) (Whyteet al. 2010). Sembra inoltre che il training intervallato ad alta intensità sia superiore allo Steady State Training (allenamento aerobico a frequenza cardiaca costante) nell’ aumentare il VO2max: 8 settimane di HIIT hanno infatti portato ad un aumento del VO2max del 15%, rispetto al training aerobico prolungato (che ha indotto un incremento del 9%). Per approfondire leggi anche l’articolo: per dimagrire meglio il cardio o l’HIIT?
Poiché il miglioramento del VO2max è uno dei principali outcomes nei soggetti affetti da patologia cardiaca, l’ Interval Training ad Alta Intensità sta diventando parte integrante dei protocolli di riabilitazione cardiologica (Bartels MN et al – 2010). Richards et al, nel 2010 hanno dimostrato che 16 minuti di “Sprint Interval Training” ad alta intensità (32 sprints distribuiti in 2 settimane) sono stati in grado di determinare un significativo miglioramento della sensibilità insulinica. I meccanismi alla base della riduzione dell’ insulino-resistenza sono 1) un incremento dell’ efficienza dei sistemi enzimatici aerobici, 2) l’ aumento della biogenesi mitocondriale e 3) il miglioramento dell’ espressione del trasportatore del glucosio GLUT4 (Burgomaster et al. 2005, 2006, 2007, 2008; Gibala et al. 2006; Rakobowchuk et al. 2008; Babraj et al. 2009). Una evidenza indiretta del miglioramento della sensibilità insulinica è stato fornito dal lavoro di Babraj et al (2009) che ha dimostrato come un High Intensity Sprint Interval Training ha ridotto l’ ampiezza e la durata della risposta glicemica che segue all’ assunzione di una bevanda arricchita di glucosio. L’ HIIT riduce la glicemia basale, la glicemia post-prandiale, la sensibilità all’ insulina nel tessuto muscolare e adiposo e si è dimostrato efficace nell’ inibire, attraverso una riduzione dell’insulina circolante, il trasporto di acidi grassi nell’ adipocita, migliorando al contempo l’ espressione del Glut-4 sulla membrana cellulare (si pensi che O Peter Adams nel 2013 ha stimato un incremento delle proteine di trasporto del Glut-4 pari a 369% dopo sole 2 settimane di HIIT!) (Bonen et al – 2006; O Peter Adams – 2013). Un lavoro pubblicato nel 2014 ha dimostrato che 4 mesi di HIIT, svolto mediamente per 20 minuti 2 volte a settimana, non solo hanno portato ad un significativo miglioramento della capacità aerobica, ma anche al dato interessante di una ipertrofia muscolare a carico del muscolo grande psoas, della muscolatura della parete addominale antero-laterale e del quadricipite femorale; dunque 16 settimane di HIIT inducono incrementi della massa muscolare riguardanti sia la porzione inferiore che quella superiore del corpo(Y. Osawa, et al – 2014).
Scansioni assiali in Risonanza Magnetica Nucleare effettuate a livello del disco intervertebrale L3-L4 e del terzo medio diafisario di femore, prima (A,C) e dopo (B,D) un periodo di 16 settimane di HIIT. E’ evidente, nelle rilevazioni “post-training”, l’ ipertrofia muscolare del grande psoas e della muscolatura della parete addominale antero-laterale, nonché delle componenti del quadricipite femorale. Da: Effects of 16-week high-intensity interval training using upper and lower body ergometers on aerobic fitness and morphologycal changes in healthy men: a preliminary study. Y. Osawa, K. Azuma, Shogo Tabata, F. Katsukawa, H. Ishida, Y. Oguma, T. Kawai, H. Itoh, S. Okuda, H. Matsumoto. Journal of Sport Medicine 2014:5 257-265.
