Il dolore alla spalla è un vero e proprio incubo per molti frequentatori di palestra dediti al fitness e al bodybuilding: che siano giovani o anziani, gli appassionati hanno spesso a che fare con questa problematica e spesso non hanno idea di come affrontarla e risolverla. La panca piana con bilanciere è, in questo contesto, uno degli esercizi che più mette a dura prova questa articolazione, anche a giudicare dal fatto che sono davvero numerosi i soggetti che sviluppano dolore alla spalla facendo panca.
È innegabile che molti di questi casi siano attribuibili a esecuzioni scorrette, in particolare prive del corretto assetto scapolare sulla panca, e ad allenamenti troppo intensi e/o voluminosi e non abbastanza graduali. Anche alcune particolari condizioni, come l’alterato allineamento dell’omero, possono influenzare in negativo l’esecuzione di questo esercizio. Cerchiamo di comprendere passo passo come risolvere il dolore alla spalla attraverso un approccio integrato tra fisioterapia e personal training.
Dolore alla spalla durante la panca piana: sintomi
Il dolore avvertito durante l’esecuzione della panca piana ha spesso un esordio lento e in assenza di un vero e proprio trauma che lo possa giustificare, inizia spesso senza un apparente motivo e va via via peggiorando (fase acuta) per poi stabilizzarsi (fase cronica). È generalmente profondo, molto localizzato, più tipicamente anteriormente, posteriormente o lateralmente sulla spalla, in un’area ristretta che non irradia mai oltre l’inserzione del deltoide. È un dolore acuto, descritto come uno “spillo” o qualcosa “che punge nella spalla”, o ancora come un dolore “a fitta” come una pugnalata, e intermittente, evocato e riprodotto ogniqualvolta si esegue la panca.
Durante l’ esecuzione dell’esercizio è presente generalmente un cosiddetto “arco doloroso”, con una parte specifica del movimento in cui il dolore è presente e con la restante parte in cui esso scompare. Nella panca piana e negli esercizi affini (panca inclinata, croci, push-up ecc..) il tipico arco doloroso corrisponde ai primi gradi di movimento, all’inizio della fase concentrica, quando il bilanciere o i manubri vengono spinti dal petto. Il dolore tende di solito a svanire una volta superata questa escursione di movimento, per poi ripresentarsi allo stesso modo nella ripetizione successiva.
Spesso sono presenti delle recidive periodiche di dolore nei periodi di allenamento intenso.
Quali sono le cause del dolore alla spalla nella panca piana?
Il dolore percepito durante la panca piana è nella maggior parte dei casi riconducibile a quadri che rientrano nella “sindrome da dolore subacromiale” (proposto da alcuni autori in sostituzione dell’oramai obsoleto termine “sindrome da conflitto/impingement subacromiale”) con presenza di tendinopatia della cuffia dei rotatori (in particolare del muscolo sovraspinato) e possibile tendinopatia del capo lungo del bicipite e/o infiammazione della borsa sotto-deltoidea (borsite).
Le principali cause che portano a tali condizioni possono essere classificate in due categorie:
La degenerazione tendinea con concomitante alterazione delle proprietà meccaniche e metaboliche dei tendini della cuffia dei rotatori
Un quadro disfunzionale della spalla caratterizzato da rigidità articolare
In primo luogo possiamo affermare che molti dei quadri dolorosi possono avere come causa o concausa l’eccessivo volume di allenamento e il carico mal dosato nel tempo. In altre parole, possiamo avere scenari nei quali un soggetto neofita inizia ad allenarsi e, ansioso di migliorare, non rispetta una corretta progressione del carico sul bilanciere o esagera con il volume di allenamento settimanale, impedendo ai tendini, capsula e legamenti di adattarsi al nuovo ambiente funzionale.
Analogamente, soggetti più avanzati possono andare incontro a degenerazione tendinea da eccessivo sovraccarico perpetrato nel tempo, soprattuto se a questa si sommano fattori genetici o legati all’età, con gli over 40 fisiologicamente coinvolti in un quadro di degenerazione della cuffia indipendente dall’allenamento coi pesi.
In secondo luogo, possiamo indicare nella tecnica esecutiva approssimata e nelle disfunzioni articolari le cause su cui porre l’attenzione. I fattori articolari/funzionali che possono contribuire all’insorgenza di dolore alla spalla durante la panca piana sono:
Eccessiva rigidità della capsula posteriore/inferiore della spalla, con possibile associazione di eccessiva instabilità anteriore. Durante la panca è necessaria una fisiologica flessibilità della capsula e dei muscoli extrarotatori di spalla per garantire i fisiologici movimenti accessori di scivolamento posteriore della testa omerale necessari in questo esercizio. Se questa viene a mancare si alzerà la possibilità di una traslazione anteriore (omero anteposto) e superiore della testa dell’omero, condizione che aumenta la pressione sui tessuti sub-acromiali come il sovraspinato e la borsa.
Alterato posizionamento scapolare statico e/o dinamico in tilt anteriore e protrazione, causato da una possibile debolezza dei muscoli gran dentato, trapezio medio e inferiore, e da una retrazione del piccolo pettorale. Questo posizionamento scapolare alterato restringe lo spazio sub-acromiale, favorendo una maggiore pressione sui tessuti localizzati al suo interno.
Dolore alla spalla e cause: un test di verifica
In foto, un soggetto con dolore “a spillo” alla spalla destra con presenza di calcificazioni, dolore insorto nel tempo e rievocato durante l’esecuzione della panca piana anche con un carico medio-basso (dolore alla spalla accompagnato da perdita di forza). Il soggetto, valutato a lettino pre-trattamento, tramite l’apposito test per la lunghezza degli extrarotatori della spalla, palesa una retrazione di questi muscoli, condizione che causa una rigidità della capsula posteriore dell’articolazione che di conseguenza spinge in avanti la testa dell’omero.
Rigidità della capsula posteriore e dei muscoli extrarotatoriCapsula posteriore della spalla e muscoli extrarotatori
Quest’ultima non è quindi in grado di posizionarsi adeguatamente all’interno della scapola (nonostante l’assetto corretto) durante l’esecuzione della panca piana e ciò crea una compressione dei tessuti molli aumentando lo stress a carico di questi ultimi ed evocando il dolore (la spalla destra si ritrova più in alto della sinistra: riga rossa). La correzione manuale sul braccio da parte del fisioterapista (test di verifica), con l’omero destro che viene spinto posteriormente mentre il soggetto sorregge il bilanciere, fa svanire il dolore.
Alterato posizionamento dell’omero destro durante la panca piana: si nota lo spazio tra la riga rossa e la spalla destra che palesa un’anteposizione dell’omero anomala
Rimedi per il dolore alla spalla durante la panca
Come comportarsi in caso di dolore alla spalla durante la panca? I principi che sarà necessario seguire sono due:
Evitare/limitare linee di movimento dolorose
Adattare l’esercizio incriminato (nel nostro caso la panca) attraverso un cambio del piano di lavoro e/o del ROM di movimenti.
Una strategia attuabile prevede di supportare la guarigione e ricondizionare i tendini attraverso una graduale progressione del ROM di movimento libero dal dolore. Come visto in precedenza, il classico ROM doloroso durante questo esercizio è racchiuso nei primi gradi di spinta del bilanciere o dei manubri dal petto.
In questo senso, una progressione razionale prevede di partire con una bench floor(o floor press) con manubri da sdraiati sul pavimento. Successivamente, con il miglioramento dei sintomi, un’esecuzione con bilanciere potrà essere reintrodotta con ROM parziali attraverso un riferimento fisso (come un asciugamano arrotolato sotto la maglietta o un fermo esterno). Una ulteriore progressione verso l’esecuzione originale prevede di arrivare al petto con un’eccentrica molto controllata e un fermo al petto, per poi infine reintrodurre i manubri per un’esecuzione a ROM completo in estensione.
Un’altra strategia attuabile in caso di dolore prevede di passare da un’esecuzione con bilanciere a una con manubri. I manubri, infatti, permettono uno svincolo articolare maggiore, maggiori adattamenti del piano di lavoro e della posizione della spalla. Durante l’esecuzione sarà bene ricercare il piano di lavoro libero dal dolore e muovere la spalla in tale piano.
Spesso un adattamento utile è “stringere” i gomiti lungo il corpo con una presa stretta, spostando la spinta lungo il piano sagittale con una flessione pura di spalla (ciò è fattibile anche nell’esecuzione della panca con bilanciere). Anche la profondità della discesa dei manubri dovrà essere ben modulata: molto spesso, infatti, un’eccessiva estensione genera dolore e per questo è bene limitarla, non andando con i gomiti troppo oltre il tronco. Il discorso sulle linee di lavoro asintomatiche vale anche per altri esercizi come le Croci e i Push-up.
Durante l’esecuzione della panca sarà fondamentale mantenere un corretto assetto scapolare in retrazione scapolare, depressione e tilt posteriore. Anche la traiettoria dovrà essere curata, con una spinta che dal basso sterno arriverà a livello del collo e del mento, evitando di “alzare” i gomiti.
Da un punto di vista della programmazione sarà importante modulare al meglio i parametri allenanti, stando ben attenti a non eccedere con il volume di allenamento e con i carichi ed evitando (in caso di dolore) lavori a cedimento, serie lunghe con affaticamento finale che “sporca” l’assetto e la tecnica esecutiva, e ripetizioni forzate. Saranno invece da prediligere lavori con ampio buffer e una progressione graduale dei carichi.
L’inserimento di alcuni esercizi mirati alla correzione delle possibili disfunzioni muscolari e articolari potranno essere molto utili. Vedremo tali esercizi nel prossimo paragrafo.
Anche la terapia manuale eseguita da un fisioterapista può avere un ruolo terapeutico utile nella riduzione delle disfunzioni e del dolore.
Il soggetto in foto è stato trattato dal fisioterapista per circa 30 minuti, eseguendo delle mobilizzazioni della testa dell’omero in senso posteriore attraverso tecniche specifiche di terapia manuale a lettino. Nella foto sottostante si può osservare il soggetto rivalutato immediatamente post-trattamento in studio, con un discreto recupero della mobilità degli extrarotatori e un rilascio parziale della capsula posteriore.
Rivalutazione post trattamento: l’avambraccio forma un angolo minore col piano del lettino palesando un rilascio dei tessuti posteriori della spalla
Tornando subito in sala attrezzi, questo rilascio della capsula posteriore prima irrigidita ha permesso al soggetto un migliore posizionamento della testa dell’omero nella glena durante l’esecuzione della panca, favorendo la congruenza articolare ed evitando l’eccessiva compressione dei tessuti sotto-acromiali (la spalla destra si ritrova all’incirca alla stessa altezza della sinistra, diversamente da ciò che accadeva prima del trattamento: riga rossa). Il soggetto è stato quindi ritestato durante l’esecuzione dell’esercizio mostrandosi quasi privo di dolore con gli stessi carichi utilizzati all’inizio della seduta, facendo intendere che il trattamento eseguito in studio è andato a buon fine andando a colpire direttamente la causa primaria del dolore alla spalla.
Rivalutazione della panca piana post trattamento: si nota che la spalla destra ha riacquisito la posizione ideale in linea con la spalla sinistra e ben in appoggio sulla panca
Esercizi per il dolore alla spalla
All’interno del possibile quadro disfunzionale precedentemente descritto, sia in un ottica meramente preventiva, sia in ottica di gestione del dolore, possono essere utili alcuni esercizi per intervenire sulle alterazioni riscontrate in sede di valutazione. Gli esercizi in questione avranno lo scopo di aumentare la flessibilità dei tessuti retratti e di rinforzare i tessuti deboli, migliorandone le proprietà meccaniche.
Nella fattispecie saranno utili:
Esercizi di stretching come lo Sleeper Stretch o il Cross Body Stretch per allungare in autonomia la capsula e i tessuti posteriori della spalla. Questo in caso di presenza di un deficit di rotazione interna di spalla significativo messo in luce dal test apposito.
Esercizi di stretching per i muscoli piccolo e grande pettorale. Questo in caso di allineamento in tilt anteriore scapolare e cingolo scapolare anteposto.
Esercizi di rinforzoperil muscolo trapezio inferiore (come per esempio delle alzate a Y da prono) ed esercizi di propriocezione della retrazione scapolare (adduzione, depressione e tilt posteriore combinati). Questo in caso di debolezza conclamata di questo muscolo e in caso di postura con cingolo scapolare anteposto e scapola in tilt anteriore.
Esercizi di rinforzodella cuffia dei rotatori, in particolare a 90° di abduzione omerale, condizione che riproduce fedelmente la medesima posizione assunta dalla spalla durante la panca piana. Questo sopratutto per lavorare sulle proprietà meccaniche dei tendini e in caso di conclamata debolezza muscolare messa in luce dagli appositi test.
Ovviamente è bene precisare che questi esercizi non devono essere proposti necessariamente in toto a tutti indistintamente. Sono semplicemente un serbatoio di esercizi da cui attingere a seconda del soggetto e delle sue caratteristiche.
Sleeper Stretch
Esecuzione corretta della panca piana
Come evitare l’insorgenza di dolore alla spalla nel tempo eseguendo la panca piana? In ottica preventiva (ma anche riabilitativa) sarà fondamentale il rispetto di un’esecuzione corretta, che rispetti la fisiologia articolare e la biomeccanica del complesso articolare della spalla. Analizziamo quindi come va eseguito l’esercizio di spinta in panca piana.
La panca piana è eseguibile con bilanciere, manubri o nei suoi surrogati al Multipower e alla Chest Press. Il punto focale è l’importanza di una spinta eseguita con una stabilità scapolare. Uno degli errori più comuni è una spinta del bilanciere o dei manubri dal petto che, grazie all’inerzia, trascina le scapole in protrazione e tilt anteriore (le scapole si staccano dalla panca). Abbiamo già sottolineato come questo tipo di allineamento sia un fattore di rischio infortunio alla spalla, per via di una maggiore pressione sui tendini esercitata a livello sotto-acromiale.
In altre parole, spingere un sovraccarico “perdendo” le scapole, specie se questo sovraccarico è elevato (come accade giustamente nella Panca) può costituire un fattore di rischio lesione e infiammazione alla spalla.
Per questa ragione durante la panca piana o inclinata, o in generale durante tutti gli esercizi di spinta per il gran pettorale come Croci e Chest Press, va incentivata una spinta eseguita con le scapole in retrazione, depressione e il tilt posteriore, combinazione di movimenti che, al contrario, amplia lo spazio subacromiale e diminuisce la pressione e gli stress tissutali a questo livello.
Quindi, prima di impugnare l’attrezzo che avremo scelto per eseguire l’esercizio, che sia un bilanciere o un manubrio, un cavo o un macchinario, sarà importante il corretto posizionamento delle scapole e una loro mantenuta stabilità sotto carico, condizione fondamentale per garantire sicurezza e congruenza articolare.
L’assetto scapolare mantenuto comporterà alcune conseguenze importanti. I gomiti si troveranno più vicini al tronco e mai all’altezza delle spalle. In assetto scapolare corretto, l’omero fisiologicamente si porterà a circa 60° di abduzione, ed è da questa posizione che deve muoversi in spinta. Avere i “gomiti alti” rappresenta un sintomo di un cattivo assetto scapolare.
La traiettoria corretta prevede un movimento del bilanciere che va dall’altezza dei capezzoli/fine dello sterno, fino all’altezza del collo quando i gomiti sono estesi. Questa traiettoria leggermente inclinata, insieme all’assetto scapolare, permetterà di spingere sempre con i gomiti sotto i polsi.
La colonna toraco-lombare, in risposta all’assetto scapolare corretto, andrà incontro a un fisiologico movimento di estensione che si tradurrà in un accentuazione delle curve con il bacino appoggiato alla panca (schiena “inarcata”). Niente paura, l’estensione della colonna non costituisce un pericolo o una possibile fonte di dolore in soggetti sani. La panca piana eseguita con i piedi a terra darà stabilità a tutto l’esercizio, favorendo un ottimale assetto.
Che sia una dieta per dimagrire, di definizione o per la massa muscolare, è importante conoscere il fabbisogno giornaliero dei grassi: anche se più malfamati, non sono da meno per funzioni rispetto alle proteine, sempre poste con motivazione o meno al primo posto per importanza nei regimi alimentari di chi fa palestra.
Scopri in questo articolo quanti grassi assumere al giorno per stare in salute, per incrementare la massa muscolare o per perdere peso!
Fabbisogno giornaliero di grassi
Secondo la SINU, la quantità di grassi da assumere per la popolazione italiana corrisponde al 20-35% del totale calorico giornaliero.
Tuttavia, ci sono più filoni di pensiero che variano, anche di molto, questo range a seconda del soggetto e del meccanismo metabolico da sfruttare. Un filone tende a ridurre questa percentuale al 10-20% in modo da aumentare la capacità del corpo di bruciare glucosio e di migliorare la sua tolleranza – ovviamente senza eccedere.
C’è, invece, chi preferisce mantenere i lipidi al 30-35% per insegnare al corpo, in modo graduale, ad ossidare meglio i grassi tramite la beta-ossidazione. L’altra faccia della medaglia di questo metodo consiste nella riduzione della sensibilità agli zuccheri.
Grassi saturi al giorno
I grassi saturi sono in generale quelli considerati più pericolosi per la salute e per questo motivo vanno limitati nella tua alimentazione, non necessariamente eliminati nel tutto. I grassi saturi possono ricoprire al massimo il 10% del tuo fabbisogno calorico giornaliero totale.
Tuttavia, non tutti gli acidi grassi saturi fanno male: ad esempio, l’acido stearico è una molecola lipidica satura che fa bene alla salute dato che non influenza la formazione di “colesterolo cattivo” e viene trasformato in un acido grasso insaturo.
Grassi insaturi al giorno
La restante quota dei grassi che consumi al giorno (tolta quella dei saturi) proviene dai grassi insaturi, che trovi in alimenti come il pesce azzurro, la frutta secca, l’olio extravergine di oliva. Sia i monoinsaturi che polinsaturi hanno in generale un effetto positivo sull’organismo.
Tra i polinsaturi, dalla struttura più complessa rispetto ai monoinsaturi, sono compresi gli omega-3 che hanno un’azione anti-infiammatoria e gli omega-6, che, quando in eccesso, sono pro-infiammatori.
Qual è la quantità minima di grassi al giorno?
Salta subito all’occhio come i grassi nel corpo vadano a depositarsi sulla pancia, sulle cosce o in altri punti sempre indesiderati. Sembra così che l’unico scopo di esistenza dei lipidi sia quello di accumularsi senza una particolare utilità e che, di conseguenza, meno grassi mangi meglio sarà per il fisico.
In realtà, i grassi sono indispensabili per tutta una serie di funzioni che non saltano all’occhio come quella di riserva:
sono parte integrante di tutte le membrane cellulari,
sono precursori degli ormoni steroidei,
trasporto delle vitamine liposolubili,
a livello sottocutaneo contribuiscono alla termoregolazione, alla protezione dagli urti.
Per assicurare l’omeostasi dell’organismo,assumere una quantità minima di grassi è fondamentale per garantire ai lipidi di adempiere a tutte queste funzioni (repetita iuvant) indispensabili.
In termini generali, la quantità minima da assumere corrisponde a30-35 g/giorno per gli uomini e 40-60 g/giorno per le donne, dal momento che il sesso femminile ha fisiologicamente una maggior percentuale di grasso essenziale da mantenere.
Cosa succede se si mangiano troppi grassi? Eccesso di lipidi nella dieta
A seconda del contesto, mangiare tanti grassi cambia: se sei in un regime ipocalorico tanti grassi aiutano a dimagrire, mentre se sei in un eccesso calorico i lipidi sono in prima linea per favorire l’ingrassamento. Preso in considerazione il secondo caso, c’è da dire che l’aumento di peso non è dovuto esclusivamente a troppi grassi nella dieta, ma all’eccesso calorico: quindi, dalla somma delle calorie di lipidi, glucidi, protidi. Infatti, anche chi segue diete low-carb high-fat riesce in normocalorica a mantenere il proprio peso. Anzi, in ipocalorica questo regime dietetico garantisce una maggior perdita del grasso ostinato.
Che i grassi facciano direttamente ingrassare dipende da molti fattori: il quantitativo calorico, lo stato ormonale, la capacità dell’organismo di ossidare o meno i lipidi, ecc. La risultante di surplus calorico, profilo ormonale non adeguato e/o bassa capacità di ossidare i grassi sfocia nell’ingrassamento: dal punto di vista cellulare, le cellule del grasso inglobano gli acidi grassi presenti “in più” e diventano ipertrofiche.
Da questo nasce man mano un peggioramento che può colpire diversi aspetti dell’organismo. Alcuni esempi:
incremento dei grassi nel sangue, che a sua volta può portare ad aterosclerosi e quindi ostruzione delle vie sanguifere
accumulo di grasso addominale, parametro di riferimento per l’incidenza del rischio cardiovascolare
alterazione del profilo ormonale
fegato grasso: il fegato (centrale metabolica dell’organismo) subisce un sovvertimento della sua architettura cellulare, che corrisponde ad un’alterazione delle sue numerose funzioni e quindi ad un danno sistemico
Quanti grassi bisogna assumere al giorno per dimagrire?
Ci sono persone che anche con una dieta high-fat riescono a dimagrire. Come fanno? Sono in deficit calorico!
Infatti, il presupposto per perdere peso è introdurre meno energia (cibo) di quella che spendi ogni giorno – dalle calorie che servono per respirare a quelle che bruci durante l’allenamento in palestra.
Quando vuoi dimagrire è comunque opportuno mantenere i grassi in quantità non troppo elevata, in modo da lasciare alle proteine e ai carboidrati la possibilità di coprire la maggior parte delle calorie che andrai a mangiare. Le proteine ti assicurano di mantenere la massa magra e di darti sazietà ai pasti, mentre i carboidrati ti fanno sostenere meglio l’allenamento.
Puoi, quindi, mantenere i grassi a 0.5 g/kg peso corporeo/giorno, fino a 0.8 per le donne che hanno bisogno di più lipidi per stare normalmente in salute.
Quanti grassi assumere in fase di definizione nel bodybuilding?
Quando sei in fase di definizione i grassi possono essere tenuti più bassi di quelli che mantieni solitamente: i lipidi possono coprire il 15-25% delle calorie totali. Il 15% è un valore molto basso, ma comunque sostenibile e non dannoso per la salute perché comunque questo regime alimentare va a coprire solo una fase e non tutta la vita.
Questa strategia è finalizzata al dare maggiore spazio ai carboidrati, per garantire direttamente più sostegno al corpo durante l’allenamento nonostante il periodo di restrizione calorica e per, indirettamente, mantenere la massa magra.
Macronutrienti
Proteine
Grassi
Carboidrati
Quantità
2.2-2.6 g/kg peso corporeo
15-25% del totale calorico, minimo 0.5 g/kg
Le restanti calorie, minimo 1 g/kg
Quanti grassi al giorno in fase di massa in palestra per aumentare la massa muscolare?
A differenza della fase di definizione in cui bisogna prestare più attenzione a consumare una sufficiente quantità di carboidrati, anche a discapito di quella dei grassi, per sostenere l’allenamento, in fase di massa questo “problema” non c’è.
Infatti, data la maggior quantità di calorie a disposizione è più facile poter gestire i macronutrienti: è possibile incrementare i grassi senza preoccuparti di non mangiare abbastanza carboidrati.
I lipidi possono così andare a coprire il 20-30% delle tue calorie giornaliere (minimo 0.5 g/kg peso corporeo). Se preferisci e/o ti fa ottenere maggiori risultati, puoi alzare i grassi fino al 40%.
Tuttavia, è importante ricordare che nella fase di massa è doveroso porre prima l’attenzione alle calorie e al fabbisogno proteico; solo poi alla variazione della distribuzione dei grassi e dei carboidrati, dato che è di secondaria importanza per l’ottenimento dei risultati.
Insomma, puoi gestirti come preferisci tra glucidi e lipidi!
Macronutriente
Proteine
Grassi
Carboidrati
Quantità
1.6-2.2 g/kg peso corporeo
20-30% del totale calorico, minimo 0.5 g/kg
Le restanti calorie, minimo 1 g/kg
Conclusioni sul fabbisogno giornaliero di grassi
Il messaggio da portare a casa è che non tutti i grassi vengono per ingrassare! Anche per il fabbisogno lipidico ci sono dei valori minimi da rispettare per stare in salute e da calibrare a seconda del tuo obbiettivo.
Prenderai più peso con una dieta sregolata e in eccesso calorico cronico che con un regime alimentare normocalorico ad alto contenuto di lipidi!
Bibliografia
Helms (2018). “The muscle & strength pyramid – Nutrition”.
Dolore alla spalla in palestra: cause ed esercizi efficaci
Il dolore alla spalla in palestra è una condizione molto frequente negli appassionati di Fitness Bodybuilding. L’articolazione della spalla è infatti la più soggetta ad infortuni nei frequentatori di palestra e negli appassionati di allenamento con i pesi. I dolori vengono spesso descritti come “dolori a spillo all’interno della spalla”, che possono influenzare negativamente l’esecuzione degli esercizi o renderla impossibile a causa dell’intensità del dolore, spesso accompagnata dalla paura di danneggiare l’articolazione e i muscoli.
Per prevenire e alleviare il dolore alla spalla risulta spesso utile un approccio integrato, che si prefigga di valutare eventuali quadri disfunzionali basandosi sulla conoscenza specifica delle cause e nella fattispecie delle cause di dolore alla spalla riconducibili all’ambiente specifico della palestra. In questo senso è fondamentale una conoscenza approfondita delle dinamiche biomeccaniche degli esercizi e della clinica riabilitativa validata dalle evidenze scientifiche. Vediamo ora quali possono essere i sintomi e le cause del dolore alla spalla in palestra, per poi analizzare i rimedi e gli esercizi più efficaci.
Infortuni comuni alla spalla in palestra
Il dolore alla spalla percepito durante gli esercizi in palestra è nella maggior parte dei casi riconducibile a quadri che rientrano nella “sindrome da dolore subacromiale” (proposto da alcuni autori in sostituzione dell’oramai obsoleto termine “sindrome da conflitto/impingement subacromiale”) con presenza di tendinopatia della cuffia dei rotatori (in particolare del muscolo sovraspinato) e possibile tendinopatia del capo lungo del bicipite e/o infiammazione della borsa sotto-deltoidea (borsite).
Altri quadri patologici capaci di causare dolore alla spalla in palestra possono essere situazioni di instabilità di spalla (con possibile presenza di storia passata o recente di lussazioni di spalla), spesso accompagnate da lesioni del labbro (o cercine) glenoideo. Queste ultime sono di frequente riscontro nei lanciatori e negli atleti di sport “overhead” (come la pallavolo e la pallanuoto). Anche le problematiche a carico dell’articolazione acromion-clavicolare sono riscontrabili fra le cause di dolore alla spalla in palestra.
In ultimo, il dolore alla spalla può essere causato da una problematica al rachide cervicale o toracico, dolore che in questi casi origina da queste zone e può diffondere fino alla zona della spalla. Quadri di questo tipo sono comunque molto meno frequenti rispetto a quelli precedentemente elencati.
Dolore alla spalla in palestra: quali sono i sintomi
Il dolore alla spalla avvertito in palestra ha spesso un esordio lento e in assenza di un vero e proprio trauma che lo possa giustificare, inizia spesso senza un apparente motivo e va via via peggiorando (fase acuta) per poi stabilizzarsi (fase cronica). È generalmente profondo, molto localizzato, più tipicamente anteriormente, posteriormente o lateralmente sulla spalla, in un’area ristretta che non irradia mai oltre l’inserzione del deltoide. È un dolore acuto, descritto come uno “spillo” o qualcosa “che punge nella spalla”, o ancora come un dolore “a fitta” come una pugnalata, e intermittente, evocato e riprodotto ogniqualvolta si esegue un determinato movimento o esercizio. I movimenti che tipicamente possono evocare questo tipo di dolore sono l’abduzione/flessione portando il braccio sopra la testa (come nel Lento Avanti) , l’adduzione orizzontale portando la mano verso la spalla opposta (come nella Panca Piana) e l’estensione portando la mano vero la direzione posteriore (come nel Pulley).
Durante l’ esecuzione del movimento/esercizio incriminato è presente generalmente un cosiddetto “arco doloroso”, con una parte specifica del movimento in cui il dolore è presente e con la restante parte in cui esso scompare. Spesso sono presenti delle recidive periodiche di dolore nei periodi di allenamento intenso. Per alcuni, una volta insorto, il dolore alla spalla diviene quasi un “compagno di allenamento” con il quale dover convivere anche per molto tempo.
Cause del dolore alla spalla in palestra
Le principali cause che possono portare allo sviluppo del dolore alla spalla in palestra possono essere suddivise in cause di natura intrinseca e cause di natura estrinseca. I fattori di natura intrinseca sono i seguenti:
Invecchiamento e degenerazione tendinea, con possibile correlazione all’età (comuni dopo i 40 anni), a una predisposizione genetica o a una scarsa vascolarizzazione dei tendini. Questi cambiamenti indeboliscono i tendini che risultano pertanto meno resistenti ai carichi e più suscettibili a lesioni.
Eccessivo sovraccarico funzionale, il quale determina un’alterazione della matrice tendinea. Sia per neofiti che per soggetti avanzati è fondamentale impostare una progressione dei carichi di lavoro razionale e rispettare i tempi di recupero e ricondizionamento tendineo, evitando di eccedere con il carico funzionale sulla spalla.
Anche tecniche esecutive approssimate e non ottimali possono contribuire ad aumentare il rischio di infortuni e dolore alla spalla. A tal riguardo è bene fare una precisazione: il dolore alla spalla si manifesta spesso dopo mesi o anni di usura articolare da esecuzioni errate o esercizi forzati in soggetti predisposti. Per questo è bene porsi nell’ottica della prevenzione e della scienza applicata abbandonando la mentalità superficiale del “io non ho mai visto nessuno farsi male con…” o del “l’ho sempre fatto così e non mi sono fatto mai male…”. Non esistono infatti esercizi “totalmente giusti” o “totalmente sbagliati”, ma esistono esercizi con un fattore di rischio più o meno alto, che andrà sempre analizzato tenendo conto del contesto generale del soggetto.
Tra i fattori di natura estrinseca troviamo invece alcune disfunzioni articolari e alterazioni strutturali come:
Rigidità gleno-omerale con conseguenti alterazioni nell’allineamento e nella biomeccanica della testa omerale durante i movimenti della spalla. Di comune riscontro in chi si allena in palestra è la rigidità della capsula posteriore associata ad una lassità della capsula anteriore della spalla, con testa omerale anteposta.
Morfologia dell’acromion “a uncino” e artrosi avanzata dell’articolazione acromion-claveare (condizioni tipicamente riportate in soggetti sopra i 40 anni di età).
Instabilità gleno-omerale provocata da una scarsa performance dei muscoli della cuffia dei rotatori (debolezza o scarsa resistenza e controllo motorio) e degli stabilizzatori scapolari, sfociante in uno scarso controllo della testa dell’omero durante il movimento di spalla, con eccessiva migrazione superiore dell’omero in abduzione. Questa condizione è tipica nei soggetti molto lassi o nei soggetti che hanno subito operazioni chirurgiche alla spalla.
Alterazione del normale allineamento statico e della normale dinamica scapolare durante il movimento della spalla
Combinazione di alcuni movimenti come l’abduzione e l’intrarotazione, e l’abduzione e il tilt anteriore scapolare, che aumentano per loro natura gli stress compressivi a carico dei tessuti molli sotto-acromiali.
Allineamento statico in ipercifosi con spalle anteposte
Dolore alla spalla durante e dopo la panca piana
La panca piana con bilanciere è uno degli esercizi che più mette a dura prova il complesso articolare della spalla, e di conseguenza sono davvero numerosi i soggetti che sviluppano dolore alla spalla facendo questo esercizio.
Il dolore alla spalla avvertito durante la panca piana e negli esercizi affini (panca inclinata, croci, push-up ecc…) si presenta di solito con le caratteristiche descritte nei paragrafi precedenti, e il tipico arco doloroso corrisponde ai primi gradi di movimento, all’inizio della fase concentrica, quando il bilanciere o i manubri vengono spinti dal petto. Il dolore tende di solito a svanire una volta superata questa escursione di movimento, per poi ripresentarsi allo stesso modo nella ripetizione successiva.
Anche le possibili cause di tale dolore sono riscontrabili fra quelle precedentemente citate: dolori alla spalla durante la panca sono infatti spesso accompagnati da quadri di “sindrome da dolore subacromiale” e di tendinopatia dei muscoli della cuffia dei rotatori e/o del capo lungo del bicipite, con possibile associazione di borsiti.
In questi casi sono spesso presenti anche situazioni di sovraccarico funzionale, allenamenti poco graduali disfunzioni articolari come la rigidità della capsula posteriore.
Anche un alterato allineamento scapolare sia statico che dinamico può contribuire al dolore, in particolare al dolore alla spalla quando si alza il braccio. In generale possiamo affermare che una scapola posizionata male in partenza (allineamento statico) o che si muove male (allineamento dinamico) è uno dei principali fattori contribuenti all’infortunio alla spalla in ambiente fitness.
L’ampiezza dello spazio sub-acromiale è strettamente influenzata dall’intimo rapporto tra omero e scapola. La condizione che in assoluto di più aumenta la compressione dei tessuti molli durante il movimento è l’associazione di abduzione e rotazione interna.
Abduzione associata a rotazione interna dell’omero
Una combinazione di movimenti di questo tipo è facilmente riprodotta durante esecuzioni scorrette alla Panca Piana. L’esecuzione della Panca senza il corretto assetto scapolare risulta molto instabile e può facilmente generare un’intrarotazione dell’omero indesiderata specie se la traiettoria non è lineare e il soggetto è affaticato. Lo si nota facilmente osservando il soggetto dall’alto spingere portando i gomiti “in alto” e perdendo la linearità con il polso.
Intrarotazione dell’omero durante il movimento di spinta: evitate di alzare i gomiti durante la panca piana
Il tilt anteriore scapolare è anch’esso una condizione nella quale lo spazio sub-acromiale risulta diminuito in ampiezza, esponendo i tessuti molli a un maggior rischio di stress compressivi. È un quadro statico tipico di chi svolge lavori sedentari, con ipercifosi e spalle anteposte. Una maggiore attenzione alla corretta tecnica di esecuzione degli esercizi dovrà essere posta nei riguardi di questi soggetti.
Spalle anteposte e tilt scapolare anteriore
La Panca Piana (e in generale tutti gli esercizi di spinta da sdraiati) creano forze inerziali che portano la scapola in questo particolare allineamento, esponendo la spalla a forze potenzialmente lesive. Per tale ragione va curato in maniera maniacale il corretto assetto scapolare che aumenterà l’ampiezza dello spazio sub-acromiale (adduzione, depressione e tilt posteriore) durante l’esecuzione di tali esercizi.
I rimedi per il dolore alla spalla nella panca piana si baseranno sull’evitamento/limitazione delle linee di movimento dolorose e sull’adattamento dell’esercizio incriminato (nel nostro caso la panca) attraverso un cambio del piano di lavoro e/o del ROM di movimenti. In alcuni casi risulterà utile sostituire temporaneamente l’esecuzione di questo esercizio con bilanciere con lo stesso esercizio eseguito con dei manubri, poichè questi permettono un maggior svincolo articolare, risultando pertanto più adattabili e funzionali alla ricerca di un piano di movimento non doloroso.
Durante l’esecuzione della panca sarà inoltre fondamentale mantenere un corretto assetto scapolare in retrazione scapolare, depressione e tilt posteriore. Anche la traiettoria dovrà essere curata, con una spinta che dal basso sterno arriverà a livello del collo e del mento, evitando di “alzare” i gomiti.
Da un punto di vista della programmazione sarà importante modulare al meglio i parametri allenanti, stando ben attenti a non eccedere con il volume di allenamento e con i carichi ed evitando (in caso di dolore) lavori a cedimento, serie lunghe con affaticamento finale che “sporca” l’assetto e la tecnica esecutiva, e ripetizioni forzate. Saranno invece da prediligere lavori con ampio buffer e una progressione graduale dei carichi.
L’inserimento di alcuni esercizi mirati alla correzione delle possibili disfunzioni muscolari e articolari potranno essere molto utili. Fra questi troviamo esercizi di mobilità e propriocezione, esercizi di stretching capsulare e muscolare (piccolo e grande pettorale) ed esercizi di rinforzo per i muscoli stabilizzatori della scapola e per la cuffia dei rotatori.
Dolore alla spalla durante il Lento Avanti (o Military Press)
Un’altra categoria di esercizi che molto di frequente è coinvolta in quadri di dolore alla spalla è quella che riguarda i cosiddetti esercizi “overhead”, come il Lento Avanti o Military Press, proposti allo scopo di stimolare muscoli come il deltoide e il trapezio superiore, e di allenare il movimento di spinta verso l’alto.
Anche in questo caso il dolore si presenta spesso intermittente e fortemente riproducibile, descritto come “uno spillo” o una fitta anteriormente, posteriormente o lateralmente sulla spalla. L’arco di movimento doloroso in questo caso è tendenzialmente riportato all’incirca tra i 60° e i 120° di abduzione o quando le braccia sono completamente distese sopra la testa, con il dolore riprodotto sempre allo stesso modo ad ogni ripetizione. La restante parte del movimento è invece libera dal dolore.
Ancora una volta in questi casi il dolore è riconducibile a quadri di tendinopatia della cuffia e/o del capo lungo del bicipite, di sindrome da dolore subacromiale e borsiti, le cui cause sono identificabili nei fattori estrinseci ed intrinseci elencati precedentemente, spesso combinati a volumi di allenamento eccessivi e alla mancanza di una progressione graduale dei parametri allenanti nel tempo.
I rimedi per il dolore alla spalla negli esercizi overhead seguiranno i medesimi principi di quelli seguiti in caso di dolore durante la panca: evitamento/limitazione delle linee di movimento dolorose e adattamento dell’esercizio incriminato (nel nostro caso Lento Avanti o Military Press) attraverso un cambio del piano di lavoro e/o del ROM di movimenti. In alcuni casi risulterà utile sostituire temporaneamente l’esecuzione di questo esercizio con bilanciere con lo stesso esercizio eseguito con dei manubri, poichè questi permettono un maggior svincolo articolare, risultando pertanto più adattabili e funzionali alla ricerca di un piano di movimento non doloroso.
Durante il Lento Avanti sarà inoltre importante fare attenzione al movimento della scapola in funzione dell’omero. In questo caso il movimento è un’abduzione completa dell’omero e la scapola, come il ritmo scapolo-omerale ci insegna, deve compiere un naturale movimento di elevazione, rotazione craniale e tilt posteriore.