Un’ altra ricerca pubblicata sul Journal of Obesity ha riportato che 12 settimane di HIIT non solo possono risultare in una significativa riduzione del tessuto adiposo sottocutaneo a livello di addome e tronco oltre che di grasso viscerale, ma possono determinare un notevole incremento della massa magra (Heydari M. et al – 2012). Ancora, recentissimi lavori hanno messo in evidenza un marcato incremento della produzione endogena di HGH (Human Growth Hormon, un ormone con spiccata capacità lipolitica) al termine di una seduta di HIIT, con marcata riduzione della concentrazione di cortisolo plasmatico a lungo termine (Peake JM, 2014, Tsai CL et al 2014). Altre affascinanti evidenze pubblicate su Cell Metabolism hanno mostrato che picchi brevi e ripetuti di esercizio ad alta intensità producono immediati e misurabili variazioni nel DNA di soggetti sani e sedentari, e la maggior parte dei geni coinvolti dopo l’ esercizio acuto sono quelli coinvolti nel metabolismo del tessuto adiposo, così da risultare in una immediata attivazione genetica di enzimi lipolitici (Romain Barrès et al – 2012); ciò avverrebbe tramite una alterazione della metilazione del DNA e livello del “promoter” che identifica il punto di inizio della trascrizione del gene, come dimostrato da biopsia muscolare dopo esercizio acuto. Dunque, sulla base di un gran numero di studi recenti, l’ HIIT appare una modalità di esercizio estremamente efficiente, che induce gli stessi adattamenti metabolici che avvengono nel tradizionale training di resistenza, se non superiori, senza condividerne i rischi legati allo stress ossidativo e utilizzando volumi di lavoro dal 70% al 90% più bassi(Burgomaster et al. 2005, 2006, 2007, 2008; Gibala et al. 2006; Rakobowchuk et al. 2008; Babraj et al. 2009; Whyte et al. 2010).
HIIT: esempi di allenamento (workout) intervallato ad alta intensità
Ok, andiamo al lato pratico. Come si svolge una seduta di HIIT?
Nel video, il dott. Mercola effettua una dimostrazione del Peak 8, una valida variante di HIIT caratterizzata da 8 picchi di 30 secondi, intervallata da recuperi di 90 secondi. Nel caso specifico è stato utilizzato un cicloergometro, ma lo stesso workout può essere effettuato anche “on foot”. Il video successivo ne mostra un esempio.
Non vi sono regole precise da rispettare. Una formula comunemente utilizzata indica orientativamente un rapporto di 2:1 tra la durata della fase ad alta intensità e la durata della fase di recupero (ad esempio 20 secondi di esercizio e 10 secondi di recupero), ma il rapporto tempo attivo/tempo di recupero può essere ampiamente variabile. In relazione a questi due parametri, la durata di una seduta di HIIT può avere una durata variabile tra 4 e 30 minuti. Sconsiglio vivamente di superare i 30 minuti per non incorrere in fenomeni di eccessivo stress ossidativo, breakdown muscolare e aumento del rischio di infortuni.
L’ HIIT non rappresenta una novità di questi anni. Nella sua autobiografia “Running My Life”, Sebastian Newbold Coe, ex atleta britannico due volte olimpionico nei 1500 metri piani, ci rivela che il suo allenatore (nonché padre, Peter Coe), ispirandosi ai principi di un professore svedese di fisiologia (Per-Olof Astrand, pioniere della fisiologia dell’ esercizio), gli faceva effettuare scatti massimali di 200 metri con soli 30 secondi di recupero tra uno scatto e l’ altro.
Esempi di allenamenti HIIT
Attualmente i regimi maggiormente validati in ambito scientifico sono i seguenti:
Protocollo Tabata. Si tratta di una versione di HIIT basata su un lavoro scientifico del Prof. Izumi Tabata (1996). Il protocollo prevede 20 secondi di esercizio ultra-intenso, svolto approssimativamente al 170% del VO2max, seguiti da 10 secondi di riposo. Il loop deve essere ripetuto per 4 minuti, così da svolgere 8 picchi di attività ultra-intensa.
Protocollo Gibala. Basato su studi durati anni del team del Prof. Martin Gibala. Pubblicato nel 2009. Il protocollo prevede 3 minuti di riscaldamento, 60 secondi di attività fisica intensa (al 95% del VO2max) seguiti da un recupero di 75 secondi. Il tutto ripetuto per 8-12 volte. Nel 2011 Gibala ha pubblicato su Medicine & Science in Sport and Exercise una modalità più “soft” del suo regime, intesa per soggetti sedentari o inattivi da oltre un anno, costituita da un warm-up di 3 minuti, picchi di 60 secondi con 60 secondi di recupero ripetuti per 10 volte, e 5 minuti di defaticamento.
Protocollo Timmons. James Timmons, professore di Biologia dei Sistemi presso l’ Università di Loughborough, ha proposto nel 2012 un protocollo basato su 3 picchi di 20 secondi di pedalata sostenuta al massimo sforzo possibile, alternati da 2 minuti di pedalata blanda.