Soggetti con allineamento statico alterato (scapola ruotata caudalmente, depressa e/o in tilt anteriore) potrebbero faticare a raggiungere la corretta posizione della scapola durante il movimento esponendosi a un aumentato rischio di stress compressivi. Sarà importante una corretta supervisione del movimento in esame ed eventualmente correggere eventuali asimmetrie ed enfatizzare i movimenti scapolari corretti tramite feedback tattili e verbali.
Correzione dei movimenti scapolari durante il lento avanti
Durante l’esecuzione del Lento Avanti sarà inoltre consigliabile il costante mantenimento della linearità tra gomito e polso durante tutta l’esecuzione del movimento, evitando di portare i gomiti troppo indietro e di riprodurre in questo modo un’intrarotazione potenzialmente stressante.
Esecuzione corretta del lento avanti con spalla in posizione neutra e linearità tra gomito e polso
Rimanendo in quest’ottica, risultano sconsigliabili anche la variante in intrarotazione pura delle Alzate Laterali e l’esercizio Tirate al Mento eseguito in modo classico con i gomiti molto alti che superano l’altezza del petto. Nel primo caso saranno consigliabili varianti meno stressanti come quelle in rotazione neutra o in rotazione esterna parziale, mentre nel secondo caso un’esecuzione con gomiti bassi, portati massimo all’altezza del petto, al fine di neutralizzare il più possibile la rotazione interna omerale associata.
Variante di alzate laterali consigliata in extrarotazione parziale dell’omero
Da un punto di vista della programmazione anche qui sarà importante modulare al meglio i parametri allenanti, non eccedendo con il volume e l’intensità di allenamento ed evitando (in caso di dolore) lavori a cedimento, serie lunghe con affaticamento finale e ripetizioni forzate. Saranno invece da prediligere lavori con ampio buffer e una progressione graduale dei carichi.
L’inserimento di esercizi mirati alla correzione delle possibili disfunzioni muscolari e articolari (esercizi distretching capsulare e muscolare ed esercizi di rinforzo per i muscoli stabilizzatori della scapola e per la cuffia dei rotatori) potranno risultare molto utili.
Dolore alla spalla dopo la palestra
Nella maggior parte dei casi il dolore alla spalla in palestra è di tipo intermittente, avvertito quando vengono eseguiti determinati movimenti o esercizi, e assente una volta che tali esercizi sono terminati e quando l’allenamento in palestra è concluso. In alcuni casi, tuttavia, può succedere che il dolore non sparisca al termine dell’esercizio incriminato e che, al contrario, rimanga presente (o che addirittura vada aumentando) nelle 24 ore successive all’allenamento, anche con movimenti banali o addirittura stando a riposo.
Condizioni di questo tipo sono tipiche di fasi molto acute del dolore di spalla, con presenza di alti tassi di irritabilità dei tessuti e possibile infiammazione di alcuni di questi. In questi casi probabilmente le attuali capacità funzionali delle strutture muscoloscheletriche non sono abbastanza elevate da gestire i carichi imposti durante gli allenamenti, risultando così più soggette a lesioni e infortuni.
Talvolta, in quadri di dolore molto acuto con elevata irritabilità è consigliabile un breve periodo di riposo dagli allenamenti, in modo da lasciare che il fisiologico processo di guarigione faccia il suo corso. Tuttavia, vista la natura non infiammatoria di alcune patologie della spalla (come le tendinopatie) e la natura infiammatoria di altre (come le borsiti) sarà fondamentale valutare singolarmente ogni caso nel dettaglio per comprendere quale possa essere la più ottimale gestione del processo di recupero.
Quanto dura il dolore alla spalla
I dolori di spalla possono essere molti diversi fra loro, così come diverse possono essere le possibili cause, e di conseguenza la durata dei sintomi: un dolore insorto da pochi giorni, magari dopo un movimento brusco o una contusione, sarà molto di verso da un dolore che perdura da anni (con possibile presenza di sensibilizzazione del sistema nervoso centrale), e inevitabilmente anche il tempo di cui le due condizioni avranno bisogno per recuperare sarà ben diverso. Per tale ragione, è impossibile definire con certezza e a priori un tempo di guarigione che sia uguale per ogni dolore di spalla.
In alcuni casi il dolore può svanire anche dopo pochi giorni o poche settimane, mentre in altri casi può arrivare a durare mesi o anche anni. Considerata la natura multifattoriale del dolore, a decidere e/o influenzare i tempi di recupero saranno una moltitudine di fattori, alcuni modificabili e altri non modificabili.
In ogni caso, nella maggior parte dei casi il dolore di spalla tende a perdurare per un intervallo temporale che va indicativamente dalle 2 alle 12 settimane. Nel caso delle tendinopatie della cuffia dei rotatori (una delle principali cause di dolore alla spalla) la letteratura considera le 12 settimane un tempo medio per una possibile guarigione; tempo che può dilungarsi (arrivando fino anche alle 24 settimane) nel caso in cui siano presenti altre patologie concomitanti (diabete, ipercolesterolemia, obesità…) e/o in caso di recidive di dolore di spalla pregresso.
Rimedi efficaci per il dolore alla spalla
Una volta analizzate le possibili cause di dolore alla spalla in palestra, quali sono i possibili rimedi per una sua corretta gestione? Come già accennato in precedenza, anche in questo caso la gestione del dolore dovrà essere contestualizzata in base alle caratteristiche e alla storia del soggetto, alla tipologia di quadro patologico e alle attuali capacità funzionali. In generale possiamo affermare che le strategie più efficaci per gestire il dolore di spalla durante gli allenamenti, sia in ottica preventiva che riabilitativa, sono le seguenti:
Rispetto delle corrette esecuzioni degli esercizi, specie negli esercizi più soggetti al dolore di spalla come la Panca Piana, il Lento Avanti e le Alzate Laterali. Dovranno essere preferite varianti con il più basso fattore di rischio possibile, e sarà fondamentale il costante mantenimento di un corretto assetto scapolare durante gli esercizi.
Alzate laterali in intrarotazione e tirate al mento sono esercizi da limitare per preservare la salute articolare della spalla nel lungo periodo
Evitamento/limitazione di linee di movimento dolorose, ricercando temporaneamente piani di movimento e ROM non dolorosi, per poi tornare gradualmente agli schemi motori originali quando il dolore sarà svanito.
Rispetto della gradualità nella programmazione e nella progressione dei parametri allenanti, evitando (in casi di dolore) lavori a cedimento e serie lunghe e forzate, prediligendo invece lavori con un discreto buffer.
Inserimento di esercizi specifici finalizzati alla correzione delle eventuali disfunzioni articolari e muscolari riscontrate con un’apposita valutazione. Rientrano in questa categoria esercizi di rinforzo/resistenza/performance muscolare (spesso necessari per i muscoli della cuffia dei rotatori e per alcuni muscoli periscapolari come il trapezio medio e inferiore o il gran dentato), esercizi di allungamento muscolare e/o capsulare, esercizi di mobilità ed esercizi di propriocezione.
Extrarotazioni con elastico per il rinforzo dei muscoli extrarotatori di spalla
Gli esercizi per la spalla dolorosa costituiscono una fondamentale parte del trattamento rivolto alla risoluzione del dolore alla spalla. Questa è infatti una condizione tanto frequente quanto difficile da affrontare, per via della varietà della manifestazione clinica e per la soggettività delle cause scatenanti. In virtù di ciò, risulta davvero indispensabile inquadrare la problematica nello specifico, comprenderne la natura, per poi farvi fronte anche grazie ad appositi esercizi terapeutici per lespalle.
I dolori alla spalla possono avere diversa natura e nella maggioranza dei casi la loro eziologia è multifattoriale. Spesso infatti non vi è una sola causa ma bensì una moltitudine di queste, accompagnate dalla presenza di numerosi fattori contribuenti, fra i quali spesso si riscontrano strutture troppo rigide o muscoli deboli e scarsamente performanti. Fra gli appassionati dell’allenamento in palestra e del bodybuilding la spalla è l’articolazione più soggetta a dolori e infortuni, con un importante impatto negativo sulla qualità degli allenamenti.
Una volta appurate le possibili cause sottese al dolore, si potrà ovviare attraverso la somministrazione di esercizi mirati a risolvere le problematiche alla base e ridare funzionalità a tutto il complesso articolare della spalla. Quali sono, secondo la letteratura scientifica, gli esercizi più efficaci in caso di spalla dolorosa? Andiamo a scoprirlo.
Spalla dolorosa: possibili cause
In un’ottica anatomo-patologica i quadri patologici più frequenti nella spalla dolorosa sono le tendinopatie della cuffia dei rotatori e/o del capo lungo del bicipite, infiammazione della borsa sotto-deltoidea (“borsite”) e rappresentazioni cliniche della cosiddetta “sindrome da dolore subacromiale” (termine proposto da alcuni autori in sostituzione dell’oramai obsoleta etichetta di “impingement/conflitto subacromiale”).
Altre possibili patologie della spalla sono rappresentate dall’instabilità di spalla (dovuta a una lassità congenita con associata debolezza muscolare o conseguente ad un trauma lussativo) con possibile presenza associata di lesioni del labbro (o cercine) glenoideo (tipiche nei lanciatori o negli atleti di sport “overhead” come baseball, pallavolo e pallanuoto), lesioni piccole, medie o a tutto spessore della cuffia dei rotatori (in primis del muscolo sovraspinato) traumatiche o degenerative, impingement esterno e coracoideo, patologie dell’articolazione acromioclaveare (artrosi, lussazioni…) e la cosiddetta “spalla congelata” o “capsulite adesiva” (un processo infiammatorio a carico della capsula articolare della spalla).
Un dolore alla spalla può anche esser dovuto, seppur raramente rispetto alle patologie appena citate, a una problematica della colonna cervicale o toracica, che trova nel territorio della spalla una zona di diffusione e irradiazione del dolore provocato.
Ragionando invece da un punto di vista anatomo-funzionale, le principali cause che possono portare allo sviluppo del dolore alla spalla possono essere suddivise in cause di natura intrinseca e cause di natura estrinseca. I fattori di natura intrinseca sono i seguenti:
Invecchiamento e degenerazione tendinea, con possibile correlazione all’età (comuni dopo i 40 anni), a una predisposizione genetica o a una scarsa vascolarizzazione dei tendini. Questi cambiamenti indeboliscono i tendini che risultano pertanto meno resistenti ai carichi e più suscettibili a lesioni. Anche la presenza di particolari predisposizioni genetiche e di un’associata presenza di ulteriori patologie concomitanti (come il diabete e l’ipercolesterolemia) può peggiorare la prognosi del dolore di spalla.
Eccessivo sovraccarico funzionale, il quale determina un’alterazione della matrice tendinea. Negli allenamenti sarà fondamentale impostare una progressione dei carichi di lavoro razionale e rispettare i tempi di recupero e ricondizionamento tendineo, evitando di eccedere con il carico funzionale sulla spalla. Anche tecniche esecutive approssimate e non ottimali possono contribuire ad aumentare il rischio di infortuni e dolore alla spalla.
Tra i fattori di natura estrinseca troviamo invece alcune disfunzioni articolari e alterazioni strutturali come:
Rigidità gleno-omerale con conseguenti alterazioni nell’allineamento e nella biomeccanica della testa omerale durante i movimenti della spalla.
Morfologia dell’acromion “a uncino” e artrosi avanzata dell’articolazione acromion-claveare (condizioni tipicamente riportate in soggetti sopra i 40 anni di età).
Instabilità gleno-omerale provocata da una scarsa performance dei muscoli della cuffia dei rotatori (debolezza o scarsa resistenza e controllo motorio) e degli stabilizzatori scapolari, sfociante in uno scarso controllo della testa dell’omero durante il movimento di spalla, con eccessiva migrazione superiore dell’omero in abduzione. Questa condizione è tipica nei soggetti molto lassi o nei soggetti che hanno subito operazioni chirurgiche alla spalla.
Alterazione del normale allineamento statico e della normale dinamica scapolare durante il movimento della spalla
In ultimo, la recente letteratura scientifica ha riscontrato un’elevata influenza dei fattori “psicosociali” riguardo al dolore di spalla e all’intensità dolorosa percepita. In questa categoria rientrano fattori come ansia, catastrofizzazione, depressione, credenze errate, preoccupazioni eccessive e vissuto della persona. Tali fattori sono alla base del processo di “shift” da dolore “fisiologico” a dolore “persistente” con associata sensibilizzazione del sistema nervoso centrale.
Esercizi per la spalla dolorosa
La letteratura scientifica ha oramai concluso all’unanimità che l’esercizio terapeutico rappresenta il trattamento più efficace per il dolore di spalla. Di conseguenza, un piano riabilitativo razionale ed efficace dovrà basarsi prevalentemente sull’esercizio… ma quale esercizi scegliere? Come sempre non vi è una risposta univoca e definitiva che vada bene per tutti, e la scelta degli esercizi dovrà essere basata sulle alterazioni riscontrate in fase di valutazione e sulle caratteristiche soggettive della persona. Possiamo tuttavia fare una panoramica degli esercizi che più spesso vengono proposti per la risoluzione della spalla dolorosa e la cui efficacia è stata dimostrata da numerosi studi scientifici.
Esercizi rinforzo e incremento performance muscolare
Esercizi di rinforzo della cuffia dei rotatori
Molto spesso nei casi di spalla dolorosa sono presenti quadri di debolezza e/o scarsa performance muscolare dei muscoli della cuffia dei rotatori. Gli esercizi di rinforzo per la cuffia dei rotatori risulteranno in questo senso fondamentali. Questi si dividono essenzialmente in due categorie: una mirata al rinforzo dei muscoli extrarotatori sovraspinato, infraspinato e piccolo rotondo, e una mirata al rinforzo del muscolo sottoscapolare (intrarotatore).
Fra i principali esercizi per gli extrarotatori troviamo le extrarotazioni sul fianco, le extrarotazioni da posizione prona o seduta a 90° di abduzione e/o flessione omerale e le extrarotazioni eseguite in piedi con una resistenza elastica e l’omero a diversi gradi di abduzione. Tutti questi esercizi possono essere eseguiti senza sovraccarico o con un sovraccarico generato da manubri o da elastici. In base al quadro di irritabilità e al livello funzionale si può optare per contrazioni isometriche (nei casi di elevata irritabilità e basso livello funzionale) o per contrazioni concentriche ed eccentriche (nei casi di irritabilità tissutale intermedia o bassa e discreto livello funzionale). Potranno essere inseriti in questo contesto anche esercizi con elastici in vari pattern di movimento come le diagonali con elastico, le varianti di wall slide con elastico per favorire l’attivazione degli extrarotatori, e molti altri ancora.
Esercizi di rinforzo dei muscoli periscapolari
Nei quadri di spalla dolorosa un altro gruppo muscolare che spesso va incontro a debolezza e alterazioni è quello dei muscoli periscapolari, detti anche “stabilizzatori della scapola”. Rientrano in questo complesso il muscolo trapezio (con i suoi fasci superiori, intermedi e inferiori), i muscoli romboidi e il gran dentato (o dentato anteriore).
Esercizi efficaci per allenare questi muscoli sono gli Shrug (per il rinforzo del trapezio superiore), le alzate laterali da prono (nelle varie propedeutiche e progressioni) con enfasi sul trapezio medio e romboidi o sul trapezio inferiore in base alla variante scelta; esercizi di tirata orizzontale (o “remata”) con cavi o elastici, esercizi di tirata con elastici poste a varie altezze per creare più enfasi sul trapezio medio e romboidi o sul trapezio inferiore.
Anche esercizi come il wall slide e gli esercizi di depressione scapolare (come il Press-up o gli Scapular-pull up) saranno efficaci per il rinforzo del muscolo trapezio inferiore. Il gran dentato invece potrà essere rinforzato grazie ad esercizi come il Plank plus, Push-up Plus, Dynamic Hug, diagonali con manubrio e Landmine Press.
Esercizi di rinforzo dei muscoli deltoide, gran pettorale e gran dorsale
Una adeguata funzionalità e performance dei muscoli deltoide, gran pettorale e gran dorsale è di grande importanza ai fini della salute della spalla. Va inoltre considerato che anche i muscoli della cuffia dei rotatori e i muscoli periscapolari sono molto attivi (sia per stabilizzare che per ottimizzare il movimento della spalla) nella quasi totalità degli esercizi con focus su deltoide, pettorale e dorsale.
Fra i principali esercizi per questi distretti muscolari troviamo le alzate laterali (con manubri, cavi o elastici), adduzioni con elastici (con lieve flessione di spalla associata per un focus sul gran pettorale, o lieve estensione associata per un focus sul gran dorsale), estensioni di spalla, rematori, trazioni per il gran dorsale, push-up, spinte orizzontali e croci (ai cavi, con elastici o con manubri) per il gran pettorale.
Esercizi per la spalla con coinvolgimento della catena cinetica
Di recente la letteratura ha investigato il ruolo della catena cinetica (in questo caso intesa come la muscolatura del tronco e dell’arto inferiore controlaterale alla spalla dolente) negli esercizi terapeutici per la spalla dolorosa, concludendo che un suo inserimento negli esercizi è in grado di favorire una maggior attivazione dei muscoli target come infraspinato, trapezio inferiore e gran dentato.
Alcuni esempi di esercizi per la spalla che coinvolgono la catena cinetica sono le elevazioni di spalla eseguite con un simultaneo passo in avanti dell’arto inferiore opposto alla spalla dolente, o eseguite simultaneamente a uno squat o ad un affondo. Inserire anche una resistenza elastica fra i dorsi delle mani permetterà un’ulteriore attivazione dei muscoli extrarotatori.
Esercizi per aumento della stabilità di spalla
Nei casi di instabilità di spalla, con debolezza muscolare e/o alterazioni nella coordinazione e nel controllo motorio fra i vari distretti muscolari della spalla, sarà importante inserire esercizi mirati all’incremento della performance muscolare, del controllo motorio e in particolare dell’azione stabilizzatrice di alcuni muscoli (in primis i muscoli della cuffia dei rotatori e gli stabilizzatori della scapola).
A tal riguardo esistono numerosissimi esercizi: alcuni esempi sono gli esercizi a “catena cinetica chiusa” come il plank e le sue varianti (in particolare il plank eseguito in appoggio sulle mani, su una mano sola o su una superficie instabile) o i “wall ball slide” ; esercizi con contrazioni pliometriche ripetute a bassa intensità, push-up pliometrici (eseguiti in ordine crescente di difficoltà al muro, su un rialzo inclinato a 45° o sul pavimento) ed esercizi specifici di rinforzo per la cuffia dei rotatori a vari ROM.
Esercizi di stretching (allungamento) e mobilità
Oltre agli esercizi di rinforzo, in un piano riabilitativo completo è spesso necessario inserire anche esercizi di allungamento per le strutture o i movimenti riscontrate rigide/i in fase di valutazione (tali esercizi risultano spesso fondamentali anche nei casi post-operatori).
Esercizio di mobilità in flessione di spalla con un rialzo (una sedia)
In questo senso potranno essere utili esercizi di recupero della mobilità in intrarotazione come il Cross Body Stretch, lo Sleeper Stretch e l’intrarotazione assistita con asciugamano o bastone (eseguita con le mani dietro la schiena); esercizi di recupero della mobilità in extrarotazione, estensione ed intrarotazione mediante l’assistenza di un bastone; esercizi di recupero della mobilità in flessione come l’ Open Book Stretch, l’automobilizzazione in flessione con elastico (per favore il movimento accessorio della testa omerale) e l’automobilizzazione in flessione in ginocchio con il supporto di un rialzo o una panca.
Tramite l’assistenza di foam roller, di un muro o di una spalliera, potranno essere eseguiti esercizi di stretching dei muscoli grande rotondo, grande e piccolo pettorale, romboidi, deltoide, trapezio superiore ed elevatore della scapola.
L’esercizio sleeper stretching per lo stretching della capsula posteriore della spalla
Esercizi di propriocezione scapolare
Nei quadri di spalla dolorosa, specie quando il dolore è presente da molto tempo, sono spesso presenti alterazioni nella propriocezione scapolare, in particolare dei movimenti di retrazione e/o rotazione craniale della scapola. Esercizi di recupero della propriocezione scapolare in questi movimenti con l’utilizzo di un bastone o una fitball potranno risultare molto efficaci.
Esercizi sport specifici
Nei casi di dolore di spalla in atleti amatoriali o agonistici, dove l’obbiettivo principale non è solo la risoluzione della sintomatologia dolorosa, ma il ritorno allo sport, è fondamentale inserire (nelle fasi finali del percorso riabilitativo, una volta che il dolore sarà diminuito e la funzionalità sarà aumentata) esercizi “sport-specifici”, che vadano a mimare quanto più possibile il gesto specifico che verrà poi riprodotto numerose volte durante l’attività sportiva. Questo permetterà alle struttture muscoloscheltriche di adattarsi gradualmente agli elevati stress imposti da tali gesti sportivi. Alcuni esempi sono i seguenti:
Nei nuotatori si può parzialmente riprodurre la posizione sport-specifica attraverso degli esercizi di rinforzo (per esempio extrarotazioni o abduzioni con manubri) eseguiti in posizione prona sopra una fitball, aumentando la richiesta di stabilità del tronco e mimando la posizione del nuotatore in acqua.
Nei lanciatori si potrà riprodurre il gesto del lancio utilizzando una resistenza esterna fornita da un elastico o dai cavi, in modo da poter regolare l’intensità della resistenza esercitata in opposizione al gesto del lancio riprodotto. In tale modo si potrà scegliere e regolare se allenare il gesto del lancio con ROM parziali o completi, modificando a propria scelta anche la velocità del gesto in funzione degli obbiettivi e del livello funzionale attuale.
Il medesimo discorso vale anche per altri sport come la pallavolo, il tennis, la pallamano ecc…Nelle varie fasi riabilitative si potrà progredire modificando le variabili di questi esercizi, con l’obbiettivo di renderli nel tempo sempre più simili ai gesti motori che saranno riprodotti nelle attività sportive.
Conclusioni sulla spalla dolorosa
Concludendo, possiamo affermare che seppure la spalla dolorosa rappresenti una problematica estremamente diffusa al giorno d’oggi, disponiamo di strumenti semplici ed efficaci alla portata di tutti, strumenti hanno ormai ricevuto la totale approvazione dalla ricerca scientifica. Attraverso una adeguata valutazione e ad un conseguente piano riabilitativo basato su esercizi specifici e progressivi sarà possibile aumentare la funzionalità della spalla e ridurne il dolore in modo efficace e duraturo.
Uno degli aspetti più trascurati dell’allenamento è il recupero muscolare, infatti molto spesso, in palestra ci si concentra molto sul lavoro effettuato, dimenticando che il miglioramento delle nostre prestazioni fisiche, e della nostra composizione corporea avvengono durante il riposo, grazie al principio della supercompensazione.
La supercompensazione è un processo fisiologico che si verifica al termine di uno sforzo fisico, producendo un calo transitorio della performance, per poi avere una successiva risalita, con un conseguente miglioramento del livello di prestazione. In sostanza, la supercompensazione è una sorta di recupero in eccedenza.
Detto ciò, possiamo comprendere quanto il recupero muscolare sia importante per permetterci di ottenere gli obiettivi prefissati, e di come anche esso necessiti di una programmazione ben strutturata.
Diverse sono le strategie proposte nell’ambito del fitness e del bodybuilding: corretta alimentazione/integrazione, l’utilizzo del ghiaccio o dell’acqua fredda, il recupero attivo, il recupero passivo ecc. In questo articolo cercheremo di analizzare qualcuno di questi approcci al fine di comprendere quale strategia sarebbe bene adoperare ed in quale modalità.
Recupero muscolare nel bodybuilding
Anche nel contesto relativo al body building il recupero muscolare è importante per raggiungere gli obiettivi prefissati, infatti in seguito ad un allenamento in palestra, viene alterata l’omeostasi del nostro corpo, che prima era in condizioni di equilibrio, ed è fondamentale che l’allenamento sia programmato in maniera tale da generare un’adeguata quantità di stress (eustress) per raggiungere un’ottimale risposta di adattamento.
Un allenamento svolto in condizioni di mancato recupero neuro-muscolare impedirà all’atleta di adattarsi allo stress imposto dall’allenamento (che in questo caso diventerà distress) aumentando il rischio di contrarre infortuni da sovraccarico o di andare in contro alla condizione di over-training.
Il recupero muscolare, è determinato da diverse variabili:
l’età, lo stato di allenamento del soggetto;
il sesso, lo stato emotivo;
i fattori ambientali sembrerebbero essere tutti fattori che favoriscono o penalizzano il recupero.
Un soggetto più adulto, generalmente necessita di un tempo di recupero più lungo rispetto ad un soggetto giovane; un soggetto più allenato invece riesce a recuperare prima rispetto ad un soggetto meno allenato poiché riesce ad adattarsi più velocemente agli stimoli indotti dall’allenamento.
Per quanto concerne le differenze di genere, tendenzialmente le donne hanno bisogno di tempi di recupero più ampi rispetto agli uomini a causa delle differenze endocrine. Non sono da trascurare gli aspetti psicologici della persona: la mancanza di volontà, stati emotivi di ansia, depressione o paura potrebbero sfavorire il recupero, richiedendo tempi maggiori.
L’obiettivo cardine per un body-builder è quello di incrementare l’ipertrofia muscolare, necessità quindi di stress su diverse aree per poter migliorare: stress ormonale (stimolo endocrino selettivo), stress metabolico (aumento dell’acido lattico, riduzione dei livelli di fosfati e di ATP, abbassamento dei livelli di glicogeno muscolare), stress meccanico (reclutamento elevato, contrazioni eccentriche, rottura dei sarcomeri).
Volendo porre maggior enfasi sullo stress meccanico, possiamo notare come l’ipertrofia sia (in parte) indotta da alcune micro-lesioni a livello del muscolo, e che solo una volta rigenerate permetteranno al nostro muscolo di aumentare la propria dimensione.
Lo stress meccanico è quello che riusciamo a percepire più facilmente: poiché i nostri muscoli attraverso i DOMS ci faranno avvertire una sensazione di dolore e di limitata escursione articolare. L’acronimo inglese DOMS significa dolore muscolare ad insorgenza ritardata, ed è causato da 3 fattori:
distruzione delle linee Z;
ipossia intermittente durante l’esercizio;
aumento della produzione di acido lattico che a causa del suo pH basso danneggia le fibre muscolari
da qui possiamo notare come i 3 fattori che generano l’ipertrofia, seppur apparentemente separati, in realtà sono strettamente connessi tra di loro e operano in simbiosi.
Se vuoi produrre uno stress meccanico significativo dovrai modulare i seguenti fattori: sovraccarico utilizzato, tempo sotto tensione (T.U.T), fase eccentrica lenta e controllata. Di conseguenza in seguito ad un allenamento con queste caratteristiche potresti aver bisogno di un recupero più ampio a causa degli effetti che esso potrebbe avere sulle strutture muscolari e tendinee, infatti i DOMS tendono a comparire dopo 12 ore dall’esercizio e possono durare fino alle 72 successive.
Effettuare allenamenti con un’elevata componente di stress meccanico nel giro di poco tempo sugli stessi gruppi muscolari, potrebbe aumentare il rischio infortunio da sovraccarico in quelle specifiche zone.
Per programmare un allenamento efficace in riferimento allo stress metabolico, uno dei fattori determinanti l’ipertrofia muscolare è l’abbassamento dei livelli di glicogeno: per poter generare uno stress metabolico maggiore, dovrai lavorare sul tempo totale della serie di esercizio, essa dovrà durare tra i 30 e i 60 secondi, tempo necessario a poter determinare l’attivazione del metabolismo lattacido e di conseguenza la glicolisi.
Di contro, però la scarsa presenza di glicogeno muscolare comporterà la secrezione del cortisolo (ormone dello stress) che determinerà il fenomeno del catabolismo proteico, con effetti negativi sulla nostra massa muscolare.
Detto ciò possiamo intuire come una dieta ben bilanciata potrebbe favorire il ripristino del glicogeno e delle altre macromolecole in tempi più brevi con relativi effetti benefici sul recupero muscolare.
Ogni operazione di ripristino dei fattori metabolici (ristabilimento dei fosfati, del glicogeno e rimozione dell’acido lattico da sangue e muscoli) ha dei tempi diversi, tale fattore va tenuto in considerazione durante la periodizzazione dei tuoi allenamenti, questo implicherà delle scelte dettate dal buon senso al fine di prevenire l’over-training, perciò anche in questo caso è bene considerare il tempo di recupero tra una seduta di allenamento e l’altra al fine di evitare rischi di questo genere, ad esempio effettuare due allenamenti prolungati con forte impegno del metabolismo anaerobico lattacido, e conseguente deplezione del glicogeno muscolare, nel giro di poche ore non sembrerebbe essere una scelte metodologicamente adatta.
Processo di recupero
Tempo necessario
Ripristino dell’ATP-PC
2-8 minuti
Ripristino glicogeno muscolare:
-Post esercizio prolungato
-Post esercizio breve e intermittente
10-24 h
5-20 h
Rimozione lattato
30 min-2h (a seconda della tipologia di recupero, se attiva o passiva. Il recupero attivo velocizza questo processo)
Tab. 1: Tempi di recupero post-allenamento. (M.L. Fass et. al, 1998)
La modulazione dei diversi parametri del carico (volume, intensità, densità, frequenza) ti permette di favorire il recupero post-allenamento e rendere quindi effettivamente allenante il tuo piano.
Recupero e acido lattico
Per molto tempo, si è creduto che i dolori post allenamento o altre sensazioni simili fossero legate alla presenza di acido lattico prodotto dopo l’esercizio. Ma è davvero cosi o è solo una credenza popolare?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima sapere cosa è l’acido lattico, e il relativo emivita. L’acido lattico è una molecola chimica, più precisamente è un acido carbossilico con formula chimica C3H6O3. Se la sua concentrazione aumenta oltre le 4mmol/l cominceranno a manifestarsi i primi segni della fatica a causa della dissociazione degli ioni H+ presenti nel suo gruppo carbossilico. Ciò determinerà una diminuzione del pH a livello delle fibre muscolari.
Il Ciclo di Cori ci permette di difenderci dall’eccessivo abbassamento del pH muscolare, infatti il lattato ematico viene riconvertito in glucosio ed utilizzato quindi anche come fonte energetica. L’emivita del lattato varia in base all’età del soggetto e al suo stato di allenamento: soggetti allenati e giovani avranno un’emivita migliore, tuttavia esso è compreso in un intervallo di tempo che va dai 15 ai 30 minuti.
Ciò a livello pratico vuol dire che nel peggiore dei casi, dopo 30 minuti la quantità di lattato sarà dimezzata, e dopo un’ora sarà pari al 25% di quella iniziale e così via. In seguito a questi dati, l’ipotesi che l’acido lattico sia responsabile della fatica successiva ai giorni post-esercizio sembrerebbe essere una credenza popolare.
Recupero passivo e recupero attivo
Il recupero passivo, è un bisogno comune in tutti gli esseri umani, allenati e non. La qualità del sonno sembrerebbe essere un fattore determinante circa l’efficacia del recupero. Inoltre il sonno dovrebbe essere svolto sempre allo stesso orario per poter sfruttare i ritmi circadiani e quindi ottimizzare il processo di recupero. Negli ultimi anni applicazioni smartphone e altri tipi di attrezzature ci hanno permesso di poter tenere sotto controllo questo fattore in maniera più efficace aiutandoci nel processo di recupero.
Un’altra via strategia adoperabile è quella del recupero attivo, a tal fine, potresti svolgere esercizi a carattere aerobico con un volume medio-basso. Le attività aerobiche blande ti permetteranno di eliminare velocemente i metaboliti e i prodotti di scarto, come ad esempio l’acido lattico. Come attività aerobica puoi svolgere esercizi su bike o treadmill, ciò potrebbe aiutarti a ridurre lo stress articolare e rigenerare il sistema-neuromuscolare. L’attività aerobica andrebbe proposta nei giorni successivi all’allenamento, oppure al termine di una seduta con forte impegno del metabolismo anaerobico lattacido.
Al contrario di ciò che si pensa lo stretching non sembrerebbe avere effetti benefici sul recupero muscolare, anzi ciò potrebbe costituire un ostacolo, infatti durante l’allenamento in palestra, i muscoli vengono sottoposti a contrazioni eccentriche che sono le principali cause dello sfilacciamento del sarcolemma e dei tessuti limitrofi, pertanto sottoporre il muscolo ad ulteriore tensione eccentrica potrebbe creare dei microdanni aggiuntivi. Inoltre lo stretching statico, se svolto per un tempo prolungato e con eccessiva tensione tende a creare vasocostrizione, impedendo il sufficiente afflusso di sangue necessario ai muscoli per poter eliminare i prodotti di scarto.
Se vorrai utilizzare lo stretching sarebbe bene svolgerlo per tempi ridotti, e con tensioni leggere, in tal caso si verificherà un forte afflusso di sangue nei tessuti non appena vengono rilasciati. Altre forme di recupero attivo generalmente proposte sono: l’applicazione di ghiaccio o acqua fredda post-allenamento, e i massaggi.
Quanto è realmente efficace il ghiaccio o l’acqua fredda nel recupero muscolare?
Una delle pratiche più diffuse nel mondo sportivo al fine di accelerare il recupero muscolare è l’applicazione del ghiaccio o di acqua fredda nei tessuti muscolari maggiormente impegnati durante la seduta di allenamento. Ma questa usanza può essere considerata efficace? Broatch et al. In una review hanno suggerito che tale pratica nella gestione del dolore muscolare può essere leggermente migliore rispetto al recupero passivo, evidenziando anche una relazione dose-risposta: una temperatura tra gli 11 e i 15° C e un tempo di immersione compreso tra i 10 e i 15 minuti potrebbero fornire dei risultati migliori. Howard et al.
Invece hanno riscontrato effetti nulli o addirittura negativi sul recupero muscolare relativo alla performance di forza. In seguito a tali evidenze è ancora oggi difficile determinare la relativa efficacia di tale pratica.
I massaggi incidono sul recupero?
I massaggi rappresentano una delle strategie maggiormente presenti tra le persone che praticano attività fisica. Essi si basano sulla manipolazione dei tessuti molli. Tuttavia Lightfoot et al. Hanno dimostrato la scarsa efficacia di questa strategia sulla riduzione dei DOMS. Ciononostante tale metodica potrebbe avere dei benefici relativi al rilassamento ottenuto dal soggetto durante la manipolazione e potrebbe rappresentare una sorta di monitoraggio al fine di individuare eventuali contratture muscolari presenti.
È bene sottolineare l’importanza di far eseguire tale pratica a figure specializzate nel settore, soprattutto nei soggetti con particolari rigidità responsabili di alterazioni posturali e/o funzionali.
Conclusioni sul recupero muscolare in palestra
Il recupero muscolare è necessario al fine di raccogliere i risultati in seguito all’allenamento, pertanto va incluso nella programmazione. Evitare di effettuare allenamenti eccessivamente stressanti dal punto di vista metabolico e meccanico in un intervallo di tempo troppo ravvicinato potrebbe rappresentare una efficace strategia per permettere un recupero muscolare completo, ricordiamo infatti che i DOMS possono richiedere diversi giorni di recupero.
Svolgere una dieta sana ed equilibrata, con il giusto apporto di micro e macro nutrienti ti permetterà di ottimizzare il processo di recupero relativo al ripristino di grassi, proteine e carboidrati, necessari al metabolismo cellulare e alla produzione energetica. I massaggi non sembrerebbero essere così efficaci nel recupero muscolare, gli effetti dell’applicazione del ghiaccio o dell’acqua fredda non sono ancora chiari, mentre l’attività aerobica sembrerebbe avere dei risultati positivi sull’eliminazione dei metaboliti e dei prodotti di scarto.
Infine una corretta strategia potrebbe essere quella di inserire una settimana di scarico al termine del tuo mesociclo: in questa settimana potrai modulare volume e intensità in relazione alle tue esigenze. Se vorrai ridurre l’intensità dell’allenamento bisognerà diminuire il carico, evitare lo svolgimento di particolari tecniche di intensità (rest-pause, superserie ecc), e ridurre il T.U.T soprattutto nella fase eccentrica; se al contrario vorrai diminuire il volume dell’allenamento, bisognerà ridurre serie e/o ripetizioni per ogni esercizio lasciando invariati gli altri fattori.
Tale scelta dovrebbe essere scelta in relazione al soggetto allenato, alle caratteristiche fisiche e mentali, con l’obiettivo di individualizzare anche questa particolarità dell’allenamento.
Broatch, J. R., Petersen, A., & Bishop, D. J. (2018). The influence of post-exercise cold-water immersion on adaptive responses to exercise: a review of the literature. Sports Medicine, 48(6), 1369-1387.
Foss, M. L., & Keteyian, S. J. (1998). Fox’s physiological basis for exercise and sport. William C. Brown.
Howard Jr, R. L., Kraemer, W. J., Stanley, D. C., Armstrong, L. E., & Maresh, C. M. (1994). The effects of cold immersion on muscle strength. The Journal of Strength & Conditioning Research, 8(3), 129-133.
Lightfoot, J. T., Char, D., McDermott, J., & Goya, C. (1997). Immediate postexercise massage does not attenuate delayed onset muscle soreness. The Journal of Strength & Conditioning Research, 11(2), 119-124.
Paoli, A., & Toniolo, L. (2009). Basi fisiologiche dell’ipertrofia muscolare. J Sport Sci law, 2, 154-170.
Wilmore, J. H., Bellotti, P., Costill, D. L., & Felici, F. (2013). Fisiologia dell’esercizio fisico e dello sport. Calzetti Mariucci.
Note sull’autore
Dottor. Pasquale Salerno
Laureato in scienze e tecniche dell’attività motoria preventiva e adattata presso l’università di Pavia.
Appassionato di preparazione atletica negli sport di squadra, di riatletizzazione sport-specifica e di fitness rieducativo.
Spesso le donne si trovano ad affrontare nel corso della vita dei disordini ormonali e se ti è stata diagnosticata la PCOS, sai di cosa sto parlando. La PCOS è una sindrome che colpisce dal 5 al 10% delle donne in età fertile a partire dal periodo puberale. Sebbene sia irreversibile, la dieta e l’allenamento possono dare un grande aiuto per gestire i sintomi e per ridurre i rischi a lungo termine che si associano al problema. Vediamo come.
Che cos’è la sindrome dell’ovaio policistico?
La PCOS è un disordine endocrino che comporta squilibri ormonali nella donna in età fertile e determina alterazioni di tipo sistemico. Questo vuol dire che interessa tutto il corpo, in particolare ha delle conseguenze a livello estetico, metabolico e riproduttivo. La genetica sicuramente gioca un ruolo importante nella sindrome: se sei figlia di una donna con PCOS il rischio che hai di svilupparla è più alto. In ogni caso, anche se sei predisposta alla sindrome, tieni presente che lo stile di vita influenza molto la sua manifestazione.