Il protocollo Tabata ha dimostrato, sulla scorta di lavori pubblicati, di poter indurre, svolto 4 volte a settimana, gli stessi benefici di uno Steady State Training (Endurance Training o allenamento aerobico a frequenza cardiaca costante) effettuato al 70% del VO2max 5 volte a settimana (Tabata et al -1996). Ovvero: 4 minuti di HIIT effettuati 4 volte a settimana hanno gli stessi benefici di un training aerobico prolungato svolto 5 volte a settimana (non solo: i lavori scientifici dimostravano che solo il “gruppo Tabata” otteneva un incremento della capacità anaerobica).
Il protocollo Gibala, che può essere effettuato anche su una cyclette, ha dimostrato di poter ottenere con 3 allenamenti a settimana gli stessi effetti di un Endurance Training svolto 5 volte a settimana(Gibala et al – 2010, 2011).
Il protocollo Timmons ha dimostrato di poter indurre drammatici miglioramenti nella sensibilità insulinica (incrementi del 24%) se effettuato 3 volte a settimana, per un totale settimanale di soli 21 minuti! Ovvero 3 (si, tre!!) minuti di esercizio intenso a settimana. Ad onor di cronaca, tuttavia, è il protocollo Gibala ad aver dimostrato il massimo beneficio sulla sensibilità insulinica, con un miglioramento pari addirittura al 35% dopo 2 settimane.
L’ HIIT è una modalità di allenamento estremamente versatile, che può essere svolta non solo sotto forma di scatti o alla cyclette, ma anche con ausilio di altri strumenti, come una corda per il salto, manubri, o anche in modalità Crossfit e Calisthenics. Un esempio di HIIT workout che utilizzi le ultime 3 modalità, ad esempio potrebbe essere il seguente (attenzione.. dura 10 minuti, riscaldamento escluso, ma è un programma tosto!!):
3-5 minuti di riscaldamento mediante salto con la corda;
1 minuto di Jump Lunge e 1 minuto di salto con la corda;
1 minuto di Box Jump (il supporto su cui saltare dovrebbe arrivare all’ altezza delle ginocchia) e 1 minuto di salto con la corda;
1 minuto di Dumbbell Renegade con Push-ups e 1 minuto di salto con la corda (partire in posizione di push-up con le mani sui manubri, sollevare un manubrio, ritornare in posizione push-up, sollevare l’ altro manubrio, ritornare in posizione push-up, fare un push-up. Questa sequenza vale una ripetizione);
1 minuto di Dumbbell Power Jerk e 1 minuto di salto con la corda (con i manubri all’ altezza delle spalle effettuare un semi-squat, quindi sollevare i manubri sopra la testa);
1 minuto di Dumbbell Uppercuts e 1 minuto di salto con la corda (diverse modalità di esecuzione, per esempio: assumere una posizione come per sferrare un “montante” e da qui effettuare un semi-squat e dunque un “punch-up” verso il lato opposto, prima con un arto superiore e poi con l’ altro. Oppure portare da una posizione di montante un arto inferiore avanti, eseguire un semi-affondo e quindi un punch-up con l’ arto superiore).
Questo video, anche se in modalità “americanata”, rende molto bene come sia possibile applicare l’HIIT, in questo caso con un protocollo Tabata, ad un Calisthenics Workout.
Ma proprio tutti possono fare HIIT? E’ veramente sicuro?
Un’ ultima riflessione. L’ HIIT può essere considerato una forma di esercizio priva di rischi? Coloro i quali per lungo tempo non sono stati dediti ad alcuna forma di allenamento potrebbero sentirsi a disagio nell’ intraprendere una forma di attività motoria definita “intensa”. D’ altronde non vi è alcun dubbio che tali persone, prima di cimentarsi in questa modalità di allenamento, dovrebbero almeno conseguire un’ idoneità all’ attività sportiva con una semplice visita medica. A causa dell’ elevata (talvolta elevatissima) intensità richiesta, è necessario porre molta attenzione nel prescrivere o consigliare questo tipo di workout ad individui sovrappeso o obesi, provenienti da recenti infortuni, decondizionati o non sufficientemente allenati, o ad individui anziani affetti da una o più comorbilità. Si ricorda altresì che nell’ individuo affetto da ipertensione o patologia cardiaca l’ esercizio isometrico dovrebbe essere evitato. Per quanto la maggior parte delle persone possa trarre vantaggio da un training intervallato ad alta intensità, la chiave del successo è probabilmente quella di iniziare molto gradualmente (ciò vale soprattutto per le categorie sopra citate) e, se necessario, impiegare anche alcune settimane per arrivare ai livelli di intensità ottimali.