Se sei sovrappeso o obesa è più facile che i sintomi e le complicazioni siano più evidenti e nocivi, ma ciò non toglie che anche se sei magra o normopeso tu possa manifestare il problema. Studi evidenziano che un terzo delle donne con PCOS ha un BMI< 25.
irregolarità o assenza del ciclo (oligomenorrea o amenorrea);
alterazione dell’umore.
Alterazioni ormonali
I problemi ormonali nascono da un’alterazione dell’asse ipotalamo – ipofisi – ovaie. L’ipotalamo (una zona nel cervello situata nei due emisferi cerebrali deputata alla produzione ormonale) altera la produzione di GnRh (gonadoliberina) determinando un livello di FSH da basso a normale e un livello di LH da normale a alto.
Oltre a FSH e LH, cambiano anche i livelli di estradiolo, testosterone, DHEA-S (precursore degli ormoni maschili e femminili), androstenedione e anti-mulleriano (AMH) da normali a alti.
L’AMH è un ormone prodotto dai follicoli ovarici ed è un indicatore della fertilità della donna. Il disequilibrio degli ormoni contribuisce all’irregolarità o alla mancanza del ciclo, e l’aumento degli ormoni maschili (iperandrogenismo) porta alla virilizzazione.
Per questo potresti sperimentare irsutismo (aumento della peluria su viso e corpo), alopecia (perdita di capelli), seborrea (pelle grassa) e acne, aumento del peso e del grasso addominale e sottocutaneo.
Insulino resistenza e obesità
Uno dei maggiori sintomi della PCOS è l’alterata produzione e risposta all’insulina. L’insulina è un ormone prodotto dal pancreas e ha una funzione ipoglicemizzante. Questo vuol dire che dopo un pasto, la sua produzione aumenta per poter ridurre la concentrazione di glucosio nel sangue e favorirne l’entrata nelle cellule. Se hai PCOS il tuo corpo è insulino- resistente: ciò significa che le cellule hanno ridotto la sensibilità all’insulina e non rispondono in modo adeguato alle sue concentrazioni normali. Per questo il pancreas ne aumenta la produzione, causando iperinsulinemia.
Una delle ragioni per cui molte donne con PCOS fanno fatica a perdere peso o lo prendono con facilità è data proprio dall’eccesso di insulina. Questa aumenta il senso di fame e la lipogenesi, e quindi il peso. E’ fondamentale che tu tenga sotto controllo i valori di questo ormone, perchè avere PCOS ti rende molto più predisposta a sviluppareobesità e diabete II.
Irregolarità o assenza del ciclo (amenorrea)
L’irregolarità o l’ assenza del ciclo sono determinati da diversi aspetti: dall’ alterazione dell’ asse ipotalamo – ipofisi – ovaie che non consente una regolare ovulazione, dalla presenza di cisti che rende difficile il rilascio dell’ uovo e dall’ insulino-resistenza. Le cisti sono costituite da gruppi di follicoli immaturi contenenti le uova. Sono caratterizzate da una parete spessa, e questo ne rende difficile la rottura, determinando anovulazione o oligovulazione. Per anovulazione si intende l’assenza dell’ovulazione (rilascio dell’ovocita dalle ovaie), mentre con oligovulazione si intende la sua irregolarità. Entrambe le situazioni riducono la fertilità.
La presenza di cisti comunque, non implica necessariamente la PCOS. Ci sono casi in cui le cisti e l’irregolarità mestruale sono associate ad un altro problema, ovvero l’amenorrea funzionale ipotalamica (AFI). Proprio perché questi due sintomi sono associabili ad entrambe le sindromi, spesso l’AFI è scambiata con la PCOS.
E’ fondamentale che la diagnosi sia giusta perché dieta e allenamento variano completamente. Per questo motivo per poter parlare di cisti da PCOS, queste devono essere sopra un certo numero e avere una determinata dimensione. Ci sono casi in cui si può avere sia la PCOS che l’AFI. In queste situazioni, prima devi intervenire sull’amenorrea funzionale ipotalamica e poi sulla PCOS.
Alterazione dell’umore
Le alterazioni ormonali possono provocare anche dei disturbi a livello psicologico e alimentare. Tra i sintomi più frequenti si trovano depressione, cambio repentino di umore, ansia ed episodi di binge eating.
In ogni caso, per diagnosticare la PCOS devono essere presenti almeno due delle seguenti variabili:
presenza di cisti ovariche;
iperandrogenismo;
anovulazione o oligovulazione.
Cause della PCOS
La PCOS è causata da diversi fattori. La genetica gioca un ruolo importante nella predisposizione alla malattia, ma lo stiledi vita errato (mancanza di attività fisica, alimentazione scorretta, fumo) è un fattore scatenante nella sua manifestazione. In aggiunta a queste variabili si trovano anche: disfunzioni tiroidee, iperprolactinemia, sindrome di Cushing, tumori che aumentano la produzione di androgeni. Un recente studio ha messo in evidenza che anche l’esposizione a prodotti e sostanze chimiche può determinare la comparsa della PCOS. Non solo i pesticidi o gli inquinanti industriali, ma anche i prodotti per la casa e i cosmetici alterano il sistema endocrino.
Conseguenze della PCOS
Le conseguenze più comuni sono quelle di sviluppare sindrome metabolica, cancro dell’endometrio e infertilità. La sindrome metabolica è associata all’insorgenza di diabete II e di problemi cardiovascolari, ed è diagnosticabile se presenti almeno tre dei seguenti fattori di rischio:
circonferenza vita >80cm
trigliceridi >150 mg/dl
HDL <50 mg/dl
pressione sanguigna >130/85 mmHg
alterata glicemia a digiuno o diabete II.
Qual è l’alimentazione suggerita per la PCOS?
Se sei sovrappeso o obesa e la tua PCOS non è associata ad amenorrea funzionale ipotalamica, l’approccio alimentare migliore è quello di seguire una dieta con le seguenti caratteristiche:
– dieta ipocalorica: la riduzione del peso dovuta al taglio calorico migliora il profilo cardiovascolare (riduce trigliceridi, pressione, colesterolo), metabolico (riduce l’insulina a digiuno e il glucosio) e ormonale (riduce iperandrogenismo e migliora la fertilità);
– ridotto carico glicemico: il carico glicemico dipende dalla quantità dei carboidrati ingeriti nel pasto e dall’indice glicemico (IG) dei cibi che lo compongono. Per IG si intende la velocità con cui la glicemia si alza in seguito all’assunzione di cibi contenenti carboidrati. L’IG si valuta per i singoli cibi, mentre il carico glicemico si valuta nel pasto in toto. Anche se assumi cibi con un IG alto, sappi che abbinarli agli altri macronutrienti e alle fibre alimentari (grassi, proteine, verdure) può ridurre il carico glicemico del pasto. In ogni caso è comunque consigliabile consumare cibi con basso IG, per rallentare e ridurre la produzione di insulina. In questo modo non peggiori uno stato pre-esistente di insulino-resistenza e iperinsulinemia;
– ridotto apporto di carboidrati: i carboidrati che assumi devono essere di buona qualità e con un indice glicemico basso. Consumali nella prima parte della giornata in modo da assecondare l’azione dell’insulina ed evita gli zuccheri semplici. Limita la frutta e consumala con la buccia, in modo da rallentare l’aumento della glicemia. Meglio consumare carboidrati complessi come cereali e derivati integrali (farro, orzo etc.) magari abbinandoli ai legumi. Infine, se cucini la pasta, tieni una cottura al dente per rallentare la risposta glicemica. Soprattutto se sei sovrappeso, ricorda che lo stato infiammatorio e lo squilibrio ormonale peggiorano se consumi una quantità eccessiva di carboidrati;
– eliminare o ridurre latte e derivati: questa categoria di alimenti pur avendo un IG basso influenza in modo negativo la risposta insulinica, peggiorando lo stato di insulino-resistenza. Per tali ragioni è meglio eliminare o limitare il loro consumo;
– preciso timing dei pasti: studi dimostrano che anche il timing dei pasti ha un peso nella produzione endocrina. Per assecondare la produzione ormonale femminile è meglio fare una colazione abbondante (54% delle calorie giornaliere) tra le 6 e le 9 di mattina, pranzare (35% calorie giornaliere) tra le 12 e le 15 e consumare la cena (11% calorie giornaliere) tra le 18 e le 21. E’ chiaro che è abbastanza impegnativo consumare più della metà delle calorie giornaliere a colazione, ma comunque il concetto da tenere sempre presente è che la colazione deve essere il pasto più importante;
– incrementa il consumo di cibi con azione anti-infiammatoria: il consumo di cibi antiossidanti ( per esempio frutta e verdura di colore rosso, arancio e viola, broccoli e cavolfiori, etc.) aiuta a ridurre i sintomi dell’ infiammazione presenti nella PCOS;
– corretto apporto di grassi e proteine: i grassi devono essere presenti perché consentono la produzione di ormoni femminili mentre le proteine mantengono la massa magra;
– prediligi cibi di qualità: studi evidenziano che l’esposizione a sostanze chimiche contribuisce alla manifestazione della PCOS o al peggioramento dei sintomi. Per questo, prediligi cibi biologici o a km 0, in modo da evitare quanto più possibile pesticidi e altre sostanze nocive.
PCOS, allenamento e palestra
L’allenamento è il principale alleato della dieta per la gestione della PCOS. Diversi studi dimostrano che può addirittura sostituire o ridurre la terapia farmacologica grazie alle potenzialità nel controllo dei sintomi e delle complicanze. Tieni presente però, che allenarti e seguire una buona alimentazione non possono essere aspetti limitati ad un periodo circoscritto: devono entrare a far parte del tuo stile di vita in modo costante e duraturo.
I protocolli che comprendono dieta ed esercizio sono molto più funzionali rispetto al solo allenamento o alla sola dieta. Inoltre l’attività fisica ha molto più potere sul controllo glicemico rispetto alla sola dieta. Detto ciò, al momento ti starai chiedendo che tipo di attività dovresti svolgere per ottenere questi risultati.
La ricerca si è occupata principalmente di valutare gli effetti dell’esercizio aerobico a moderata intensità, dell’attività contro resistenza e dell’HIIT sulla PCOS. Tutte queste attività migliorano, in percentuale diversa, la composizione corporea, l’ iperandrogenismo, la funzionalità ormonale, la fertilità, l’ insulino-resistenza, l’ iperinsulinemia e la salute cardiovascolare. Dalle ricerche prese in considerazione, gli approcci migliori sono l’esercizio aerobico a moderata intensità associato all’attività con i pesi e l’allenamento HIIT. Vediamoli nel dettaglio.
Allenamento aerobico a intensità moderata e pesi
Puoi combinare le due attività nella stessa seduta oppure puoi dedicare nella settimana delle sedute per l’attività cardiovascolare e altre ai pesi. Questo dipende da te, da cosa preferisci e dal tempo che hai a disposizione. Per intensità moderata si intende una percentuale che va dal 70 all’80% della tua FC max ma, se sei neofita, puoi fare una progressione partendo dal 60%. Per quanto riguarda il tempo, anche qui dipende dal tuo livello di condizionamento iniziale e dal tempo che hai a disposizione. Se scegli di associare esercizio aerobico e pesi, potresti fare dai 25 ai 45 minuti di cardio e poi dedicarti all’attività contro resistenza o viceversa.
Per quanto riguarda quest’ultima, se non hai controindicazioni e se il tuo livello di partenza te lo consente, prediligi lavori a corpo libero con manubri e bilancieri. Dato che l’obiettivo è l’ aumento della massa magra puoi fare dalle 2 alle 3 serie per ogni esercizio tenendo un range di ripetizioni dalle 6 alle 12. Prediligi esercizi che coinvolgono grandi masse muscolari (squat, affondi, stacchi, panca piana etc.) e tieni un recupero che va dai 60″ ai 90″. Questo approccio ha molti benefici perché il cardio migliora la salute cardiovascolare e aumenta il consumo calorico mentre i pesi aumentano la massa magra e quindi il metabolismo basale.
HIIT
L’allenamento HIIT(High Intensity Interval Training) ha gli stessi benefici dei protocolli precedenti, ma riduce in modo più marcato il grasso viscerale. Quest’ultimo è pericoloso perché predispone alla sindrome metabolica, al diabete II e ai problemi cardiovascolari. Studi dimostrano che in un lasso di tempo che va dalle 10 alle 12 settimane, l’allenamento HIIT consente di: aumentare il colesterolo buono HDL, ridurre il grasso viscerale e totale del corpo, aumentare la VO2 max e ridurre l’ insulino-resistenza.
Negli studi le partecipanti seguivano questo protocollo per 3 volte a settimana e l’intensità era compresa tra il 90 e il 95% della FC max. Puoi scegliere se fare questo tipo di allenamento sul tapis roulant, sulla bici oppure correndo all’esterno. Sebbene l’HIIT abbia vantaggi maggiori rispetto al cardio moderato, non va bene per tutte. Se sei particolarmente sovrappeso l’HIIT potrebbe creare un eccessivo stress articolare e inoltre, per poter raggiungere certe intensità, devi essere condizionata.
Per queste ragioni se sei neofita, inattiva da tempo o sovrappeso, è meglio iniziare con l’ esercizio aerobico moderato associato ai pesi. Se non hai controindicazioni, un altro modo potrebbe essere quello di combinare l’esercizio con i pesi con l’allenamento HIIT.
Gli approcci possono essere diversi e tutto dipende dal tuo livello e dallo stato di salute iniziale, per questo affidati sempre a un trainer in modo che possa guidarti durante il tuo percorso.
Conclusioni sulla dieta e l’allenamento nell’ovaio policistico
La PCOS è una sindrome che colpisce molte donne nel mondo e crea problematiche a livello estetico, ormonale, metabolico e psicologico. Anche se è irreversibile, le ricerche sono unanimi nel considerare che il cambio dello stile di vita consente di gestire e limitare i sintomi e le conseguenze della sindrome. Per questo, alimentati in modo corretto seguendo gli accorgimenti dettati dalle linee guida e dal tuo medico e allenati.
Il cambiamento dello stile di vita migliora il tuo benessere psicofisico e aumenta la possibilità di avere figli e di perdere peso.
Bibliografia:
– Patel S Polycystic ovary syndrome (PCOS), an inflammatory, systemic, lifestyle endocrinopathy The Journal of Steroid Bio and Mol Biol 2018 Sept; 182: 27-36
-Bruner B, Chad K, Chizen D Effects of exercise and nutritional counseling in women with polycystic ovary syndrome Applied Physiology Nutrition and Metabolism 2006; 31(4): 384-391
– Haqq L, McFarlane J, Dieberg G, Smart N The Effect of Lifestyle Intervention on Body Composition, Glycemic Control and Cardiorespiratory Fitness in Polycycstic Ovarian Syndrome: a Sistematic Review and Meta-Analysis International Journal of Sport Nutrition and Exercise Metabolism 2020 May; 25(6): 533-540
– Thompson RL, Buckley JD, Noakes M et al The Effect of a Hypocaloric Diet with and without Exercise Training on Body Composition, Cardiometabolic Risk Profile, and Reproductive Function in Overweight and Obese Women with Polycystic Ovary Syndrome The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism 2008 Sept; 93(9): 3373–3380
– Harrison CL, Lombard CB, Moran LJ, Teede HJ Exercise therapy in polycystic ovary syndrome: a systematic review Human Reproduction Update 2011 March; 17(2): 171-183
– Hiam D, Patten R, Gibson-Helm M, et al. The effectiveness of high intensity intermittent training on metabolic, reproductive and mental health in women with polycystic ovary syndrome: study protocol for the iHIT- randomised controlled trial. Trials 2019 Apr; 20(1):221
– Almenning I, Rieber-Mohn A, Lundgren KM, Shetelig Løvvik T, Garnæs KK, Moholdt T Effects of High Intensity Interval Training and Strength Training on Metabolic, Cardiovascular and Hormonal Outcomes in Women with Polycystic Ovary Syndrome: A Pilot Study PLoS One 2015 Sept;10(9)
– Nicola J Rinaldi, Buckler SG, Sanfilippo Waddell L No period. Now What? A guide to Regaining Your Cycles and Improving Your Fertility Antica Press, Waltham, MA, 2019
– Cena H, Maffoni S, Nappi R Linee guida nutrizionali per pazienti con Sindrome dell’ Ovaio Policistico Università degli Studi di Pavia, Scuola di Specializzazione in Scienza dell’ Alimentazione
Corso di Laurea in Dietistica
Dott.ssa Chiara Fezzardi
Mi chiamo Chiara Fezzardi, ho 28 anni e lavoro come PT e insegnante di Pilates a Brescia. Sono laureata magistrale presso l’ Università di Scienze Motorie a Milano e ho frequentato corsi di formazione con diverse scuole (FIF, SFSM, Power Pilates). Amo muovermi, ridere, viaggiare, leggere e aiuto le persone a migliorare il loro benessere e a riscoprire il loro potenziale fisico e mentale.”
Puoi dimagrire se mangi il gelato? Devi per forza inserire gallette di riso e uova nei pasti giornalieri? Mangiare l’ananas conta più della frequenza dei pasti e della palestra per perdere peso? Meglio focalizzarti su ogni quanto mangiare o sul trovare la colazione ideale per dimagrire?
Cibi dimagranti: quali sono i migliori cibi che fanno dimagrire? Perché?
Prima di affrontare singolarmente quali sono i cibi da mangiare per perdere peso, è necessario premettere un concetto fondamentale: non esiste un alimento che faccia ingrassare o dimagrire.
L’alimentazione è l’insieme di tutto quello che mangi e la tua condizione fisica non è il risultato di un singolo pasto, di un determinato cibo a colazione o dell’esclusione di un altro dopo le 18 di sera. Bensì, sei il risultato di quello che fai nella settimana, nel mese, nell’anno!
Piuttosto che cibi che fanno dimagrire o altri che fanno ingrassare, esistono alimenti che grazie alle loro caratteristiche rendono la dieta più sana e protraibile nel tempo, mentre altri nel lungo periodo portano ad accumulare peso più facilmente.
Sono sostanzialmente alimenti proteici e glucidici: non devi mangiare alimenti grassi? In realtà, puoi benissimo mangiare alimenti grassi, ma devi considerare che questi non saziano molto e, a parità di calorie, potrai mangiare di meno. Avere una dieta a prevalenza protidica e glucidica ti consente di dimagrire mangiando di più (in termini di quantità e non di calorie) rispetto ad uno stile alimentare high-fat.
Ad esempio, è più facile sentirti sazio (a parità di introito calorico) a colazione mangiando cinque gallette, mezzo etto di fesa di tacchino e un frutto che con una merendina.
I cibi sopra esposti sono più sazianti perché hanno tante fibre alimentari, proteine, antinutrienti e inoltre hanno una bassa densità energetica: i 4 fattori principali che portano al senso di sazietà.
I carboidrati danno un maggior senso di sazietà, rispetto ai grassi, nel breve termine, mentre i lipidi vincono nel medio lungo termine. Puoi dimagrire benissimo mangiando anche del pesce grasso e della frutta secca, ma nella lista sono compresi quelli a cuiè meglio dare la priorità (che è diverso da esclusività).
Qui trovi degli alimenti che puoi inserire nella tua dieta, con i valori calorici riferiti a 100 g di prodotto.
È molto facile che ti sia imbattuta in pubblicità di prodotti che ti fanno perdere grasso esattamente nei punti in cui non lo vorresti: le solite cosce e i soliti fianchi. Anche nelle vetrine di negozi di cosmetici e farmacie, purtroppo, non è raro trovare il nuovo prodotto che ti fa perdere peso in modo veloce, facile e non economico.
Considera che il modo in cui questi prodotti sfoggiano il massimo della loro utilità è l’averti fatto fare una passeggiata fino a quel negozio: sicuramente più utile che il comprarli e assumerli per attendere il miracolo.
Perché l’integratore, l’ananas, il cracker integrale, la mezza mela a merenda, i 200 g di pollo a cena non ti tolgono il tessuto adiposo da fianchi e cosce?
Molto semplice: perché non basta il singolo alimento e tantomeno un prodotto in polvere o in pastiglia della farmacia per perdere peso in modo localizzato.
Qual è, quindi, la soluzione?
Seguire una dieta ipocalorica insieme ad uno stile di vita attivo è l’unico modo per perdere peso in tutto il corpo.
È davvero più utile, anche per la ritenzione idrica, farti abitualmente una passeggiata a ritmo sostenuto piuttosto che mangiare solo alcuni cibi “perché fanno dimagrire” e intanto tralasciare le basi (come il deficit calorico).
Cibi per perdere peso e tonificare
Ecco una lista di 10 alimenti che non dovrebbero mai mancare per dimagrire:
Yogurt greco magro
Lo yogurt magro è un ottimo prodotto dietetico: quello greco ha una quantità di proteine molto alta (9-11g). Al gusto non è molto appetibile perchè ha pochi zuccheri e zero grassi, per questo puoi abbinarlo a della frutta tagliata a pezzi, frutta secca, marmellata light o un cucchiaino di miele.
Mirtilli
Tutti i frutti di bosco sono alimenti molto light, ricchi di sostanze nutritive e poveri di calorie. I mirtilli in particolare sono ricchi di antiossidanti, sono antifiammatori e soprattutto sono buonissimi.
Lenticchie
I legumi sono i prodotti amidacei (contenenti amido) più sazianti. Questo grazie al loro contenuto proteico, di fibre e di antinutrienti. Le lenticchie sono ottime per un miglior controllo glicemico e per mantenere nel tempo, rispetto ad altri carboidrati, un buon senso di sazietà.
Petto di pollo
La carne bianca è da preferire rispetto a quella rossa. Il petto di pollo è uno dei tagli più magri, con 20g proteine/100g prodotto è saziante, con un buon rapporto di ferro e di zinco. Cotto al forno o in padella, se abbinato a delle spezie può essere gustoso e non stopposo.
Broccoli
I broccoli possono essere mangiati sia crudi (tagliati in tanti piccoli pezzi) mantenendo così tutte le loro sostanze nutritive o anche cotti al vapore. Sono tra gli alimenti meno calorici in assoluto e si sono dimostrati tra gli alimenti antitumorali per eccellenza.
Uova
Le uova sono delle vere e proprie bombe nutritive. Sono rischiose per il loro alto contenuto di colesterolo solo se soffri di ipercolesterolemia familiare, ma negli altri casi addirittura abbassano i valori del colesterolo. Puoi mangiare anche solo l’albume eliminando la parte grassa dell’uovo (tuorlo), ma se mangiato intero è più saziante
Peperoncino
Il peperoncino è una spezia piccante utilizzata in cucina per aumentare l’appetibilità degli alimenti. È ricco di vitamine (C ed E) ed ha un effetto cardioprotettivo. Contiene solanina e ha un effetto saziante oltre ad aumentare il potere termogenico del pasto. È sconsigliato in chi soffre di problemi e bruciori di stomaco.
Fiocchi di latte
I fiocchi di latte sono tra i formaggi più magri che puoi trovare; sono ricchi sia di caseine (che danno senso di sazietà a lungo termine) che di proteine del siero (che invece funzionano più a breve termine). Ideali sia nei pasti che come spuntini, puoi abbinarli con delle verdure o della marmellata light.
Fiocchi di avena
L’avena è un ottimo cereale integrale, ricchi di fibre solubili, migliora l’ipercolesterolemia ed il profilo glucidico. Anche se contiene glutine, è generalmente ben tollerata anche dai celiaci. Al mattino i fiocchi d’avena sono un ottimo ingrediente per la prima colazione.
Caffè
Il caffè è una bevanda che ha un effetto, lieve, sul metabolismo (grazie agli effetti della caffeina): aumenta la termogenesi indotta e migliora il senso di sazietà. Senza abusarne è molto utile per dimagrire.
Cibi per dimagrire: accoppiamenti e abbinamenti ideali
Il miglior mix di cibi per perdere peso sono quelli che associano diverse categorie d’alimenti tra loro come i cereali integrali coi legumi, la carne magra con la verdura, il pesce con la frutta secca. Mischiando i cibi sani puoi migliorare il gusto e la varietà del piatto, assumendo poche calorie, ma mangiando sano ed in modo nutriente.
Ricordati sempre di abbinare ai prodotti animali (carne e pesce) la verdura e di preferire un’alimentazione che sia prevalentemente basata sulle fonti vegetali (legumi, cereali integrali, frutta).
Esistono cibi che accelerano il dimagrimento?
Non esistono cibi per dimagrire in fretta, perché la perdita di peso è data dal deficit calorico: più sarà marcato e più peso perderai velocemente.
Però, non conviene perdere più del 0.5-1% del proprio peso corporeo a settimana: se pesi 70kg sono 350-700g a settimana. Cali più rapidi portano sia ad erodere più facilmente la massa magra, sia aumentano di molto il senso della fame quindi diventa impossibile continuare la dieta.
Quali sono i cibi da evitare se si vuole dimagrire?
Gli alimenti da evitare se vuoi metterti a dieta sono quelli con un eccesso di zuccheri, carboidrati raffinati e grassi. L’industria alimentare, per aumentare il gusto degli alimenti sovente mischia carboidrati e grassi (come nei dolci e prodotti da forno).
I prodotti da limitare per dimagrire sono, in generale, ad alta densità energetica, con poche fibre alimentari, poche proteine e molto palatabili.
dolci
merendine
biscotti
junk food
salse e condimenti calorici
formaggi grassi
insaccati grassi
olii vegetali
prodotti da forno
Tutti questi cibi possono fare parte della tua alimentazione in modo occasionale e non abituale in grande quantità.
Approfondisci l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, con la nostra guida gratuita per cominciare a farti delle solide basi su cui poi approfondire:
L’alimentazione sana e corretta non è una figura mitologica né un modo di mangiare riservato a pochi e fortunati eletti: tutti (anche tu!) possono mangiare in modo sano e soprattutto possono iniziare a farlo.
È necessario, però, sapere che cosa vuol dire mangiare in modo sano.
In un mondo in cui il cibo è facilmente reperibile e i prodotti che “fanno male” (es. panino al fast food) costano di meno di quelli che “fanno bene” (es. taglio di carne di qualità in macelleria), è sempre più facile mangiare troppo e male.
Negli ultimi anni il cibo ha avuto un notevole abbassamento del suo valore biologico: la frutta e la verdura (anche biologica) contengono meno vitamine e sali minerali, ma hanno anche più calorie. Per i prodotti animali, l’equilibrio degli acidi grassi è ormai sbilanciato verso i grassi saturi (ovviamente già presenti, ma oggi in maggior quantità) e nel rapporto omega 3 e omega 6. Gli animali d’allevamento intensivo, oltre ad assumere antibiotici, vivono cronicamente una vita stressata ed infiammata.
Quindi, diventa sempre più indispensabile fare attenzione a cosa mangi!
Che cosa si intende per alimentazione sana e corretta?
Per definire che cos’è l’alimentazione corretta, meglio capire che cosa non è.
Esclusivamente tenendo in considerazione il parametro (oggettivo) della salute – quello estetico è secondario e spesso conseguente allo stare bene, oltre che relativo – ci sono più tipologie di soggetti che non mangiano in modo corretto:
Chi è sovrappeso o obeso perché mangia costantemente troppo e male: l’obesità innesca un circolo vizioso del peggioramento delle condizioni di salute, che non si limita all’accumulo visibile di adipe, ma che si estende ad un incremento dello stato infiammatorio, a disordini metabolici e a complicanze sistemiche (ad esempio, cardiovascolari ed epatiche).
Chi mangia troppo poco: l’organismo non ha a disposizione energia e materiale per garantire uno stato ottimale di salute dell’
Chi esclude determinate categorie di alimenti e va incontro a carenze specifiche, magari anche senza saperlo
Chi è sovrappeso e vuole dimagrire (senza riuscirci) e allo stesso tempo sostiene che le calorie non contano
Per esclusione, quindi, un’alimentazione sana e corretta deve includere sia la giusta quantità che un’adeguata qualità del cibo nel lungo periodo, cioè sperabilmente per tutta la vita: non è la pizza il sabato sera che manda all’aria il tuo “essere sano” o l’insalatona a pranzo (contro tutti gli altri pranzi nei fast food) a far diventare la tua dieta sana.
In generale, conta cosa e come mangi abitualmente.
Consigli pratici e linee guida per una sana e corretta alimentazione
La dieta deve essere varia e completa: deve includere i quattro macronutrienti (carboidrati, proteine, grassi e anche l’acqua, spesso tralasciata) per poter dare all’organismo tutto ciò di cui ha bisogno.
Distribuisci i macronutrienti in frazioni corrette in base alle tue esigenze: ad esempio, gli sportivi necessitano di un apporto proteico maggiore.
Scegli frutta e verdura di stagione per assumere vitamine, sali minerali, fibre e acqua
Preferisci carni magre e non da allevamenti intensivi.
Preferisci il pesce alla carne.
Non credere che l’etichetta “bio”,“light” o “integrale” al supermercato renda l’alimento migliore o meno calorico di quello che è.
Bevi almeno 1-1.5 l di acqua ogni 1000 kcal assunte.
Assumi una buona dose di fibra alimentare, il transito intestinale ne gioverà!
Dal punto di vista energetico 1 kcal resta 1 kcal a prescindere dal macronutriente o dal cibo.
Costruisci passo dopo passo uno stile alimentare corretto che puoi sostenere per tutta la vita, non solo per due settimane!
A tutto questo (e probabilmente anche altro), associa uno stile di vita attivo, fai lo sport che ti piace, ritagliati un’oretta al giorno per andare a fare una passeggiata, fatti seguire da un allenatore in palestra: insomma, muoviti!
Alimentazione corretta per dimagrire
Di solito chi inizia a mangiare “bene” introduce cibi a bassa densità energetica, ma spesso (anche inconsapevolmente) inizia ad aumentare i quantitativi per così tornare al livello energetico che aveva precedentemente: mangiare bene non deve essere una scusa per mangiare di più.
Infatti, indipendentemente dalla qualità del cibo, il primo parametro metabolico per il tuo organismo è l’equilibrio energetico: se eccedi con le calorie metabolicamente peggiorerai, mentre se sei in deficit (anche se mangi male) dimagrirai.
Oltre alla qualità, con riferimento ai consigli pratici elencati precedentemente, fai attenzione alla quantità: per perdere peso è assolutamente indispensabile rispettare il deficit calorico.
Qui trovi un articolo più approfondito esclusivamente sulla dieta per dimagrire.
Esempio di dieta per un’alimentazione corretta
La dieta sana per eccellenza non esiste, ma considerando le linee guida sopra riportate e con l’aiuto di questo esempio puoi capire meglio cosa significa “mangiare in modo corretto”.
Da tenere anche in considerazione è che per rendere ancora migliore il modo in cui mangi, questo deve adeguarsi allo stile di vita che conduci: è inutile impostare un’elaborata ricetta per la colazione se poi non hai tempo per prepararla o obbligarti a mangiare integrale se proprio non ti piace!
Colazione: toast con pane integrale e prosciutto cotto, caffellatte con latte parzialmente scremato, una manciata di frutta secca
Spuntino: yogurt greco con un frutto fresco tagliato a pezzettini
Pranzo: insalata, pasta con pomodorini, tonno e un cucchiaino di olio evo
Spuntino: un frutto e un pacchetto di cracker
Cena: pesce alla griglia con verdure e patate al forno
Approfondisci l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, con la nostra guida gratuita per cominciare a farti delle solide basi su cui poi approfondire:
I glutei tonici: un desiderio comune a giovani e adulte, neofite ed avanzate. Per le donne infatti la costruzione di un corpo armonioso e funzionale passa necessariamente attraverso l’allenamento di questo gruppo muscolare, che da un punto di vista anatomico è composto da tre muscoli collocati tra il bacino ed il femore:
piccolo gluteo: abduce, ruota internamente e flette l’anca
medio gluteo: abduce, ruota sia internamente che esternamente l’anca , la flette ed estende
Anatomia grande glutei, medio gluteo, piccolo gluteo
È importante partire da queste informazioni perché se il tuo lato B non ne vuole sapere di vincere la forza di gravità, forse nei tuoi allenamenti non stai rispettando appieno la biomeccanica dei glutei, cioè non stai scegliendo gli esercizi che gli permettono di svolgere tutte le loro funzioni con la maggior forza. Oppure è colpa di madre natura?
Scopo di questo articolo è analizzare i fattori chiave per la crescita dei glutei e fornirti indicazioni pratiche su come allenarli (e come non allenarli) per ottenere glutei più tonici e voluminosi.
Glutei e genetica
Tutte le ragazze che hanno un buon profilo gluteo hanno una caratteristica in comune: hanno una lordosi lombare accentuata.
Infatti in caso di iperlordosi lombare l’osso sacro è orizzontalizzato, il bacino di conseguenza ruota in antiversione (in avanti) e i glutei appaiono sollevati. Un pò quello che accade ad una ragazza quando indossa i tacchi.
Nel caso in cui la curva lombare sia ridotta o rettilineizzata, l’osso sacro è verticalizzato, il bacino ruota in retroversione (indietro) e i glutei appaiono piatti, cadenti.
Quindi si, la genetica intesa come assetto posturale favorevole incide notevolmente.
La curva lombare influenza l’osso sacro e la forma dei glutei
Consigli pratici:
Se non sei stata baciata dalla fortuna sarà fondamentale allenarti correttamente con dei sovraccarichi ma ancor di più integrare un lavoro di tipo posturale concentrandoti su:
mobilità del bacino attraverso esercizi in cui si associano movimenti di estensione lombare e di antiversione del bacino (ad esempio la posizione del gatto)
mobilità delle anche in flessione e in rotazione, soprattutto interna
Come suggerito dal nome stesso, questo è il muscolo più grande tra i tre che compongono i glutei, oltre che il più potente dell’intero corpo umano, ed è quindi il principale responsabile dell’estetica del tuo lato B.
Da un punto di vista funzionale il grande gluteo è il motore principale che ti permette di rialzarti dalla posizione seduta o accovacciata, di saltare e di salire le scale. Tutti movimenti in cui l’anca si estende con il piede vincolato al suolo e in cui il carico minimo che viene spostato è pari al peso del tuo corpo.
Da un punto di vista biomeccanico il grande gluteo è un estensore d’anca che esprime una forza ottimale quando l’anca è flessa almeno a 90° (come in uno squat al parallelo), perchè in questa posizione la sua lunghezza è tale da permetterne poi una contrazione efficace (relazione lunghezza-tensione). Quando l’anca è flessa oltre i 90° (come in un full squat), il grande gluteo parte da un maggior allungamento ed è capace di contrarsi con ancor più forza.
Gli esercizi più efficaci per i glutei
Alla luce di queste informazioni è chiaro che per sviluppare e “sollevare” i glutei devi concentrarti maggiormente sul grande gluteo, e per fare questo non puoi fare a meno di:
esercizi in cui l’anca si estende con il piede vincolato al suolo partendo da una flessione d’anca pari o maggiore di 90°.
esercizi in cui si sposta un carico notevole dato dal proprio peso con l’aggiunta variabile di manubri o bilanciere.
Maggiori livelli di attivazione sono stati rilevati in ordine di importanza negli step-up e sue varianti (laterale, diagonale, crossover), stacchi con la hex bar, hip thrust e american hip thrust, belt squat, split squat, affondi tradizionali, squat a gamba singola modificato, stacco tradizionale, hip thrust con la band [1]
Hip thrust: il migliore esercizio per i glutei?
L’hip thrust andrebbe eseguito col bilanciere, solo inizialmente va bene a corpo libero
Il Barbell Hip Thrust (BHT) prevede un’estensione d’anca e di ginocchio con focus sul grande gluteo.
Permette di isolare in modo efficace i glutei rispetto agli ischio-crurali, impegnati nel mantenere le ginocchia flesse. Per questo l’estensione dell’anca avviene principalmente a carico dei glutei.
Permette di dare uno stimolo complementare a esercizi quali squat e affondi in cui i glutei lavorano in allungamento, nel senso che sviluppano la loro maggior tensione quando sono allungati. Nel BHT invece la massima attivazione del gluteo avviene in accorciamento, cioè negli ultimi gradi di estensione dell’anca, quando spingi il bacino in retroversione.
+2 punti per lui.
-Ha un’ampiezza di movimento ridotta rispetto ad esempio al classico full squat, in cui da uno studio recente sono stati registrate maggiori attivazioni dei glutei (oltre che del quadricpite) rispetto al BHT.
-1 punto per lui.
Mi riservo quindi dal decreterarlo con certezza il re degli esercizi per i glutei, ma indubbiamente ti consiglio di inserirlo nella tua routine di allenamento.
Consigli pratici per aumentare il focus sui glutei:
mantieni le ginocchia flesse a circa 90°. Se la flessione è maggiore (piedi più vicini al bacino) aumenta il coinvolgimento del quadricipite. Se la flessione è minore (piedi più lontani dal bacino) aumenta il coinvolgimento degli ischio-crurali. Provare per credere.
spingi sul tallone e le ginocchia in fuori, mantenendo le punte dei piedi leggermente extra-ruotate
non spingere semplicemente in alto il bacino ma immagina di volerlo arrotolare intorno al bilanciere. Alla fine del movimento strizza i glutei più che puoi.
Squat e glutei
Lo squat prevede un’estensione d’anca e di ginocchio con focus variabile sui glutei o sui quadricipiti in base all’esecuzione, oltre che sugli ischio-crurali.
Consigli pratici per aumentare il focus sui glutei:
Conserva la fisiologica lordosi lombare durante tutto l’arco di movimento. In questo modo il bacino resta in antiversione e a fine accosciata il grande gluteo parte da una posizione di allungamento vantaggiosa per poter diventare il motore principale della spinta verso l’alto.
Apri il petto. Se chiudi il petto la cifosi toracica aumenta, la lordosi lombare si riduce di compenso e questo porta il bacino in retroversione, sfavorendo l’attivazione dei glutei.
Scendi al di sotto dei 90°. Non è vero che più scendi in profondità più le gambe “diventano grosse”! E’ in un mezzo squat (flessione d’anca <90°, non si arriva al parallelo) in cui la spinta delle gambe avviene prevalentemente a carico dei muscoli che estendono il ginocchio, quindi del quadricipite. Al contrario in un full squat (flessione d’anca >90°, si supera il parallelo), la spinta delle gambe avviene prevalentemente a carico dei muscoli che estendono l’anca, i glutei per l’appunto.
Evita la cosiddetta “sculata” in fase di risalita. Il bacino e la schiena devono muoversi contemporaneamente nella fase di spinta.
Preferisci la versione “low bar”, appoggiando il bilanciere non sul trapezio ma più in basso, a livello del deltoide posteriore (se vuoi un riferimento osseo, a livello della spina scapolare).