Se è vero che il nostro organismo richiede un certo apporto di stress sotto forma di attività fisica per mantenersi in salute, è altrettanto vero che sopravanzare questa richiesta può essere causa di deterioramento; dunque è molto importante imparare ad “sentire” il proprio corpo integrando questo feedback in ogni modalità di allenamento. Proprio a causa dell’ elevato stress imposto all’ organismo da una seduta di HIIT, ritengo sia consigliabile non effettuarlo più di 3-4 volte a settimana (non più di 2-3 volte a settimana se si svolge anche un’ altra attività). L’ elemento caratteristico che rende l’ HIIT differente da altre forme di training intervallato è che gli intervalli ad alta intensità avvengono con il massimo sforzo e non semplicemente ad una frequenza cardiaca elevata. Le fasi di recupero (ad intensità bassa o moderata) sfruttano maggiormente un metabolismo aerobico (ossidativo) prevalentemente orientato al consumo lipidico, mentre nelle fasi di picco (alta intensità) avviene uno shift verso un metabolismo anaerobico che sfrutta soprattutto i carboidrati. Esistono differenti approcci all’ HIIT, ognuno dei quali coinvolge un numero differente di intervalli, un differente livello di intensità in corrispondenza dei picchi, una variabile lunghezza di tempo per ogni intervallo, con una elevata variabilità di frequenza consigliata di sedute settimanali. Come sempre, la moderazione è chiave per il successo a lungo termine. Dunque, sfida te stesso, ma non stenderti al tappeto da solo. Se portato avanti con costanza, l’ HIIT è in grado di determinare significativi cambiamenti a livello fisico e metabolico… fanne buon uso!
Corsa di lunga durata o HIIT?
L’ 1 marzo del 2009 veniva pubblicato ad opera degli antropologi Daniel Lieberman e Campbell Rolian un articolo dal titolo “Walking, running, and the evolution of the short toes in humans” sul Journal of Experimental Biology. Questo lavoro evidenziava che l’ incremento della lunghezza delle dita del piede riscontrato nei nostri antenati ominidi aumentava del 20% il lavoro meccanico durante la corsa mentre non aveva alcun effetto nel cammino normale, suggerendo che le proporzioni moderne dell’ avampiede umano, con dita corte e sottili, potrebbero essere state selezionate in un contesto evolutivo atto a favorire la corsa su lunghe distanze. Un gruppo di scienziati iniziò a credere che “ultramaratoneti” quali Ann Trason e Matt Carpenter in realtà non farebbero altro che specializzare i loro corpi in una modalità affine a quella già utilizzata dai nostri antenati. Nacque così la “Endurance Running Hypotesis” secondo cui la capacità di correre su lunghe distanze, spaziali e temporali, non sarebbe altro che un tratto evolutivo correlato alla necessità di ricerca del cibo, arrivando addirittura ad ipotizzare che possa essere stato l’elemento chiave a spingere l’ evoluzione del genere Australopithecus verso l’ Homo Erectus. I nostri predecessori ominidi del genere Australopithecus, di cui Lucy rappresenta l’ esemplare più noto, avevano infatti dita del piede significativamente più lunghe rispetto a quelle che caratterizzano l’ avampiede umano; cosi fu facile per Lieberman affermare che il momento di forza generato a livello delle articolazioni metatarso-falangee avrebbe causato seri problemi in termini di efficienza nella corsa, e che l’ attuale adattamento evolutivo sia la risposta alla necessità che i nostri antenati avevano di correre su lunghe distanze (Rolian et al – 2009).
Non siamo fatti per correre su lunghe distanze….
In realtà il genere umano si è evoluto per muoversi lentamente, sviluppando anche discrete capacità di muoversi molto rapidamente per brevi tratti, e NON per correre su lunghe distanze. E, ad essere realistici, credere che la selezione naturale abbia portato a ciò che siamo con lo scopo di poter affrontare la Western State Endurance Run, o la 100km del Passatore, suona abbastanza ridicola. La “Endurance Running Hypotesis” non ha alcun senso, sia ad un livello evoluzionistico, che ad un livello logico. Ammettiamo pure per un attimo che i nostri predecessori, perfettamente adattati sulla sintesi di ATP a partire dai grassi e sui sistemi Fosfocreatina-Adenosintrifosfato e Anaerobico Lattacido, ad un certo punto abbiano voluto prediligere la degradazione aerobica dei glucidi iniziando ad ingurgitare grandi quantità di carboidrati così da poter correre aggressivamente su lunghe distanze. Se ciò avveniva per cacciare, nella migliore delle ipotesi, catturando la preda, essi avrebbero avuto a disposizione solo proteine e grassi per rimpiazzare le scorte di glicogeno spese, mentre nella peggiore delle ipotesi avrebbero fallito la cattura dell’animale e il loro esausto sederino depleto di glicogeno sarebbe diventato il pranzo o la cena di qualche bestia affamata.
Perché non stiamo sfruttando al meglio i nostri sistemi energetici?
C’è ancora una cosa da sottolineare: gli stessi sistemi energetici che hanno consentito l’ evoluzione dei nostri predecessori 40.000 anni fa (fossero essi cacciatori o raccoglitori di bacche e radici) sono in grado di funzionare perfettamente anche ai giorni nostri. Se non fosse che siamo diventati bravissimi ad aggirarli con alcune infauste scelte di vita (alimentari e non). Il sistema anaerobico e la degradazione degli acidi grassi erano le due sorgenti energetiche primarie per gli spostamenti: su di esse i nostri progenitori impararono a muoversi lentamente e costantemente, o ad effettuare rapidi movimenti nell’ ambito di una Fight or Flight Response (risposta di fuga o combattimento). E attraverso questi due sistemi energetici diventarono sempre più forti e più sani. Ma nonostante NON ci siamo evoluti facendo affidamento su un sistema energetico basato quasi esclusivamente sui carboidrati, nella nostra epoca i carboidrati sembrano svolgere un ruolo fondamentale. E, se è vero che essi giocano un ruolo primario nella produzione di energia nel muscolo scheletrico, non possiamo ignorare che il miocardio e lo stesso muscolo scheletrico preferiscono gli acidi grassi quale carburante, rispetto al glucosio.
La disperata ricerca della salute e della forma fisica attraverso un prolungato, continuativo e instancabile training aerobico (vedi dimagrire correndo) richiede la continua assunzione di carboidrati, tali da provocare un aumento dei livelli plasmatici di insulina, un incremento del danno ossidativo (stimato di un fattore pari a 10-20 volte il normale), e alti livelli di cortisolemia (Bloomer RJ et al, 2006 – Budde et al, 2015), determinando un aumento della suscettibilità alle infezioni, ai traumi, alla perdita di massa ossea e muscolare, e favorendo la deposizione di tessuto adiposo. Tutto ciò è un po’ diverso dai sani propositi per i quali avevamo iniziato estenuanti sedute di cardio!
In considerazione delle attività svolte dai nostri antenati, sulla base delle quali si sono strutturati nel DNA i sistemi energetici che ne hanno consentito la sopravvivenza e l’evoluzione, l’ ideale sarebbe dunque disegnare un piano di allenamento caratterizzato da attività aerobica a basso-medio impatto (come camminare a passo sostenuto) intervallata da “picchi di intensità elevata” (“sprints”, o qualunque altra attività purchè effettuata ad alta intensità) della durata di 20-30-40 secondi.
NOTE SULL’ AUTORE
Dott Davide Marchese
Nato a Catanzaro nel 1977. Specialista in Medicina Fisica e Riabilitazione.
Appassionato di Functional Training, HIIT, Yoga, meditazione, EFT.
Email: davide.marchese@live.com
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L’antropometria è la scienza che studia le misure (totali o parziali) del corpo umano. Viene utilizzata per comprendere lo stato di sviluppo durante la crescita e/o lo stato nutrizionale degli individui. Attraverso le misure antropometriche possiamo determinare se un individuo è alto/basso, magro/grasso rispetto al resto della popolazione presa in esame (età/sesso/razza). Questa scienza può aiutare anche a capire i somatotipi della persona se è (ectomorfo, endomorfo, mesomorfo).
In generale le persone alte hanno arti più lunghi rispetto al tronco, questo avviene statisticamente all’opposto in chi è di bassa statura.
Cosa misura l’antropometria?
Attraverso le misure antropometriche possiamo stimare lo stato di una persona. Queste misure possono essere più o meno semplice. Possiamo prendere in esame l’altezza ed il peso del soggetto (BMI), oppure possiamo utilizzare un metro per misurare gli arti, il tronco o le circonferenze. La plicometria, la biompedenziometria e la DEXA sono strumenti più avanzati per lo stato della persona.