Imparalo! È vero, lo squat non è per tutti e non è indispensabile per l’allenamento dei glutei, ma resta comunque un esercizio fondamentale. Prima di dire che “fa male alle ginocchia” o “fa venire le gambe grosse” perché non impari a farlo? Parti dalle forme propedeutiche come il box squat, l’overhead squat (se hai una buona mobilità di spalla), il goblet squat. Integra un lavoro di mobilità e stretching della catena cinetica posteriore e solo dopo potrai pronunciarti.
Affondi e glutei
Gli affondi prevedono un’estensione d’anca e di ginocchio con focus variabile sul grande gluteo, quadricipite e ischiocrurali in base all’esecuzione, oltre che del medio gluteo e degli adduttori dell’anca per la stabilità in appoggio su una gamba.
Consigli pratici per aumentare il focus sui glutei:
Non superare la punta dei piedi con le ginocchia: oltre ad aumentare le forze di taglio sull’articolazione, lo spostamento del baricentro in avanti influisce anche sui muscoli target.
Preferisci gli affondi inversi a quelli in avanti
Aumenta la lunghezza del passo
Impara gli affondi in camminata: è la variante in cui è stata registrata l’attivazione registrata dei glutei maggiore
Inclina leggermente il busto in avanti
Stacco da terra e glutei
Gli stacchi prevedono un’estensione d’anca e di ginocchio (tranne gli stacchi a gambe tese in cui il movimento del ginocchio è minimo) con focus più sugli ischiocrurali o sul grande gluteo in base alle varianti stacco rumeno o stacco sumo.
Consigli pratici per aumentare il focus sui glutei:
concentrati sui glutei. Negli stacchi è forte il coinvolgimento degli ischiocrurali, quindi per far si che l’estensione dell’anca avvenga più a carico dei glutei è importante prima di tutto che visualizzi mentalmente il muscolo.
spingi indietro il sedere durante la discesa. Il bacino resta così in antiversione, la fisiologica lordosi lombare è conservata e il grande gluteo è in una condizione di pre allungamento favorevole alla sua contrazione al momento dello stacco.
coordina il movimento di ginocchia e anche. Nella fase di stacco se spezzi il movimento estendendo prima le ginocchia, favorisci i muscoli ischiocrurali nell’estensione dell’anca.
sfrutta le varianti degli stacchi: lo stacco convenzionale risulta migliore per allenare sia il retto femorale che il grande gluteo rispetto allo stacco rumeno [2] ma quest’ultimo è è più facile da apprendere e più versatile. Permette inoltre di percepire molto bene l’hip hinge, ovvero il movimento di estensione d’anca che è fondamentale per un ottimo lavoro sui glutei. Anche la variante sumo per la sua tecnica esecutiva facilita il coinvolgimento di questo gruppo muscolare.
Esercizi per i glutei meno efficaci ma più utilizzati in palestra
Alcuni tra gli esercizi intramontabili come l’abductor machine o gli slanci sul fianco stimolano più il medio ed il piccolo gluteo che essendo laterali danno volume al bacino in larghezza e non in altezza. Altri invece come il ponte a terra, gli slanci in quadrupedia o la gluteus machine stimolano il grande gluteo ma non a sufficienza. Inoltre negli esercizi in cui il piede non è vincolato al suolo mancano le informazioni propriocettive che ne favoriscono l’attivazione.
L’errore non è tanto negli esercizi in sè quanto nel fatto che
spesso non sono ben contestualizzati nella seduta di allenamento. Dovresti utilizzarli come esercizi di pre-attivazione ad inizio seduta o come dei finisher con cui dai uno stimolo metabolico al gruppo muscolare sfinendolo, non come lavoro centrale!
danno quella classica sensazione di bruciore che viene associata all’aver svolto un buon lavoro, che però in realtà proviene dalle giunzioni mio-tendinee degli ischiocrurali e non dal ventre muscolare del gluteo.
Quanto allenare i glutei? Frequenza e volume allenanti
Queste le linee guida scientifiche secondo la scuola americana (Dr Mike Israetel) [3]
– Frequenza settimanale: 2-4 volte in base anche al numero totale dei tuoi allenamenti settimanali. Più è alto il numero di allenamenti più puoi differenziare gli stimoli sui glutei passando da allenamenti in fullbody a sedute incentrate esclusivamente sul lower body con focus sui glutei e sedute di richiamo, ma allo stesso tempo devi essere abile a regolare il volume totale di lavoro senza superare un certo limite.
– Volume di lavoro: (n° di serie x per n° di ripetizioni svolte in una settimana o nell’arco di una singola seduta). Il n° di serie fa riferimento alle serie dirette sui glutei e allenanti, cioè quasi portate a cedimento (buffer 1-3)
N° di serie a seduta: al di sotto delle 12-13. Puoi partire da 10 serie ma se progredisci fino ad arrivare a 20 aggiungi una seduta.
N° di serie a settimana: il volume minimo di mantenimento dei glutei è pari a 0, mentre il massimo volume recuperabile è 20.
N° di ripetizioni per serie: in media tra 6 e 20. Se fare più serie a basse ripetizioni o più serie ad alte ripetizioni dipende se punti principalmente all’ipertrofia o all’aumento di forza.
Ipertrofia: 75% del volume allenante tra 5-15 ripetizioni, il 25% tra 1-5 ripetizioni e 15-30
Forza: 75% del volume allenante tra 1-5 ripetizioni, il 25% tra 1-5 e 15-30.
Se sei una donna sappi che rispetto alla controparte maschile sopporti un volume maggiore, quindi puoi arrivare a 6-8 ripetizioni o anche 8-10 nei lavori di forza, a 20-30 nei lavori di ipertrofia e resistenza.
Consiglio pratico:
Utilizza questi numeri solo come riferimenti. La crescita muscolare non è una pura questione matematica ma dipende da molte variabili che vanno contestualizzate. Impara ad allenarti e sperimenta su te stessa per trovare la frequenza ed il volume di lavoro ideali per te.
Come allenare i glutei
Per le loro caratteristiche i glutei rispondono bene a:
lavori di forza: carichi alti (80%-90% del massimale) e basse ripetizioni (1-5 ripetizioni) .
lavori in massimo accorciamento (es hip thrust)
teniche di intensità che aumentano il tempo sotto tensione, come ad esempio le contrazioni di picco (es nell’hip thrust dopo aver spinto il bacino in alto stringi i glutei per un 1-2”)
Questo non significa che devi tralasciare altri tipi di stimoli che sono alla base dell’ipertrofia di un qualsiasi muscolo:
I lavori di forza agiscono sul danno muscolare e sullo stimolo meccanico, mentre i lavori di ipertrofia e resistenza con carichi più bassi e ripetizioni portate all’esaurimento muscolare o quasi, agiscono sullo stimolo metabolico e sullo stimolo meccanico.
Consigli pratici:
allena sia la forza che l’ipertrofia e la resistenza. Puoi scegliere di allenarle separatamente nell’arco di una settimana (es una seduta di forza ed una seduta di ipertrofia) oppure insieme nella stessa seduta. O ancora puoi dedicare un intero mesociclo all’allenamento della forza per poi tornare ad allenamenti di ipertrofia.
scegli gli esercizi giusti e sfrutta le varianti. Alcuni si prestano bene a lavori di forza, alcuni a lavori di ipertrofia e resistenza, alcuni sono molto versatili.
lavora i glutei sia in allungamento che in accorciamento
utilizza tecniche d’intensità (con criterio) come la contrazione di picco
Scheda di allenamento glutei per principianti
Piccola premessa: consideriamo principiante la persona che non ha ancora appreso correttamente gli schemi motori, che non ha una buona percezione del proprio corpo e che quindi non ha ancora sviluppato una buona intensità di carico sia in termini di kg sia in termini di sforzo percepito (in poche parole non sa ancora spremersi fino al suo reale limite, sottostimandolo). In questo senso sarebbe poco utile proporti un allenamento che sfrutta schemi di forza, perchè richiedono abilità che ancora non hai. Il miglioramento della forza è comunque possibile per te che sei neofita semplicemenete imparando la tecnica corretta degli esercizi, ripetendoli più volte in una settimana.
Esercizi di riscaldamento
Riscaldamento generale: attivazione aerobica con 5’ camminata o altro esercizio cardio
Riscaldamento articolare: esercizi di mobilità articolare e stretching dinamico con slanci, oscillazioni, torsioni, circonduzioni.
Attivazione muscolare specifica: esercizi di attivazione per i gruppi muscolari coinvolti nella seduta. Ad esempio box squat o overhead squat, slanci posteriori in quadrupedia, ponte per glutei, clamshell, crab walking, tutti eseguibili anche con bande elastiche. Può essere utile attivare anche il core con qualche serie di crunch o crunch su fitball.
Scheda per glutei per principiante
Obiettivo: apprendimento tecnico dei principali pattern motori con focus su glutei e coinvolgimento femorali
Struttura: riscaldamento e attivazione glutei/core, esercizi a difficoltà decrescente su: movimento di accosciata, isolamento glutei, estensione d’anca, accosciata unilaterale, flessione di ginocchio e abduzione d’anca.
Frequenza: 2 volte a settimana alternate a 2 sedute per la parte alta
ESERCIZIO
SERIE
RIPETIZIONI
Crunch
3
15-20
Goblet squat con kettlebell o manubrio con fermo in buca
3
15
Hip thrust alla leg extension con fermo in contrazione
3
15
Affondi inversi
3
15
Hyperextension
3
15
Leg curl
3
15
Abductor machine con fermo in contrazione
3
15
Tempi di recupero e carico non sono indicati perchè in questo caso sono secondari. Scegli un peso che ti permette di svolgere tutto il lavoro senza mai perdere il giusto assetto posturale. Recupera fin quando non ti senti pronto per iniziare una nuova serie (1’ circa dovrebbe bastare)
Esercizi di stretching per il gluteo
A questo link puoi trovare una validi esercizi di stretching con cui concludere la tua seduta:
Scheda allenamento glutei per avanzato
Anche qui una piccola premessa: un avanzato ha sviluppato competenze tecniche e un’ottima percezione del carico, quindi ha più senso differenziare maggiormente gli stimoli di forza e ipertrofia, sfruttare esercizi più complessi e utilizzare una scala di riferimento per il carico, in questo caso la RPE, dove RPE10 = esaurimento muscolare (o buffer 0), RPE9=una ripetizione di scarto dal cedimento (buffer 1) e così via a scalare per RPE più bassi.
Per una seduta realmente allenante resta tra RPE8 e RPE10 (buffer 0,1,2) in base al tipo di lavoro che svolgi. Inoltre il range di ripetizioni è leggermente più alto dei classici standard perchè più pensato per una ragazza (visto l’argomento). Se sei un uomo fai riferimento ai range elencati nel paragrafo sul volume.
Obbietivo forza
Obiettivo: dare uno stimolo principalmente neurale e meccanico con lavoro metabolico finale
Struttura: riscaldamento, attivazione core, serie di avvicinamento al carico, 2 esercizi base (uno per lavorare i glutei in allungamento e uno in accorciamento) e 2 esercizi complementari per stimoli neurali e meccanici con lavori a buffer 1-2, infine un superset per uno stimolo metabolico ricercando il cedimento.
Frequenza: 1 volta a settimana da integrare con una seduta che punta più all’ipertrofia
ESERCIZIO
SERIE
RIPETIZIONI
CARICO
RECUPERO
Plank o ab wheel
3
10-15
RPE 7-8
1’
Squat
4
6-8
RPE 8-9
2’
Hip thrust
4
6-8
RPE 8-9
2’
Squat bulgaro con bilanciere
3
8-10
RPE9
1’-1’30”
Stacchi rumeni
3
8-10
RPE9
1’-1’30”
Hip thrust 1 rip e mezza
in superserie Donkey kicks al mp
2-3
15
RPE10
30”-50”
Obiettivo ipertrofia
Obiettivo: dare uno stimolo neurale, meccanico e metabolico con focus glutei + richiamo femorali (non in scheda)
Struttura: riscaldamento e attivazione, un superset per uno stimolo neurale, un esercizio multiarticolare per uno stimolo meccanico (entrambi con lavori a buffer 1-2), un triset come finisher per uno stimolo metabolico ricercando il cedimento.
Frequenza: 1 volta a settimana + 1 seduta di richiamo glutei con focus sui femorali + 1 seduta mista glutei-femorali
ESERCIZIO
SERIE
RIPETIZIONI
CARICO
RECUPERO
Cable pull through kneeling
in superserie Single hip trust
2-3
10
RPE 8-9
1’
Hip Trust
4-5
8-10
RPE 8-9
1’30”
Frog pump
in triserie Hip thrust triple contraction
in triserie Abductor machine busto avanti
2-3
12-15
RPE 10
30”-50”
Conclusione
I glutei rappresentano un gruppo muscolare grande e con importanti funzioni estetiche e posturali, per cui per potersi sviluppare al meglio richiedono sia un lavoro di potenziamento attraverso lavori di forza ed ipertrofia, sia di mobilizzazione articolare del bacino in antiversione e delle anche. Gli esercizi più efficaci sono quelli che colpiscono il grande gluteo, che prevedono un’estensione d’anca con il piede vincolato al suolo e che permettono sia di utilizzare carichi elevati sia di poter dare le giuste informazioni propriocettive al muscolo favorendone l’attivazione.
Esempi sono lo squat, l’hip thrust, gli affondi, step up e gli stacchi con le loro varianti. Al contrario gli esercizi meno efficaci ai fini ipertrofici sono quelli che agiscono sul medio e piccolo gluteo, che prevedono un’abduzione d’anca o movimenti in cui il piede è svincolato al suolo, come ad esempio gli slanci laterali o in quadrupedia.
Che tu sia principiante o avanzato è importante che alleni questo gruppo muscolare in multifrequenza, tra le 2 e le 4 volte a settimana, con un numero variabile di serie e ripetizioni in base al tipo di lavoro svolto. Se sei principiante focalizzati prima sull’apprendimento tecnico e sull’attivazione dei glutei per poter poi essere in grado di padroneggiare carichi più alti e poterti dedicare a lavori di forza, fondamentali per questo gruppo muscolare. Se sei un avanzato programma i tuoi allenamenti senza tralasciare nessuno stimolo necessario all’ipertrofia: neurale, meccanico e metabolico.
I tuoi glutei ringrazieranno.
Note sull’autrice
Dott.ssa Jessica Anellino, 29 anni, Gaeta (LT).
Laureata in fisioterapia, specializzata in rieducazione posturale e idrokinesi.
Personal Trainer Liv. 3 certificata Invictus.
L’allenamento, la conoscenza ed il lavoro sono miei punti fermi. Amo lo sport da sempre, amo allenarmi, amo studiare e trasmettere nel mio piccolo il mio sapere, amo lavorare per aiutare gli altri a riappropriarsi della loro salute. I miei obiettivi più prossimi sono specializzarmi nella terapia manuale per crescere come fisioterapista e affermarmi come personal trainer, unendo le mie due passioni.
Con questo articolo imparerai a gestire lo sgarro nella dieta e avrai la risposta a queste e altre domande: lo sgarro alza il metabolismo? Vanifichi gli sforzi fatti con la dieta e la palestra? Come sgarrare senza ingrassare? Puoi sgarrare se fai bodybuilding?
Ma soprattutto: come rimediare? Spoiler: la vita non sempre dà una seconda possibilità, ma per lo sgarro la seconda chance di riscatto c’è!
Che cos’è lo sgarro?
Lo sgarro ha di solito un’accezione negativa: è considerato un errore, uno sbaglio, un venire meno. Nel caso nutrizionale, è un rompere il regime alimentare imposto dalla dieta, in modo consapevole o meno, con un pasto non previsto nel piano, ma solitamente molto calorico e gratificante.
Perché sì, il cibo è anche gratificazione e infatti gli alimenti tipici dello sgarro di solito sono quelli più dolci, grassi e calorici. Un’insalata fresca non darà mai la stessa soddisfazione di una fetta del tuo dolce preferito.
È in realtà auspicabile che una dieta contempli già al suo interno uno sgarro o un pasto libero fisso in modo che chi la segue abbia una “valvola di sfogo alimentare” e psicologica. Alla restrizione calorica si abitua più facilmente l’organismo che la mente, che combatte costantemente con l’idea di avere fame.
Quando l’obbiettivo è proporre una dieta sul lungo periodo, la sostenibilità è al primo posto: un regime dietetico ipocalorico che vieta tutti i cibi che ti piacciono, che non contempla nessun pasto libero e uno schema rigido ha vita breve perché verrà facilmente abbondonato. A meno che di una forza di volontà esemplare.
Quante calorie assumere nello sgarro?
Lo sgarro è mangiare quello che vuoi, quindi così sia: a seconda di quanto e cosa preferisci (Pizza? Sushi? Gelato? Dolci?) il numero delle calorie sarà diverso.
Sappi però che…
Più calorie introduci con lo sgarro, più fatica dovrai fare nei giorni prima e/o in quelli dopo per rimediare: mangiare un gelato piuttosto che innumerevoli porzioni di sushi fa la differenza. Considera che non è il singolo sgarro a farti ingrassare, ma come questo è contestualizzato caloricamente nella settimana o nel mese.
C’è da considerare, però, che di solito (soprattutto per chi con le calorie non ci va a braccetto) è difficile stimare quante calorie effettivamente introduci, ad esempio se vai a mangiare fuori. Dovrai quindi basarti su una stima: se non sei maniacale con il conteggio calorico, non saranno 200 kcal “tralasciate” a farti ingrassare di colpo.
Conseguenze dello sgarro
Uno sgarro di solito ha due conseguenze: una calorica e una psicologica. E la seconda è quella forse più difficile da recuperare: al surplus calorico puoi facilmente rimediare mangiando un po’ di meno nei giorni prima e/o dopo lo sgarro e quindi è un evento che sei in grado di controllare.
Il senso di colpa (conseguenza psicologica) invece insorge da solo ed è più difficile da controllare: serve un approccio per cambiare gli occhi con cui vedi il famigerato sgarro.
Sgarro e metabolismo
Contrariamente a quanto si possa pensare, lo sgarro non alza il metabolismo. Il fabbisogno calorico giornaliero è decretato da metabolismo basale, spesa dinamica specifica degli alimenti, attività sportiva e non.
Quando segui una dieta ipocalorica per lunghi periodi o quando sei per molto tempo al di sotto del fabbisogno giornaliero, l’organismo migliora tutti i processi non vitali: impiega così meno calorie a digerire gli alimenti e si coordina meglio durante l’attività fisica.
Così il metabolismo diminuisce non a carico del metabolismo basale ma per gli altri due fattori: anche senza rendertene conto ti muovi di meno e consumi meno calorie durante l’esercizio fisico.
E non basta un solo giorno di sgarro o un singolo pasto per ristabilire la situazione: la ripresa del metabolismo non si basa su uno sgarro, bensì richiede unapianificazione a medio termine.
Sgarro e senso di colpa
Quante volte hai iniziato una dieta, hai sgarrato e dopo un po’ di senso di colpa ne hai cominciata un’altra per ricadere nello sgarro?
Il senso di colpa nasce da un errore che pensi di aver commesso: è normale che sorga, ma è anche vero che gli viene data troppa importanza. Sgarrare è umano.
Piuttosto che focalizzarti sull’“aver sbagliato”, sposta la tua attenzione sul pensare che puoi rimediare, che ti sei goduto una cena spensierata fuori con gli amici mangiando quello che ti piace di più e che dopotutto non crolla il mondo, soprattutto se dal giorno dopo riprendi con le solite abitudini.
Sgarro, ma non ingrasso: perché?
Chi sgarra e non ingrassa dovrebbe far parte della cerchia dei supereroi? Ha un potere non da pochi?
In realtà, la verità è molto meno eroica e più biochimica: semplicemente mangi esattamente quello che ti serve per mantenere il tuo solito peso. Se non conti le calorie, vai costantemente e spensierato a mangiare fuori i weekend, non sei neanche troppo sportivo e riesci a mantenere il tuo peso, sai (inconsciamente) gestirti bene.
I tuoi sgarri compensano quel deficit (inconscio) che crei negli altri pasti durante la settimana. E così sei in un costante regime normocalorico.
Per chi vuole aumentare il proprio peso corporeo e non ci riesce, ricorrere allo sgarro sembra la via più facile e scontata: ma spesso non basta e non ingrassi. Il punto è che ancora non hai raggiunto una quantità di cibo tale per l’anabolismo. Da non dimenticare, che per aumentare di peso, anche la qualità è importante, oltre che la quantità. Per approfondire puoi leggere questo articolo.
Quando fare lo sgarro?
Fare lo sgarro quando ne hai bisogno è il momento giusto, che sia il fine settimana perché hai una festa di compleanno, la sera perché non aspettavi altro che mangiare dopo una faticosa giornata di lavoro, dopo l’allenamento che ti ha consumato da cima a fondo tutte le energie e vuoi proprio svuotare il frigo.
Se però questo bisogno arriva improvviso e frequentemente è meglio iniziare ad indagare il perché che c’è a monte: quando sgarrare diventa un’abitudine è meglio cominciare, un passo alla volta, a cercare di eliminarla. Altrimenti, il costante eccesso calorico cronico ti fa facilmente ingrassare.
Il momento della giornata in cui fare lo sgarro è sostanzialmente indifferente: farlo prima delle 18 non gli farà avere meno calorie. C’è da precisare, però, che grandi quantità di cibo consumate la sera possono dare fastidi nel momento in cui vai a dormire, dato che la digestione richiede i suoi tempi: tempi che si dilatano più il pasto è impegnativo. Invece, durante la giornata, pasti abbondanti ricchi di carboidrati possono indurre sonnolenza.
Di solito il weekend è il più gettonato per lo sgarro: durante la settimana sei impegnato, mentre il sabato o la domenica esci, senza anche considerare che può esserti di motivazione durante la settimana per mangiare bene e non sgarrare. Per poi lunedì (dato che “la dieta inizia da lunedì” oltre che “domani”) ricominciare con le abitudini.
Ogni quanto posso fare lo sgarro?
C’è da dire che chi consuma di più, ad esempio in media l’uomo rispetto alla donna, lo sportivo rispetto al sedentario, potenzialmente ha più possibilità di concedersi sgarri e meno che questi abbiano delle conseguenze.
Ogni giorno
Fare uno sgarro ogni giorno è assolutamente sconsigliato: non è una scelta sana e sicuramente ti porterà ad ingrassare in modo cronico. Infatti, se mangi di più poi avrai bisogno di quantità sempre più ingenti per avere la stessa soddisfazione a sgarro compiuto.
Ogni settimana (una volta)
Uno sgarro a settimana è un buon compromesso: avere un pasto libero che puoi far coincidere con il weekend è dal punto di vista alimentare, sociale e psicologico l’opzione migliore.
Mensile
Lasciare solo uno sgarro al mese è per i più coraggiosi: ci vuole più forza di volontà, forse più per dire costantemente di no agli amici che ti chiedono di uscire piuttosto che per rinunciare alla pizza e la birra del sabato.
Sgarro nel bodybuilding e in palestra
Cheat day o cheat meal sono nomi familiari per chi fa bodybuilding, con lo scopo di fornire una ricarica calorica senza dimenticare il fattore psicologico: anche il più rigoroso bodybuilder ha bisogno del suo pasto libero ogni tanto.
Lo sgarro non è sufficiente per innescare un innalzamento del metabolismo: in fase di definizione in regime ipocalorico è fisiologico che l’organismo inizi a consumare di meno, a causa di un abbassamento dell’introito glucidico, che regola gli ormoni tiroidei. Per ripristinare i livelli metabolici di una normocalorica sono necessari almeno tre giorni, una settimana e non un singolo pasto più sostanzioso del solito.
Sgarro dopo l’allenamento
Fare lo sgarro dopo l’allenamento è il momento migliore: in seguito all’esercizio fisico le scorte energetiche sono depauperate e, in generale, un loro ripristino aiuta il recupero. Sono da preferire alimenti ricchi di glucidi (fruttosio incluso!) piuttosto che di grassi, il cui consumo è meglio indirizzarlo nei pasti più lontani rispetto a quando sei stato in palestra.
Come fare lo sgarro? Cosa mangiare?
Ci sono dei piccoli escamotage per non subire gli effetti dello sgarro, soprattutto se sei sportivo. Infatti, a scorte di glicogeno depletate dopo l’allenamento, c’è una finestra di opportunità in cui i carboidrati saranno diretti alle cellule muscolari.
Ricariche glucidiche di 600-700 g in sportivi non fanno ingrassare: l’eccesso calorico viene trasformato e disperso in calore. Quindi meglio preferire i carboidrati, tenendo i grassi in minor quantità possibile.
È vero che lo sgarro è mangiare tutto incondizionatamente, ma un buon compromesso potrebbe essere quello di prediligere dolci non grassi ma zuccherini.
Sgarro nelle diete:
Lo sgarro nella dieta è il momento più atteso: finalmente puoi mangiare quello che vuoi, concederti una cena fuori con gli amici e scegliere quello che vuoi dal menu.
In generale più che avere una vera e propria utilità dal punto di vista fisiologico o metabolico, ha il suo perché a livello psicologico e di sostenibilità della dieta nel lungo periodo.
Dieta Dukan
Molte persone correlano allo sgarro i consigli della dieta Dukan, la quale consiglia:
svuota frigo e dispensa di tutto quello che può farti ingrassare
parla con i tuoi cari di voler recuperare l’abbuffata
cammina di più nei giorni seguenti
aumenta l’acqua che bevi
aumenta le verdure
Insomma, nulla di che, anzi, parla di anche di depurare ed alcalinizzare: tutte cose che alle persone piacciono molto ma senza fondamenta scientifiche.
Sgarro nella dieta Plank
La dieta Plank imposta uno schema settimanale molto rigido, ma il settimo giorno (la domenica) uno dei pasti è libero: puoi mangiare tutto quello che vuoi. Data la forte restrizione calorica settimanale, non sarà certo un pasto a rovinare il grande deficit creato negli altri giorni.
Inoltre, sapere che hai la possibilità di mangiare quello che vuoi può darti motivazione nei giorni in cui invece devi seguire i pasti proposti dalla dieta Plank: l’utilità del pasto libero è più un fattore psicologico che altro in questo caso.
Sgarro dieta ipocalorica
Il bello di contare le calorie è che puoi permetterti di sgarrare anche durante la dieta ipocalorica. Possibile?
Sì!
Facciamo un esempio pratico: il tuo fabbisogno calorico settimanale è di 14.000 kcal (2000 kcal/giorno di media), vuoi dimagrire e quindi lo abbassi a 12.000 kcal/settimana. A prescindere dalla distribuzione dei macronutrienti che vuoi adottare, hai 12.000 kcal a disposizione che puoi raggiungere come vuoi: potenzialmente potresti anche mangiare 10 pizze (e basta) in una settimana e dimagriresti – perché sei in deficit calorico!
Questo come caso estremo, ma è per farti capire che una volta impostato il deficit puoi benissimo inserire gli alimenti che preferiscie come ti va meglio: puoi assumere molte poche calorie da lunedì a venerdì, per poi sgarrare liberamente nel weekend… Ma restando sempre nel limite delle 12.000 kcal!
Come rimediare allo sgarro esagerato?
Senza far prevalere il senso di colpa, sappi che allo sgarro puoi rimediare: si sa che la vita concede spesso una seconda chance di riscatto. E questo vale anche per la ripresa dallo sgarro.
Come fare?
La risposta sta nella programmazione: se sai di avere una cena al ristorante il sabato sera e che sicuramente dal menù non sceglierai il petto di pollo alla griglia con una triste insalata, fai una stima di quante calorie più o meno potrebbe costarti la cena fuori e distribuiscile durante la settimana.
In questo modo, il totale calorico settimanale (non limitarti a considerare il fabbisogno giornaliero!) sarà comunque rispettato. E lo sgarro non sarà più uno sgarro: un pasto “sporco” quando occasionale e ben gestito non rovina per nulla il percorso verso il dimagrimento.
Così puoi sia rimediare che prevenire lo sgarro!
Conclusioni sullo sgarro
Proprio perché viene naturale sgarrare, tanto vale non farti trovare impreparato. Se crei un deficit calorico (ad esempio settimanale) che andrai a pareggiare con lo sgarro, è come se lo sgarro effettivamente non esistesse: dal punto di vista calorico non ci saranno eccessi e potrai goderti lo sgarro senza ripensamenti o senso di colpa!
Approfondisci l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, con la nostra guida gratuita per cominciare a farti delle solide basi su cui poi approfondire:
Mentre dormi non mangi: è forse questo il segreto per non avere fame e dimagrire? Dormire fa dimagrire? È un sogno o la realtà? Nel secondo caso, i più pigri avranno finalmente la miglior motivazione per continuare ad esserlo.
Dormire è il miglior integratore per il recupero ma anche quello più sottovalutato: che conseguenze ha dargli poca importanza? Dormire poche ore impatta in qualche modo sulla tua salute?
Sicuramente sì: il sonno è coinvolto nella regolazione metabolica, emozionale e anche cognitiva; non dormire bene o riposare troppo poco qualche conseguenza sicuramente ce l’ha. Forse anche ingrassare?
Dormire fa dimagrire o ingrassare?
Chi dorme poco tendenzialmente ha difficoltà a dimagrire o tende ad ingrassare perché ha un quadro ormonale indirizzato verso il senso della fame. Infatti, il sonno influenza diversi ormoni che intervengono nella regolazione ipotalamica dell’appetito, tra cui:
Una privazione di sonno e un cattivo sonno (ad esempio con risvegli notturni ripetuti) portano ad uno spettro ormonale che induce ad avvertire di più la fame durante il giorno, mentre dormire bene ad uno che ti farà sentire più sazio. Chi dorme poco, a livello nervoso, ha di solito una maggior attività nel centro regolatore della fame.
È da chiarire che il metabolismo non è influenzato direttamente dai livelli di sonno: dormire poco non lo rallenta e dormire molto non lo accelera. Ingrassare o dimagrire è unicamente a carico di quanto mangi durante il giorno (fabbisogno calorico).
Il dormire incide sul dimagrimento soprattutto perché abbassa lo stress, che a sua volta incide sul senso della fame. Dormire fa dimagrire perché la persona è più rilassata, meno stressata e l’organismo sente di meno l’esigenza di introdurre cibo.
Bere prima di dormire fa dimagrire?
Introdurre dei liquidi poco prima di andare a dormire non aiuta a dimagrire e inoltre non contribuisce ad un buon sonno: la tazza di camomilla o di tisana rilassante possono avere (placebo o meno) effettivamente una ripercussione sul rilassamento e quindi sull’indurre più facilmente il sonno, ma è altrettanto vero che durante la notte sentirai il bisogno di andare in bagno, alterando e interrompendo così la fisiologia del sonno.
Quindi, bere prima di dormire non solo non ti fa perdere grasso, ma indirettamente (data la cattiva influenza sul sonno) potrebbe anche farti avere più fame il giorno successivo.
Quanto bisogna dormire per dimagrire? Meglio tanto o poco?
La quantità di sonno è sempre molto soggettiva: in generale si consiglia per dormire bene almeno 7 ore per notte, ma alcune persone riescono a recuperare bene anche con 6 ore e altre invece hanno bisogno almeno di 9.
Oltre alla quantità, come spesso succede, è importante anche la qualità: se ti svegli durante la notte, la qualità del sonno può essere compromessa.
La melatonina fa dimagrire?
La melatonina è un ormone peptidico che tra le varie funzioni (es. antiossidante) ha anche quella di regolare i ritmi circadiani e di determinare il ciclo sonno/veglia. La sua concentrazione nelle 24 ore non è costante: nelle ore notturne ha un picco di crescita, mentre in quelle diurne la sua presenza diminuisce.
Questo succede perché la sua produzione è direttamente correlata alla luce: lo stimolo luminoso viene percepito dalla rètina (una parte dell’occhio) e inibisce a livello nervoso la sintesi di melatonina. Al buio, invece, questo stimolo non perviene e quindi non c’è inibizione della produzione di questo ormone: i livelli di notte aumentano.
Inoltre, il consumo di carboidrati la sera favoriscono la secrezione di melatonina, oltre che di serotonina – che è precursore, così come il triptofano, nella sintesi dell’ormone circadiano. I glucidi a cena favoriscono un buon sonno e anche l’avere meno fame la mattina, perché ci sono livelli di leptina più elevati: in questo senso, la melatonina può aiutare a dimagrire.
È facile trovare in commercio la melatonina, per aiutare il sonno e da prendere prima di andare a dormire proprio per imitare il suo andamento fisiologico. Dovrebbe essere evitata la somministrazione continua e cronica durante il giorno per non alterarne i livelli e avere conseguenze nefaste nella salute a lungo termine.
In quanto a evidenze scientifichein merito all’utilità o meno della melatonina prima di andare a dormire, c’è ancora strada da fare: mancano studi su larga scala, non si conoscono gli effetti nel lungo termine e come dovrebbero variare i dosaggi a seconda di età, sesso, disturbo del sonno. Al momento e nei limiti degli attuali studi, la melatonina risulta efficace per migliorare l’insonnia e altri disturbi, come quelli comportamentali del sonno REM (RBD), la desincronizzazione del ritmo sonno-veglia e del normale ciclo luce-buio che portano ad eccessiva sonnolenza diurna. In questi casi, la melatonina favorisce il ritorno dell’equilibrio del ritmo circadiano (effetto placebo incluso) senza particolari reazioni avverse o effetti collaterali.
Dormire il pomeriggio fa ingrassare?
La regola per la quale mentre dormi non mangi è valida anche in questo caso. Battute a parte, come hai appena letto, la melatonina ha un andamento ciclico e regolato naturalmente dalla luce.
Un’alterazione del ciclo sonno-veglia e quindi dei livelli di melatonina nelle 24 ore è data anche dal dormire durante il giorno: gli occhi si chiudono, la retina non percepisce luce e di conseguenza i livelli di melatonina si alzano in un momento in cui, fisiologicamente, non dovrebbero incrementare.
Così il flusso ormonale viene alterato, forse anche se non te ne accorgi, e di conseguenza avere più fame a causa di un ritmo giornaliero sballato è più facile. Infatti, anche chi non dorme il pomeriggio e durante la settimana cambia frequentemente gli orari dei pasti senza un’ora prefissata e stabile avrà più fame.
Dormire al freddo fa dimagrire?
Se non sei abituato a stare costantemente al freddo, l’organismo mette in atto dei meccanismi di protezione al nuovo stimolo (= fattore di stress) fino all’adattamento, dato che il corpo cerca sempre di raggiungere l’equilibrio.
Se all’inizio dormire al freddo è una situazione nuova, a cui il corpo non è abituato e a cui deve ancora imparare a rispondere, poi, a parità di stimolo, l’organismo si adatta.
L’esposizione al freddo incrementa i livelli:
degli ormoni tiroidei, importantissimi nella regolazione metabolica)
delle catecolamine (adrenalina, noradrenalina), che sono coinvolte nella risposta adrenergica e, quindi, ad esempio, incrementano la gittata cardiaca, la pressione arteriosa, la glicogenolisi, la lipolisi, lo stato di vigilanza, il flusso ematico muscolare. Sono gli stessi effetti indotti dall’allenamento, ma anche da ansia, paura, dolore.
L’organismo sa termoregolarsi, cioè regolare la propria temperatura in base a quella dell’ambiente in modo da mantenere più o meno costante la temperatura corporea e permettere il funzionamento dei meccanismi che ti mantengono in vita – ad esempio, gli enzimi che hanno bisogno di una determinata temperatura per funzionare.
Più la temperatura esterna è bassa più il corpo deve incrementare la propria per non “raffreddarsi”, influenzato da quella dell’ambiente. Quando ti vengono i brividi vuol dire che il tuo corpo sta mettendo in atto meccanismi di termogenesi.
Sempre in questo contesto, anche il tessuto adiposo bruno viene coinvolto perché è in grado di produrre energia: l’energia che deriva dalle goccioline di acidi grassi che contiene non viene trasformata in molecole di ATP (energia chimica) ma in calore (energia termica), dato che viene bypassato lo step cellulare della fosforilazione ossidativa.
Tutti questi fattori (ormoni tiroidei, catecolamine, brividi, tessuto adiposo bruno) contribuiscono ad aumentare la spesa energetica e quindi potenzialmente a dimagrire.
Non dimenticare, però, che:
dormire al freddo per dimagrire è solo un dettaglio, un fattore secondario per effettivamente perdere peso rispetto a deficit calorico e una vita attiva;
tendi all’adattamento: riuscirai ad arrivare all’ultimo livello (dormire mentre galleggi sulle acque antartiche)?
Stare a letto fa dimagrire?
Perché pensare che stare a letto faccia dimagrire? L’idea nasce dal fatto che effettivamente in uno stato di riposo (a letto disteso, seduto alla scrivania) l’energia che utilizzi è fornita dai grassi. Quindi, va da sé che nell’immaginario collettivo “consumo grassi” diventa automaticamente “perdo peso, divento finalmente magro, senza dieta e senza dover muovere un muscolo (magari cuore escluso)”.
Facciamo chiarezza. In ogni momento il tuo corpo ha bisogno di energia, che viene ricavata per la maggior parte da una miscela di carboidrati e grassi. A seconda di alcuni fattori, come la tua capacità metabolica di ricavare energia dai glucidi piuttosto che dai lipidi o dal tipo di esercizio che svolgi uno dei due substrati sarà preferito rispetto all’altro.
Così, più l’attività è blanda (e la più blanda in assoluto è proprio dormire) più i grassi sono il carburante preferenziale: saranno consumati in proporzione in una quantità maggiore rispetto ai carboidrati. Al contrario, più l’attività è intensa e più saranno gli zuccheri ad essere quelli più consumati.
Tutto questo discorso fila, ma allo stesso tempo non vuol dire che per dimagrire ed essere pronti per la prova costume basta stare a letto: hai mai conosciuto qualcuno veramente in forma che non fa nulla?
È vero che consumi più grassi se stai fermo, ma quanti ne consumi? Pochi. Quanta energia spendi nello stare fermo? Poca. E quanto impatto hanno sulla composizione corporea quei grammi di grassi usati nello stare a letto? Poco, praticamente zero.
Se non ti alleni, se non hai una vita attiva, se non sei in deficit calorico con una dieta per dimagrire, se mangi troppo e male perdere peso diventa davvero un’impresa (impossibile).
Per avere risultati devi alzarti dal letto (e non per andare ad aprire il frigo!).
Buscemi et al. (2005). The Efficacy and Safety of Exogenous Melatonin for Primary Sleep Disorders. J Gen Intern Med.
Do-Amaral & Cipolla-Neto (2018). A brief review about melatonin, a pineal hormone. Endocrinol Metabol.
Russell (2020). Sleep, circadian rhytms and health. The Royal Society.
Sutanto et al. (2020). Association of Sleep Quality and Macronutrient Distribution: A Systematic Review and Meta-Regression. Nutrients.