La maggior parte dei risultati riguardano la media dei soggetti e possono presentare una % d’errore rilevante. Pertanto questi dati devono essere presi con le pinze sul singolo individuo, ma sono statisticamente validi sulla popolazione.
Quali sono le misure antropometriche?
Possiamo misurare l’individuo attraverso diversi test, vediamo di analizzarli dal più semplice al più complesso.
Il BMI
L’indice di massa corporea (IMC) o body mass index (BMI) indica il rapporto tra il peso del soggetto (in kg) fratto l’altezza in m al quadrato. Il numero che otteniamo indica in che zona nutrizionale ci troviamo:
BMI
Stato nutrizionale
<16,5
Grave magrezza
16,5-18,49
Sottopeso
18,5-24,99
Normopeso
25-29,99
Sovrappeso
30-34,99
Obesità classe I (lieve)
35-39,99
Obesità classe II (media)
>49
Obesità classe II (grave)
Il BMI è una misura antropometrica con un’alta % d’errore visto che il peso corporeo può essere dato sia dal tessuto adiposo che dal muscolo. Chi farà palestra risulterà facilmente in sovrappeso per via dei muscoli e non del grasso corporeo.
La plicometria
La plicomentria pinza attraverso uno strumento specifico, il plicometro, lo strato di grasso sottocutaneo. Attraverso delle formule predittive, stima l’intero grasso corporeo del soggetto. Esistono diverse formule predittive da 3 o 7 pliche.
Purtroppo su soggetti obesi o con un forte grasso localizzato, non sempre si riesce a pinzare la cute. La plicometria ha una % d’errore rilevante, ma se le pliche singole scendono, possiamo essere sicuri, che in quella zona il grasso è calato.
È una misurazione operatore dipendente, si considera valida da quando la persona ha fatto almeno 100 pliche su soggetti diversi.
Formule per calcolare la body fat grazie alle pliche:
Calcolo della % di massa grassa: 7 pliche uomo (Jackson & Pollock).
Densità corporea = 1.112 – (0.00043499 x somma 7 pliche) + (0.00000055 x (somma 7 pliche2)) – (0.00028826 x età) %FM = (495/Densità corporea) – 450
Calcolo della % di massa grassa: 7 pliche donna (Jackson & Pollock).
Densità corporea= 1.097 – (0.00046971 x somma 7 pliche) + (0.00000056 x (somma 7 pliche2)) – (0.00012828 x età) %FM = (495/Densità corporea) – 450
Calcolo della % di massa grassa: 3 pliche uomo (Jackson & Pollock).
Densità corporea = 1.10938 – (0.0008267 x somma 3 pliche) + (0.0000016 x (somma 3 pliche2)) – (0.0002574 x età) %FM = (495/Densità corporea) – 450
Calcolo della % di massa grassa: 3 pliche donna (Jackson & Pollock) .
Densità corporea= 1.0994921 – (0.0009929 x somma 3 pliche) + (0.0000023 x (somma 3 pliche2)) – (0.0001392 x età) %FM = (495/Densità corporea) – 450
Circonferenze corporee
Un’altra misurazione antropometrica è quella delle circonferenze corporea. Il rapporto vita/fianchi è predittivo per alcune patologie come la sindrome metabolica ed è un fattore di rischio per la nostra salute. Le circonferenze ci dicono anche dove accumuliamo grasso e se abbiamo un morfotipo principalmente androide, ginoide o misto.
Il rapporto vita/fianchi (WHR) è determinato dalla circonferenza vita diviso per la circonferenza dei fianchi:
UOMINI
<0,94
Ginoide
0,95-0,99
Misto
>1
Androide
DONNE
<0,78
Ginoide
0,79-0,84
Misto
>85
Androide
La circonferenza della vita viene considerata un fattore di rischio cardiovascolare qual ora sia superiore a 80cm nella donna e 94cm nell’uomo.
Bioimpedenziometria e modello tricompartimentale
La bioimpedenziometria o impedenziometria è un’analisi tricompartimentale del nostro corpo, a differenza delle altre analisi che prendevano in considerazione il grasso corporeo ed i tessuti privi di grasso, la bia analizza anche l’idratazione della persona (sia intracellulare che extracellulare). Questa analisi purtroppo ha un’alta % d’errore ma è utile in tutti quei casi in cui la plicometria non funziona e vogliamo avere ulteriori dati.