Xie et al. (2017). A review of sleep disorders and melatonin. Neurol Res.
Approfondisci l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, con la nostra guida gratuita per cominciare a farti delle solide basi su cui poi approfondire:
La spalla è un’articolazione tanto affascinante quanto sofisticata, dotata di grande mobilità e di un complesso sistema muscolare e legamentoso in grado di garantirne la corretta funzionalità. Questo distretto anatomico è molto soggetto a problematiche di varia natura, che possono sfociare in sindromi dolorose.
Il dolore alla spalla è un’eventualità che può colpire tutti, dal sedentario allo sportivo, e che prima di essere adeguatamente trattata va valutata e inquadrata attraverso l’intervento di un medico e di un professionista sanitario. In generale, la spalla può andare incontro a condizioni dolorose dalle cause differenti. Esse possono essere di natura traumatica, come nel caso di una frattura dell’omero o di una lussazione di spalla, oppure di natura atraumatica/degenerativa, come per esempio la lesione della cuffia dei rotatori, la sindrome da dolore subacromiale o la borsite.
Infortuni alla spalla sono molto frequenti in coloro che si allenano in palestra, i quali si trovano spesso costretti a sospendere o ad evitare del tutto diversi esercizi a causa del dolore. Quali sono le possibili cause di dolore alla spalla in palestra? Quali gli infortuni e le patologie più comuni in questo distretto? Quali sono i tempi di recupero? Scopriamolo!
Cause principali degli infortuni alla spalla in palestra
Le principali cause che possono portare allo sviluppo del dolore alla spalla in palestra comprendono sia caratteristiche strutturali e anatomiche che fattori legati agli esercizi e alle modalità di allenamento. Nella maggior parte dei casi quadri di spalla dolorosa avvengono in presenza di un mix di tali fattori. Nello specifico, fra le possibili cause e/o fattori contribuenti di infortuni alla spalla troviamo:
Invecchiamento e degenerazione tendinea, con possibile correlazione all’età (comuni dopo i 40 anni), a una predisposizione genetica o a una scarsa vascolarizzazione dei tendini. Questi cambiamenti indeboliscono i tendini che risultano pertanto meno resistenti ai carichi e più suscettibili a lesioni.
Rigidità gleno-omerale con conseguenti alterazioni nell’allineamento e nella biomeccanica della testa omerale durante i movimenti della spalla. Di comune riscontro in chi si allena in palestra è la rigidità della capsula posteriore associata ad una lassità della capsula anteriore della spalla, con testa omerale anteposta.
Morfologia dell’acromion “a uncino” (detto anche “di tipo 3”)e artrosi avanzata dell’articolazione acromion-claveare (condizioni tipicamente riportate in soggetti sopra i 40 anni di età).
Alterazione del normale allineamento statico e della normale dinamica scapolare durante il movimento della spalla
Instabilità gleno-omerale provocata da una scarsa performance dei muscoli della cuffia dei rotatori (debolezza o scarsa resistenza e controllo motorio) e degli stabilizzatori scapolari, sfociante in uno scarso controllo della testa dell’omero durante il movimento di spalla, con eccessiva migrazione superiore dell’omero in abduzione. Questa condizione è tipica nei soggetti molto lassi o nei soggetti che hanno subito operazioni chirurgiche alla spalla.
Combinazione di alcuni movimenti come l’abduzione e l’intrarotazione, e l’abduzione e il tilt anteriore scapolare, che aumentano per loro natura gli stress compressivi a carico dei tessuti molli sotto-acromiali.
Combinazione di abduzione e intrarotazione omerale, movimento combinato ad elevato fattore di rischio
Eccessivo sovraccarico funzionale, il quale determina un’alterazione della matrice tendinea. Sia per neofiti che per soggetti avanzati è fondamentale impostare una progressione dei carichi di lavoro razionale e rispettare i tempi di recupero e ricondizionamento tendineo, evitando di eccedere con il carico funzionale sulla spalla.
Tecniche esecutive approssimate e non ottimali possono contribuire ad aumentare il rischio di infortuni e dolore alla spalla. A tal riguardo è bene fare una precisazione: il dolore alla spalla si manifesta spesso dopo mesi o anni di usura articolare da esecuzioni errate o esercizi forzati in soggetti predisposti. Per questo è bene porsi nell’ottica della prevenzione e della scienza applicata abbandonando la mentalità superficiale del “io non ho mai visto nessuno farsi male con…” o del “l’ho sempre fatto così e non mi sono fatto mai male…”. Non esistono infatti esercizi “totalmente giusti” o “totalmente sbagliati”, ma esistono esercizi con un fattore di rischio più o meno alto, che andrà sempre analizzato tenendo conto del contesto e delle caratteristiche del soggetto.
Come è possibile notare, per quanto riguarda il dolore di spalla in palestra l’entità della maggior parte dei quadri dolorosi è di tipo atraumatico/degenerativo, poichè traumi violenti come cadute o forti impatti raramente avvengono nel contesto delle palestre (mentre sono molto più frequenti in sport da contatto, dove di conseguenza sono numerosi i casi di lussazioni o fratture traumatiche).
Infortuni e patologie più comuni della spalla
Potenzialmente ogni componente anatomica della spalla dotata di innervazione può evocare dolore ma, da un punto di vista biomedico, le strutture generalmente più colpite sono i tendini della cuffia dei rotatori, del capo lungo del bicipite e le corrispettive borse articolari. Analizziamo più dettagliatamente le più comuni patologie muscoloscheletriche a carico del complesso articolare della spalla.
Tendinopatie della cuffia dei rotatori e/o del capo lungo del bicipite
Il quadro patologico che più di frequente è responsabile del dolore di spalla (in circa l’80% dei casi di dolore di spalla) è la cosiddetta “tendinopatia della cuffia dei rotatori”, in particolare dei muscoli sovraspinato e infraspinato, o del capo lungo del bicipite brachiale (che si inserisce nel margine superiore della fossa glenoidea, attraversando l’articolazione gleno-omerale e stringendo intimi rapporti con la cuffia dei rotatori).
In questi casi il dolore spesso insorge lentamente, senza un trauma apparente, e si presenta ben localizzato nella zona anteriore e/o laterale della spalla. È evocato durante i movimenti attivi a carico della spalla, in particolare oltre i 90° di flessione (sollevamento anteriore del braccio) e/o abduzione (sollevamento laterale del braccio), durante attività di sollevamento e talvolta durante il sonno sul lato interessato.
Da sinistra verso destra: muscoli infraspinato, sovraspinato, capo lungo del bicipite brachiale
Nelle fasi più acute e irritative il dolore può presentarsi anche durante banali attività di vita quotidiana, riducendo di molto le capacità funzionali di tutto l’arto superiore. Grazie alle recenti scoperte messe in luce dalla letteratura scientifica è stato abbandonato il vecchio modello secondo cui si pensava che i disturbi dei tendini fossero dovuti a meccanismi infiammatori (da qui il famoso termine “tendinite”, ormai abbandonato in quanto obsoleto, poichè il suffisso “-ite” sottintende un quadro di natura infiammatoria) e il cui trattamento era basato prevalentemente sull’utilizzo esclusivo di farmaci e di riposo prolungato dall’attività.
Ad oggi sappiamo invece che il quadro patologico è di tipo “degenerativo” (con alterazioni patologiche dell’architettura tendinea e delle proprietà intrinseche del tendine stesso), e non infiammatorio (alcuni brevi picchi infiammatori possono essere presenti nelle fasi più acute, ma non in quelle che seguono), e il termine più consono per rappresentare tale situazione risulta pertanto essere “tendinopatia”. In questo senso il problema è legato a una degenerazione del tessuto o a una mancata guarigione dello stesso, priva di meccanismi infiammatori.
Fra le varie cause quella più importante e provocativa sembra essere l’aumento di carico sul tendine: in tutti i quadri di tendinopatia, infatti, se si indaga la storia del soggetto che ne soffre si può identificare quasi sempre un’attività “non ordinaria” che ha sottoposto il tendine ad un carico per il quale non è stato abituato, e che spesso può innescare un processo tendinopatico.
Nelle tendinopatie il riposo totale (ad eccezione di fasi molto acute e con alta irritabilità) è deleterio quanto il sovraccarico, in quanto non si fornisce in questo modo alcuno stimolo di adattamento positivo al tendine, che tornerà così a provocare dolore quando verrà sottoposto nuovamente al carico. I principi riabilitativi prevedono un sovraccarico progressivo, fornendo alla spalla via via stimoli sempre maggiori per riabituarla e rieducarla al movimento e al carico.
Lesioni della cuffia dei rotatori
Oltre alle tendinopatie, sono frequenti vere e proprie lesioni (“rotture”) dei muscoli della cuffia dei rotatori (in primis, ancora una volta, il sovraspinato) classificate in base alla dimensione della lesione (o al numero di muscoli coinvolti) e al meccanismo lesivo (con trauma o in assenza di trauma). Lesioni atraumatiche (assenza di trauma) dei muscoli della cuffia sono riscontri molto frequenti negli esami diagnostici, e vengono spesso malinterpretati, generando ansia e preoccupazioni prive di fondamento.
Chi legge di avere una rottura del sovraspinato, infatti, tende spesso ad immaginare questa rottura come una “corda sfilacciata”, pensando così che tale muscolo risulti ormai inutilizzabile e che il dolore rimarrà finché sarà presente questa rottura. Grazie alla letteratura scientifica sappiamo però che le strutture muscolo-tendinee della cuffia dei rotatori sono organizzate in modo da riuscire a “bypassare” lesioni dei muscoli che la compongono nella maggioranza dei casi, garantendo una completa funzionalità della spalla anche in presenza di queste.
A conferma di ciò vi è il fatto che lesioni del sovraspinato e di altri muscoli della cuffia sono frequenti (come vedremo meglio in seguito) in individui che non presentano alcun dolore di spalla (anche in individui che praticano sport ad alti livelli). Per rendere meglio l’idea, quindi, piuttosto che immaginare una lesione del sovraspinato come una corda sfilacciata, parrebbe più sensato immaginarla come una coperta con un piccolo “foro”, che non inficia quindi sulla sua funzionalità.
Le lesioni o degenerazioni tendinee della cuffia in alcuni casi vanno considerati “segni del fisiologico invecchiamento” esattamente come il capelli bianchi o le rughe sulla pelle. Nella maggior parte dei casi il trattamento delle lesioni della cuffia è conservativo, ma va tuttavia detto che in diverse situazioni (come nei casi di lesioni conseguenti a un trauma, o in presenza di lesioni molto ampie con concomitante impotenza funzionale marcata) può essere necessario l’intervento chirurgico.
Instabilità di spalla
Data la grande mobilità di cui è dotata l’articolazione della spalla, vi è un necessario bisogno di forti componenti che la stabilizzino. A garantire la stabilità della spalla troviamo:
• Fattori statici: congruenza delle superfici articolari, cercine glenoideo, pressione negativa interna, capsula articolare e legamenti
• Fattori dinamici: cuffia dei rotatori, capo lungo del bicipite brachiale, muscoli periscapolari
Quando uno o più di questi elementi viene a mancare, si creano potenzialmente le condizioni di insorgenza di instabilità articolare. Nello specifico l’instabilità di spalla è una condizione in cui la testa dell’omero non viene stabilizzata adeguatamente durante i movimenti. Tale condizione può essere favorita da un’ipermobilità congenita e da patologie come tendinopatie avanzate, artrosi e lesioni del cercine glenoideo, ma spesso è conseguente a lussazioni traumatiche.
L’instabilità può essere multidirezionale o unidirezionale. La letteratura è concorde nell’affermare che l’instabilità multidirezionale, intesa come lussazione o dislocazione dell’articolazione gleno-omerale in più di una direzione, sia dovuta a ripetuti microtraumi in soggetti con lassità congenita legamentosa o della capsula articolare; al contrario dell’instabilità unidirezionale (anteriore nel 90% dei casi), che tipicamente è il risultato di un evento traumatico in un soggetto con un’articolazione gleno-omerale normale. Entrambe possono essere comuni in soggetti giovani o anziani, con un rischio di recidiva di lussazione o sublussazione maggiore dell’80% in pazienti tra 17 e 22 anni.
La classificazione più utilizzata suddivide le instabilità di spalla in tre categorie:
• TUBS (Traumatic Unidirectional Bankart Surgery): pazienti instabili per cause traumatiche; può portare a quadri di lesione di diverso tipo: a livello scheletrico, dei tessuti molli, capsulari/legamentosi, ma anche dell’ancora bicipitale (slap lesion)
• AMBRI (Atraumatic Multidirectional Bilateral Rehabilitation Inferior): pazienti generalmente lassi con instabilità multidirezionale; la quale non porta a lussazioni, ma a quadri clinici potenzialmente dolorosi
• AIOS (Acquired instability in overhead shoulder): pazienti con instabilità acquisita conseguente a gesti sportivi ripetuti.
Il trattamento riabilitativo conservativo o chirurgico dovrà tenere in considerazione le differenti cause d’instabilità al fine di strutturare il percorso più opportuno.
Fratture di spalla
Tutte le componenti osse del complesso articolare della spalla possono potenziamento andare incontro a fratture (nella maggior parte dei casi conseguenti ad un trauma). Le strutture che più spesso vengono fratturate sono la diafisi prossimale dell’omero, la testa omerale, la clavicola e la scapola. In caso di trauma con impatto laterale sulla spalla in soggetti anziani o osteoporotici un dolore alla spalla può essere un campanello di allarme per una frattura dell’omero prossimale.
Le fratture a un frammento sono le più frequenti e prevedono spesso una terapia conservativa con un periodo di immobilizzazione seguito da un percorso riabilitativo. Per le fratture a due, tre o quattro parti la terapia dipende da tipo di frattura, condizioni del paziente e qualità dell’osso e sarà conservativa o chirurgica (con l’eventuale utilizzo di mezzi di sintesi o protesi).
Sindrome da dolore subacromiale
Un’altra famosa “alterazione patologica” che viene diagnosticata spesso ancora oggi è il famoso “impingement subacromiale” (o “conflitto subacromiale”). Con questo termine si intende generalmente un “intrappolamento” dei tessuti molli (tendini e borse) tra la testa dell’omero e la volta acromiale all’interno di questa articolazione “falsa” denominata acromion-omerale. Questo intrappolamento durante i movimenti di spalla si ipotizza possa creare uno stress tissutale e una conseguente lesione che può sfociare in un quadro di tendinopatia della cuffia dei rotatori.
Secondo questo modello, all’interno del termine ombrello “sindrome da impingement subacromiale” rientrerebbero tendinopatie della cuffia dei rotatori e del capo lungo del bicipite, borsite e lesioni della cuffia. Nel sottile spazio tra volta acromiale e testa dell’omero vi è un intimo rapporto tra le superfici articolari, rapporto che durante i movimenti prevede fisiologicamente e in qualsiasi individuo uno “schiacciamento” dei tendini e della borsa.
Nonostante ciò, la differenza è che in condizioni di salute articolare e di efficiente funzionalità gli stress vengono dosati in maniera ideale, mantenendo la pressione su questi tessuti a livelli fisiologici e ben compensati, mentre i problemi a questo livello nascono a seguito di alterazioni strutturali tendinee o ossee ed alterazioni funzionali, che possono portare ad un aumento delle forze compressive tra omero e acromion, favorendo l’insorgenza di lesioni (tendinopatie). Nella genesi di questo processo sono stati identificati fattori intrinseci ed estrinseci. L’ appropriatezza di questa diagnosi e dei modelli su cui si basa è stata screditata da diversi studi, che hanno trovato delle falle nel modello pato-anatomico proposto.
Per tale ragione, in letteratura ancora oggi sono presenti dubbi riguardo alla relazione di causa-effetto tra l’impingement e le tendinopatie della cuffia. Poichè i recenti studi propendono per una scarsa influenza dell’intrappolamento tra omero e acromion sulla genesi del dolore di spalla, e tale compressione è considerata solo un possibile fattore contribuente, e non la causa principale delle lesioni, è stato più volte proposto di abbandonare l’oramai obsoleto termine “impingement/conflitto” sostituendolo con termini più generici e omnicomprensivi come “dolore sub-acromiale”.
Ad oggi è impossibile definire con certezza assoluta chi sia la causa e chi la conseguenza tra impingement e tendinopatie; ciò che tuttavia possiamo sicuramente asserire è che le tendinopatie della cuffia dei rotatori e il dolore che ne consegue durante il movimento sono problematiche dovute sicuramente ad un mix di fattori intrinseci ed estrinseci. Il trattamento primario per questi quadri patologici è conservativo, e dovrà essere basato principalmente sull’esercizio con sovraccarichi graduale e progressivo.
Nelle considerazioni appena fatte ci siamo riferiti al vecchio “impingement sub-acromiale”, ma va detto che sono riportate in letteratura altre due tipologie di impingement: l’impingement interno e l’impingement coracoideo. L’impingement coracoideo, meno comune del precedente, avviene quando il tubercolo minore dell’omero invade il processo coracoideo della scapola, determinando uno stress sul tendine del muscolo sottoscapolare (avviene spesso nei nuotatori, tennisti e weightlifters).
Per impingement interno invece si intende una compressione della porzione posteriore della cuffia dei rotatori e della porzione superiore del cercine contro la parte postero-superiore della glena, che avviene durante movimenti combinati di abduzione a 90° e rotazione esterna, tipici degli sport di lancio e nelle attività “overhead”. In questo caso alcuni autori sufgferiscono tra le cause un’instabilità della spalla, con eccessiva rotazione esterna e lassità capsulare antero-inferiore.
Borsiti spalla
Le borsiti della spalla sono infiammazioni delle borse sierose che contraddistinguono questa come altre articolazioni. Le borse nella spalla servono a lubrificare l’articolazione e a diminuire gli attriti interni in punti critici, fungendo così da “cuscinetti ammortizzatori”. Se una o più borse si infiammano, la produzione di liquido infiammatorio può aumentare la grandezza della borsa e ridurre la funzionalità e il movimento della spalla.
Poichè le borse sono riccamente innervate, questo processo infiammatorio può essere accompagnato da quadri di dolore alla spalla. Normalmente una borsite alla spalla viene causata da un eccessivo sovraccarico che può essere tipico di molti sport come il tennis, il nuoto, il baseball o il bodybuilding. Rigidità articolari o allineamenti posturali non ottimali possono essere fattori contribuenti all’insorgenza di borsiti nel tempo. Spesso borsiti e tendinopatie vanno “a braccetto”, venendo riscontrati simultaneamente in quadri di spalla dolorosa. La borsa più colpita da infiammazione nella spalla è quella sub-acromiale.
Discinesie scapolari
Un’alterazione del posizionamento scapolare statico, o del movimento scapolare dinamico è chiamata “discinesia scapolare”. Sono state classificate diverse tipologie di discinesie scapolari, ma in letteratura è ancora in corso un acceso dibattito sul possibile ruolo che queste possono avere nei quadri di spalla dolorosa. Alcuni autori sostengono che la scapola e le sue eventuali alterazioni in contesti statici e/o dinamici ricoprano un ruolo di primaria importanza nella patogenesi e nel dolore della spalla (e che il trattamento debba quindi rivolgersi in primis a questa), mentre altri sostengono che tale ruolo sia stato ampiamente sovrastimato, e che il ruolo della scapola in tale senso sia ben poco rilevante.
A sostegno della tesi di questi ultimi sarebbero presenti il fatto che discinesie scapolari sono state riscontrate in moltissimi soggetti asintomatici (senza alcun dolore di spalla), e che in quadri di spalla dolorosa e associata discinesia scapolare, tale discinesia sia ancora presente anche una volta svanito il dolore. Altri autori ancora sostengono che eventuali discinesie scapolari vadano considerate solo in contesti sportivi, o comunque di elevate richieste funzionali.
In conclusione, ad oggi non vi sono ancora risposte certe riguardo al ruolo della scapola nei quadri del dolore alla spalla, ma è certamente opportuno conoscere le possibili alterazioni che questa può presentare, così da poter essere in grado di valutare adeguatamente ogni singolo caso.
Lussazione della spalla
Come abbiamo visto la spalla è un’articolazione tanto mobile quanto instabile. Per questo non sono rari i casi di lussazione traumatica di spalla. La lussazione è da definizione la perdita permanente del rapporto anatomico tra le due superfici articolari, in questo caso omero e scapola. È il classico caso del “mi è uscita la spalla!”.
Scapola e testa dell’omero perdono completamente contatto e può essere necessaria una manovra (a carico del personale sanitario riconosciuto) per la “riduzione” della lussazione e il ripristino della normalità articolare. Essenzialmente una spalla può lussarsi in conseguenza di un trauma diretto (di solito durante sport di contatto quando abbiamo il braccio sollevato e riceviamo un colpo verso l’indietro), oppure per via di un suo uso ripetuto, o ancora per un quadro di lassità dei legamenti. Tutti questi fattori a modo loro possono portare a un quadro di instabilità e quindi a un aumentato rischio lussazione.
In assoluto la lussazione di spalla anteriore è la più frequente ed è spesso riscontrata da sola talvolta in seguito a un trauma, mentre quella posteriore la meno frequente. Tendenzialmente soggetti giovani tra i 15 e i 25 anni impegnati in sport da contatto sono fortemente a rischio per future recidive e spesso in questi casi si consiglia l’intervento chirurgico. Viceversa, soggetti meno giovani tra i 25 e i 40 anni o sopra i 40 anni, specie se non sono impegnati in attività sportive a rischio, hanno una possibilità di recidiva enormemente più bassa, e per questo la terapia conservativa basata sulla fisioterapia e sugli esercizi è generalmente quella d’elezione.
La fase riabilitativa seguente al trauma e all’eventuale intervento inizia con un periodo di alcune settimane di immobilizzazione della spalla, condizione utile a favorire la guarigione dei tessuti peri-articolari. Successivamente il trattamento fisioterapico si baserà sul ripristino della normale funzionalità della spalla in termini di mobilità, forza e stabilità.
Lesioni del labbro glenoideo
Il labbro (o “cercine”) glenoideo è una struttura fondamentale per la salute della spalla, in grado di garantire un’ottimale congruenza delle superfici articolari e di contribuire alla stabilità passiva dell’articolazione gleno-omerale. Lesioni in questa struttura possono quindi portare alla perdita di una parte della forza comprensiva che stabilizza la testa omerale, predisponendo a quadri di instabilità.
Diverse tipologie di SLAP lesion
Le cause delle lesioni del cercine possono essere traumatiche o dovute a stress ripetuti nel tempo (frequenti in sport di lancio e nelle attività che prevedono gesti sopra la testa, detti “overhead”) e/o a fattori degenerativi. La “SLAP lesion” è la lesione del cercine più famosa e conosciuta, classificata in 4 tipi in base alla gravità. In base alla gravità della lesione, alle caratteristiche e alle richieste funzionali del soggetto il trattamento potrà essere conservativo o chirurgico.
Patologie dell’articolazione acromion-clavicolare
L’articolazione acromioclaveare riveste un importante ruolo nella funzionalità del complesso articolare della spalla, e può essere soggetta a quadri patologici accompagnati da dolore nella zona della spalla. Le alterazioni che possono colpire questa importante articolazione possono essere di natura degenerativa (artrosi), traumatica (lussazioni), secondaria a stress ripetuti nel tempo (bodybuilding, nuoto, rugby…) o infiammatoria (artrite reumatoide e altre patologie di natura infiammatoria).
La morfologia di questa articolazione la rende particolarmente soggetta a lussazioni secondarie a traumi frequenti in sport “da contatto” come il rugby. In letteratura esistono sette tipi diversi si lussazione; alcuni necessitano di una correzione chirurgica, altri no. Un’articolazione acromioclaveare lussata sarà più soggetta a processi artrosici in futuro.
I soggetti che si allenano in palestra, in particolar modo coloro che maneggiano frequentemente carichi molto elevati in esercizi come la Panca Piana e il Lento Avanti, che per loro natura sottopongono a stress importanti l’articolazione acromio-claveare (N.B questo non vuole assolutamente dire che siano da evitare), possono andare incontro ad una condizione patologica chiamata osteolisi acromioclaveare, una degenerazione dell’articolazione con riassorbimento delle estremità delle ossa che la costituiscono.
Capsulite adesiva
La capsulite adesiva della spalla, chiamata anche spalla congelata (“frozen shoulder”), è una patologia di natura infiammatoria a carico della capsula articolare, che causa una importante perdita di mobilità dell’articolazione gleno-omerale. Tipicamente i sintomi si presentano in maniera lieve e peggiorano gradualmente nel tempo, e i tempi di guarigione sono molto lunghi. In alcune fasi l’importante perdita di mobilità è accompagnata da un forte dolore, che tende a peggiorare nelle ore notturne (inficiando notevolmente sulla qualità del sonno) e può rendere impossibili anche i gesti più semplici.
La capsulite adesiva è più frequente nel sesso femminile, in un’età compresa fra i 35 e i 50 anni e si associa spesso a patologie metaboliche (diabete o iper/ipotiroidismo); e a problemi autoimmuni. Questa patologia si manifesta solitamente in maniera progressiva, in varie fasi:
Nella prima fase, i movimenti della spalla sono accompagnati da forte dolore, ma sono possibili, mentre il ROM inizia a ridursi nel tempo
La seconda fase è caratterizzata da una lieve riduzione del dolore, accompagnata tuttavia da una notevole diminuzione del ROM articolare della spalla.
La fase successiva, detta di “scongelamento”, prevede un ampliamento delle possibilità di movimento dell’articolazione, fino al recupero, che può essere totale o solo parziale.
Tuttavia, riguardo alla precisione di queste “fasi temporali” e ai possibili tempi di recupero, non è stato ancora raggiunto un accordo comune in letteratura, e sono ancora presenti dibattiti e incongruenze a riguardo. Il trattamento può essere conservativo (fisioterapia, infiltrazioni articolari…) o chirurgico.
Rigidità capsula posteriore
La rigidità della capsula posteriore non rappresenta una vera e propria patologia a sè stante, ma vale la pena nominare questa condizione poichè molto frequente in coloro che si allenano in palestra. La rigidità di questa porzione della capsula articolare (identificata con un deficit di intrarotazione omerale) può alterare la corretta artro-cinematica della spalla, influenzando negativamente il movimento della testa omerale nella fossa glenoidea, e determinando una traslazione anteriore e/o superiore dell’omero, predisponendo spesso a stress aggiuntivi a carico dei tessuti molli limitrofi.
Un trattamento adeguato mirato a risolvere il dolore di spalla dovrà tenere conto anche di questa frequente alterazione.
Patologie del rachide cervicale e toracico
Va infine riconosciuto che un dolore di spalla può essere secondario a un problema a carico della colonna vertebrale (“rachide) cervicale e/o toracica. Alcune strutture di questi distretti, infatti, possono provocare un dolore che diffonde nella zona della spalla, simulando un problema locale della spalla, e portando spesso a diagnosi errate. Casi di questo tipo sono molto più rari di quelli precedentemente citati, ma una corretta valutazione dovrà tenere conto di queste possibilità, investigando anche il possibile contributo della cervicale e del torace al dolore di spalla.
Infortuni alla spalla più comuni in palestra e nel Bodybuilding
Studi epidemiologici riportano che la spalla è il distretto anatomico più frequentemente infortunato in coloro che si allenano in palestra, con una prevalenza che va dal 22% al 36% dei soggetti. In ordine decrescente, le patologie che più di frequente sono alla base del dolore di spalla nei soggetti che si allenano in palestra sono le tendinopatie della cuffia dei rotatori e del capo lungo del bicipite, la “sindrome da dolore subacromiale” (nella quale rientrano anche le tendinopatie appena citate), la rigidità della capsula posteriore, l’instabilità di spalla (con possibile associazione di lesioni del labbro glenoideo), l’osteolisi dell’articolazione acromioclaveare, e le lesioni muscolari del gran pettorale o del bicipite brachiale.
I problemi a carico dei tendini della cuffia dei rotatori e del bicipite brachiale sono quindi il problema che più comunemente porta a dolore di spalla in palestra. Ciò è dovuto a diversi fattori, in primis a volumi di allenamento eccessivi e troppo poco graduali, in contesti di allenamenti mirati soprattutto a muscoli superficiali e voluminosi come gran pettorale, deltoide e gran dorsale (i più ricercati in ottica estetica) a discapito di muscoli stabilizzatori più piccoli e meno visibili (ma non per questo meno importanti) come cuffia dei rotatori e muscoli stabilizzatori della scapola, fondamentali per la salute della spalla. Anche esecuzioni di esercizi non ottimali possono aumentare il fattore di rischio articolare.
In ogni caso, nella maggioranza dei casi il fattore chiave è la gradualità: non è un esercizio o un attività in sè ad essere pericolosa, ma è il fatto di non essere ancora pronti per tale esercizio/attività, di non aver ancora adattato a sufficienza i tessuti a quel tipo di stress, in particolare se nuovo (e tali adattamenti richiedono tempo). Per quanto riguarda l’articolazione acromioclaveare, nel contesto del bodybuilding questa è sottoposta a stress elevati imposti da esercizi ad alti carichi come la Panca Piana o il Lento Avanti/Military Press. In alcuni casi questo può portare alla cosiddetta osteolisi acromioclaveare, conosciuta anche come “la spalla del weightlifter”, caratterizzata da degenerazione di questa articolazione, accompagnata da una frattura da stress dell’osso subcondrale e della clavicola distale.
In particolare questa condizione (seppur decisamente più rara delle precedenti) è stata associata a microtraumi ripetuti nel tempo che avvengono durante la fase eccentrica della Panca Piana (quando gli omeri sono estesi dietro al tronco). Alcune posizioni particolarmente stressanti assunte durante alcuni esercizi (come la Panca Piana, Lat Machine eseguita dietro la testa, Military Press e Chest Flies) possono alla lunga (e in soggetti predisposti) portare a instabilità anteriore di spalla, che può a sua volta contribuire al dolore in questa zona.
Vere e proprie lesioni muscolari, in particolare del muscolo gran pettorale e del bicipite brachiale, sono decisamente più rare, ma rappresentano comunque uno degli infortuni possibili nel contesto dell’allenamento contro resistenze (in questo caso gli esercizi incriminati sono Panca Piana, Dips, Chest Flies).
Infortuni alla spalla più comuni nel CrossFit
Nel CrossFit sono presenti combinazioni di esercizi di Powerlifting, Ginnastica, Weightlifting, endurance ecc… Tali movimenti vengono spesso eseguiti ad intensità elevate, con tempi di recupero brevi fra una serie e la successiva. Per tale ragione, è ampiamente diffuso il luogo comune che il CrossFit sia una disciplina a rischio di infortunio molto più elevato rispetto ad altre attività.
Tuttavia, diversi studi epidemiologici hanno riscontrato che la percentuale di infortuni (in questo caso, nella spalla) è comparabile a quella di altri sport o attività contro resistenze come la Ginnastica, il Powerlifting e il Weightlifting. Anche in questo caso, come nel bodybuilding, la spalla risulta il distretto più frequentemente infortunato, seguita dal rachide lombare e dal ginocchio.
Per quanto riguarda le patologie e gli infortuni che più frequentemente sono causa di dolore di spalla nel CrossFit, valgono le medesime considerazioni fatte in precedenza per il bodybuilding, con i quadri di tendinopatia/borsiti/dolore subacromiale che la fanno da padrone, seguiti da instabilità, problemi acromioclaveari, lesioni muscolari ecc…
In particolare, è stato visto che nel CrossFit gli infortuni alla spalla avvengono più frequentemente negli esercizi “di Ginnastica”, mentre infortuni alla schiena sono più frequenti durante esercizi “di Weightlifting e Powerlifting”. Rispetto al bodybuilding, nel CrossFit la fatica centrale (affaticamento relazionato al sistema nervoso centrale) e la fatica periferica (affaticamento relazionato al sistema muscolare e ai sistemi energetici) ha un ruolo di maggiore impatto nell’insorgenza di infortuni, poichè i tempi di recupero sono solitamente meno “modificabili” , dato che l’obbiettivo primario è solitamente la performance (piuttosto che lo stimolo ipertrofico o il raggiungimento di una determinata skill, come avviene invece in altri contesti).
Infortuni alla spalla più comuni nel Calisthenics
Anche nel Calisthenics la spalla rappresenta l’articolazione più soggetta ad infortuni, seguita in questo caso dal gomito. Anche in questo caso le patologie e gli infortuni più frequenti sono gli stessi precedentemente citati nei contesti del Bodybuilding e del CrossFit.
Una particolarità dell’allenamento a corpo libero, ed in particolare dell’allenamento delle Skill, è che in tali posizioni isometriche il corpo si ritrova a dover fronteggiare contesti biomeccanici nei quali le leve sono estremamente svantaggiose, imponendo così stress elevatissimi a carico del sistema muscolare e tendineo.
Considerata l’estrema adattabilità di questi tessuti, è possibile eseguire queste attività minimizzando il rischio di infortunio, e ancora una volta in quest’ottica il fattore chiave sarà la gradualità dello stimolo, considerando anche che itendini hanno bisogno di tempi maggiori per adattarsi rispetto ai tessuti muscolari.
Quali sono i tempi di recupero per gli infortuni alla spalla?
Come abbiamo visto, gli infortuni e i dolori di spalla possono essere molti diversi fra loro, così come diverse possono essere le possibili cause, e di conseguenza la durata dei sintomi: un dolore insorto da pochi giorni, magari dopo un movimento brusco o una contusione, sarà molto di verso da un dolore che perdura da anni (con possibile presenza di sensibilizzazione del sistema nervoso centrale), e inevitabilmente anche il tempo di cui le due condizioni avranno bisogno per recuperare sarà ben diverso.
Per tale ragione, è impossibile definire con certezza e a priori un tempo di guarigione che sia uguale per ogni dolore di spalla. In alcuni casi il dolore può svanire anche dopo pochi giorni o poche settimane, mentre in altri casi può arrivare a durare mesi o anche anni. Considerata la natura multifattoriale del dolore, a decidere e/o influenzare i tempi di recupero saranno una moltitudine di fattori, alcuni modificabili e altri non modificabili. In ogni caso, nella maggior parte dei casi il dolore di spalla tende a perdurare per un intervallo temporale che va indicativamente dalle 2 alle 12 settimane.
Nel caso delle tendinopatie della cuffia dei rotatori (una delle principali cause di dolore alla spalla) la letteratura considera le 12 settimane un tempo medio per una possibile guarigione; tempo che può dilungarsi (arrivando fino anche alle 24 settimane) nel caso in cui siano presenti altre patologie concomitanti (diabete, ipercolesterolemia, obesità…) e/o in caso di recidive di dolore di spalla pregresso. Ovviamente in casi di interventi chirurgici i tempi di recupero saranno diversi e variabili in base all’entità della patologia e dell’intervento.
Rimedi per il dolore di spalla
Una volta analizzate le possibili cause di dolore alla spalla in palestra, quali sono i possibili rimedi per una sua corretta gestione? Come già accennato in precedenza, anche in questo caso la gestione del dolore dovrà essere contestualizzata in base alle caratteristiche e alla storia del soggetto, alla tipologia di quadro patologico e alle attuali capacità funzionali. In generale possiamo affermare che le strategie più efficaci per gestire il dolore di spalla durante gli allenamenti, sia in ottica preventiva che riabilitativa, sono le seguenti:
Rispetto delle corrette esecuzioni degli esercizi, specie negli esercizi più soggetti al dolore di spalla come la Panca Piana, il Lento Avanti e le Alzate Laterali. Dovranno essere preferite varianti con il più basso fattore di rischio possibile, e sarà fondamentale il costante mantenimento di un corretto assetto scapolare durante gli esercizi.
Evitamento/limitazione di linee di movimento dolorose, ricercando temporaneamente piani di movimento e ROM non dolorosi, per poi tornare gradualmente agli schemi motori originali quando il dolore sarà svanito.
Rispetto della gradualità nella programmazione e nella progressione dei parametri allenanti, evitando (in casi di dolore) lavori a cedimento e serie lunghe e forzate, prediligendo invece lavori con un discreto buffer.
Inserimento di esercizi specifici finalizzati alla correzione delle eventuali disfunzioni articolari e muscolari riscontrate con un’apposita valutazione. Rientrano in questa categoria esercizi di rinforzo/resistenza/performance muscolare (spesso necessari per i muscoli della cuffia dei rotatori e per alcuni muscoli periscapolari come il trapezio medio e inferiore o il gran dentato), esercizi di allungamento muscolare e/o capsulare, esercizi di mobilità ed esercizi di propriocezione.
L’esercizio dovrà rappresentare il core del trattamento della quasi totalità degli infortuni di spalla. In alcuni casi, tuttavia, il trattamento può includere anche una terapia farmacologica, terapia manuale passiva, e l’intervento chirurgico. Ogni singolo trattamento dovrà essere strutturato sulla base di una adeguata valutazione eseguita da personale sanitario qualificato, tendendo sempre conto delle caratteristiche, delle aspettative e delle richieste funzionali del soggetto.
È ormai lo stress il migliore amico dell’uomo moderno: il corpo alza i livelli di cortisolo (definito anche ormone dello stress) in risposta ad una vita frenetica, all’allenamento, ad un’eccessiva restrizione calorica, a tensioni psicologiche come ansia e depressione.
Come influisce questo ormone sulla composizione corporea?
Lo stress fa ingrassare? O, al contrario, lo stress fa dimagrire? E se in realtà fa sia perdere che prendere peso?
Lo stress fa ingrassare?
Lo stress stimola l’appetito: questo meccanismo è perfettamente fisiologico, infatti dal punto di vista evolutivo è sensato integrare le energie dopo un evento stressante. Ora sarà possibile dare la colpa dei chili in più anche alla teoria dell’evoluzione!
Inoltre, il cortisolo da una parte causa anche leptino-resistenza e stimola la fame, dall’altra aumenta la glicemia, che in concomitanza con l’insulinemia elevata porta ad insulino-resistenza: non gestisci più bene i carboidrati.
A livello del tessuto adiposo, il cortisolo stimola sia l’enzima della lipolisi che quello che scinde i trigliceridi, i cui prodotti (acidi grassi) possono o entrare nell’adipocita per accumularsi o essere ossidati. Ci sono delle differenti espressioni di questi enzimi nel tessuto adiposo sottocutaneo e viscerale: lo stress cronico porta ad una ridistribuzione del grasso nella regione addominale viscerale, che aumenta l’infiammazione, predispone a malattie metaboliche e aumenta il rischio cardiovascolare. Inoltre, in sinergia con l’insulina promuove la differenziazione e la proliferazione degli adipociti.
Un altro aspetto interessante e che contribuisce a diminuire il dispendio energetico è l’inibizione della sintesi delle proteine disaccoppianti UCP: queste proteine quando presenti fanno si che l’energia non venga trasformata in ATP ma in calore. Ma se assenti (sintesi inibita) l’energia non viene dispersa in calore.