Le circonferenze corporee sono uno strumento d’indagine antropometrica. Attraverso le circonferenze si può stimare lo stato nutrizionale della persona, se è grassa o magra, se l’ossatura dei polsi, arti, caviglie, è nella norma o meno, ecc. Sono delle misure antropometriche praticamente senza praticamente nessun costo, che possono essere prese velocemente e non sono operatore dipendente (come la plicometria che bisogna saperla fare). Aiutano ad una comprensione della composizione corporea dell’individuo e del suo andamento nel tempo..
Si possono prendere molte circonferenze corporee vediamo quelle principali. È importante, per avere un’andamento preciso nel tempo, prendere i punti di repere, sempre nello stesso punto, anche pochi cm possono far variare molto i risultati.
Circonferenza braccio: come misurarla?
La circonferenza del braccio si misura da in piedi partendo con le braccia lungo i fianchi si fa flettere il braccio non dominante di 90° con il palmo della mano rivolto verso l’altro. Si misura a metà del braccio partendo dall’acromion della scapola all’olecrano del gomito. Si segna il punto a metà del braccio ed in quella zona si prende la circonferenza. Il braccio rimane rilassato.
Braccio
Media
Uomini
32 +/- 5cm
Donne
28 +/- 6cm
La circonferenza del braccio potrebbe indicare uno stato di malnutrizione qual ora sia inferiore ai 23cm nell’uomo e 21cm nella donna.
Misurare la circonferenza del torace
La circonferenza del torace si misura da in piedi appena sopra ai capezzoli nell’uomo (alcune formule lo fanno appena sotto) e nelle donne sotto al seno.
Si può prendere la misurazione dopo la massima inspirazione e la massima espirazione per misurare la variazione toracica data dalla capacità polmonare. In media abbiamo 3,5-6cm di differenza.
Misurare la circonferenza vita
La circonferenza della vita si misura in piedi, mantenendo rilassato l’addome con le braccia lungo i fianchi. Si misura la circonferenza più stretta tra le cose e le creste iliache (in generale qualche cm sopra l’ombelico).
La circonferenza della vita è un indicatore del grasso corporeo addominale, che è uno dei fattori di rischio per le malattie cardiovascolari. In generale non dovrebbe mai essere maggiore di 95-102 cm nell’uomo e di 80-88cm nelle donne.
Il rapporto vita/fianchi WHR è un importante parametro dei fattori di rischio della salute e dovrebbe essere inferiore a 0,95 nell’uomo e di 0,80 nella donna.
Circonferenza fianchi: come misurarli?
La circonferenza dei fianchi si misura da in piedi. L’operatore si mette di lato per prendere la massima circonferenza glutea. Il grasso localizzato tra la vita (addominali) e fianchi (glutei), indica se il soggetto ha un morfotipo ginoide, androide o misto.
Circonferenza coscia
La circonferenza della coscia può essere presa in due modi: alta o media. Nella prima il soggetto è in piedi, porta il peso principalmente sull’arto che non misureremo e la circonferenza viene presa sotto la piega glutea. Nel secondo caso la circonferenza della coscia media è presa con l’arto piegato a 90° (possiamo appoggiarlo su un rialzo) a metà tra l’inguine e la rotula.
Conclusioni sulle circonferenze corporee
Le circonferenze del corpo sono uno strumento semplice per capire dove stiamo ingrassando o dimagrendo ed assieme al peso sulla bilancio, possono dare un’indicazione interessante di come sta cambiando la nostra composizione corporea nel tempo.
Per cardio o cardio fit training, si intende una sessione di allenamento cardiovascolare, in cui l’apparato cardiorespiratorio è sottoposto a stimoli allenanti.
Il cardio può avere una componente prettamente aerobica dove le resistenze esterne sono inferiori al 30% della nostra forza massimale (corsa, bicicletta, nuoto, ecc), oppure può coinvolgere maggiormente i muscoli utilizzando circuiti a corpo libero o con attrezzi (kettlebell, bilancieri, manubri, ecc.)
Nel primo caso possiamo optare per sedute lunghe e costanti (cardio LISS e MISS) o per allenamenti brevi ed intensi anaerobici lattacidi (allenamenti HIIT), nei circuiti invece si tende a preferire una componente di allenamento lattacido e le sedute allenanti sono più corte ma più estenuanti. A seconda del livello della persona, dei suoi obiettivi e preferenze possiamo optare per un allenamento o l’altro (o un mix dei due).