Lo stress fa dimagrire?
Il cortisoloè un ormone catabolico: ma fermarsi a questa definizione (comunque corretta) è un po’ limitante. È come dire che l’insulina è un ormone anabolico e quindi che faccia ingrassare, a prescindere. Ma è certo che anche chi dimagrisce ha l’insulina e anche ben funzionante. Questo per dire che analizzare un ormone singolarmente non ha molto senso: è importante conoscere il contesto e come l’ormone si comporta in questo insieme ad altri fattori.
Nonostante sia “catabolico” e che quindi potenzialmente possa far perdere peso, il cortisolo in un contesto ipercalorico non intacca la massa muscolare (puoi tirare un sospiro di sollievo. E anche gli addominali).
Lo stress fa gonfiare la pancia?
Il tuo intestino non è solo: in media contiene ben 2 kg di batteri! Questi microrganismi costituiscono la flora batterica intestinale, anche definita microbiota, e sono indispensabili per il corretto funzionamento del tratto digerente.
Le sostanze che non sei in grado di digerire (come l’amido resistente, la fibra alimentare) vengono metabolizzate proprio da questi batteri tramite fermentazione: una reazione che tra i prodotti (es. acidi grassi a catena corta, utili all’organismo) vede anche anidride carbonica (CO2) e idrogeno (H2), entrambi composti gassosi.
Un microbiota alterato è il risultato di abitudini alimentari scorrette (troppi grassi, troppe proteine, poche fibre), infezioni, uso di certi farmaci, ma anche dello stress: questi elementi favoriscono lo sviluppo di ceppi di batteri che peggiorano la permeabilità intestinale, producono sostanze infiammatorie e diabetogene. Che qualcosa non funziona come dovrebbe a livello intestinale può essere evidente anche proprio dalla pancia gonfia, oltre che altri segni di cattivo assorbimento o dolori addominali.
Cortisolo e aumento del peso
Il cortisolo è uno dei responsabili dell’aumento del peso (nel cronico) perché è anche uno degli ormoni che influenza il centro della fame a livello dell’ipotalamo. Nell’ipotalamo (una parte del sistema nervoso centrale) ci sono neuroni:
oressigeni (della fame): che vengono inibiti dalla leptina e secernono NPY (il più potente oressigeno endogeno),
anoressigeni (della sazietà): che producono altri ormoni e vengono stimolati dalla leptina.
Quando questo sistema lavora in fisiologia, c’è una fine regolazione dell’assunzione di cibo che ti porta a mantenere lo stesso peso (omeostasi) per lungo tempo.
Tuttavia, nella società occidentale, c’è una grossa disponibilità di alimenti ricchi di grassi e zuccheri a basso costo (comfort food): cibi che gratificano istantaneamente quando li mangi, anche quando non hai realmente fame. Questo perché viene attivato il circuito dopaminergico del piacere, lo stesso coinvolto nelle dipendenze da alcol e droghe.
Proprio questo meccanismo edonico è fortemente spinto non solo da emozioni negative, ma anche dallo stress cronico: si crea una forte dipendenza dal cibo e il famoso “smetto quando voglio” non è poi così facile da rispettare, se non con una grande forza di volontà.
In questo modo, il cortisolo è complice dell’aumento di peso: ti fa mangiare di più, ti fa cedere di più ai cibi grassi e zuccherini nel cronico. E così, molto probabilmente eccedi rispetto al tuo fabbisogno calorico e ingrassi.
Cortisolo o non cortisolo, alla base di tutto c’è sempre il bilancio energetico.
Tensione nervosa, ansia e dimagrimento da stress: sintomi e rimedi
In riassunto di quanto detto finora, i risultati complessivi di uno stress eccessivo e duraturo sono:
ipercortisolemia
iperglicemia
ridotto dispendio energetico
bassa tolleranza glucidica
appetito
necessità di ingerire cibo caloricamente denso
infiammazione sistemica più elevata
ambiente catabolico per il tessuto scheletrico in particolare
ambiente neutro o anabolico per il tessuto adiposo
Sapere in anticipo se e quando il fisiologico meccanismo che regola lo stress diventa patologico è impossibile perché l’epigenetica influenza moltissimo la risposta individuale: ecco perché una minoranza di persone in risposta allo stress cronico perde peso.
Come hai appena letto, la situazione complessiva che si instaura non è propriamente delle più rosee. Cosa fare?
Trova il modo migliore di ridurre o, ancora meglio, eliminare il fattore stressante per interrompere il circolo vizioso
Evita approcci alimentari drastici
Riduci il volume e l’intensità dell’allenamento per non esacerbare gli effetti del cortisolo e non sovraccaricare ulteriormente il sistema nervoso
Non porti obbiettivi specifici o PR da raggiungere in un periodo molto stressante, conserva le energie
Prova attività alternative che favoriscano il recupero psico-fisico (cardio LISS per tempi brevi, yoga, tecniche di meditazione)
Evita stimolanti come caffè, guaranà, tè, termogenici, sinefrina
Dormi bene e riposati abbastanza
Se non riesci a superare i periodi più stressanti è utile chiedere consiglio ad un medico per eventuali terapie farmacologiche mirate e/o psicoterapiche
Conclusioni: lo stress fa dimagrire o ingrassare?
La risposta individuale, come sempre, conta: c’è chi ha un’alta soglia di sopportazione del cortisolo, chi una più bassa, chi dimagrisce e chi ingrassa. Tendenzialmente, è più facile ingrassare quando sei stressato nel cronico: lo stress agisce a livello sistemico creando una situazione generale che ti induce a mangiare di più e a peggiorare il metabolismo.
Co-autore: dott.ssa Lucia Ienco
Laureata in Biotecnologie e studentessa magistrale di Scienze dell’Alimentazione. Articolista InVictus ed esordiente di weightlifting a livello agonistico.
Approfondisci l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, con la nostra guida gratuita per cominciare a farti delle solide basi su cui poi approfondire:
Letteratura consultata :
Maniam J, Morris MJ (2012) The link between stress and feeding behaviour. Neuropharmacology 63: 97-110.
Spencer SJ, Tilbrook A (2011) The glucocorticoid contribution to obesity. Stress 14: 233-246.
Sominsky L, Spencer SJ (2014) Eating behavior and stress: a pathway to obesity. Front Psychol 5: 434.
Papadimitriou A, Priftis KN (2009) Regulation of the hypothalamic-pituitary-adrenal axis. Neuroimmunomodulation 16: 265-271.
Schneeberger M, Gomis R, Claret M (2014) Hypothalamic and brainstem neuronal circuits controlling homeostatic energy balance. J Endocrinol 220: T25-46.
Berridge KC (2009) ‘Liking’ and ‘wanting’ food rewards: brain substrates and roles in eating disorders. Physiol Behav 97: 537-550.
Volkow ND, Wang GJ, Baler RD (2011 Reward, dopamine and the control of food intake: implications for obesity. Trends CognSci 15: 37-46.
Monteleone P, Maj M (2013) Dysfunctions of leptin, ghrelin, BDNF and endocannabinoids in eating disorders: beyond the homeostatic control of food intake. Psychoneuroendocrinology 38: 312-330.
Liu S, Borgland SL (2015) Regulation of the mesolimbic dopamine circuit by feeding peptides. Neuroscience 289: 19-42.
Pecoraro N, Reyes F, Gomez F, Bhargava A, Dallman MF (2004) Chronic stress promotes palatable feeding, which reduces signs of stress: feedforward and feedback effects of chronic stress. Endocrinology 145: 3754-3762.
Jéquier E (2002) Leptin signaling, adiposity, and energy balance. Ann NY AcadSci 967: 379-388.
Asensio C, Muzzin P, Rohner-Jeanrenaud F (2004) Role of glucocorticoids in the physiopathology of excessive fat deposition and insulin resistance. Int J ObesRelatMetabDisord 28 Suppl 4: S45-52.
Suzuki K, Simpson KA, Minnion JS, Shillito JC, Bloom SR (2010) The role of gut hormones and the hypothalamus in appetite regulation. Endocr J 57: 359-372.
Macfarlane DP, Forbes S, Walker BR (2008) Glucocorticoids and fatty acid metabolism in humans: fuelling fat redistribution in the metabolic syndrome. J Endocrinol 197: 189-204.
Slavin BG, Ong JM, Kern PA (1994) Hormonal regulation of hormone-sensitive lipase activity and mRNA levels in isolated rat adipocytes. J Lipid Res 35: 1535-1541.
Arvaniti K, Ricquier D, Champigny O, Richard D (1998) Leptin and corticosterone have opposite effects on food intake and the expression of UCP1 mRNA in brown adipose tissue of lep(ob)/lep(ob) mice. Endocrinology 139: 4000-4003.
Benker G, Raida M, Olbricht T, Wagner R, Reinhardt W, et al. (1990) TSH secretion in Cushing’s syndrome: relation to glucocorticoid excess, diabetes, goitre, and the ‘sick euthyroid syndrome’. ClinEndocrinol (Oxf) 33: 777-786.
Mullur R, Liu YY, Brent GA (2014) Thyroid hormone regulation of metabolism. Physiol Rev 94: 355-382.
Grasselli E, Canesi L, Voci A, De Matteis R, Demori I, et al. (2008) Effects of 3,5-diiodo-L-thyronine administration on the liver of high fat diet-fed rats. Exp Biol Med (Maywood) 233: 549-557.
Grasselli E, Voci A, Demori I, Canesi L, De Matteis R, et al. (2012) 3,5-Diiodo-L-thyronine modulates the expression of genes of lipid metabolism in a rat model of fatty liver. J Endocrinol 212: 149-158.
Schleimer RP (1993) An overview of glucocorticoid anti-inflammatory actions. Eur J Clin Pharmacol 45 Suppl 1: S3-7.
Silverman MN, Sternberg EM (2012) Glucocorticoid regulation of inflammation and its functional correlates: from HPA axis to glucocorticoid receptor dysfunction. Ann NY AcadSci 1261: 55-63.
Wisse BE (2004) The inflammatory syndrome: the role of adipose tissue cytokines in metabolic disorders linked to obesity. JASN 15: 2792-2800.
Fontana L, Eagon JC, Trujillo ME, Scherer PE, Klein S (2007) Visceral fat adipokine secretion is associated with systemic inflammation in obese humans. Diabetes 56: 1010-1013.
Circa il 58% degli intervistati nell’indagine sul “Food engangement” e a cura dell’università del Sacro cuore ha creduto ad una fake news alimentare e di questi circa il 37% ne ha condiviso la notizia sui social. Le abitudini di consumo alimentare non sono le stesse tra chi crede e diffonde le fake news e chi no: dai dati emerge che coloro che tendono a credere alle bufale alimentari, hanno una maggior propensione ad acquistare alimenti con le diciture “a Km 0”, “con l’aggiunta di…”, “sostenibili” e “biologici”, rispetto ai prodotti tradizionali generalmente più economici.
Dall’ananas che brucia i grassi all’eliminazione del glutine fino al tanto demonizzato latte, ecco 20 fake news o miti alimentari che abbiamo di certo sentito tutti.
L’ananas fa dimagrire
Una delle più antiche leggende alimentari è forse quella che narra delle proprietà dimagranti dell’ananas grazie alla sua proprietà di “bruciare i grassi”.
Questa leggenda nasce da un gruppo di sostanze denominate collettivamente Bromeline, le cui forme più attive sono contenute nel gambo dell’Ananas, che possiedono un’azione proteolitica, ma che non hanno alcun effetto sui grassi.
Da dove nasce l’idea che l’ananas brucia i grassi?
Nasce da uno studio effettuato sui ratti, in cui l’introduzione di succo d’ananas nella dieta avrebbe sviluppato adattamenti metabolici utili per la perdita di peso, risultati che non è stato poi replicato sugli uomini (1).
La Bromelina sembra però avere un’attività anti-edematosa, anti-infiammatoria, antimicrobica e anti-trombotica, ma è necessario tenere conto che questi studi sono stati effettuati somministrando integratori di Bromelina perchè la quantità assunta e assorbita tramite una porzione di frutta è insufficiente per generare benefici.
La bromelina infatti è contenuta soprattutto nel suo gambo, che viene nella maggior parte dei casi eliminato ed inoltre è assorbita a livello intestinale solo per il 40% (2).
La Dieta alcalina
Si basa sul principio non scientifico che “alcalinizzando” il corpo si possano curare alcune malattie tra cui addirittura il cancro. Il presupposto teorizzato da Robert Young (condannato nel 2017 per esercizio abusivo della professione) è quello che mangiando solo alcune categorie di cibi alcalini si possa influenzare il ph ematico che oscilla tra i valori 7,3 e 7,5 (moderantamente alcalino); una variazione del ph in qualunque direzione comprometterebbe molte attività biologiche.
I livelli del pH vengono mantenuti grazie a sistemi tampone messi in atto dall’organismo ed anche se si assumessero alimenti alcalini poi, questi passerebbero nello stomaco dove i succhi gastrici li porterebbero ad avere un pH acido.
Per questi motivi appare chiaro come non sia possibile modificare il pH ematico attraverso l’alimentazione e comunque, qualora fosse possibile, non sarebbe salutare.
La truffa del detox
Una delle bufale, o meglio vera e propria truffa, più in voga sui social network è quella dei prodotti detox, dai tè ai cerotti, dagli integratori ai sostituti del pasto, tutti strumenti costosissimi per depurare l’organismo.
Tuttavia dovremmo sapere tutti che il nostro organismo è impegnato ogni giorno a depurare i nostri organi dalle sostanze nocive e dagli scarti metabolici e non esiste alcun alimento o integratore che possa in sé essere definito disintossicante.
Anche le dosi eccessive di tisane possono diventare pericolose per i principi attivi contenuti nelle erbe. Gli effetti indesiderati possono variare dalla tachicardia (principalmente dovuta alla 1,3,7-trimetilxantina, conosciuta come caffeina), effetti lassativi e diuresi eccessiva con conseguente iponatriemia.
La dieta detox non detossifica l’organismo, una dieta sana e bilanciata si.
Acqua e limone per depurare
Insieme alle diete alcaline e detox è nata la leggenda che l’abitudine di bere la mattina a digiuno acqua calda e limone aiuterebbe ad accellerare il metabolismo e a detossificare. Entrambe le affermazioni sono ovviamente prive di fondamento, perchè acqua e limone non sono in grado di aumentare la termogenesi ed il nostro organismo ha strumenti di detossificazione che non vengono coadiuvati da questa bevanda.
Inoltre l’ingestione di questa bevanda a digiuno e per molto tempo può indebolire lo smalto dentale e acutizzare disturbi gastrici.
Le uova aumentano il colesterolo
L’argomento “uova” è stato per tanto tempo fonte di dibattito per il suo alto contenuto di colesterolo (circa 200 mg di colesterolo in un tuorlo a fronte di un apporto consigliato giornaliero di circa 300 mg).
Il quantitativo di grassi in un tuorlo è di circa 5 gr, come un cucchiaino d’olio e sono perlopiù grassi mono e polinsaturi; le uova, però, sono anche una fonte di proteine ad alto valore biologico, vitamine, sali minerali e lecitine.
Il colesterolo ematico è per la maggior parte, autoprodotto (circa 80%) ed in un adulto sano risponde a meccanismi di autoregolazione basati sull’alimentazione.
Inoltre il rischio di incorrere in malattie cardiovascolari, secondo una revisione del 2013, è maggiormente correlato al quantitativo di grassi saturi, ad un’alimentazione povera di fibre ed alla sedentarietà (3).
Nella popolazione sana si arriva a consigliare fino ad un uovo al giorno (vedi l’articolo su quante uova a settimana possiamo mangiare), mentre è da limitare il consumo di alimenti ricchi in colesterolo, in persone in cui il livello della colesterolemia debba essere costantemente monitorato.
Lo zucchero è veleno bianco
Il terrore che si è scatenato nei confronti dello zucchero bianco si inserisce nella tendenza del mondo occidentale a rifiutare per scelte filo-salutistiche tutto ciò che è industriale o comunque considerato meno “naturale”.
Con il termine “zucchero” si intende il saccarosio estratto indifferentemente dalla canna o dalla barbabietola da zucchero che viene lavorato fino a raggiungere il suo colore bianco. Se estratto dalla canna da zucchero gli si può lasciare una parte di melassa, una sostanza che conferisce il tipico colore ambrato a quello che chiamiamo “zucchero di canna”.
Nel processo di sbiancamento si utilizza l’idrossido di calcio (cioè “latte di calce”) e talvolta per la canna da zucchero l’anidride solforosa, ma di queste sostanze non ne rimane traccia nel prodotto finito, quindi le ipotesi di insalubrità sono totalmente infondate.
Anche a livello calorico abbiamo lo stesso quantitativo di calorie quindi a meno di preferenze di gusto non c’è ragione di preferirne uno all’altro.
Vietati i carboidrati dopo le 18:00
Spesso sui social, sulle riviste e in alcuni programmi televisivi è stato divulgato il consiglio che per rimanere magri bisognerebbe rinunciare ai carboidrati nelle ore serali. Dobbiamo quindi rinunciare a pane e pasta la sera?
In realtà non esistono prove che confermino questa teoria, anzi gli studi che hanno analizzato l’impatto dei glucidi in base all’orario di assunzione non hanno riscontrato differenze sostanziali di variazione di peso tra i gruppi che assumevano i carboidrati in maniera preponderante la mattina da quelli che li assumevano la sera.
In conclusione l’assunzione della giusta dose di carboidrati deve essere scelta in base alla preferenza del soggetto e all’orario dell’allenamento visto che l’attività fisica migliora l’affinità delle cellule al glucosio.
Dieta senza glutine
Quasi un italiano su cento soffre di celiachia, ovvero un’intolleranza permanente al glutine, o per meglio dire, alla sua frazione proteica, la gliadina. La risposta immunitaria scatenata dall’ingestione di alimenti contenenti glutine provoca un’infiammazione intestinale cronica che, a sua volta, danneggia i tessuti e porta alla scomparsa dei villi intestinali, fondamentali per l’assorbimento dei nutrienti. L’unica terapia attuabile in caso di celiachia è una dieta priva di glutine, che riduce l’infiammazione della mucosa intestinale e permette una regressione dei sintomi fino alla scomparsa.
La dieta senza glutine è diventata sempre più comune anche tra chi non è affetto da celiachia; ciò è dovuto in parte a diagnosi fai da te, con cui si ricollegano alla malattia sintomi che originano da altre cause ed in parte alla diffusione di falsi miti come la capacità pro-infiammatoria del glutine, il favorire l’aumento di peso, portare a deficit di concentrazione ecc…
Questo ha condotto il mercato del “senza glutine” ad una crescita annuale del 20% con un valore di circa 320 milioni di euro (fonte Coldiretti).
La maggior parte dei prodotti industriali senza glutine, se paragonati ai loro equivalenti tradizionali hanno solitamente un apporto calorico maggiore dovuto all’aumento dei grassi presenti nel prodotto per renderlo più appetibile.
Se chiari sono i miglioramenti clinici legati all’eliminazione del glutine dalla dieta dei pazienti celiaci, non sono stati associati particolari benefici sulla popolazione sana ed inoltre, dal punto di vista dei nutrienti, i prodotti senza glutine (naturalmente senza glutine o industriali che siano) hanno un minor quantitativo di proteine, fibre alimentari, folati, ferro, niacina, vitamina B1 e vitamina B2 (4).
Effettivamente alcuni nutrienti della frutta (fibre e oligosaccaridi), in determinati soggetti possono rallentare il transito del cibo nel tratto gastrointestinale e originare processi di fermentazione con conseguente sensazione di gonfiore addominale.
Non esiste comunque ragione di dissociare la frutta dal pasto principale (nel caso di disturbi il consiglio è quello di moderare le quantità) e se si mantiene il corretto apporto calorico, la frutta non è certamente responsabile di un aumento del peso. L’unico limite è quello di non superare i 30 gr di fruttosio a pasto.
Grani antichi
Dopo essere stati abbandonati per decenni perchè poco remunerativi rispetto al frumento, tornano di moda i “grani antichi”.
Sempre più spesso si sente dire che i grani moderni contengano meno nutrienti. Uno studio (5) ha analizzato il contenuto nutrizionale di farro monococco, farro dicocco, farro spelta, grano duro e grano tenero in cerca di differenze, verificando soprattutto il contenuto in fibre alimentari, che hanno un effetto positivo sulla nostra salute e sostanze fitochimiche di vario tipo (alcune vitamine, steroli, acidi fenolici, alchilresorcinoli ecc.).
I ricercatori hanno concluso che in termini di micronutrienti le differenze sono minime, il che non rende i grani antichi più “salutari” dei moderni.
Sale rosa dell’Himalaya
La storia del sale rosa Himalayano è una delle grandi imprese di marketing degli ultimi anni.
Il mito narra che questo sale, proveniente in realtà non dall’Himalaya ma dalla miniera di Kewrab in Pakistan, abbia delle virtù miracolose come alcalinizzare il corpo, migliorare la circolazione, combattere la ritenzione idrica e l’impotenza. Queste virtù, mai verificate scientificamente, sono state attribuite dalla casa produttrice agli 84 elementi presenti nel prodotto.
Il sale alimentare per essere messo in commercio deve avere un contenuto di cloruro di sodio superiore all’97%; anche se tutti questi elementi fossero presenti nel sale, lo sarebbero in quantità così ridotte da non avere alcun effetto benefico.
Il sale rosa dell’Himalaya inoltre non contiene iodio, microelemento che in molte popolazioni è carente (in India ad esempio è vietata la vendita di sale non iodato).
Il grande successo è dovuto ad una vasta campagna di marketing sui social e anche al suo posizionamento sul mercato, essendo venduto inizialmente solo in erboristeria o in negozi di nicchia, i consumatori hanno associato a questo prodotto proprietà salutari maggiori e un valore superiore rispetto al comune sale bianco venduto al supermercato a prezzi molto minori.
Il biologico è più nutriente
Sicuramente la produzione di alimenti biologici è più sostenibile a livello ambientale ma ciò non li rende più nutrienti.
La Food Standard Agency britannica nel 2010 ha pubblicato una review di oltre 120 articoli che confrontavano i profili nutrizionali dei prodotti biologici e tradizionali. I risultati mostrano una certa variabilità di alcuni elementi e in casi specifici (come nei cereali biologici mediamente meno proteine) non ci sono prove che dimostrino sostanziali differenze nutrizionali tra alimenti biologici e convenzionali.
Qualche anno più tardi, i ricercatori dell’Università di Stanford, hanno pubblicato una nuova rassegna aggiornata arrivando alle stesse conclusioni (6).
Saltare la colazione rallenta il metabolismo
“Colazione da re, pranzo da principe e cena povero” diceva il detto, ma è proprio così?
In realtà saltare la colazione non incide negativamente sul metabolismo, se durante tutta la giornata si assume il corretto quantitativo di calorie per gli obiettivi preposti.
In mancanza di zuccheri immediatamente disponibili, la glicemia è controllata dall’azione delle catecolamine, del cortisolo e del glucagone (che hanno azione lipolitica), shiftando il metabolismo a favore dell’utilizzo di acidi grassi.
Il problema potrebbe sorgere qualora la conseguenza del saltare la colazione fosse quella di fare continui spuntini in attesa del pranzo, che comportano un eccesso calorico.
I superfood
Con il termine superfood si identificano determinati prodotti alimentari, soprattutto di origine vegetale, aventi particolari caratteristiche benefiche grazie ai loro nutrienti. Secondo le dichiarazioni con cui vengono presentati, questi «superalimenti» sono estremamente ricchi di proprietà come quella tonificante e antiossidante ma in molti casi si tratta solo di una distorsione degli studi fatti sulle proprietà di quell’alimento, tanto che dal 2007 l’Unione Europea ha vietato l’uso di questa denominazione sulle confezioni.
Questo è assolutamente falso, le proteine in polvere per essere messe in commercio hanno dovuto superare dei test di sicurezza e salubrità (come per tutti gli altri integratori alimentari) e non vi è nessuna differenza strutturale tra le proteine in polvere e quelle contenute in un qualsiasi altro alimento.
Le problematiche che possono verificarsi con l’assunzione delle proteine in polvere riguardano il lattosio contenuto nella versione derivata dal siero dal latte e dai dolcificanti che potrebbero alterare il microbiota intestinale.
Rimane comunque la raccomandazione di non superare l’assunzione consigliata di proteine, sia provenienti da proteine in polvere che da alimenti tradizionali.
La vitamina C che cura il raffreddore
Quanti di noi si sono sentiti proporre, per evitare l’ennesimo raffreddore stagionale, il famoso succo d’arancia? Sicuramente le nostre mamme lo facevano in buona fede considerando l’arancia come l’alimento con più vitamina C che conoscevano, ma questa è una leggenda nata dalle considerazioni del premio Nobel Linus Pauling il quale sostenne in diversi articoli che l’assunzione di 3 gr al dì di vit. C, limitasse l’insorgere del raffreddore. Questa teoria è stata del tutto smentita in una revisione del 2013 (7) in cui sono stati presi in analisi, esclusivamente studi in doppio cieco su due gruppi in cui uno assumeva vit. C e l’altro un placebo, nel dettaglio si analizzarono trenta studi comprendenti 11.350 soggetti. Tra i due gruppi non emergevano differenze sostanziali.
Riguardo la durata invece è stato verificato, nell’aggiornamento della precedente review datata 2016, il potere della vit. C di diminuire dell’8% i tempi di guarigione dal raffreddore, circa 10 ore in meno su 5 giorni.
I sostituti del pasto per dimagrire
Dagli anni ‘80 si è vista una crescita esponenziale di bevande o barrette sostitutive del pasto. Al di là degli scandali nati dagli schemi multilevel, il mercato ci offre un’immensa varietà di barrette che sulla confezione presentano il claim “barretta sostitutiva del pasto” o “aiuta nella perdita e mantenimento del peso”.
Ovviamente il segreto di queste barrette si trova sull’etichetta nutrizionale: solitamente apportano meno di 300 kcal a porzione, riducendo quindi l’apporto calorico della giornata.
Tuttavia le barrette dietetiche, sono povere in carboidrati e ricche in grassi saturi e trans e poco sazianti.
Piuttosto che come protocollo dietetico, come consigliato da alcune aziende, questi prodotti potrebbero essere funzionali come spuntino o essere usati solo saltuariamente come un’alternativa e non far parte, come proposto dalle aziende, di un programma dietetico.
L’integrale è più “leggero”
In molti ancora associano ad un periodo di dieta ipocalorica l’utilizzo di prodotti integrali, convinti che questi siano più leggeri rispetto al corrispondente tradizionale.
Leggendo le etichette ci si accorge che in realtà la differenza calorica è davvero minima, tuttavia l’utilizzo dei prodotti integrali può avere dei vantaggi.
I prodotti integrali infatti contengono un maggior quantitativo di fibre insolubili, che agiscono sulla regolazione del transito intestinale, e solubili che rallentano la digestione e l’assorbimento di nutrienti, modulando anche l’aumento della glicemia, oltre ad avere effetti benefici sulla flora intestinale.
Le fibre in alcuni soggetti, danno maggiore sazietà rendendo più sostenibile la dieta, tuttavia un apporto eccessivo di fibre può portare a fenomeni di distensione gastrica, dolore addominale e fenomeni di malassorbimento.
Le acque della salute
Una famosa marca di acque minerali è stata più volte censurata e condannata dall’Antitrust e dal Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (il quale però non commina pene pecuniarie), perchè dichiarava come claim il suo essere “l’acqua della salute”, proponendosi quindi migliore della altre acque minerali. Secondo il Comitato di Controllo infatti “il riferimento alla “salute” è del tutto improprio e potenzialmente equivoco per il pubblico dei consumatori se riguarda prodotti che, essendo e rimanendo semplici alimenti, non hanno in sé e per sé alcuna proprietà terapeutica né di prevenzione e presentano caratteristiche mediamente possedute dai prodotti similari”.
Il concetto di associare il termine salute, e quindi di prevenzione e cura di malattie, ad uno specifico alimento o prodotto è la strategia commerciale per la maggior parte dei prodotti in commercio, pratica che tuttavia risulta di fatto e di diritto scorretta.
Il latte
Ultimo punto ma non di certo per importanza è l’argomento latte, passato da alimento consigliato a tutti (celebre la campagna americana “I drink milk” promossa da star come Naomi Campbell) ad alimento addirittura inadatto al consumo umano. Il latte negli ultimi anni ha subito una campagna diffamatoria soprattutto a causa di una nuova tendenza a prediligere un’alimentazione vegana e macrobiotica. Non a caso parallelamente a questa demonizzazione il mercato si è riempito di alternative al latte tradizionale provenienti da alimenti vegetali ma con un costo decisamente superiore.
Intolleranza al lattosio
Quasi i due terzi della popolazione mondiale nella vita da adulto non possiede l’enzima lattasi, responsabile della scissione del lattosio in glucosio e galattosio, in sua assenza il lattosio arriva nel colon dove viene metabolizzato dai batteri intestinali producendo acidi grassi e diversi gas, inoltre il lattosio richiama acqua nell’intestino per effetto osmotico generando quindi diarrea, crampi e flatulenza.
Un terzo della popolazione invece continua a possedere questo enzima (persistenza della lattasi), grazie a dei caratteri genetici selezionati. La persistenza della lattasi ha una maggior incidenza nel popolo europeo (circa l’80%) mentre risulta praticamente assente nei popoli asiatici e africani. Questa distribuzione è dovuta soprattutto alla diffusione dell’allevamento del bestiame.
Quindi è innaturale bere il latte perchè il 70% della popolazione mondiale è intollerante? Assolutamente no, anzi si è sviluppata una controevoluzione per le popolazioni in cui latte e latticini erano parte fondamentale della dieta.
Il latte e l’osteoporosi
L’Osteoporosi è definita come una condizione in cui la struttura perde massa ossea e resistenza esponendo l’individuo ad un maggior rischio di fratture.
Il latte, insieme alle altre proteine di origine animale, è stato accusato di generare acidosi metabolica e una conseguente maggiore escrezione di calcio dalle urine. In realtà il latte non ha nessun ruolo nell’acidosi metabolica e la maggior escrezione di calcio è spiegabile con il miglior assorbimento a livello intestinale del calcio ingerito, mantenendo quindi il bilancio in equilibrio.
Il latte e i latticini non curano l’osteoporosi, ma sono uno strumento importante nella sua prevenzione e nel mantenimento della massa ossea durante un lungo periodo di ipocalorica.
Coloro che per allergie, intolleranze o gusti personali non mangiano latticini possono sicuramente aumentare il consumo di altri alimenti contenenti calcio o tramite integratori.
Il latte e il cancro
La base di questa leggenda si trova nel famosissimo libro “The China Study” nel quale viene portata avanti la tesi secondo cui il consumo, anche di minime quantità, di grassi e proteine animali (compresi quelli provenienti dai latticini, indicati come particolarmente pericolosi) porterebbe ad un incremento importante del rischio di cancro. Si tratta di una differenza notevole rispetto agli altri studi epidemiologici riguardanti le proteine di origine animale, che hanno mostrato un aumento sì del rischio, ma graduale e dipendente dalle dosi e soprattutto riguardante il consumo di carne rossa e lavorata.
Il latte è associato anzi ad un minor rischio di cancro al seno e del colon (8).
Perchè siamo sensibili alle Fake news
Nella società odierna la quantità di informazioni a cui abbiamo accesso è enorme soprattutto grazie ad Internet. Il Rapporto Global Digital 2018, stima che gli utenti connessi a internet sono il 53% della popolazione mondiale, tuttavia l’accesso e la libertà di azione sul mezzo online ha portato ad un sovraccarico di informazioni (information overload) che si susseguono sempre più velocemente e spesso in contrasto l’una con l’altra e che ha come risultato un soggetto disorientato e incapace di verificare le informazioni.
Sul web tutte le notizie sono poste sullo stesso piano, l’informazione è spesso incerta e senza basi scientifiche a supporto. Gli stessi quotidiani o telegiornali classici, un tempo investiti dell’autorevolezza della fonte, hanno cambiato il loro modo di diffondere, comunicare e verificare le notizie, cercando di combattere la velocità dell’informazione on line collaborando alla diffusione di vere e proprie bufale.
Quali sono gli effetti e come questo viene sfruttato dal marketing?
Non importa il livello di istruzione, l’estrazione sociale o la preparazione, se una notizia viene da una persona fidata noi ci crediamo e per una sorta di “economia cognitiva” le daremo inconsciamente valore.
Questo avviene perchè nella società moderna in cui si avvicendano una moltitudine di informazioni, ritenere la notizia già verificata da qualcun’altro ci libera da un’eventuale ulteriore carico mentale, che coinvolge anche le piccole decisioni quotidiane.
Le fake news sono costruite ad hoc, rispondono a delle paure o bisogni e vengono condivise da persone che amiamo o stimiamo.
Lo stesso concetto è applicato al marketing alimentare; una campagna marketing di un prodotto è basata sulle esigenze edonistiche del futuro consumatore, deve rispondere a dei suoi bisogni (perdita di peso, controllo della glicemia, sostenibilità anbientale) e comunicato da persone di cui hanno fiducia in base al proprio target (lo chef per le patatine gourmet, l’influencer per i prodotti light, ecc…).
Questa strategia di comunicazione, integrata nel contesto più ampio della società odierna fatta di informazione non controllata, indirizza il consumatore verso la scelta che lui ritiene più sicura, più veloce e meno pericolosa.
Conclusioni sulle bufale alimentari
Le fake news hanno origine più antiche di internet, lo dimostrano le credenze tramandate dalle nostri madri, tuttavia, nonostante la possibilità di verificare le notizie, il più delle volte non lo facciamo, per pigrizia, incapacità di reperire le informazioni o semplicemente perchè ci viene proposta una soluzione semplice ad un problema complesso.
L’unica arma a disposizione dell’individuo è quella che richiede più tempo e dispendio di energia, ovvero che implica ricerca, capacità di discernere le fonti attendibili da quelle non attendibili ed essere in grado di mettere in discussione le credenze costruite in molti anni.
Bibliografia
Physiological and molecular study on the anti-obesity effects of pineapple (Ananas comosus) juice in male Wistar rat. El-Shazly et all. Food Sci Biotechnol. 2018
Potential role of bromelain in clinical and therapeutic applications, Vidhya Rathnavelu, et all.Biomed Rep. 2016
Egg consumption in relation to risk of cardiovascular disease and diabetes: a systematic review and meta-analysis, Jang Yel Shin, Pengcheng Xun, Yasuyuki Nakamura, and Ka He, 2013
Long term gluten consumption in adults without celiac disease and risk of coronary heart disease: prospective cohort study, Lebwohl et. All, BMJ 2017
Do “ancient”wheat species differ from modern bread wheat in their contents of bioactive components? [Journal of Cereal Science 65 (2015): 236-243]
Nutritional quality of organic foods: a systematic review, Dangour et al., The American.
Vitamin C for preventing and treating the common cold. Hemilä H1, Chalker E
Milk and dairy products: good or bad for human health? An assessment of the totality of scientific evidence. Thorning TK1, Raben A1, Tholstrup T1, Soedamah-Muthu SS2, Givens I3, Astrup A4.
Altre fonti:
“Pane e bugie”, Dario Bressanini, Chiarelettere editore, 2010
Project Diet, Daniele Esposito, 2017
Organizzazione e marketing delle imprese agroalimentari, Cristina Mora, 2017
Psicologia del Consumatore, Giovanni Siri, 2004
Note sull’autrice
Dott.ssa Sara Latini
Laureata in dietistica all’Università “La Sapienza” di Roma. Certificata Personal trainer grazie al Project Invictus e Insegnante di Pole Dance
Quante volte abbiamo sentito parlare di sostanze antiossidanti? Ovunque, dalle etichette alle pubblicità vengono presentate come un must dell’integrazione, ma cosa sono realmente?
Cosa sono gli antiossiadanti
Gli antiossidanti sono molecole in grado di neutralizzare o prevenire la formazione di radicali liberi. La produzione energetica aerobica produce stress ossidativo, danneggiando gli atomi e di conseguenza le cellule ed i tessuti del nostro corpo. Gli antiossidanti fanno da donatori degli atomi danneggiati, cedendo i loro elettroni per ricostituire gli orbitali a cui erano stati sottratti.
I radicali liberi rubano gli elettroni agli atomi danneggiati. Gli antiossidanti vanno a restituire gli elettroni mancanti.
Antiossidanti e radicali liberi:
I radicali liberi sono specie molecolari che, a causa della loro conformazione chimica sono altamente instabili, pronti a reagire con atomi o molecole vicine, a cui poter sottrarre elettroni.
Il nostro organismo, già fisiologicamente produce un certo quantitativo di antiossidanti endogeni per far fronte ad eventuali sottoprodotti di ossidazione derivanti dal metabolismo cellulare (reazioni enzimatiche, fosforilazione ossidativa, difese immunitarie); tra questi, la superossido dismutasi, la catalasi e soprattutto il glutatione, cooperano nel mantenimento dell’omeostasi.
È doveroso dire che i radicali liberi non sempre sono pericolosi; infatti, se presenti in basse dosi fisiologiche promuovono l’espressione di geni che sintetizzano molecole ad azione antiossidante, o ancora, attivano la protein chinasi C provocando cambiamenti strutturali di membrana, e partecipano alla difesa antimicrobica (lo ione superossido è usato dal sistema immunitario per uccidere microrganismi patogeni).
Nonostante ciò, siamo ogni giorno sottoposti ad un surplus di radicali liberi che rendono insufficiente la fisiologica attività antiossidante. Alcuni fattori ambientali, quali fumo di sigaretta, inquinamento dell’aria, esposizione ai raggi UV ostress prolungato, espongono ad un maggior insulto molecolare.
Per di più, il brutto di questa vicenda è che le reazioni radicaliche sono reazioni che di per sé si propagano a catena, non si fermano mai se non arriva qualcuno a dire loro ‘Okay basta’.
Per questa ragione è utile conoscere i potenziali benefici e le fonti alimentari da cui poter approvvigionare il giusto apportointegrativo, attraverso un regime dietetico vario ed equilibrato, che contribuisca ad inattivare i danni da radicali liberi in eccesso.
Quali sono i cibi antiossidanti? Fanno bene?
Gli alimenti contenenti alte dosi di vitamine hanno sicuramente un ruolo determinante:
gli agrumi, le verdure a foglia verde, kiwi, peperoni, pomodori, contengono moderate dosi di acido-L-ascorbico, per gli amici Vitamina C. Questa, non solo favorisce la neutralizzazione dei radicali, ma catalizza molte reazioni di idrossilazione (tra cui quella della DOPA, per la formazione di un importante neurotrasmettitore, l’adrenalina) e interviene nei processi di difesa cellulare, stimolando il sistema immunitario. Va precisato tuttavia, che questa vitamina sia instabile al calore e all’ossigeno, quindi, la misura della sua concentrazione negli alimenti può variare durante i trattamenti di conservazione, lavaggio e cottura.
tuorlo d’uovo, olio di fegato di pesce, formaggi e burro, contengono la Vitamina A, fondamentale non solo per la sua attività antiossidante, ma anche nel meccanismo della visione, nell’emopoiesi, nella differenziazione cellulare e nelle risposte immunitarie; nonostante sia presente, come tale, solo negli alimenti di origine animale, alcuni precursori chiamati carotenoidi, contribuiscono al reale fabbisogno di tale vitamina e sono essi stessi i responsabili della vivace colorazione gialla, arancione o rossa. Il β-carotene è largamente presente in zucche, albicocche, carote, spinaci e cicoria; il licopene, conferisce il colore rosso ai pomodori, la luteoxantina è il maggior componente del succo di arance, e la bixa orellana è utilizzato come colorante per alcuni formaggi, gelati e margarina.
l’ α-tocoferolo è meglio conosciuto come Vitamina E, ne sono particolarmente ricchi i frutti oleosi, le olive, il germe di grano, i semi in generale, alcuni cereali, la frutta e gli oli vegetali, ma la concentrazione in questi alimenti varia in base ai diversi gradi di crescita, alla stagione ed alle modalità di raccolta e lavorazione.
prodotti lattiero-caseari, cereali, e frattaglie, contengono Selenio, un elemento chimico essenziale per la glutatione-perossidasi. È contenuto anche in frutta e verdura, ma il suo contenuto può variare in base al terreno di coltivazione.
Altre sostanze antiossidanti di natura non vitaminica sono i polifenoli un’ampia classe di composti derivati dal metabolismo secondario delle piante, tra cui flavonoidi e antocianine, contenuti soprattutto nel tè, nel vino rosso, nel cacao, ma anche nella frutta, come cachi, mirtilli, uva, e frutti rossi.
Anche il coenzima Q10, ubiquitario in ogni cellula dell’organismo e per questo chiamato anche ubichinone,è largamente presente in soia, noci, carne, pesce e vegetali, e riveste un ruolo da non sottovalutare, non solo per la protezione del DNA dallo stress ossidativo, ma anche per la riduzione del rischio di patologie cardiovascolari.
La melatonina, un ormone endogeno responsabile della regolazione dei ritmi circadiani, contrastando la perossidazione lipidica, sembra possedere anch’essa un effetto antiossidante.
Principali cibi antiossidanti
Tutta la frutta e verdura hanno un forte potere antiossidante, anche il pesce e le fonti sane di cibi animali hanno vitamine liposolubili utili al nostro organismo. In questa tabella troviamo alimenti e bevande utili a combattere i radicali liberi. Attenzione solo al vino rosso che pur avendo il resveratrolo contenendo alcol, ha più un effetto negativo che positivo sul nostro organismo (anche se ne beviamo solo un bicchiere).
Cibi antiossidanti
Bevande antiossidanti
Peperoncino
Succo d’uva
Barbabietola
Succo di arancia
Pomodori
The verde
Spinaci
Succo di carota
Prugna nera
Vino rosso
Kiwi
Frutti di bosco
Cavolo verde
Cacao
Antiossidanti e sport
Parlando di attività sportiva invece, è evidente il suo duplice ruolo contrastante: se da un lato, infatti, fare sport aumenta la produzione dei radicali liberi in seguito a stress ossidativo mitocondriale, d’altro canto è lo stesso stress a fungere da stimolo per potenziare i meccanismi antiossidanti endogeni. Pertanto l’andamento segue una curva gaussiana (a U rovesciata).
Fare poca attività fisica non aiuta a combattere i radicali liberi come farne troppa, la virtù sta nel mezzo.
Vitamine antiossidanti e integratori
Alla fine di questa carrellata, una domanda sorge spontanea, “È veramente necessario integrare?”. Sembrerebbe scontata la risposta, ma come tutti gli equilibri, è la quantità a fare la differenza, quindi, “DIPENDE”.
In generale, una molecola che si comporta da antiossidante, una volta ceduto il proprio elettrone diventa pro-ossidante, quindi, se somministrata in eccesso, esita l’effetto opposto.
Alte dosi di radicali liberi causano danno diretto o morte cellulare, ma parallelamente, alte dosi di antiossidanti possono apportare alla cellula lo stesso danno.
In un’alimentazione varia e bilanciata, ricca di frutta e verdura non ci sono evidenze che un’integrazione di antiossidanti apporti ulteriori benefici (vedi gli studi sulla vitamina C ed il sistema immunitario).
Antiossidanti e dimagrimento
All’acido α-lipoico, conosciuto soprattutto come antiossidante universale grazie alla presenza dei ponti disolfuro nella sua struttura molecolare in grado di neutralizzare i radicali liberi, è stato anche attribuito un ruolo nel facilitare il dimagrimento, seppur ancora poco dimostrato.
Oltre a favorire l’azione di altri antiossidanti come la Vitamina C, la Vitamina E, ed il coenzima Q10, questa molecola sembra essere coinvolta in numerose reazioni enzimatiche del metabolismo energetico cellulare, tra le quali, la conversione di glucosio e acidi grassi in ATP (composto ad alta energia richiesto dalla quasi totalità delle reazioni metaboliche endoergoniche), divenendo quindi oggetto d’interesse anche per i potenziali effetti che avrebbe nel contribuire al dimagrimento.
Antiossidanti e salute delle ossa
L’assunzione di antiossidanti si è rivelata molto utile anche nel mantenimento della salute ossea, alcuni studi dimostrano infatti come una maggiore assunzione di Vitamina C, nella dieta, possa essere associata ad una riduzione del rischio di frattura di anca ed osteoporosi.
Conclusioni sugli antiossidanti
Concludendo quindi, nonostante al giorno d’oggi sia più facile e convincente optare per pillole ed integratori, e nonostante questi vengano presentati come l’unica prerogativa per garantire il benessere della persona, sarebbe opportuno agire a priori sui fattori di rischio modificabili, attraverso uno stile di vita corretto e l’adozione di un regime alimentare vario ed equilibrato, agendo a valle solamente se necessario, citando Paracelso: “Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto”.
Note sull’autore
Dott. Andrea Neri
Laureato in infermieristica, studente alla magistrale in nutrizione umana e Invictus Trainer
Per consulenze lavora a Roma il suo sito è www.gianlucaneript.com
Vi siete mai chiesti cosa si nasconda dietro una semplice azione come scorrere la rotellina del vostro mouse per leggere questo articolo? Cosa succeda quando scrivete un messaggio sul vostro smartphone, quando guidate la macchina, o per i più sportivi che cosa vi permetta di calciare un rigore e sollevare un bilanciere?
La semplice volontà da sola non basta per consentirci di compiere tutti i movimenti di cui siamo capaci e che caratterizzano le attività della vita quotidiana, dalle più semplici alle più complesse. Essa necessita di un elemento fondamentale in grado di trasformare il pensiero in azione, o per gli amanti della scienza tradurre l’impulso nervoso in contrazione muscolare: il motoneurone.
Che cos’è il motoneurone e dove si trova
Dal punto di vista anatomico, il motoneurone (o neurone motorio) è una cellula nervosa in quanto presenta un corpo cellulare ricco di ramificazioni, i cosiddetti dendriti ed un assone, il quale nella sua porzione terminale si ramifica in numerose fibre che danno origine alle sinapsi tipiche dei neuroni, ovvero collegamenti che consentono la comunicazione con altre cellule.
Il motoneurone fa parte sia del sistema nervoso centrale (SNC), in cui prende il nome di motoneurone superiore, sia del sistema nervoso periferico (SNP), in cui prende il nome di motoneurone inferiore o semplicemente motoneurone, in quanto esso è quello che viene descritto più frequentemente.
Questo particolare neurone presenta il corpo cellulare all’interno del midollo spinale, mentre l’assone è proiettato in periferia, dove raggiunge i tessuti bersaglio.
Il midollo spinale è la porzione del sistema nervoso centrale che fuoriesce del cranio e decorre all’interno del canale vertebrale ed è costituito da un fitto fascio di neuroni che si ramifica, dando origine a paia di nervi spinali (2 per ogni vertebra e 31 in totale), i quali fuoriescono lateralmente dal canale vertebrale e vanno ad innervare i vari tessuti del corpo, tra cui quello muscolare.
Se sezioniamo il midollo spinale sul piano orizzontale possiamo notare due diverse zone di colore differente: la sostanza grigia è interna al midollo, ha la forma ad H maiuscola ed è costituita prevalentemente dai corpi cellulari dei neuroni e da interneuroni (che analizzeremo in seguito), mentre la sostanza bianca si dispone intorno a quella grigia ed è costituita prevalentemente dai fasci di fibre ascendenti e discendenti ricoperte di mielina, una sostanza lipidica che riveste gli assoni dei neuroni e contribuisce ad aumentarne la velocità di conduzione.
La particolare conformazione ad H della sostanza grigia permette di individuare due corna dorsali, da cui entrano le informazioni nervose di tipo sensoriale, e due corna ventrali, da cui escono gli impulsi diretti in periferia.
È proprio a livello delle corna ventrali dei nervi spinali che sono localizzati i motoneuroni, infatti essi presentano i corpi cellulari all’interno del midollo spinale mentre gli assoni sono proiettati in periferia verso le fibre muscolari, dove formano con quest’ultime delle connessioni mediante sinapsi.
Funzioni del motoneurone
Questo neurone specializzato consente ai segnali elettrici generati a livello del sistema nervoso centrale (SNC) di raggiungere prima il midollo spinale (attraverso il motoneurone superiore) e successivamente la periferia (attraverso il motoneurone inferiore) ed in particolare le fibre del tessuto muscolare, determinandone la contrazione.
Il motoneurone interviene non solo nei movimenti volontari, ma anche nei riflessi spinali, come vedremo in seguito.
Altre strutture come le ghiandole e la muscolatura liscia vengono innervate dai motoneuroni, tuttavia in questo articolo ci concentreremo solo sugli aspetti riguardanti il muscolo scheletrico.
Ogni volta che eseguiamo un movimento volontario, all’interno del nostro corpo si genera un segnale nervoso che parte dalle aree motorie della corteccia cerebrale e discende lungo il midollo spinale, il quale svolge l’importante funzione di connessione tra il cervello e la periferia.
I muscoli scheletrici del corpo umano sono formati da numerosissime fibre ed un singolo motoneurone è in grado di innervare più fibre muscolari contemporaneamente; questo è possibile in quanto esso presenta delle ramificazioni a livello della porzione terminale dell’assone, le quali si connettono singolarmente ad ogni fibra, dando origine alla cosiddetta giunzione neuromuscolare.
Questo fondamentale collegamento rende possibile la trasmissione della stimolazione elettrica proveniente dal sistema nervoso verso il muscolo, determinandone così la contrazione.
Il segnale elettrico viene tradotto in segnale chimico grazie alla liberazione di un neurotrasmettitore (nel caso del tessuto muscolare viene impiegata l’acetilcolina) a livello della sinapsi tra il motoneurone e la fibra muscolare, il quale svolge il ruolo di messaggero.
L’eccitazione della membrana cellulare delle fibre muscolari causata da questa sostanza dà il via alla cascata di eventi intracellulari che porteranno all’accorciamento del sarcomero, ovvero l’unità contrattile della cellula muscolare scheletrica.
Motoneuroni Alfa e Gamma: cosa cambia?
Come spesso avviene in fisiologia, è la struttura di una componente anatomica a determinarne la funzione: i motoneuroni somatici sono classificati in quattro categorie (α, β, γ, δ) a seconda della loro organizzazione e della funzione che svolgono, tuttavia analizzeremo solo le due più importanti per quanto riguarda la contrazione muscolare.
I motoneuroni alfa (α) sono i più grandi del corpo umano e per questo presentano la velocità di conduzione del segnale nervoso più elevata, con un valore medio di circa 90 metri al secondo; essi sono specializzati nella conduzione del segnale nervoso alle cellule muscolari scheletriche.
I motoneuroni gamma (γ) invece sono più piccoli e per questo possiedono una velocità di trasmissione del segnale nervoso inferiore, con un valore medio di circa 25 metri al secondo.Questi ultimi neuroni sono coinvolti nel riflesso miotatico generato dai fusi neuromuscolari (che analizzeremo a breve), in quanto svolgono una funzione di innervazione delle fibre intrafusali di questo fondamentale recettore muscolare.
Unità motoria
L’insieme del singolo motoneurone e di tutte le fibre muscolari innervate dalle sue ramificazioni prende il nome di unità motoria, la quale rappresenta la struttura funzionale minima dell’apparato neuromuscolare, poiché funziona come se fosse un’entità singola.
Le unità motorie possono essere costituite da poche decine di fibre muscolari, così come da centinaia se non migliaia per le unità motorie più grosse.
Un’unità motoria di grosse dimensioni sarà in grado di erogare una forza maggiore di un’unità motoria più piccola, in quanto costituita da un maggior numero di fibre capaci di contrarsi.
Nella maggior parte dei movimenti che eseguiamo quotidianamente, le unità motorie di uno stesso muscolo sono attivate in maniera alternata, ovvero vi è coesistenza di unità attive ed unità a riposo; questo fenomeno consente un’erogazione di forza sufficiente a compiere l’attività nel tempo, senza affaticamento delle fibre.Da ciò deriva che un numero maggiore di unità motorie reclutate (e di conseguenza di fibre muscolari) si tradurrà in una maggiore quantità di forza erogata.
Tipi di fibre muscolari
Le fibre muscolari sono di tre tipi e si differenziano tra loro in base alla capacità di esprimere forza e di resistere alla fatica, caratteristiche determinate esclusivamente dal motoneurone che le innerva:
fibre di tipo 1, sono le fibre a contrazione lenta, che presentano un metabolismo prevalentemente aerobico e per questo non sono in grado di erogare molta forza, ma sono molto resistenti alla fatica; esse sono conosciute anche con il nome di “fibre rosse”, in quanto presentano un tessuto molto ricco di mioglobina, una proteina necessaria ad estrarre l’ossigeno dal sangue che dona loro il colore rosso;
fibre di tipo 2a, sono le cosiddette “fibre intermedie”, in quanto sono in grado di erogare una buona quantità di forza e possiedono una buona resistenza alla fatica;
fibre di tipo 2x, sono le fibre a contrazione rapida, che presentano un metabolismo prevalentemente anaerobico ed infatti sono in grado di erogare molta più forza rispetto alle altre due, tuttavia sono molto suscettibili alla fatica; esse sono conosciute anche con il nome di “fibre bianche”, in quanto la quantità di mioglobina in esse presenti è molto scarsa.
È importante sottolineare come ogni singola unità motoria sia composta da una sola tipologia di fibra, in quanto uno solo è il motoneurone che le innerva e che ne determina le caratteristiche.
Ogni muscolo del corpo umano tuttavia è costituito da tutti e tre i tipi di fibre, le quali sono presenti in percentuali diverse, in una struttura simile ad un mosaico; in questo modo il muscolo assumerà le caratteristiche delle fibre che sono presenti in maggiore quantità.
Alla luce di quanto detto prima, un muscolo ricco di fibre di tipo 1 sarà molto resistente ma poco in grado di esprimere forza (muscoli posturali), mentre al contrario un muscolo ricco di fibre di tipo 2x sarà molto forte ma poco resistente (muscoli degli arti).
L’allenamento consente di modificare le caratteristiche del motoneurone (oltre che di una serie di parametri ormonali e strutturali) ed in conseguenza di regolare o modificare l’espressione genica di una determinata tipologia di fibra all’interno del muscolo: questo è solo uno dei tanti motivi per i quali i velocisti si allenano prevalentemente su brevi distanze ad intensità massimali, mentre i maratoneti compiono attività protratte per lunghi periodi ad intensità pressoché costanti.
Qualsiasi tipo di contrazione determina l’iniziale attivazione delle fibre lente, a cui si somma successivamente la contrazione delle fibre veloci nei casi in cui è necessario erogare più forza; l’ordine di intervento delle diverse tipologie di fibre è determinato dalla struttura del motoneurone che le innerva, il quale è piccolo nel caso delle fibre lente (dunque facilmente attivabile a parità di stimolazione) e più grande nel caso delle fibre veloci.
Interneuroni
Dal punto di vista concettuale, il SNC è assimilabile ad un vasto circuito elettrico costituito da cavi e snodi che consentono la trasmissione della corrente in maniera veloce ed organizzata (ovviamente esso è dotato di complessità maggiore, tuttavia può essere ben rappresentato in questa maniera).
All’interno di questo circuito vi sono sezioni di entrata e sezioni di uscita della corrente, intervallate da altre sezioni che fungono da collegamento tra queste: nel corpo umano questa sezione di collegamento è rappresentata degli interneuroni, ovvero le cellule neuronali più rappresentate all’interno del SNC, le quali hanno il preciso compito di connettere le fibre nervose che portano segnali in ingresso (ad esempio i neuroni sensoriali) a quelle che conducono un segnale in uscita (ad esempio il motoneurone).
Gli interneuroni all’interno dell’organismo possiedono anche la funzione di modulazione del segnale elettrico e dunque della risposta nervosa ad esso associata e ciò dipende dai processi biochimici coinvolti all’interno della connessione (prevalentemente dal tipo di recettore coinvolto nel legame con il neurotrasmettitore).
Alla luce di questa fondamentale caratteristica possiamo suddividere gli interneuroni in:
interneuroni eccitatori, che potenziano la trasmissione di un segnale nervoso verso un successivo interneurone o motoneurone, facilitando dunque la risposta di quest’ultimo;
interneuroni inibitori, che indeboliscono la trasmissione del segnale nervoso verso la struttura successiva, inibendone appunto l’attività.
Cellule di Renshaw
Come abbiamo visto in precedenza il motoneurone α che fuoriesce dal midollo spinale porta il suo lungo assone verso il muscolo, dove prende contatto con numerose fibre muscolari, dando così origine all’unità motoria.
Lungo il decorso dell’assone questo motoneurone presenta una ramificazione che resta all’interno del midollo e si connette ad uno specifico interneurone inibitorio, la cellula di Renshaw.
Grazie a questa connessione collaterale, la cellula di Renshaw è costantemente informata sul livello di contrazione del muscolo innervato dal motoneurone di partenza.
Questa piccola centrale di controllo prende successivamente contatto con lo stesso motoneurone da cui riceve le informazioni, oppure con motoneuroni di unità motorie differenti ma appartenenti allo stesso muscolo, dunque in definitiva modula l’attività contrattile del muscolo interessato.
In questo modo la cellula di Renshaw è in grado di autoregolare la contrazione del muscolo: una stimolazione eccessiva del motoneurone stimola in maniera uguale la cellula di Renshaw, la quale grazie alla sua attività inibitoria causa un depotenziamento dello stimolo, o sullo stesso motoneurone (se prende contatto con esso), oppure su motoneuroni diretti ad altre unità motorie dello stesso muscolo (se prende contatto con queste ultime).
In entrambi i casi il risultato è un depotenziamento della contrazione muscolare, dovuta nel primo caso alla diminuzione della stimolazione da parte del motoneurone, mentre nel secondo caso al minor numero di unità motorie attive, fattore che come visto in precedenza determina il livello di forza erogata da un muscolo.
Il meccanismo appena descritto prende il nome di inibizione reciproca e rappresenta un classico meccanismo di feedback negativo, che sostanzialmente descrive la capacità di un sistema di autoregolarsi.
I riflessi
Come anticipato, i motoneuroni non sono coinvolti solamente nei movimenti volontari ma anche nei riflessi muscolari; essi sono fondamentali per preservare l’integrità delle varie strutture corporee e rispondere in maniera rapida a stimolazioni esterne potenzialmente pericolose per l’organismo, ma anche per svolgere le normali attività della vita quotidiana, come la deambulazione o il controllo della postura.
I riflessi muscolari sono molteplici, tuttavia analizzeremo solamente il riflesso miotatico ed il riflesso miotatico inverso, i quali funzionano mediante il meccanismo dell’arco riflesso, il quale avviene a livello del midollo spinale.
Questo meccanismo involontario non necessita del controllo del soggetto poiché deve compiersi in maniera rapida e sistematica in risposta ad insulti meccanici interni ed esterni, tuttavia nonostante esso avvenga spontaneamente, può essere soggetto a modulazione da parte del SNC, ovvero può essere modificato volontariamente ed adattato al compito motorio che si sta eseguendo.
Riflesso miotatico
Il riflesso miotatico è mediato dai fusi neuromuscolari, speciali recettori localizzati nel ventre muscolare che ne registrano la lunghezza e rispondono a repentine variazioni di quest’ultima, determinando una contrazione del muscolo che si sta allungando, con il fine di preservarne l’integrità strutturale.
I fusi neuromuscolari sono composti da una capsula che individua all’interno dello stesso ventre muscolare delle fibre muscolari extrafusali e delle fibre muscolari intrafusali: le prime sono innervate dai motoneuroni α, mentre le seconde sono innervate dai motoneuroni γ (alle estremità) e da terminazioni nervose sensoriali (al centro).
Il comportamento dei fusi neuromuscolari risulta evidente nel cosiddetto riflesso patellare che si ha quando il neurologo picchietta con il martelletto il ginocchio del paziente: egli agendo sul tendine rotuleo, induce un allungamento repentino del muscolo quadricipite, il quale risponde con una contrazione riflessa che fa estendere la gamba.
Analizziamo ciò che avviene all’interno del corpo: lo stiramento del muscolo determina l’allungamento sia delle le fibre extrafusali, sia di quelle intrafusali e la conseguente attivazione dei fusi, i quali mediante le terminazioni sensoriali delle fibre intrafusali mandano un segnale nervoso al midollo spinale.
A livello del midollo avvengono le seguenti connessioni:
attivazione di un motoneurone α diretto alle fibre extrafusali del muscolo in allungamento, il quale ne determina l’accorciamento mediante una contrazione involontaria;
attivazione del motoneurone γ che innerva le fibre intrafusali dello stesso muscolo, che ne consentono una contrazione proporzionale a quella delle fibre extrafusali, in modo da mantenere sempre alta la sensibilità del fuso anche a variazioni di lunghezza del muscolo;
attivazione di un interneurone inibitorio, che prende a sua volta contatto con un motoneurone α diretto al muscolo antagonista di quello interessato dalla contrazione riflessa, il quale viene rilassato per facilitare il movimento di accorciamento di quello agonista.
Riflesso miotatico inverso
Il riflesso miotatico inverso invece è mediato dagli organi tendinei del Golgi, recettori localizzati a livello delle giunzioni tra le fibre muscolari e quelle tendinee, i quali registrano la forza esercitata dal muscolo e rispondono ad eccessivi aumenti di tensione determinando un rilassamento del muscolo coinvolto (dunque un effetto inverso rispetto al riflesso miotatico), con il fine di evitare lesioni delle strutture.
Questi recettori sono costituiti da terminazioni nervose libere intrecciate con le fibre di collagene dei tendini e rispondono ad un aumento della tensione meccanica dovuta ad una contrazione particolarmente energica del muscolo collegato.
Un’eccessiva contrazione muscolare attiva queste fibre, che conducono il segnale nervoso generato dai recettori verso il midollo spinale, dove prendono contatto con due differenti strutture:
un interneurone inibitorio, il quale a sua volta effettua un collegamento sinaptico con il motoneurone α che innerva il muscolo stesso, inibendolo appunto e depotenziandone in questo modo la contrazione;
un interneurone eccitatorio, il quale a sua volta effettua un collegamento sinaptico con un motoneurone α che innerva il muscolo antagonista a quello in contrazione, dunque eccitandolo in maniera tale da determinare un movimento contrario del segmento osseo interessato, frenando così la pericolosa contrazione iniziale.
Patologie del motoneurone
L’integrità del motoneurone, così come delle componenti con cui interagisce, è fondamentale per garantire la trasmissione degli impulsi generati a livello del SNC verso la periferia; le patologie che colpiscono questa importante struttura determinano dunque la limitazione o addirittura l’impossibilità di attivare gli organi bersaglio.
La patologia più importante che interessa esclusivamente il motoneurone è sicuramente la sclerosi laterale amiotrofica (SLA): si tratta di una malattia neurodegenerativa in quanto determina il danneggiamento progressivo del sistema nervoso, in particolare di entrambi i tipi di motoneurone (superiore ed inferiore).
Le conseguenze sono una paralisi corporea progressiva ed una perdita delle capacità di masticare, deglutire e parlare; la complicanza più grave è la graduale incapacità da parte del soggetto di respirare autonomamente, fattore causato dalla paralisi dei muscoli respiratori.
Proprio per il fatto che vengono interessati prevalentemente i motoneuroni, la patologia non causa un decadimento delle funzioni cognitive e sensoriali, che dunque rimangono pressoché inalterate.
Questa patologia è relativamente rara, secondo i dati forniti dall’Osservatorio delle Malattie Rare (OMAR), in Italia l’incidenza è di circa 1-3 casi ogni 100.000 abitanti all’anno, tuttavia non esiste ancora una cura per la SLA e la morte tende a sopraggiungere entro i 5 anni dall’esordio dei sintomi.
Un quadro patologico sicuramente più frequente della SLA è rappresentato dalla radicolopatia, la quale può essere causata da numerosi fattori, tra cui spiccano la compressione di una o più radici nervose in uscita dalla colonna vertebrale (come nel caso di protrusioni o ernie del disco), oppure la loro infiammazione.
Come ormai ben sappiamo il motoneurone viene direttamente interessato da questa condizione, in quanto il suo assone origina a livello del midollo spinale e decorre lungo le radici nervose; un’eccessiva compressione può dunque determinare una lesione dell’assone ed una morte del motoneurone, con conseguenza perdita di forza e volume del muscolo che innerva.
Uno schiacciamento di una o più radici nervose coinvolge anche gli assoni delle fibre sensoriali, in quanto all’uscita dal midollo spinale i nervi sono misti, ovvero possiedono sia la componente sensoriale (in uscita dalle corna dorsali), sia quella motoria (in uscita dalle corna ventrali).
La plasticità che caratterizza il tessuto nervoso consente la riparazione degli assoni (nei casi di lesione parziale) e dunque un recupero delle attività funzionali dell’unità motoria, mentre la sezione totale di queste strutture comporta una denervazione delle fibre muscolari interessate e dei tessuti bersaglio.
I sintomi prevalenti evocati da uno schiacciamento di una radice nervosa, oltre al dolore acuto scatenato durante i movimenti della colonna sono la parziale o completa perdita della sensibilità della zona del corpo interessata, un deficit di forza dei muscoli innervati, comparsa di formicolio diffuso solitamente lungo il decorso del nervo e talvolta comparsa di crampi o fascicolazioni (contrazioni improvvise e spontanee di una o più unità motorie).
In questi casi è sicuramente necessario rivolgersi ad un professionista, con il fine di scongiurare pericoli maggiori e se necessario, prendere le precauzioni del caso per risolvere nel migliore dei modi la problematica.
Invecchiamento
Riprendendo il concetto di espressione genica della tipologia di fibra muscolare sopracitato, è interessante notare come si verifichi un cambiamento fisiologico dell’innervazione delle fibre muscolari come conseguenza dell’invecchiamento.
Nella fattispecie, con l’aumentare dell’età si assiste ad una progressiva incapacità dei motoneuroni di innervare le fibre veloci, che vengono dunque rimpiazzati dai motoneuroni delle fibre muscolari lente (questo grazie alla plasticità del sistema nervoso), i quali favoriscono in tal modo l’espressione genica di quest’ultima tipologia di fibre all’interno del muscolo.
La graduale riduzione di forza che si registra nel soggetto anziano è dovuta anche a questo meccanismo fisiologico, il che suggerisce come sia importante il mantenimento di questa capacità motoria attraverso l’allenamento costante, anche e soprattutto con l’aumentare dell’età.
Conclusioni
In questo articolo sul motoneurone abbiamo cercato di comprendere quali siano le sue caratteristiche e come esso ci consenta il movimento, come ci permetta di reagire tempestivamente a situazioni di pericolo e come esso abbia un importante ruolo nel determinare le caratteristiche contrattili di un muscolo.
Se siete arrivati fino a questo punto senza esservi annoiati già al secondo paragrafo significa che eravate animati da una sana curiosità verso questo mondo affascinante, e volevate capirne di più relativamente ai complessi meccanismi che regolano il movimento umano.
Certamente gli aspetti da considerare e descrivere per comprenderlo a pieno sono molti di più e sono custoditi nei grossi tomi di anatomia e fisiologia, tuttavia il nostro scopo era quello di fornire una panoramica il più completa possibile su ciò che si nasconde dietro ai gesti della quotidianità, dai più semplici ai più complessi, e che proprio per questo tendiamo a dare per scontati.
Perché “la nostra natura è il movimento; il riposo completo è la morte” (Blaise Pascal).
Bibliografia
Lauralee Sherwood, “Fondamenti di fisiologia umana”, Piccin, 2012
Eric P. Widmaier, Hershel Raff, Kevin T. Strang, “Vander – Fisiologia”, Casa Editrice Ambrosiana, 2018
Carlo Loeb, Emilio Favale, “Neurologia”, Società editrice universo, 2003
Da piccolo a farti paura era il buio, il mostro sotto al letto, il lupo nelle favole, la minestrina a cena,… Adesso invece basta sentire “carboidrati e grassi assieme” o vedere una crostata alla marmellata per far spaventare te e la tua dieta. C’è solo da scegliere se eri più impavido da bambino o adesso.
Ma è davvero così? Nello stesso pasto grassi e carboidrati fanno ingrassare? Meglio mangiarli separati? O mettere un filo d’olio o il formaggio grattugiato sulla pasta non è poi la fine del mondo? Cosa succede se mangi la pizza, il dolce, un gelato nella stessa sera? Ingrassi di più?
Qual è la differenza tra grassi e carboidrati per dimagrire? Calorie
Dato che le calorie contano, sapere cosa cambia tra grassi e carboidrati dal punto di visto dell’energia che apportano può essere utile. A parità di peso (1g), i lipidi contengono più del doppio delle calorie dei glucidi: 9 kcal vs 4 kcal (in media).
La premessa è che, a prescindere dalla distribuzione dei macronutrienti, se segui una dieta ipocalorica dimagrirai.
Ma un fattore importante da considerare per dimagrire è anche la sazietà: quando mangi meno di quello che ti serve è più facile sentire la fame e quindi cedere a mangiare di più se non hai una forte forza di volontà. I carboidrati sono il macronutriente meno saziante, anche se guadagnano punti sazietà quando integrali.
C’è anche da considerare la termogenesi indotta dal cibo: il corpo ha bisogno di energia per digerire i nutrienti. Questa energia richiesta è maggiore nel caso dei carboidrati (5-10%) rispetto ai grassi (3-5%); entrambi valori molto distanti dal 10-35% proprio delle proteine. In altre parole, i lipidi sono quelli che richiedono una minor spesa per essere digeriti, nonostante la loro digestione richieda più tempo. Inoltre, per i carboidrati la spesa aumenta quando sono integrali e sono a catena lunga (polisaccaridi) rispetto ad alimenti non integrali e costituiti da carboidrati semplici.
Carboidrati e grassi nello stesso pasto
Quando nel flusso ematico hai contemporaneamente alti zuccheri e alti trigliceridi sei sicuro di ingrassare: eccedere con i carboidrati e i grassi nello stesso pasto è il modo migliore per vedere gli addominali fare la valigia.
Un pasto con un alto carico glicemico potrebbe far ingrassare soprattutto quando ripetuto continuamente perché va a peggiorare lo stato metabolico. “Potrebbe” perché se le vie metaboliche sono libere (non impegnate da grassi e proteine) il glucosio viene ossidato e non convertito in acidi grassi.
L’insulina non viene stimolata solo dalla glicemia, ma anche da ormoni gastrici, aminoacidi che bypassano il metabolismo epatico, dal mix di nutrienti. Quindi è vero che se misuri la glicemia e mangi solo carboidrati senza grassi questa, dopo il pasto, risulta più alta; ma stai appunto misurando la glicemia e non l’insulina. Il bignè alla crema è un ottimo esempio di un alimento in cui l’aggiunta di grassi abbassa il carico glicemico ma alza il carico insulinico.
In termini pratici, se fai un pasto da non più di 600 kcal e inoltre hai anche una buona massa magra puoi mescolare glucidi e lipidi senza il timore di ingrassare. Prendere peso diventa molto più facile quando non hai abbastanza muscolo e il pasto è costituito da 1000 kcal.
Tuttavia, è sempre il bilancio calorico che fa da padrone quando vuoi dimagrire o ingrassare: se in un giorno mangi 1000 kcal di dolci in un colpo solo ma poi non mangi nient’altro e sei al di sotto del tuo fabbisogno energetico non ingrasserai!
Carboidrati bassi e grassi alti
La dieta ad alto contenuto lipidico e basso introito glucidico è più consigliata a chi non è magro, ma ha grasso in eccesso senza una buona componente muscolare. Perché questo? Chi è grasso e ha poco muscolo probabilmente non è in grado di gestire bene i carboidrati e quindi se ne assume troppi è più facile che accumuli grasso.
Per capire meglio, pensa anche alla differenza tra donna e uomo: la prima per genetica ha più grasso essenziale, il secondo sempre per fisiologia tende ad avere meno grasso e più muscolo. Di solito, nella dieta (anche normocalorica) della donna rispetto a quella dell’uomo, i grassi sono mantenuti un po’ più alti proprio perché ne ha più bisogno e riesce a gestirli meglio. Al giorno, si parla di anche 0.8 g lipidi/kg peso corporeo per la donna contro i 0.5 g/kg per l’uomo.
Ad esempio, il soggetto sovrappeso che vuole dimagrire con una dieta low-carb e magari anche un allenamento contro-resistenze può ottenere i primi risultati. Man mano che la percentuale di massa grassa diminuisce e quella muscolare aumenta è probabile che la sensibilità insulinica e la capacità di gestire il glucosio siano molto migliorate: in modo graduale può aumentare la quota glucidica a discapito di quella lipidica. La gradualità in nutrizione è sempre una buona soluzione!
Questa tipologia di approccio alimentare esiste perché il glucosio non è essenziale: questo non vuol dire che non serve (anzi!), ma che ci sono vie metaboliche in grado di produrlo a partire da altri nutrienti (ad esempio, gli aminoacidi gluconeogenici) e che ci sono tessuti che possono farne a meno utilizzando altri substrati per ricavare energia.
Carboidrati alti e grassi bassi
Una dieta con un alto apporto glucidico è consigliata a chi ha una buona massa magra, vuole preservare la massa muscolare, vuole dare una spinta anabolica alla massa muscolare (e, inevitabilmente, anche a quella adiposa).
Fare attività fisica e avere una buona quantità di muscolo sono il modo migliore per aumentare la sensibilità insulinica e gestire bene i nutrienti. Inoltre, dare maggiore spazio ai carboidrati vuol anche dire tenere alto il metabolismo, dato che il glucosio è correlato ai livelli degli ormoni tiroidei. Inoltre, una dieta con un buon apporto glucidico garantisce che le scorte muscolari ed epatiche di glicogeno abbiano sempre glucosio a disposizione, una condizione ottimale soprattutto per chi fa regolare attività sportiva.
Non azzerare comunque i livelli dei grassi, sotto gli 0.5g/kg peso corporeo è meglio non scendere: i lipidi sono indispensabili, se troppo in difetto rischi anche di alterare i livelli degli ormoni.
I grassi bruciano al fuoco dei carboidrati: cosa significa?
I grassi e i carboidrati per poter fornire energia devono subire dei processi metabolici caratteristici che li trasformano: si dice che vengono ossidati. L’ossidazione degli acidi grassi non può fare a meno dei carboidrati…. Perché?
Preparati a delle nozioni biochimiche! Sia lipidi che glucidi ad un certo punto diventano la stessa molecola (acetil-CoA), che, entrando a far parte del ciclo di Krebs, viene a sua volta trasformata sempre con il fine di dare energia disponibile alla cellula. Per il corretto funzionamento di questo ciclo metabolico, è indispensabile un’altra molecola: l’ossalacetato, che però deriva esclusivamente dal glucosio.
“I grassi bruciano al fuoco dei carboidrati” perché affinchè il metabolismo lipidico proceda tramite il ciclo di Krebs, sono necessari i carboidrati per la formazione dell’ossalacetato. In un certo senso, i grassi dipendono metabolicamente dai carboidrati, ma in realtà anche dalle proteine e dai corpi chetonici.
Si bruciano prima i grassi o gli zuccheri?
A seconda di intensità e durata dell’esercizio fisico, di disponibilità dei nutrienti, di livello di adattamento all’allenamento e di capacità metabolica vengono bruciati più grassi o più carboidrati – e anche aminoacidi in una piccola parte. Senza dimenticare che il metabolismo è finemente regolato dai livelli ormonali.
In termini più biochimici, “bruciare” un macronutriente per ottenere energia si dice ossidare: per utilizzare grassi e carboidrati a scopo energetico, l’ossigeno che respiri reagisce con queste molecole e viene consumato – una bella conclusione di questo paragrafo potrebbe essere che respirare fa dimagrire!
In lavori a bassa-intensità e di lunga durata (es. maratona) vengono attivate solo poche unità motorie con il reclutamento delle fibre di tipo 1: queste hanno un’alta capacità ossidativa, un buon apporto di molecole di ossigeno dal sangue e consumano preferibilmente acidi grassi che derivano dal tessuto adiposo. Solo in piccola parte vengono utilizzati i carboidrati.
Man mano che l’esercizio diventa più breve e intenso (es. alzate in palestra), vengono attivate più unità motorie e anche le fibre di tipo 2 iniziano a lavorare: queste hanno maggior attività glicolitica e sfruttano soprattutto i carboidrati. Questi zuccheri derivano dal glicogeno muscolare, epatico ed eventualmente anche dagli aminoacidi gluconeogenici.
In poche parole: più l’allenamento che svolgi è di resistenza e di lunga durata e più utilizzi i grassi.
L’allenamento porta all’adattamento: se sei un maratoneta hai più fibre di tipo 1, che da una parte di permettono di sostenere quello specifico sport, dall’altra fanno sì che tu sappia utilizzare di più e meglio i grassi, anche a riposo. Se invece alleni, ad esempio, la forza hai più fibre di tipo 2 e, anche a riposo, saprai gestire meglio i carboidrati piuttosto che i grassi. Infatti, stare a riposo (come dormire, stare seduto) puoi considerarla un’attività a bassa (bassissima) intensità e di lunga durata e quindi il carburante preferenziale è dato dagli acidi grassi. Però, a seconda dello specifico allenamento che svolgi, la miscela di acidi grassi e zuccheri che ti dà energia verterà di più verso uno o l’altro nutriente.
Alcune considerazioni e curiosità:
La dieta può influenzare il metabolismo: se high-fat il metabolismo impara ad utilizzare meglio i grassi perché ne ha di più a disposizione.
Chi fa sport di lunga durata non deve per forza mangiare più grassi e seguire un regime low-carb.
I carboidrati sono per gli atleti il macronutriente più utile. Perché? A parità di ossigeno consumato, tramite i carboidrati riesci ad ottenere più energiarispetto a quella che otterresti dai grassi e quindi i glucidi sono la strategia migliore per la performance sportiva: l’organismo fa sempre quello che energeticamente gli conviene!
Nel muscolo c’è anche una piccola scorta di grassi (trigliceridi intramuscolari – IMTG), che in totale nel corpo umano costituisce una scorta di 200 g complessivi. Questi, oltre a dare una maggior pienezza muscolare, sono ovviamente anche utilizzati per dare energia alla cellula muscolare. Dopo l’allenamento e durante il recupero, questa piccola quantità deve essere rifornita: cosa succede? Alcuni grassi del tessuto adiposo vengono mobilizzati, viaggiano attraverso il sangue, entrano nel miocita e vanno a ricostituire il deposito lipidico intramuscolare.
Se stai pensando di andare a correre e mollare la palestra per perdere grasso, è meglio leggere questo articolo. O sappi solo che se pesi 65 kg e corri per 8 km in un’ora, perdi 22 g di grasso. Per perdere 2 kg o più correndo puoi fare due calcoli per sapere quanto tempo dovresti impiegare. Ma forse è meglio non saperlo.
Conclusioni su carboidrati e grassi
Adesso sai che carboidrati e grassi insieme non sono un problema, soprattutto quando il pasto non è eccessivamente calorico (al di sotto delle 600 kcal circa). E lo stesso vale anche tra lo scegliere una dieta low-carb o low-fat: ai fini del dimagrimento hanno la stessa valenza, perciò ti conviene preferire quella che più in questo momento si adatta al tuo attuale metabolismo (vedi massa grassa e muscolare, sensibilità insulinica) e che ti garantisce di essere aderente al piano alimentare.
Nelson & Cox (2014). “I principi di biochimica di Lehninger”. Capitolo 15 – Principi di regolazione metabolica.
Approfondisci l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, con la nostra guida gratuita per cominciare a farti delle solide basi su cui poi approfondire:
In questo articolo faremo delle considerazioni su un gruppo muscolare del quale, nel mondo della palestra e del bodybuilding in modo particolare, si dice di tutto e di più, ovvero l’ipertrofia dei polpacci. Vedremo poi come fare per svilupparli al meglio…
Come ogni altro muscolo l’origine, l’inserzione e la forma dei polpacci sono determinati dalla genetica, per cui c’è chi nasce con una buona predisposizione genetica e chi no.
Un errore da non fare però è quello di pensare che il polpaccio non possa crescere solo perché la nostra genetica non è favorevole. Come per ogni altro muscolo infatti possiamo ottenere buoni risultati se siamo costanti nel tempo. È infatti questo il problema più comune con l’allenamento dei polpacci, ovvero la mancanza di costanza nel lungo periodo…
Il polpaccio a livello meccanico in realtà non è particolarmente difficile da allenare poiché il gesto compiuto da questo gruppo muscolare è abbastanza semplice. Si tratta infatti di una semplice flesso-estensione del piede. Vedremo che la parte più complicata però è la cura di piccoli dettagli che alla fine fanno la differenza.
Perché ho i polpacci piccoli che non crescono?
Come anticipato, per quanto ormai sia molto comune sentire dire che per i polpacci sia tutta questione di genetica, la realtà è ben diversa. La chiave per la crescita dei polpacci come per tutti gli altri muscoli è la costanza nel tempo.
Per quanto è vero che ci sono soggetti che si impegnano per anni e vedono la metà dei risultati di chi invece è geneticamente predisposto, degli ottimi risultati possono essere raggiunti anche da chi ha una genetica nella media (la maggior parte della popolazione, o non si parlerebbe di media…).
Questa comunque non è una cosa anormale visto che ci sono sempre persone più dotate e persone meno dotate in ogni ambito della vita, ma ciò non deve impedirci di impegnarci per sfruttare al massimo il nostro potenziale. È infatti inutile ed insensato perdere tempo a riflettere su fattori che comunque non possiamo cambiare o controllare, come appunto la nostra genetica. Per cui l’unica cosa che possiamo fare è agire, in questo caso allenandoci.
La mancanza di costanza nel tempo porta a fare due errori principalmente:
Il primo errore è allenare troppo poco i polpacci. Pensateci bene anche eseguendo solo 10 serie a settimana, facendolo per 10 anni (fatevi due conti) avremo fatto così tanto lavoro che è letteralmente impossibile che i polpacci siano rimangano uguali (se ovviamente quelle 10 serie le abbiamo eseguite decentemente). Se invece fai 10 serie una settimana per 4 settimane, poi ti secca perché vedi pochi risultati e per due settimane (se va bene) non li alleni, come puoi pensare di sviluppare bene questo povero e trascurato muscolo?
Ragionamento che invece nessuno fa per le braccia ad esempio, che a qualsiasi costo vengono allenate nel modo più assiduo.
Quindi piuttosto che la genetica spesso dovremmo incolpare noi stessi…
Il secondo errore invece è il mancato sviluppo di una tecnica ottimale, una buona connessione mente-muscolo e di un buon controllo del movimento.
Spesso si parte sbagliando già il posizionamento del piede sull’apposito appoggio. È infatti fondamentale appoggiare la zona del piede denominata arco trasverso, (che potete trovare nell’immagine sottostante) e non le dita dei piedi.
Appoggiando le dita dei piedi si vanno ad utilizzare i flessori delle dita e si riduce il lavoro da parte del polpaccio.
Un altro errore molto comune è quello di spingere in alto in modo esplosivo senza far lavorare attivamente il polpaccio lungo tutto il range di movimento. Ancora più comuni sono: la perdita del controllo da parte del polpaccio durante la fase eccentrica e il rimbalzo quando si arriva in allungamento. Alla fine praticamente il polpaccio non avrà fatto nulla di concreto.
Come aumentare (ipertrofia) e sviluppare polpacci muscolosi e grossi?
Come ogni altro muscolo il polpaccio ha bisogno di essere allenato seguendo il principio del sovraccarico progressivo e di essere stimolato in modo costante, cercando di sviluppare una buona tecnica, una buona connessione mente muscolo e un buon controllo del movimento.
Un consiglio molto utile è quello di eseguire una pausa di 1-2 secondi in massima contrazione e un’altra pausa sempre di 1-2 secondi in massimo allungamento in modo da ridurre l’utilizzo della componente elastica del tendine d’Achille.
Nella fase di salita puoi pensare a spingere con l’avampiede come se stessi camminando. Quindi invece di pensare a spingere verso l’alto prova a pensare di dover spingere in avanti, sempre ricordandoci di escludere la spinta da parte delle dita dei piedi; nella fase di discesa invece devi cercare sempre di “frenare” il movimento senza perdere mai la contrazione sul polpaccio.
Un altro punto da sottolineare è la differenza tra muscolo soleo e muscolo gastrocnemio, per i quali gli esercizi svolti a ginocchio esteso come i calf raises indirizzano il focus sul gastrocnemio mentre quelli a ginocchio flesso enfatizzano il lavoro del muscolo soleo.
Tuttavia, entrambe le variazioni stimolano entrambi i muscoli in larga misura, per questo motivo molti scelgono di allenare i polpacci con le sole varianti a gamba tesa.
Per mia esperienza direi che in effetti basta eseguire con costanza gli esercizi a gambe tese per avere uno sviluppo ottimo dei polpacci, ma se vuoi essere certo di colpire in modo specifico anche il soleo due serie di polpacci seduto puoi pure inserirle nel programma.
Quante ripetizioni fare per i polpacci? Quale intensità usare?
Come per gli altri gruppi muscolari anche per i polpacci è consigliabile utilizzare più range di ripetizioni.
Essendo un muscolo piccolo (anche se molto potente) è preferibile allenarlo senza scendere sotto le 10 ripetizioni, utilizzando quindi un range tra le 10 e le 30. Per fare ciò ad esempio puoi semplicemente impostare due sessioni a settimana, una con un range di ripetizioni più metabolico (15-30 reps) e una con un range di ripetizioni più meccanico (10-15 reps).
Quante volte a settimana allenare i polpacci?
Puoi partire ad esempio impostando 2 sessioni a settimana con 5 serie ciascuna.
Se si ha a che fare con un principiante inizialmente può essere buona cosa svolgere anche 3/4 sessioni a settimana da 5 o più serie portando tutto a cedimento. In questo modo si ha la possibilità di fare tanta pratica e di imparare ad avere un buon controllo del movimento ed una buona tecnica.
Quante serie fare?
Il numero di serie da fare per i polpacci è determinato dalla soggettività, nel senso che se vogliamo ottimizzare la crescita di qualsiasi gruppo muscolare va fatta una piccola raccolta dati in modo da capire quanto volume dobbiamo eseguire per una crescita ottimale dei vari distretti.
Se lavorando sulla tecnica nel modo più preciso possibile riscontriamo una buona crescita dei polpacci possiamo anche tenere il numero di serie fisso, se invece notiamo che la crescita è troppo lenta o assente, possiamo iniziare ad aggiungere due serie a settimana, e così via…
La ricerca scientifica comunque ci indica mediamente come numero di partenza 12 serie a settimana per gruppo muscolare, anche se per i neofiti opterei per un volume un po’ più alto già in partenza, in modo da avere la possibilità di fare tanta pratica.
Esercizi efficaci per allenare i polpacci è con rimando all’articolo specifico
Gli esercizi per allenare il polpaccio possono essere divisi in due categorie: esercizi a gamba tesa, più specifici per il gastrocnemio; ed esercizi a gamba flessa, più specifici per l’allenamento del soleo.
Come esercizi a gambe tese possiamo utilizzare:
Calf raises
Calf raises al multipower
Calf raises alla leg press
Donkey calf
Mentre a gamba flessa possiamo utilizzare esercizi come:
Polpacci seduto alla macchina
Polpacci seduto con bilanciere
Scheda di allenamento per allenare i polpacci in palestra
Un esempio di programma di allenamento per i polpacci potrebbe essere il seguente:
Giorni 1-2-3
Serie
Ripetizioni
Calf raises 2″ pausa in allungamento
Polpacci da seduto in tensione continua
3
2
1o
15
Calf raises focus discesa controllata
Polpacci seduto 2″ di pausa in allungamento
2
2
12
15
Calf raises 2″ pausa in accorciamento
Polpacci da seduto in tensione continua
3
2
12
20
Come allenava i polpacci Arnold Schwarzenegger?
Arnold ammise che i polpacci erano il suo punto debole, per cui iniziò ad allenarsi con dei pantaloni che aveva tagliato appositamente per mettere in mostrala sua debolezza, in modo da essere preso in giro. In questo modo iniziò a prendere l’abitudine di allenarli tutti i giorni per evitare di ricevere per sempre i commenti delle altre persone.
“Le routine per me più efficaci iniziavano con i donkey raise, che eseguivo con due assistenti seduti sulla mia schiena, e poi continuavano con le alzate delle punte alla macchina“.
Arnold usava portare i polpacci in massimo allungamento in fase eccentrica, poi si sollevava il più possibile, mantenendo la posizione di massima contrazione per circa 4 secondi prima di tornare a scendere. Svolgeva per ogni esercizio sei serie da 10-15 ripetizioni, per terminare poi il workout per i polpacci con un completo stretching statico di circa 1 minuto.
“Trovo un blocco di legno il più alto possibile, ed afferrandomi ad una sbarra lascio che i talloni scendano fino quasi a toccare il pavimento. A questo punto invece di tornare su, resto in posizione per circa un minuto“.
I polpacci divennero uno dei suoi gruppi muscolari più forti. Questo dovrebbe farti riflettere su come molto spesso siamo noi stessi a non dare abbastanza priorità a determinati gruppi muscolari…
Come allenare i polpacci a casa e a corpo libero senza attrezzi?
Per impostare un buon esercizio a casa basta trovare un qualsiasi gradino (come quello di una scala), in modo da poter eseguire dei calf raises o dei donkey calf cercando di seguire gli stessi principi elencati in precedenza. Come sovraccarico se non si ha un manubrio inizialmente si possono usare delle casse d’acqua ed una cartella piena di libri (del Project).
Conclusioni sull’allenamento dei polpacci
Per concludere possiamo dire che per quanto sia molto comune sentire dire che per i polpacci sia tutta questione di genetica, la realtà alla fine è ben diversa. È vero che ci sono soggetti più fortunati e soggetti meno fortunati, ma purtroppo è sempre così. Quello su cui dovremmo focalizzarci è il pieno sviluppo del nostro potenziale. Non allenare i polpacci perché tanto non sono geneticamente predisposti o perché non vediamo risultati è un errore che dobbiamo evitare di fare. La chiave per la crescita dei polpacci, così come per tutti gli altri muscoli, è la costanza. Per cui non demordere, perché ogni cosa richiede il suo tempo.
Se i vostri genitori non vi hanno dotato dei polpacci di Jason Huh (e di sua figlia) non dovete comunque demordere, anzi dovete dare ancora di più per poter guadagnare anche quel 2% che farà la differenza nella morale e nell’estetica.
Note sull’autore
Giuseppe De Biase
Studente scrupoloso e appassionato. Atleta di bodybuilding e powerlifting. Trainer qualificato presso Shredded By Science Academy (attuale Personal Trainer Collective).
Il mondo è sempre più pesante: e anche se “grasso è bello”, la salute non lo pensa allo stesso modo. E’ possibile contrastare questa epidemia di obesità? Passare da grasso a magro? Un ex-obeso può diventare magro palestrato?
E se sì, come fare e quanto tempo ci vuole?
Che cosa cambia per chi è stato grasso o obeso in passato?
Il metabolismo e la fisicità che hai adesso sono il risultato di tutti gli anni della tua vita. La teoria del trascinamento metabolico spiega proprio perchè la prevenzione debba iniziare già da bambini (o prima!): un deficit nutrizionale soprattutto nella vita fetale e nella prima-seconda infanzia può condizionare il ritmo di sviluppo di alcuni organi e la loro funzionalità per tutta la vita successiva. Perciò, dall’interazionetra patrimonio cromosomico (genetica) e regime dietetico del feto-bambino (ambiente)viene determinato ildestino biologico e metabolico dell’adulto e la comparsa di malattie cronico-degenerative.
La dieta della madre e di quando sei bambino sono due dei fattori che influenzano la tua predisposizione e la tua capacità da adulto di dimagrire, di ingrassare, di avere una determinata forma fisica. Ma attenzione: la genetica di per sè non determina necessariamente l’obesità.
In un legame indissolubile, genetica e ambiente (cosa fai abitualmente, quanto ti muovi e come, cosa mangi di solito,…) determinano come sei.
Per questo, sia chi dice “è grasso, basta che mangi di meno se vuole dimagrire” sia chi si giustifica di essere sovrappeso con “eh ma ho la genetica contro di me, la tiroide lenta, le calorie non contano, colpa dell’insulina” sbaglia: il primo non considera la predisposizione o il problema che sta alla base dell’ingrassamento (ad es. psicologico e metabolico), il secondo non considera l’ambiente e quindi continua a mangiare troppo e male.
Iniziare a dimagrire è già uno step successivo al volerlo: c’è a chi non interessa stare bene, c’è chi non sa che perdendo grasso migliora la qualità della sua vita, c’è chi continua a dare la colpa alla genetica senza accorgersi dei quattro pacchi di biscotti che si è mangiato in un giorno, c’è chi vorrebbe perdere peso ma da solo non ce la fa perché non ha abbastanza forza di volontà e si demoralizza quando in una settimana ha perso “solo” 300g e non 10kg.
Per chi è stato grasso la prima difficoltà è proprio il voler dimagrire davvero: significa iniziare a cambiare, a volte radicalmente, le proprie abitudini consolidate negli anni. Modificare il proprio stile di vita per una settimana, due o un mese poco conta: sono comunque 30 giorni contro anni di abitudini scorrette. Insieme al voler dimagrire ci devono essere grande forza di volontà, perseveranza, costanza, gradualità nel cambiare.
Dopo questo primo passo, serve essere aderente alla dieta ipocalorica (unica vera condizione che garantisce di perdere peso), meglio se seguito da un professionista. Dimagrire per chi è obeso è più difficile rispetto a chi deve perdere quei 1-2 kg di troppo: ci vuole più tempo per arrivare al risultato e soprattutto per poi mantenerlo!
Infine, non basta vedere scendere i numeri sulla bilancia: ok, stai perdendo peso, ma un dimagrimento efficace deve far scendere la massa grassa e riuscire a preservare la massa magra. Per questo motivo, iniziare anche un percorso allenante è indispensabile per perdere peso in modo efficace e avere una forma fisica migliore.
In poche parole, anche chi è grasso o obeso può dimagrire, ma ci vuole più tempo, più pazienza, più costanza rispetto a chi deve perdere solo un paio di chili. Inoltre, è indispensabile riuscire a mantenere i risultati raggiunti: è facile riprendere peso.
Da grasso (o obeso) a magro: è possibile?
Perdere grasso è possibile, ma… La fisiologia è d’accordo?
Il grasso si accumula: perché? Questo organo nasce con la funzione di riserva, per proteggere da eventuali carestie con scarsità di cibo. Cosa che può succedere anche oggi quando, ad esempio, da un giorno all’altro decidi di metterti a dieta e fai un taglio calorico esagerato: in questo modo fai percepire al tuo corpo di essere in una situazione in cui limitare la spesa di energia. Proprio perché funge da riserva, preservare queste scorte energetiche per l’organismo è importante – il corpo ragiona sul lungo termine!
Perdere grasso è difficile, ma non impossibile: tutta la situazione endocrina, psicologica e ormonale dell’obeso che cerca di dimagrire rende più difficile il percorso di dimagrimento!
Chi ha grasso in eccesso è caratterizzato da una cattiva sensibilità all’insulina e quindi di un metabolismo poco efficiente, propenso ad accumulare energia. Quando vuoi perdere peso, devi fare i conti con tutto il quadro instaurato dalla condizione di obesità.
Ad esempio, l’obesità è correlata alla leptina, un ormone cruciale nella regolazione del peso: agisce a livello del sistema nervoso (ipotalamo) e influenza quanto mangi dato che attiva i meccanismi di sazietà, a discapito di quelli della fame che vengono inibiti. La leptina è sintetizzata dal tessuto adiposo: questo dimostra quanto i livelli di grasso corporeo siano connessi al cervello nella regolazione del bilancio energetico.
Ma quindi… La leptina dà sazietà… L’obeso ha molto grasso quindi molta leptina… Perché l’obeso tende ad avere appetito, fame, a mangiare di più del necessario? C’è qualcosa che non va? In effetti sì, qualcosa che non va c’è: la leptina non viene captata a livello nervoso e quindi non è in grado di esplicare la sua funzione saziante! Così come c’è l’insulino-resistenza, allo stesso modo nel soggetto obeso si può parlare anche di leptina-resistenza.
Da sovrappeso a bodybuilder palestrato muscoloso
Sempre considerando la particolarità individuale, per chi è sovrappeso e mira ad elevati risultati estetici alcuni consigli pratici sono:
Varia la dieta in modo progressivo e non servirti di variazioni eccessivamente drastiche
Cerca di utilizzare approcci a predominanza mono-substrato (es. high-carb o high-fat)
Utilizza l’allenamento come jolly nella variazione dietetica: allenamenti fortemente glicolitici sono utili per migliorare la sensibilità insulinica e preparare il corpo a introdurre una buona dose di carboidrati
Fai particolarmente attenzione a regimi low-carb che prevedono ricariche glucidiche: queste sono un trigger molto forte per l’ipotalamo (abituato ad abbuffate), pertanto è possibile che la ricarica lasci una sensazione di appetito aumentato nei giorni seguenti e quindi una maggior difficoltà all’aderenza alla dieta
In generale, una persona ex-sovrappeso/obeso ha più adipociti vuoti ma comunque in grado di produrre più GLUT4 rispetto alle cellule muscolari e quindi tollererà meno la dieta iperglucidica
In generale, il soggetto ex-sovrappeso/obeso ha maggiori livelli di infiammazione sistemica che vanno indirettamente a peggiorare il metabolismo del muscolo
Prima di provare un approccio high-carb è meglio aspettare di arrivare al 15% di massa grassa, per assicurare una sensibilità ormonale maggio e quindi maggiore probabilità di convertire i carboidrati senza accumularli
Una volta raggiunto il peso o la condizione fisica/estetica desiderata, comunque l’atleta dovrà sempre avere a che fare con la propensione all’obesità e costantemente battersi per mantenere i risultati.
Come trasformare il corpo da grasso a magro?
Grazie ad un corretto protocollo alimentare e allenante nel corso degli anni (non giorni, non settimane!) da grasso puoi diventare magro. La manipolazione di cibo e allenamento consente di ristabilire l’equilibrio delle vie metaboliche, per renderle più efficaci: questo è possibile perché questi due parametri agiscono sugli ormoni coinvolti nella regolazione di queste vie.
Più la situazione iniziale è grave, più gli adattamenti metabolici faranno fatica a tornare all’equilibrio: un obeso di 170 kg non avrà mai l’addominale scolpito.
Aumento della massa muscolare, possibilmente con esercizi ad hoc di rimobilizzazione
Rimozione chirurgica del grasso in eccesso
Fase di riadattamento (da 1 a 3 anni)
In questa fase c’è un evidente squilibrio tra quello che il cervello percepisce e quello che effettivamente il corpo è: il set-point cerebrale ragiona ancora con il “vecchio peso” e quindi porterà stimoli sazianti diversi da quelli che arriveranno dopo che il tempo avrà riequilibrato le vie metaboliche e i meccanismi fame/sazietà.
Dalla fase di riadattamento in poi è sempre fondamentale mantenere uno stile di vita sano: una regolare attività fisica consente di contrastare la tendenza a riacquistare il peso. Dalle linee guida, sono sufficienti 30-60 minuti/giorno di moderata attività fisica, anche solo camminare: poco è meglio di niente!
Co-autore: Manuel Salvadori
Bibliografia
Schimtz et al. (2016). “Obesogenic memory can conferm long-term increases in adipose tissue but not liver inflammation and insulin resistance after weight loss”. Molecular Metabolism.
Ceccarini et al. (2015). “Fuel homeostasis and locomotor behavoir: role of leptin and melanocortin pathways”. J End Investigation.
Chhabra et al. (2016). “Reprogramming the body weight set point by a reciprocal interaction of hypothalamic leptin sensitivity and Pomc gene expression reverts extreme obesity”. Molecular Metabolism.
Halaas et al. (1995). “Weight-reducing effects of the plasma proteine encoded by the obese gene”. Science.
Martin & Davidson (2014). “Human cognitive function and the obesogenic environment”. Physiollogy & behavior.
McArdle, Katch F., Katch V. (2015). “Exercise Physiology – Nutrition, Energy and Human Performance”. Chapter 30: Overweight,Overfatness (Obesity) and Weight Control. Wolters Kluwer Health.
Seeley et al. (1997). “Melacortin receptors in leptin effects”. Nature.
Sinha (1998). “Clinical aspects of leptin”. Vitam Horm.
Approfondisci l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, con la nostra guida gratuita per cominciare a farti delle solide basi su cui poi approfondire:
Se dovessi chiedere a un gruppo di donne di battere le mani se almeno una volta si sono preoccupate della cellulite, credo che sentirei un gran rumore. Sì, perchè purtroppo questa problematica affligge una gran quantità di donne di tutte le età. Le ricerche sono abbastanza concordi nell’ affermare che l’ 80-90% dei soggetti di sesso femminile in età post-puberale la manifesta. Le industrie cosmetiche e farmaceutiche, spesso e volentieri, sfogano la loro smania di aumentare il guadagno proponendo una serie infinita di rimedi anti-cellulite, anche se ancora oggi non si vuole ammettere che non esiste un rimedio efficace a lungo termine per eliminare la cellulite. Fortunatamente però è possibile migliorare questo aspetto che contraddistingue molte donne. Vediamo come, cercando di capire anche che cosa è effettivamente questo inestetismo, perchè viene e come affrontarlo.
Che cos’è la cellulite?
La cellulite, nota anche come Lipodistrofia Ginoide o PEFS (Panniculopatia Edemato Fibro Sclerotica) è data da un processo generativo del pannicolo adiposo sottocutaneo e la sua origine è multifattoriale. Interessa dall’ 80 al 90 % delle donne in età post-puberale e può essere considerata anch’ essa come parte dei caratteri secondari femminili.
Ci sono pareri discordanti sul fatto che essa sia o meno una malattia: in alcuni testi si parla di malattia, mentre altre ricerche puntualizzano che essa NON sia una malattia, ma piuttosto una caratteristica normale e fisiologica che interessa la maggior parte delle donne. Ci sono effettivamente casi in cui la PEFS è legata a patologie di tipo metabolico o endocrino, ma nella maggior parte dei casi è legata a uno scorretto stile di vita o semplicemente al corredo ormonale che interessa la donna fertile o in menopausa.
Come si forma e quali sono le cause della cellulite?
La cellulite è un fenomeno multifattoriale e la sua origine è da ricercarsi in fattori modificabili e non. Tra i fattori non modificabili ci sono:
la genetica: se hai un fisico a “pera” sarai più predisposta a manifestare PEFS e ritenzione idrica negli arti inferiori;
il corredo ormonale femminile, perchè gli estrogeni hanno un ruolo preponderante nella sua formazione/peggioramento;
la disposizione dei settiche incasellano le cellule adipose. Se analizziamo la cute infatti, vediamo che sotto il derma è presente uno strato chiamato ipoderma in cui si trovano gli adipociti, a loro volta incasellati in compartimenti delimitati da setti disposti verticalmente. Quando c’è un aumento di numero o volume delle cellule adipose, queste prendono prepotentemente spazio modificando la struttura dei setti e deformando la superficie cutanea. È in questo modo che si formano i cuscinetti, dando il famoso effetto a “materasso”.
Tra i fattori modificabili invece troviamo principalmente lo stile di vita scorretto, la mancanza diattività fisica o un’alimentazione sbilanciata sono tra i primi elementi che possono peggiorare la PEFS, perchè riducono la capacità del corpo di eliminare le tossine e non favoriscono una corretta circolazione venosa e linfatica, determinando anche la ritenzione idrica.
Purtroppo i fattori non modificabili sono quelli che hanno un peso maggiore sulla formazione della cellulite, ed ecco spiegato il motivo per cui anche se hai una massa grassa bassa o normale, anche se fai sport e mangi bene, presenti comunque la PEFS. Tuttavia questa non può essere una scusa per non seguire uno stile di vita sano: avere abitudini errate non può far altro che peggiorare lo stato di salute generale e quindi anche la cellulite.
Come si classifica la cellulite?
Il processo degenerativo del pannicolo adiposo può essere di varia entità e, per questa ragione, le classificazioni sono diverse. Ad oggi ci sono diverse scale che ne possono classificare la gravità. Nel 1971 Curri aveva identificato 4 stadi, ma attualmente vengono utilizzate anche altre scale, come quella di Nürnberger e Müller o la CSS (Cellulite Severity Scale). Se prendiamo in considerazione la scala di Nürnberger e Müller si considerano 3 diversi stadi. Vediamoli nel dettaglio.
Stadio zero: Non ci sono alterazioni della superficie della pelle
Primo stadio: La pelle della zona affetta è liscia se il soggetto è seduto o sdraiato, ma le alterazioni si vedono nel momento in cui si pizzica la pelle o si contrae il muscolo;
Secondo stadio: La pelle a “buccia d’arancia” o a “materasso” è evidente se si sta in piedi senza l’uso della manipolazione (senza pizzicare la pelle e senza contrazione muscolare);
Terzo stadio: Sono presenti le alterazioni dello stadio 2 su un’area più estesa e con la presenza anche di noduli.
Dove si forma la cellulite?
La PEFS interessa principalmente alcuni punti del corpo, in relazione anche alla nostra genetica e quindi al nostro biotipo (androide o ginoide).
Se hai una conformazione ginoide (fisico a pera), vuol dire che tenederai geneticamente ad accumulare una maggior quantità di tessuto adiposo a livello di fianchi, cosce e glutei. Il tuo tessuto adiposo sarà maggiormente predisposto ad accumulare ritenzione idrica e ad infiammarsi.
Se invece hai una conformazione androide (a mela), tenderai ad accumulare di più a livello degli arti superiori, addome e seno. C’è un terzo caso, forse quello più comune, che è il biotipo misto: questo significa che presenti caratteristiche sia del corpo a mela sia di quello a pera. Quando ti alleni è bene tenere in considerazione il tuo biotipo, perchè un allenamento non progettato su di te, potrebbe peggiorare il tuo stato infiammatorio e di PEFS a livello degli arti inferiori.
A che età compare spesso la cellulite?
Come già detto in precedenza, la PEFS è legata prevalentemente al corredo ormonale femminile e la sua comparsa si ha in concomitanza con lo sviluppo sessuale. Da questa età in poi, le donne risultano essere soggette in gran parte a cellulite e ritenzione idrica. Potresti pensare che con la menopausa tu possa scampare il problema data la riduzione degli estrogeni, ma in realtà non è così.
Anche se con la menopausa c’è un cambio del corredo ormonale femminile, la cellulite può rimanere o peggiorare perchè la pelle perde di elasticità e c’è in generale una più rapida trasformazione del tessuto magro in tessuto adiposo, portando a un possibile peggioramento del quadro di PEFS.
Cellulite o ritenzione idrica: cosa cambia?
Ancora oggi c’è poca chiarezza quando si parla di cellulite e ritenzione idrica, perchè spesso i due “fenomeni” vengono confusi. La cellulite e la ritenzione idrica NON sono la stessa cosa, sono due inestetismi differenti. Spesso sono associati, anche perchè possono avere delle cause in comune (come l’assetto ormonale femminile), ma non devono essere confusi.
La ritenzione idrica infatti è semplicemente la tendenza del corpo ad accumulare liquidi negli spazi interstiziali, ovvero gli spazi tra le cellule, mentre la cellulite è una degenerazione del pannicolo adiposo sottocutaneo. Spesso la PEFS è accompagnata da ritenzione idrica, ma sono due fenomeni distinti.
Cellulite nella donna e nell’ uomo: ci sono differenze?
Quando si parla di PEFS si pensa subito al sesso femminile, perchè effettivamente le donne sono decisamente più soggette al problema rispetto agli uomini, ma ti sei mai chiesta il perche? La ragione è da ricercarsi direttamente là dove nasce il problema, e cioè a livello della cute, in particolare dell’ ipoderma. Se analizziamo l’ ipoderma femminile si nota che i setti che incasellano gli adipociti sono nella maggioranza dei casi verticali.
Quando le cellule adipose si ipertrofizzano o aumentano di numero, deformano i setti e formano il tessuto a materasso. Nell’ uomo invece la trama dei setti è disposta a “x”. Per questa ragione è molto più difficile che la cute venga deformata da una modficazione degli adipociti nell’ ipoderma. Inoltre l’ assetto ormonale maschile e la ridotta quantità di estrogeni li rendono meno predisposti alla manifestazione del problema.
Rimedi efficaci contro la cellulite: cosa fare?
La cosmesi e l’ industria medica e farmaceutica propongono una gran quantità di rimedi al problema “cellulite”. Giostrarsi in questo gran bazar di informazioni, creme, terapie e trattamenti risulta difficile, per cui è bene fare un minimo di chiarezza.
Esistono diversi tipi di rimedi tampone. Dico “tampone” perchè come già detto, possono aiutare a migliorare l’inestetismo, ma non lo eliminano. È possibile usufruire di trattamenti medici, fisioterapici ed estetici, oltre che avvalersi di sostanze topiche (come le creme) o auto-trattamenti. Nel caso in cui ci si voglia avvalere di trattamenti medici, è bene ricordare che in questi casi è fondamentale avvalersi del consiglio di un medico specialista, anche perchè queste metodiche sono in alcuni casi invasive e soprattutto molto costose.
Alcune tecniche mediche note sono il laser, la radiofrequenza, le onde d’urto, l’ elettrolipolisi, la subcision, la mesoterapia, la criolipolisi, l’ ozonoterapia e la carbossiterapia.
A differenza di quanto si possa pensare la liposuzione NON è un buon metodo per ridurre la PEFS, ma anzi può peggiorarla oltre che comportare più controindicazioni che benefici nel trattamento della cellulite.
Tutte queste tecniche si è visto che danno, in percentuali differenti, dei benefici a breve termine, ma nessuna è risolutiva. Per quanto riguarda i trattamenti fisioterapici ed estetici sono molto utilizzati i massaggi e il linfodrenaggio, che risultano essere utili nel breve termine anche per la ritenzione idrica. Anche le terapie termali tramite docce o fanghi possono dare benefici a livello circolatorio e cutaneo.
Per quanto riguarda le creme topiche al momento non ci sono prove scientifiche valide che ne dimostrino l’efficacia, a differenza delle calze compressive o dell’auto-massaggio. Sicuramente abbinare alcune delle tecniche elencate può migliorare l’ entità della propria cellulite, ma tutto è vano se insieme a questi trattamenti non si attua un cambiamento dello stile di vita, inteso come alimentazione e attività fisica.
Questi ultimi due parametri sono FONDAMENTALI se si vuole migliorare il proprio stato di PEFS e se si vuole mantenere per quanto possibile un buon controllo ormonale e il mantenimento di un sistema circolatorio e linfatico efficienti.
Cosa mangiare per eliminare la cellulite?
Al momento non sono stati identificati scientificamente dei cibi o delle diete anti-cellulite, ma sicuramente mantenere una buona idratazione e un’ alimentazione varia ed equilibrata sono le armi più efficaci che hai per tenere sotto controllo la cellulite. Frase tanto banale quanto veritiera, tutto per farti capire che il segreto è che non ci sono segreti!
Secondo alcuni studi esiste una correlazione tra la cellulite e il consumo di cibi industriali e grassi saturi: questi sembrano peggiorare la struttura del derma, aumentare i depositi di grasso e i processi infiammatori del tessuto adiposo. Sia che tu stia seguendo una dieta vegetariana, vegana, onnivora o quant’ altro, ricorda che la chiave è sempre la costanza e l’ equilibrio dei macronutrienti.
Questo vuol dire che non devi nè eliminare i carboidrati o i grassi, ma mantenere un bilanciamento tra i macros. Anche se sei in deficit calorico mantieni sempre alta la quota proteica e non trascurare vitamine e minerali perchè si è visto che la carenza di queti ultimi peggiora lo stato del derma e del collagene e quindi l’ apparenza della cellulite.
Infine, non trascurare le fibre alimentari, perchè la stipsi o un transito intestinale non regolare non aiutano a depurare il corpo dalle tossine peggiorando lo stato di PEFS. Puoi concederti degli “sgarri”, perchè non sono i dolci o i pasti occasionali a creare o peggiorare la cellulite. È importante anche l’ apporto idrico giornaliero e la quantità di sale che introduci giornalmente in relazione all’ acqua che bevi. Secondo l’ EFSA (European Food Safety Authority) l’apporto idrico giornaliero per una donna dovrebbe essere almeno di due litri e la quantitò di sale attorno ai 3-4 gr.
A differenza di quanto si possa pensare, eliminare il sale dalla dieta è controproducente, perchè anzichè migliorare l’ aspetto della PEFS e della ritenzione idrica, finiresti per peggiorarlo. La carenza di sale nella dieta, oltre a ridurre il piacere di ciò che mangi, viene letta dal nostro sistema ormonale (renina-angiotensina-aldosterone) come una situazione di allarme. In risposta a ciò, il sistema determina una maggiore ritenzione di liquidi. Stessa cosa vale per l’ acqua: un ridotto apporto idrico non solo limita lo smaltimento delle tossine, ma comporta uno squilibrio ormonale determinando un aumento della ritenzione idrica.
Linee guida per la cellulite
Concludendo, le linee guida che si possono dare per limitare il peggioramento della PEFS e per migliorarla sono:
– Fai attività fisica: prediligi l’attività fisica con i pesi anche abbinandola all’attività cardiovascolare. Evita di praticare solo attività cardiovascolare perchè potrebbe essere controproducente e peggiorare lo stato infiammatorio del tessuto adiposo degli arti inferiori.
– Segui una dieta bilanciata e ricca di fibre, non eliminare del tutto il sale e ricordati di bere molto.
– Se ne senti il bisogno (questo anche in relazione allo stadio di PEFS) fai uso di trattamenti medici, estetici o fisioterapici, tenendo bene presente che non sono risolutivi al 100%. In questi casi affidati sempre a dei professionisti in grado di darti spiegazioni oneste sul trattamento che vuoi fare.
– Lavora anche a livello psicologico su te stessa se la PEFS ti causa insicurezza o ti limita in qualche modo e tenendo presente che la cellulite colpisce quasi tutte le donne(ricordo, dall’ 80 al 90% dei soggetti di sesso femminile). Per quanto l’ industria cosmetica o le pubblicità ci bombardino costantemente dicendo che questo è un problema, ricorda che tu NON sei la cellulite e che, nella maggior parte dei casi, è da considerarsi come un carattere secondario sessuale femminile. E’ lecito cercare di migliorarsi psicologicamente e fisicamente, ma non siamo identificabili con quelli che gli altri chiamano “difetti”.
Bibliografia:
– Draelos ZD The disease of cellulite Journal of Cosmetic Dermatology 2005; 4: 221-222
– Mayou B Improving the appearance of cellulite Aesthetics 2018 Jan; 5(2)
– Paoli A, Neri M Cellulite, come combatterla con il fitness Editrice Elika, Forlì 2003
– Rossi AB, Vergnanini AL Cellulite a review JEADV 2000: 14: 251-262
– Saadi JS Aljadir Fluid retention syndrome in women Endocrinol Metab Int J. 2017; 4(5): 124-127
– Stachenfeld NS, Taylor HS Effects of estrogen and progesterone administration on extracellular fluid J Appl Physiol 2004; 96: 1011-1018
– Tokarska K, Tokarski S, Wozniacka A et al. Cellulite a cosmetic or systemic issue: contemporary views on the etiopathogenesis of cellulite Adv Dermatol Allergol 2018; XXXV(5): 442-446
Note sull’autrice
Dott.ssa Chiara Fezzardi
Mi chiamo Chiara Fezzardi, ho 28 anni e lavoro come PT e insegnante di Pilates a Brescia. Sono laureata magistrale presso l’ Università di Scienze Motorie a Milano e ho frequentato corsi di formazione con diverse scuole (FIF, SFSM, Power Pilates). Amo muovermi, ridere, viaggiare, leggere e aiuto le persone a migliorare il loro benessere e a riscoprire il loro potenziale fisico e mentale.”