Benefici e controidicazioni dell’allenamento cardio
Il cardio migliora la capacità funzionale dell’apparato cardiorespiratorio. Migliorando la capienza degli atri e ventricoli del cuore, la forza di contrazione, la frequenza ed ha un effetto positivo sulle resistenze periferiche, aumentando la capilarizzazione dei muscoli che lavorano. Aumentando il dispendio energetico, possiamo ridurre il nostro peso corporeo se accompagniamo questo allenamento ad una dieta ipocalorica sana e bilanciata.
In definitiva abbiamo un’aumentata capacità cardiovascolare/polmonare, un’abbassamento della pressione sanguigna e migliori parametri ematici. I benefici si riscontrano già dopo 2 settimane di attività ma richiedono costanza e tempo per essere realmente rilevanti.
Le controindicazioni riguardano soggetti con problemi cardiaci/respiratori che prima d’intraprendere l’attività dovrebbero consultarsi col medico, con chi è sottopeso, soffre di mal di schiena o non è pienamente idoneo all’attività fisica. Va ricordato che il cardio aumenta lo stress ossidativo, se l’esercizio non è eccessivo (3-4h a settimana) abbiamo solo benefici, se invece l’allenamento è troppo frequente e prolungato, lo stress ossidativo prodotto non è pienamente compensato dall’organismo ed il cardio non apporta solo benefici.
Quando conviene fare cardio prima o dopo i pesi
L’allenamento cardio può abbassare la capacità contrattile dei muscoli e depotenzia il sistema anaerobico alattacido/lattacido. Per questo se il nostro primo obiettivo è l’allenamento della massa muscolare, conviene farlo dopo l’allenamento coi pesi. Va ricordato che un alto dispendio energetico dopo attività contro resistenze, abbassa la spinta anabolica della crescita muscolare. Quindi conviene non esagerare. Anche se post allenamento il cardio consuma più grassi, non ci sono reali differenze nella perdita di peso se viene eseguito post allenamento o in una seduta a parte.
In definitiva anche per chi fa pesi conviene fare cardio, preferibilmente nei giorni di recupero, non esagerando con l’intensità (cardio LISS o MISS).
Allenamento cardio bruciagrassi
L’allenamento aerobico viene utilizzato molto per dimagrire. In realtà fa dimagrire esclusivamente perchè aumenta il dispendio energetico e non perchè si bruciano più grassi. Non c’è un reale vantaggio calorico tra l’allenamento HIIT e quello LISS, quindi conviene preferire quello che ci piace di più ed impatta meno col recupero di eventuali altre attività sportive. L’EPOC tanto millantato come effetto bruciagrassi dell’allenamento HIIT non è realmente più vantaggioso rispetto a correre a bassa intensità per un’ora. Allenamenti cardio intensi a circuito preservano maggiormente la massa muscolare, anche se il loro effetto si ferma a quello anticatabolico e non anabolico.
Il cardio per dimagrire rimane un’ottima strategia per aumentare il deficit calorico senza dove eccessivamente ridurre le calorie.
Programmi di allenamento cardio
Mettiamo 3 esempi di allenamento cardio LISS, MISS, HIIT
Un allenamento LISS potrebbe essere una corsa costante per 1h, se il livello della persona è ancora basso si può alternare camminata a corsa variando di settimana in settimana
Camminata
Corsa
1 settimana
50′
10′
2 settimana
40′
20′
3 settimana
30′
30′
4 settimana
20′
40′
5 settimana
10′
50′
6 settimana
/
60′
Alternare le due attività distribuendole in modo equo.
Un allenamento MISS potrebbe essere correre per 20-30′ ad una intensità di fatica di 7-8 su 10
Un allenamento HIIT è adatto solo a persone molto allenate in grado di raggiungere realmente intensità elevate. Il classico esempio è il TABATA dove si alternano 8 set da 20″ con 10″ di recupero. Sia possono poi variare gli allenamenti alternando serie intense da brevi recuperi arrivando anche a fare 1′ di attività e 30″ di recupero (ovviamente in questo caso l’intensità calerà parecchio).
Serie
Riposo
1 set
20″
10″
2 set
20″
10″
3 set
20″
10″
4 set
20″
10″
5 set
20″
10″
6 set
20″
10″
7 set
20″
10″
8 set
20″
10″
Allenamento cardio a circuito
Si può incentrare un allenamento “bruciagrassi” a circuito, questo permette a chi non ama fare attività di resistenza di poter beneficiare comunque di buona parte dei vantaggi cardiovascolari/respiratori/metabolici di un allenamento aerobico. Un esempio potrebbe essere: