Nello scorso articolo su come si forma la cellulite, c’eravamo lasciati con la promessa di vedere in pratico quanto detto nella teoria. Oggi così mostriamo un caso studio di come possiamo, attraverso l’alimentazione e l’allenamento, attuare una ricomposizione corporea su una ragazza.
Il soggetto in esame è Daniela, mia atleta da 3 anni.
Con Daniela è stato fatto un lavoro molto lungo durato mesi, quindi preciso che vi mostrerò il primo intervento, come esempio ed in seguito una sintesi di quanto fatto nel corso di circa 3 anni.
Scordatevi di applicare quanto detto in qualsiasi contesto e magicamente far sparire ritenzione idrica/cellulite in un mese, magari può funzionare su determinati soggetti che partono con una buona massa muscolare e hanno una ritenzione idrica leggera, ma se per anni/mesi avete trascurato il vostro corpo o praticato esercizi poco indicati o seguito diete poco salutari, non pensiate basti così poco tempo, a seconda della vostra storia sarà più o meno veloce migliorare.
Daniela partiva dalla seguente situazione:
data: 14/1/2016
età: 23 anni
peso corporeo: 50kg
% grasso: 18%
Kg grasso: 9,1 kg
Kg massa magra: 40,9
Sport praticato: GAG (attività in cui si eseguono esercizi a corpo libero in genere per gambe, addome e glutei) 3 volte a settimana + saltuariamente nuoto, da ragazzina ha sempre nuotato a livello amatoriale. Lavoro/attività: studente, quindi seduta per molte ore della giornata, poca attività fisica oltre a GAG. Sintomatologia: gambe spesso pesanti e fredde al tatto, ha spesso fame durante la giornata soprattutto dopo la colazione, gli capitava di avere sonno dopo i pasti.
Alimentazione: abbastanza sbilanciata a livello qualitatitivo (cibi confenzionati e condimenti abbondanti), ma fortunatamente è partita da una situazione in cui mangiava circa 1500 kcal, quantitativo calorico abbastanza buono (36kcal/kg massa magra).
Colazione:
caffè latte + brioches vuota + biscotti
Spuntino:
snack (grissini/creckers/patatine) + succo di frutta
Pranzo:
Primo (pasta/riso condito con sugo/pesto/altro) con parmigiano su pasta/riso + Secondo (carne non ai ferri ma impanata/ alla pizzaiola/ al burro O uovo O affettati O formaggi) + verdura + caffè + 1 dolcetto tipo pezzo cioccolata/biscottino
Spuntino
snack(grissini/creckers/patatine) + succo di frutta
Cena:
primo (pasta/riso condito con sugo/pesto/altro) con parmigiano su pasta/riso + secondo (carne non ai ferri ma impanata/ alla pizzaiola/ al burro O uovo O affettati O formaggi) + verdura + caffè + 1 dolcetto tipo pezzo cioccolata/biscottino
Acqua: 1,5 litri al giorno, sale sempre presente.
Come possiamo vedere è un’alimentazione in cui spesso sono presenti cibi confezionati/zuccherini, poco sazianti e poco “completi” a livello di micronutrienti/minerali. A pranzo e a cena spesso il condimento è corposo e dopo il pasto ha spesso sonnolenza.
Anche se 1500kcal possono sembrare poche vanno sempre contestualizzate sul soggetto e sulla sua gestione delle stesse.. quanto muscolo ha? Che attività svolge? È sedentario/a? come si sente mangiando così? Ecc.
Nella sua dieta probabilmente si ha un continuo repentino innalzamento / abbassamento dell’insulinemia (cibi zuccherini raffinati con pochi micronutrienti e fibre abbinati a poche proteine, soprattutto a colazione e negli spuntini), questo le causa spesso stanchezza soprattutto dopo pranzo / cena, oltre che attacchi di fame in seguito ai restanti pasti. Potrebbero inoltre essere sintomi di una mal-gestione dei carboidrati, di pasti troppo abbondanti (pranzo e cena) e poco qualitativi (colazione/snacks con cibi raffinati/confezionati poveri di fibre e proteine).
Non facendo attività molto impegnative (che vanno a “consumare” le scorte di zucchero nei muscoli, il glicogeno) e non avendo molta massa muscolare i nutrienti non vengono probabilmente partizionati in modo ottimale tra muscolo e tessuto adiposo, favorendo la seconda.
L’apporto di proteine inoltre non è elevato ed è distribuito prevalentemente tra pranzo e cena. Una loro presenza negli spuntini sotto forma di proteine in polvere/albume cucinandosi ad esempio pancacke/yogurt greco ecc. potrebbero, tra i molti aspetti positivi, aumentare la sazietà.
Ricomposizione corporea donna: alimentazione
Il lavoro che abbiamo fatto con Daniela è stato il seguente:
-a livello alimentare abbiamo agito sulla qualità degli alimenti e sui macronutrienti, le kcal sono rimaste pressochè invariate nella settimana. Abbiamo ridistribuito gli alimenti durante la giornata sostituendo i cibi confezionati con alimenti più salutari, aumentato l’apporto di fibre alimentari medio (senza troppe paranoie, semplicemente inserendo fette wasa integrali/ cereali come farro/orzo ecc.).
In settimana mangiava leggermente meno, per consentirle la domenica di pranzare con la famiglia e mangiare più liberamente.
L’alimentazione quindi si è modificata come segue:
Colazione:
caffè + latte di soia + wasa integrali + yogurt greco 0%/proteine in polvere/albume + frutta secca
Spuntino:
frutto + proteine/yogurt greco 0% + frutta secca/ a volte cioccolato fondente oppurepancacke con albume + frutta secca + farina di avena/avena
Pranzo:
primo (riso a scelta/farro/orzo/pasta di farro/ patate) con passata di pomodoro / pesto fatto in casa con poco olio e senza formaggio + secondocarne / pesce alla piastra NO impanature e soffritti + verdura MISCHIANDO I COLORI + olio evo + caffè non zuccheratooppure legumi + cereali + verdura + olio evo + caffè non zuccherato
Spuntino
frutto + proteine/yogurt greco 0% + frutta secca/ a volte cioccolato fondente oppurepancacke con albume + frutta secca + farina di avena/avena
Cena:
COME PRANZO
Niente di drastico ne ciclizzazioni particolari, come primo passo ho semplicemente attuato una leggera modifica delle scelte a tavola, aumentato leggermente le proteine e la loro distribuzione durante il giorno, cambiata la tipologia di carboidrati favorendo fonti meno raffinate, più sazianti e con più fibre.
Per quanto riguarda l’acqua ho posto come obiettivo di arrivare gradualmente a 2,5 litri al giorno entro 5 settimane circa. Il sale sempre presente senza esagerare.
Integrazione:
-1 multivitaminico
-Omega 3
Allenamento sulla ricomposizione per la donna
Partendo da zero, Daniela avrebbe risposto facilmente ad un volume di lavoro abbastanza basso, decido di iniziare con 3 sedute settimanali, lavorando in multifrequenza.
Sugli esercizi multiarticolari, in particolare squat e panca, ho lavorato sull’apprendimento del gesto mediante esecuzioni lente e fermi in punti specifici dell’alzata, “educandola” a percepire il suo corpo, in sintesi un lavoro sulla propiocezione.
A inizio seduta abbiamo il lavoro di capillarizzazione , in cui si eseguono esercizi specifici per la parte inferiore del corpo a medio/alte ripetizioni senza mai arrivare alla sensazione di bruciore (consiglio di eseguirli senza scarpe).
Ecco la struttura della scheda schematizzata:
Obiettivo:
Apprendimento tecnico e lavori sul microcircolo
Split:
Multifrequenza
Schema:
A-B-C (con richiami A e B)
Postura:
-Iperlordotica, lavoro sul retto dell’addome e sul trasverso. -Allungamento catena posteriore con squadra mezière.
-Esercizi diallungamento per lo psoas.
Cardio:
2 sessioni con simil-HIIT, 1 sessione centrale LISS
Una volta a settimana sono in palestra con Daniela per correggerle eventuali errori tecnici. Obiettivo: Cercare di migliorare i carichi, mantenendo e migliorando l’esecuzione tecnica.
Lavoro capillarizzazione senza scarpe Affondi in camminata (se riesci anche su scala) 20/25 passi per gamba, non doveva sentire bruciore, si fermava 15/25” quando sentiva calore recuperava 1 minuto circa. Hip trust libero 40 ripetizioni totali, si fermava 15/25” quando sentiva calore, non al bruciore, non doveva sentire le gambe pesanti alla fine degli esercizi.
Lavoro sugli esercizi fondamentali
Ci siamo concentrati su delle progressioni di volume o sul carico negli esercizi multiarticolari (panca piana, squat, lento, ecc.). Portando nel tempo Daniela ed eseguire più serie o a caricare più kg sul bilanciere.
Ricapitolando nella scheda avevamo:
lavoro di capillarizzazionea inizio seduta
lavoro neurale (tecnico) su esercizi a grande sinergia
lavoro a medie ripetizioni su pochi esercizi “complemetari” (tipo chest press, pressa ecc.) dove si sentiva più sicura a caricare più peso divertendosi un po’, facendo attenzione a non protrarre e tirare troppo le serie per la parte inferiore
lavoro sul ritorno venoso mediante la camminata sul tappeto in pendenza 3% (può essere fatta anche all’aperto)
lavoro posturale finale con massaggio utilizzando il foam roll (lavoro sul sistema linfatico)
Non tirare gli esercizi non significa che la persona arriva riposata a fine serie come se non avesse fatto nulla, ma non deve ricercare il bruciore muscolare, in questa fase il lavoro è sul movimento e sull’apprendimento del gesto, poi ovviamente negli esercizi alle macchine guidate lascio più libertà, a patto che l’esecuzione sia corretta e sicura.
L’evoluzione di Daniela è avvenuta con gradualità, la prima e la seconda foto sono state fatte prima che iniziasse ad allenarsi con i pesi, la terza a metà del primo programma visto sopra, la quarta alla fine del programma.
I glutei alla fine del primo programma sono migliorati molto a livello di ritenzione idrica, così come la stanchezza durante il giorno, l’energia ed i carichi in allenamento; la massa muscolare è andata aumentando nel tempo (con alti e bassi ovviamente). La ritenzione idrica è migliorata piano piano sempre di più nel corso dei mesi successivi, così come la tonicità generale.
Successivamente ai primi mesi, progredendo sempre di più, abbiamo iniziato a livello alimentare fasi di bulk e fasi di cut, per poi dopo due anni e mezzo arrivare a decidere di preparare una gara di natural bodybuilding, conquistando il secondo posto alle selezioni 2018 di Cornaredo della NBFI nella categoria bikini small e ad oggi in preparazione per il Campionato italiano NBFI di Figline 2018.
Quello che paga nel tempo è la costanza, piccoli sforzi fatti quotidianamente, non focalizzatevi sul singolo giorno ma sul processo nel lungo periodo.
Personalmente utilizzo sì l’analisi delle misurazioni (plicometria, circonferenze) ma anche molto lo specchio, fatevi foto e analizzatele assieme agli altri i dati nel tempo, in questo modo avrete più informazioni possibili. A volte la plicometria non è veritiera, confrontarla con le foto mi ha aiutato molto.
Ricordiamoci inoltre che durante il ciclo l’aspetto di una donna è normalissimo che vari, in particolar modo nella fase pre-ciclo, se rilevate dei dati cercate di farlo sempre nella stessa fase del ciclo mestruale, in modo che siano confrontabili e più attendibili.
Daniela ad esempio dai risultati è emerso che se la metto a fare serie lattacide sulle gambe/glutei peggiora, mentre altre ragazze non hanno la stessa risposta. Solo provando e verificando possiamo così ottimizzare il lavoro sulla persona. Nei periodi di massa Daniela continua ad avere un pochino di ritenzione idrica (pur facendo tutto in modo controllato e monitorato) ed in questo caso è principalmente un fattore genetico.
Buon lavoro e buona trasformazione!
Note sull’autore
L’articolo sul caso studio per la cellulite è di Dott.Daniele Gelmi.
Daniele lavora presso il centro inVictus a Brescia ed assieme alla nostra dietista propone piani di ricomposizione corporea al femminile.
Maggiori informazioni: centro inVictus
Tutti sanno come il bodybuilding sia rappresentato dall’alternanza di un periodo di massa (bulk) e uno di definizione (cut), in cui giocano un ruolo pari per importanza l’alimentazione e l’allenamento in palestra. Se nel primo l’obbiettivo è mettere quanta più massa muscolare possibile (mantenendo bassa quella grassa), lo scopo della dieta in definizione muscolare è quello di perdere massa grassa mantenendo quanto più tessuto muscolare possibile.
Condizione necessaria, ma non sufficiente, è un corretto investimento nel periodo di bulk: la definizione inizia quando fai la massa.
Alimentazione per fare definizione senza perdere massa magra
In generale (e nei prossimi capitoli nel particolare), l’alimentazione in definizione prevede più fasi:
Nella prima fase c’è il passaggio dalla situazione di iper-alimentazione (fine del periodo di massa) alla normocalorica, preferibilmente tramite taglio di calorie derivanti dal cibo piuttosto che da aumento dell’attività fisica, dato che potrebbe essere un’arma da giocare successivamente. In poche parole, dieta ipocalorica.
La seconda fase, invece, è quella più delicata perché si instaura un contesto tendenzialmente catabolico e parte dalla fine della fase 1 fino al raggiungimento del livello prefissato. Se così non fosse, ci vuole più tempo oppure l’obbiettivo è irrealistico. In questa fase si può includere anche l’aumento dell’output energetico (più allenamento) piuttosto che la diminuzione dell’input energetico (mangiare meno), ma entrambe le strategie sono possibili.
Come impostare la dieta in definizione?
Dal generale scendiamo nel particolare e nella pratica: in questi paragrafi trovi come gestire più nel dettaglio le due fasi sopracitate. Prima di tutto devi scegliere e impostare l’introito calorico, poi la distribuzione dei macronutrienti, senza dimenticare di scegliere la strada che sei in grado di portare avanti con meno difficoltà: la dieta deve aderire a ciò che sei in grado di sostenere nel lungo periodo.
Quante calorie assumere?
Nella prima fase (1), finalizzata ad arrivare alla normocalorica, ci sono due strade percorribili:
Scendere subito di un 15-20% della quota calorica (o di 500-600 kcal) per poi gradualmente arrivare ad un 3-5% fino a raggiungere la normocalorica. Questa strategia è ideale per chi ha concluso un po’ male il periodo di massa e si ritrova con un’alta percentuale di massa grassa e di ritenzione idrica, indici di parametri ormonali e recettoriali compromessi.
Scendere del 5-10% delle kcal (o di 200-300 kcal) fino ad arrivare alla normocalorica. Strategia adatta a chi ha concluso bene il periodo di massa senza accumulare molto grasso, con poca ritenzione e una buona vascolarizzazione (tutti indici di un’ottimale gestione dei nutrienti).
Nella seconda fase (2), invece, puoi scegliere se mangiare di meno e/o allenarti di più per creare deficit energetico: ad ogni stallo di condizione e di peso (quindi circa ogni 2 settimane) l’apporto calorico deve diminuire di un ulteriore 3-5%, in pratica 80-100 kcal o 10’ di cardio in più al giorno.
Se punti sulla diminuzione dell’input energetico il vantaggio è che togli uno stressor (agente stressante) in più, come può essere il (molto) cardio. Questo permette di ridurre le possibilità di andare in sovrallenamento fisico ma soprattutto mentale.
Se, invece, punti sull’aumento dell’output energetico il vantaggio consiste nel mantenere un’alta funzionalità metabolica con un miglior impatto (se le cose funzionano) in termini di perdita di peso e mantenimento della massa magra. In questo caso, preferisci l’inserimento di cardio LISS (lento) piuttosto di metodologie più intense come l’HIIT, che rappresenterebbe uno stress troppo alto in questa fase.
Distribuzione dei macronutrienti
In questa tabella trovi riassunte le quantità dei macronutrienti consigliate per la prima e la seconda fase.
Proteine (g/kg)
Grassi (g/kg)
Carboidrati
Fase 1
2.5-2.7
0.7-1
kcal rimanenti
Fase 2
2.5-2.7
0.3-0.8
2-5 g/kg
Nei prossimi paragrafi, trovi delle precisazioni in merito alla seconda fase: a seconda della strategia scelta ci sono delle quantità preferibili rispetto ad altre. In pratica, saprai come orientarti all’interno dei range di carboidrati e grassi che hai appena letto, dato che per la fase 2 sono abbastanza ampi e possono fare la differenza.
Quanti carboidrati
In questo paragrafo analizziamo il ruolo che giocano i carboidrati nella seconda fase (2), a seconda della strategia decisa. In generale i carboidrati vengono abbassati, subendo però due destini molto diversi:
Per la strategia della diminuzione dell’input energetico la funzionalità metabolica ne risente, così come la performance. Il metabolismo cercherà sempre di più di lavorare grazie ai grassi, quindi conviene favorire questa scelta. L’ideale è scendere molto con i carboidrati, arrivando fino a 2-3 g/kg di peso corporeo (150-225 g per un atleta di 75 kg).
Per la strategia dell’aumento dell’output energetico la quota glucidica resta alta e scende solo fino ai 4-5 g/kg (300-375 g per un atleta di 75 kg). In determinati contesti, capita che la quota glucidica rimanga identica rispetto alla normocalorica. In questo caso, la funzionalità metabolica resta alta, così come la capacità di gestire e veicolare i nutrienti. Fare affidamento su un’alta quota glucidica è fondamentale per permetterti di mantenere la
Quanti grassi assumere
Anche il livello di grassi tende a calare gradualmente durante il periodo di definizione. Il comportamento, però, sarà opposto rispetto al livello di carboidrati.
Se scegli la prima strategia (- input energetico) favorisci il consumo di grassi come substrato, quindi il loro livello sarà tendenzialmente “alto”: 0.6-0.8 g/kg di peso corporeo.
Se invece propendi per la seconda strategia (+ output energetico) il livello dei glucidi come visto è più alto, a discapito proprio dei grassi che arrivano a 0.3-0.5 g/kg. Fai attenzione a circoscrivere questa fase ad un periodo di tempo ristretto in quanto sono livelli al di sotto della dose giornaliera raccomandata.
Fase 2
Quantità carboidrati (g/kg)
Quantità grassi (g/kg)
Strategia 1 (- input energetico)
2 – 3
0.6 – 0.8
Strategia 2 (+ output energetico)
4 -5
0.3 – 0.5
Dieta in definizione muscolare: ricarica
Finita la prima e poi la seconda fase sei arrivato al livello di massa grassa desiderata. Se così non fosse, ma l’obbiettivo è comunque realistico, devi prenderti più tempo. In questo caso, ci sono due possibili scelte in base alla strategia per cui hai optato nella seconda fase:
Se hai abbassato l’input energetico ti conviene aumentare il cardio, sempre LISS: non conviene deprimere ulteriormente la funzionalità metabolica, rischiando di perdere troppa massa magra. Aumenta il deficit inserendo gradualmente 5-10’ di cardio giornalieri.
Se hai aumentato l’output energetico conviene fare l’opposto: arrivato a 180-200’ di cardio LISS settimanale non conviene andare oltre, sarebbe come gettare benzina sul fuoco per spegnerlo. Piuttosto, diminuisci il quantitativo di calorie di 50-80 kcal ogni volta che raggiungi uno stallo.
Se hai fatto le cose per bene, dovresti essere così finalmente arrivato al livello di massa grassa desiderato. A questo punto, per concludere il periodo di definizione bisogna riempire le riserve di glicogeno e acqua muscolare. Facendo questo resterai sempre asciutto, il livello di massa grassa non varierà ma i ventri muscolari si riempiranno, con il risultato di avere quell’aspetto pieno e vascolarizzato che tanto viene ricercato in questa fase.
Reverse diet
La reverse diet è una delle strategie alimentari più fraintese di questi ultimi anni: è stata identificata come modalità per uscire dal periodo di definizione e iniziare quello di massa, ma in realtà la reverse diet è una strategia volta a concludere la dieta per la definizione, tramite:
Aumento dei carboidrati: incrementali gradualmente di 15-25 g/settimana e diminuisci i grassi (nel caso in cui tu abbia scelto l’opzione con i lipidi più elevati durante la definizione).
Ciclizza i carboidrati: nella settimana il livello glucidico può variare, questo per mantenere alta la capacità di sovracompensanzione del tessuto muscolare.
Aumenta il dispendio energetico tramite sedute ad alta intensità. Ovviamente, per mantenere inalterato il livello di massa grassa il deficit energetico non deve variare di tanto. È qui fondamentale modulare perfettamente la quantità di attività fisica in modo da scaricare nella prima parte della settimana e sovracompensare le scorte verso la fine della stessa.
Sedute di HIIT o circuiti di crossfit sui muscoli allenati nella seduta sono una soluzione ideale. La scelta di utilizzare un allenamento metabolico e denso deriva dal voler direttamente coinvolgere i glucidi come substrato energetico proprio per andarli a depletare il più possibile.
Questa strategia sfocia e si interseca con quella del peaking, ossia del raggiungimento del picco di forma in un giorno specifico (gara, shooting, ecc.).
Dieta iperproteica in definizione: quante proteine assumere?
Per definizione, una dieta iperproteica prevede un introito di proteine maggiore di 1g/kg peso corporeo/die: una quantità che chi è sportivo e che più o meno sa regolarsi sul fabbisogno di nutrienti da assumere supera sicuramente – e non di poco.
Quindi, la dieta in definizione con i suoi 2.5-2.7g/kg/die consigliati è già di per sé iperproteica. Per raggiungere questa quota elevata puoi sfruttare sia cibi proteici animali che vegetali e solo nel caso di necessità e praticità puoi ricorrere alle proteine in polvere. Infatti, ciò che conta primariamente è raggiungere quel fabbisogno proteico, senza la preoccupazione che “troppe” proteine facciano male (bisogna sempre contestualizzare), che facciano ingrassare o che le proteine vegetali non siano degne di essere conteggiate nel fabbisogno protidico – in tal caso, per dubbi vari ed eventuali, gli atleti vegani sono quelli giusti da chiamare in causa!
Che cosa evitare in una dieta per fare definizione muscolare?
La prima cosa è evitare di porsi un obbiettivo troppo irreale: è fondamentale capire esattamente qual è la percentuale di massa grassa a cui vuoi arrivare. Sii onesto con te stesso e non sognare una definizione improponibile, che porterebbe solo a perdere tanta massa muscolare. Se sei all’inizio e il livello di massa grassa è altino (16-18%) allora cerca di scendere inizialmente al 10-12%. Rimanda a dopo definizioni più estreme.
Evita un regime ipocalorico molto drastico per non rischiare di intaccare eccessivamente la massa muscolare. C’è da chiarire che in definizione di perde molta acqua e glicogeno intramuscolare: il muscolo risulta più vuoto, ma la perdita del tessuto strutturale è comunque minima.
Non mettere la definizione prima della salute: la salute fisica e mentale viene messa a dura prova durante un lungo periodo di ipocalorica, soprattutto quando entri in condizioni sottofisiologiche (massa grassa < 6-7%) patisci su entrambi i fronti. È fondamentale mantenersi saldi e non sacrificare la vita sociale e lavorativa. Grande beneficio lo trovi grazie alla riduzione di stress vari, come il prendere riposo durante la quotidianità.
Dieta in definizione per le donne (al femminile)
La dieta per la definizione assume sfaccettature ben diverse per le donne. Un maggiore apporto di grassi a discapito dei carboidrati rappresenta un concreto vantaggio per non deprimere la funzionalità ormonale e mantenere alti i processi di dimagrimento durante la dieta, salvaguardando la massa muscolare.
Generalmente, avendo fisiologicamente più quantità di grasso essenziale rispetto all’uomo, la dieta di definizione per le donne risponde meglio ad un metabolismo lipidico rispetto a quello glucidico – a meno che non vengano dedicati mesi di reset metabolico.
Dieta in definizione senza integratori
Fino a qui non c’è stato nessun cenno all’utilizzo di integratori per riuscire nella ricomposizione corporea che molto probabilmente cerchi. Infatti, non sono indispensabili: quando le cose vengono fatte bene e sono studiate sull’individuo i risultati ci sono.
L’integrazione viene spesso vista come quella che serve per spingere di più in palestra, per avere più muscolo, per ottenere risultati migliori… Dimenticando che nella parola stessa “integrazione” si capisce come e quando è realmente utile: “integrare” indica qualcosa che va ad aggiungersi, che ha un ruolo utile ma comunque secondario rispetto ad altro di più prioritario.
Facciamo un esempio: Luca vuole perdere grasso, ma non segue una dieta ipocalorica e non ha intenzione di fare più movimento di quello che fa. Però usa le proteine in polvere e un pre-workout, perché li ha visti usare a tutti quelli più definiti e forti di lui in palestra. È più facile bere uno shaker di proteine pensando così di perdere peso piuttosto che fare la fatica di stare a dieta per settimane. Domanda: Luca otterrà i risultati che vuole?
Se sei in ipocalorica, se scegli una strategia e se ti alleni bene otterrai sicuramente più risultati di Luca. L’integrazione non è mai alle fondamenta della piramide dei risultati della ricomposizione corporea, né in definizione, né in massa.
Quindi se hai già buoni o ottimi risultati senza integrazione, continua così!
Dieta in definizione senza carboidrati
È vero che per l’organismo i carboidrati non sono essenziali, dato che è in grado di auto-produrre glucosio. Ma il punto non deve essere questo, quanto invece: i carboidrati aiutano in definizione?
Se l’intake glucidico è troppo basso durante la fase ipocalorica, in alcuni casi, c’è una diminuzione della performance: questa si traduce in una maggior difficoltà di mantenimento della massa muscolare, che è essenziale da trattenere il più possibile in definizione.
Tuttavia, alcuni rispondono comunque bene a regimi low-carb durante il cut. Quindi, se non puoi fare a meno dei carboidrati avrai già optato per la strategia con il contenuto glucidico più alto, se, invece, vuoi trovare davvero quale sia la strada migliore per te, non ti resta che provare!
Conclusioni sulla dieta in definizione
Come visto, le strategie sono distanti tra loro, ma il risultato finale è lo stesso e non c’è, effettivamente, un meglio o un peggio. Da cosa dipende, quindi, la scelta? In entrambe le metodologie proposte per la seconda fase c’è un senso, dei pro e dei contro. C’è però un grande elemento che non è stato considerato: la volontà. Se una strategia non piace sarà difficile perseverare. Preferisci allenarti o mangiare di più? O preferisci allenarti di meno pur di evitare il cardio?
Ad ognuno il suo, gli strumenti ci sono per tutti.
Ricordati di:
Creare un deficit calorico,
Fare ricariche anche di 1-2 settimane quando il deficit calorico non porta più risultati,
Scegliere se tagliare principalmente carboidrati o grassi,
Scegliere se creare il deficit principalmente con la dieta o con un aiuto cospicuo dell’allenamento/cardio.
Approfondisci l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, con la nostra guida gratuita per cominciare a farti delle solide basi su cui poi approfondire:
Ci sono volte in cui la mattina, appena sveglie ci guardiamo allo specchio e ci vediamo in un modo, poi, la sera, ripetiamo lo stesso gesto e ci sembra di essere diverse. Dopo una giornata di lavoro sempre in piedi o sempre sedute, dopo una giornata in cui abbiamo corso a destra e a sinistra per i figli, per il lavoro, per le attività quotidiane ci ritroviamo a sera con una sensazione di pesantezza, stanchezza e gonfiore.
Molto probabilmente se stai leggendo questo articolo ti ritrovi in questa reale descrizione di vita vissuta, quindi sappi che non sei l’ unica. Quella che sperimenti è molto probabilmente ritenzione idrica, fenomeno fisiologico checolpisce TUTTE le donne, con livelli di “gravita’” differenti. Vediamo di capire nel dettaglio che cosa è e perchè viene.
Che cos’è la ritenzione idrica?
La prima cosa da dire è che la ritenzione idrica NON è la cellulite. Spesso e volentieri si confondono i due fenomeni, ma sebbene spesso e volentieri siano associati e abbiano delle cause in comune, NON sono la stessa cosa.
Per “ritenzione” si intende in medicina la ridotta o la mancata eliminazione di sostanze che normalmente il nostro corpo dovrebbe eliminare, mentre per “idrica” si intende appunto l’ acqua.
Detto ciò, la ritenzione idrica si può definire come la tendenza del corpo ad accumulare liquidi negli spazi interstiziali, ovvero gli spazi tra le cellule.
È importante ricordare che ci sono casi in cui la ritenzione idrica ha origini patologiche: problemi cardiovascolari, renali, epatici, tiroidei o al sistema linfatico possono portare alla formazione di un edema, cioè ad un accumulo di acqua.
In questi casi è opportuno consultarsi con uno specialista, perchè l’ edema causato da patologie ha rischi e implicazioni diverse dalla fisiologica e normale ritenzione idrica che possono avere le donne sane.
Cause della ritenzione
La ritenzione idrica è un fenomeno multifattoriale, e per tale ragione le cause sono molteplici. È difficile dire sempre quale sia la causa che più contribuisce alla sua formazione, ma sicuramente l’ aspetto ormonale e la tua genetica hanno un peso notevole sulla sua formazione.
Modificazioni dello stile di vita e la stessa vita quotidiana possono essere cause indirette del problema, perchè portano a un’ alterazione dell’ equilibrio ormonale determinando la ritenzione. Gli ormoni che hanno un ruolo nella sua formazione sono quelli femminili (estrogeni e progesterone), aldosterone e antidiuretico (responsabili del controllo dei fluidi nel corpo), cortisolo e insulina.
Per quanto riguarda la genetica, sappi che avere un biotipo ginoide (fisico a pera) ti predispone di più ad avere cellulite e ritenzione idrica a livello degli arti inferiori rispetto a chi ha un fisico androide (a mela).
In ogni caso comunque, avere uno stile di vita sedentario e un’ alimentazione sbilanciata peggiorano o possono avere un ruolo preponderante nella formazione della ritenzione. Per favorire infatti la circolazione ed evitare stasi di liquidi è necessario attivare i muscoli.
La contrazione muscolare ha un’ azione di pompa sul sistema venoso e linfatico e spinge il sangue verso il cuore. Questo favorisce lo scambio delle sostanze, l’ eliminazione delle tossine ed evita il ristagno dei liquidi nei punti critici.
Qui di seguito sono analizzate alcune delle cause più comuni della ritenzione, anche se, come già detto, il motivo reale è un’alterazione dell’ equilibrio ormonale.
– Da stress
Per stress si intende qualsiasi causa che, se prolungata nel tempo, determina un danno al nostro organismo. Le fonti di stress sono molteplici, e possono essere sia di tipo psicologico che fisico: allenamento, lavoro, un lutto, malattie. Benchè gli stimoli possano essere diversi, tutti possono aumentare il cortisolo, che è un ormone prodotto dal surrene.
In condizione normali ha effetti positivi sul corpo perchè funge da antinfiammatorio, ma se prodotto in eccesso ha diverse conseguenze, tra cui quella di aumentare la ritenzione dei liquidi.
– Da pillola
Sul tema dei contraccettivi ormonali ci sono molti luoghi comuni da sfatare. La ricerca scientifica ad oggi non ha trovato una correlazione diretta e scientificamente provata tra assunzione di pillola e aumento di peso, anche se ci sono casi in cui il contraccettivo può portare ad un aumento della ritenzione di liquidi.
Generalmente questo aspetto è temporaneo, e può capitare nei primi mesi di assunzione del farmaco. Sicuramente se l’ aumento di peso dovuto ad accumulo di liquidi è ingente, allora è meglio valutare la terapia con il proprio ginecologo, perchè potrebbe essere che la pillola che stai prendendo abbia un dosaggio ormonale non adatto a te.
Il motivo per cui i contraccettivi ormonali possono portare ad un aumento della ritenzione è dato dagli ormoni femminili che contengono.
Si sa infatti che estrogeni e progesterone hanno un effetto sia sul senso di fame che sulla ritenzione dei liquidi. Non è un caso che il senso di gonfiore che possiamo provare nella quotidianità dipenda anche dalla fase del ciclo mestruale in cui ci troviamo.
– Da farmaci
Purtroppo alcuni farmaci ci aiutano a trattare alcune patologie, ma hanno come effetto collaterale quello di aumentare il ristagno di liquidi.
Tra questi ricordo i farmaci anticoncezionali, quelli ipotensivi, gli antinfiammatori (come i cortisonici) e quelli a base ormonale.
Tutte queste sostanze possono alterare l’ equilibrio ormonale determinando ritenzione.
Sicuramente un farmaco noto per il suo effetto gonfiante è il cortisone, un ormone facente parte della famiglia dei glucocorticoidi e, come il cortisolo, è prodotto dai surreni.
È utilizzato come antinfiammatorio per alleviare i dolori di molte patologie, e tra i suoi effetti collaterali c’è la ritenzione idrica.
Questa può essere causata da diverse variabili: alterazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone, aumento del senso di fame dovuto al farmaco che può portare ad un aumento di peso e quindi alla ritenzione.
Generalmente questo effetto si sperimenta nel momento in cui se ne fa un uso prolungato. Per contrastare l’ effetto di questa famiglia di farmaci si consiglia di ridurre la quantità di sale.
Sintomi ritenzione idrica
Tra i sintomi più comuni della ritenzione si ha ovviamente una sensazione di pesantezza, stanchezza e gonfiore generalmente localizzati a livello degli arti inferiori, braccia, addome e in alcuni casi anche in viso.
Per poter valutare se si è in presenza o meno di accumulo di liquidi si può far un piccolo test: affonda le dita per qualche secondo nella zona che senti gonfia. Se nel momento in cui togli la pressione si forma sulla cute una fossetta, allora hai ritenzione. Sicuramente le gambe e le caviglie sono la parte più soggetta al problema e in alcuni casi sono anche accompagnate dalla cellulite e quindi dalla “buccia d’arancia”.
Come già detto cellulite e ritenzione sono due fenomeni distinti, ma spesso e volentieri si accompagnano, dato che in entrambi i casi c’è uno squilibrio ormonale e un malfunzionamento del microcircolo.
Rimedi per combattere la ritenzione idrica: cosa fare?
Tralasciando i casi in cui la ritenzione idrica nasce da patologie, essa rimane un fenomeno normale e fisiologico, per cui è irreale dire che si possa eliminare definitivamente.
Fluttuazioni ormonali, stress della vita quotidiana, posizione statiche da seduta o in piedi mantenute per lungo tempo e l’ allenamento possono determinarla e variare il nostro senso di gonfiore anche nell’ arco della stessa giornata.
Fortunatamente però è possibile contenerla adottando alcuni accorgimenti modificabili che fanno parte della nostra quotidianità.
Ecco di seguito alcuni consigli su come un cambiamento del nostro stile di vita possa dare benefici al gonfiore degli arti inferiori.
– Dieta: cosa mangiare?
Al momento non esiste una dieta apposita o degli alimenti per la ritenzione idrica e la cellulite, ma studi dimostrano che una dieta ricca di grassi saturi e cibi industriali peggiora entrambi gli inestetismi.
Il discorso è sempre lo stesso: dieta varia ed equilibrio dei macronutrienti.
Al momento la ricerca scientifica è d’ accordo sul fatto che la dieta più efficace per prevenire le malattie cardiovascolari e metaboliche sia quella mediterranea, che può essere facilmente applicabile attraverso il metododel piatto. Questo significa che in ogni pasto che fai comprendi sempre i tre macronutrienti (carboidrati, proteine e grassi buoni) in proporzione equilibrata.
Conta che nella dieta mediterranea la suddivisione dei nutrienti è di 55-60% carboidrati, 25-35% grassi e 10-15% proteine. Ora ti starai chiedendo cosa c’entra questo con la ritenzione idrica. La risposta è semplice: la ricerca ha evidenziato che una mancanza di micronutrienti e un apporto insufficiente di proteine aumenta la ritenzione di liquidi nel corpo. È per questa ragione che tenere la proporzione giusta tra i macros è una strategia vincente se vuoi gestire la ritenzione.
Inoltre la dieta mediterranea è ricca di cibi antiossidanti e antinfiammatori. Ricorda che un corpo in salute è un corpo che non è infiammato, e questo non può che avere benefici in termini di ritenzione idrica. Non escludere o ridurre i grassi buoni (mono-polinsaturi) dalla tua dieta, perchè è a partire da questi ultimi che si formano molti ormoni.
La ritenzione idrica purtroppo o per fortuna è molto sensibile alle variazioni del nostro sistema ormonale. Garantire un sistema ormonale efficiente e funzionante è uno dei modi migliori che hai per gestire la ritenzione. Per quanto riguarda i carboidrati, limita quelli semplici e prediligi i complessi con un basso indice glicemico (pasta integrale, pane integrale e riso integrale, cereali complessi).
Questo perchè si è visto che gli sbalzi insulinici possono causare o peggiorare la ritenzione dei liquidi. Infine, se leggi in internet sicuramente troverai molti articoli che parlano di cibi “drenanti”, ovvero cibi che hanno un effetto diuretico che può aiutare ad eliminare i liquidi in eccesso (cetrioli, anguria, melone, ananas, broccoli, asparagi, etc).
Anche se questi alimenti possono avere un effetto drenante maggiore di altri, ha più senso concentrarsi sulle proporzioni, sulla qualità e sulla quantità dei macros piuttosto che i singoli alimenti, perchè al momento non esistono prove scientifiche che attestino l’ esistenza di cibi anti-ritenzione e anti-cellulite. Per queste ragioni, prediligi cibi freschi, variali in base alla loro stagionalità e cucinali con cotture semplici, evita il più possibile cibi preconfezionati e industriali.
– Quanto bere?
Sicuramente se soffri di ritenzione un aspetto molto importante da tenere in considerazione è l’ idratazione.
Secondo l’EFSA (European Food Safety Authority) la quantità di acqua che dovrebbe bere una donna adulta dovrebbe essere attorno ai 2 L al giorno, anche se esistono delle formule che calcolano il fabbisogno in base al peso.
Questo dato può variare ulteriormente in relazione alla temperatura, all’ attività fisica o alla presenza di condizioni particolari che determinano disidratazione (diarrea, vomito, stress).
Oltre alla quantità di acqua introdotta è bene considerare anche il rapporto che questa ha con il sodio, perchè il bilancio idrico è in stretto collegamento con quello elettrolitico.
Il sale infatti non va eliminato dalla dieta: un suo eccesso o una sua carenza portano UGUALMENTE alla ritenzione idrica. Secondo l’ OMS la dose di sodio giornalieroraccomandato è di circa 2 gr, che corrispondono a circa 5 gr di sale.
Sulla base di queste considerazioni, valuta quanto sale (e quindi sodio) introduci giornalmente. Conta che molto probabilmente dovrai ridimensionare il sale che introduci perchè molti alimenti che consumiamo già lo contengono (per esempio il pane, formaggi, biscotti secchi, la stessa acqua che bevi, etc).
– Quali esercizi fare?
Come per l’ alimentazione, anche in questo caso NON esistono esercizi anti-ritenzione.
La prima cosa da fare per contrastarla è MUOVERSI, mentre una cosa da non fare per non peggiorare lo stato di gonfiore o di infiammazione è allenare solo gli arti inferiori o lavorare sempre e solo ad esaurimento, producendo grandi quantità di acido lattico.
Anche fare sempre e solo cardio è controproducente, perchè aumenteresti molto i livelli di cortisolo. Entrambe le condizioni ti conducono ad un peggioramento della tua condizione di partenza, a maggior ragione se geneticamente sei predisposta ad avere ritenzione (biotipo ginoide, fisico a “pera”). Per queste ragioni, le linee guida generali da seguire sono le seguenti:
sfrutta ogni momento della quotidianità per muoverti ed evita posizioni statiche prolungate in piedi o seduta. La contrazione muscolare data dal movimento infatti permette di attivare le pompe venose che portano il sangue e la linfa dalla periferia al centro;
prediligi l’ attività con i pesilavorando in buffer per non arrivare all’ esaurimento. Questo vuol dire lasciare un margine tra il numero di ripetizioni che fai e quelle che riusciresti realmente a fare, limitando i lavori troppo lattacidi;
focalizzati prevalentemente sulla catena cinetica posteriore con esercizi mono e multiarticolari che siano stimolanti ai fini della crescita muscolare (stacchi, hip thrust, leg curl etc);
prediligi metodiche di allenamento che favoriscano la circolazione del sangue in distretti lontani tra loro come il metodo PHA (Peripherial Heart Action) e l’ AAS (Anaerobic Aerobic System);
a fine allenamento fai sempre dello stretching con e senza foam roller e rimani qualche minuto in posizione di stretching globale (schiena a terra, gambe unite e tese appoggiate al muro). Questa posizione favorisce il ritorno venoso dalla periferia al centro ed è utile mantenerla anche la sera dopo un’ intensa giornata di lavoro.
In commercio troverai una grande quantità di creme, prodotti e integratori che promettono di “curare” la cellulite.
Al momento non esistono evidenze scientifiche forti che dimostrino la reale efficacia delle creme anticellulite, ma la ricerca prova che alcune sostanze fitoterapiche possono dare benefici in fatto di gonfiore.
Alcuni esempi sono la Centella Asiatica, la Bromelina, la Vitis Vinifera, il Ginkgo Biloba e l’ Ippocastano. Tutti questi prodotti si trovano sotto forma di creme, gel, gocce o compresse e hanno proprietà antinfiammatorie, antiossidanti e antiedemiche. Per trattare la ritenzione risultano essere molto efficaci, anche se a breve termine, trattamenti come la massoterapia, il linfodrenaggio, il linfotaping e la pressoterapia. Tutte questi trattamenti fisioterapici agiscono a livello circolatorio e linfatico favorendo la microcircolazione e quindi lo smaltimento dei liquidi in eccesso.
Conclusioni sulla ritenzione idrica
La ritenzione idrica è un fenomeno fisiologico che accompagna TUTTE le donne nel corso della giornata e della vita: genetica, stress, ormoni, allenamento, dieta, farmaci e la vita quotidiana in sè la causano in forme più o meno pronunciate a seconda del soggetto.
Per queste ragioni NON è possibile eliminarla definitivamente. Sicuramente le armi migliori che hai per prevenirla e gestirla sono quelle di alimentarti in modo equilibrato sia per quanto riguarda la quantità che la qualità dei cibi che scegli, mantenerti attiva e normopeso, bere almeno 2 L di acqua al giorno ed eventualmente aiutarti con trattamenti fisioterapici o integratori che ne supportino la gestione.
Note sull’autrice
Dott.ssa Chiara Fezzardi
Mi chiamo Chiara Fezzardi, ho 28 anni e lavoro come PT e insegnante di Pilates a Brescia. Sono laureata magistrale presso l’ Università di Scienze Motorie a Milano e ho frequentato corsi di formazione con diverse scuole (FIF, SFSM, Power Pilates). Amo muovermi, ridere, viaggiare, leggere e aiuto le persone a migliorare il loro benessere e a riscoprire il loro potenziale fisico e mentale.”
Questo articolo è una guida pratica sulla dieta del gruppo sanguigno 0 per capire cos’è, cosa mangiare, cosa evitare e se fa dimagrire. Se vuoi avere una visione più completa, clicca su questa guida alla dieta del gruppo sanguigno, altrimenti qui troverai nello specifico come applicarla al gruppo 0.
Nella dieta dei gruppi sanguigni si tende a suddividere gli alimenti in:
Positivi: quelli col semaforo verde, che puoi mangiare liberamente.
Neutri: quelli col semaforo giallo, a seconda della persona ci può essere una tollerabilità più o meno alta.
Negativi: quelli col semaforo rosso, da evitare per chi ha quel gruppo sanguigno.
Attenzione che anche per gli alimenti positivi non è consentito mangiarne in grandi quantità: l’assunzione di cibo deve essere sempre moderata e mai eccessiva.
Partendo da questi presupposti, questo approccio nutrizionale non farà mai ingrassare ed anzi facilmente porterà le persone a perdere peso. In tal senso lo stile alimentare basato sul gruppo sanguigno è facilmente una dieta dimagrante, almeno nel primo periodo.
Questo avviene perchè se restringi le categorie d’alimenti, in generale senti prima il senso di sazietà. Basandosi poi sulla qualità degli alimenti, poco densi caloricamente e ricchi di micronutrienti, sarà facile riempire lo stomaco senza introdurre eccessive calorie.
È facile così trovarsi bene nel seguire questo approccio alimentare, ma le ragioni scientifiche non sono quelle esposte da D’Adamo o dal Dr. Mozzi.
Cos’è la dieta del gruppo sanguigno 0? Come funziona?
“Le persone con gruppo sanguigno di tipo 0, stanno bene seguendo una dieta ricca di proteine animali e un programma di attività fisica intensa (…) non tollerano bene i prodotti caseari e i cereali”. (Peter D’Adamo).
Il gruppo 0 è quello più vicino agli antenati cacciatori-raccoglitori ed ha una predilezione per tutti i cibi che la natura offre, senza l’intervento dell’uomo (agricoltura e pastorizia).
Non è necessario contare le calorie o tracciare i macronutrienti: mangia quando avverti lo stimolo della fame e mastica lentamente e bene. Il motivo è sempre lo stesso: eliminando tutti i prodotti lavorati e i cereali si abbassa automaticamente il consumo alimentare di zuccheri, farine e grassi e, dunque l’apporto calorico giornaliero.
Tuttavia, il Dottor Mozzi sottolinea che è sconsigliato consumare pasti abbondanti, soprattutto di sera (questa indicazione aiuta le persone a mangiar meno nelle 24h, in maniera più controllata, e questo si traduce poi in un miglioramento, spesso, della composizione corporea).
Il consiglio di mangiare principalmente proteine e verdure aiuta a tenere sotto controllo l’introito energetico, facilitando il perdere peso (è un po’ il principio delle diete proteiche). Mozzi consiglia anche di non bere durante i pasti ma 2-3h prima. Questo suggerimento è frutto di un vecchio mito alimentare per cui l’acqua diluisce i succhi gastrici. In realtà il nostro stomaco richiama naturalmente acqua al suo interno per scomporre gli alimenti attraverso l’idrolisi.
Durante i pasti non dobbiamo bere eccessivamente ma neanche limitarci se abbiamo sete.
L’ultimo consiglio sull’acqua è quella di berla tiepida appena alzati e di fare colazione solo dopo un’ora (ovviamente di scientifico non c’è niente).
Qui di seguito trovi una tabella con i cibi e quante volte conviene mangiarli a settimana:
Secondi piatti e proteine
Carne
3-7 volte a settimana
Pesce
3-7 volte a settimana
Uova
2-5 uova a settimana
Formaggi
1 volta a settimana (meglio evitarli)
Legumi
2-4 volte a settimana
Semi oleosi
Anche tutti i giorni ma in quantità moderate (sono molto calorici)
La dieta del gruppo sanguigno 0: cosa mangiare?
Come scritto sopra la dieta del gruppo sanguigno non si basa sulla quantità (anche se si raccomanda sempre di non esagerare) ma sulla qualità degli alimenti. Qui sotto trovi degli esempi di alimenti per pranzo e per cena, a seconda delle combinazioni consigliate.
Esempio di pranzo e cena (per tutte le stagioni)
Quinoa con un po’ di carne bianca e carote crude.
Miglio o quinoa o riso con cipolle e zucchine bollite.
Insalata di riso con ovo alla coque.
Risotto ai carciofi, poca carne bianca e radicchio.
Carne rossa ai ferri con carciofi.
Merluzzo ai ferri con asparagi e riso.
Uova strapazzate ed erbette.
Alimenti da evitare nella dieta del gruppo sanguigno 0
Per ogni categoria di alimenti (carne, pesce, oli, latte e derivati, legumi, ecc.) la dieta del gruppo sanguigno prevede degli alimenti da consumare, altri neutri e altri ancora da evitare.
Carne
La carne rossa non combinarla con cereali o latticini ma è consigliato farlo con verdura e frutta. Il Dottor Mozzi ritiene valida anche la carne cruda di vitello, manzo e cavallo. Per il gruppo di cacciatori raccoglitori, ovviamente questo alimento sarà ben presente, ma sempre di qualità.
Carne
Benefici
Agnello, Bresaola di manzo e di cavallo (ma senza lattosio o altri additivi), carne seca, capretto, capriolo, cavallo, cuore e fegato (non di maiale), manzo, montone, vitello
Cinghiale, maiale (carne e salumi, soprattutto se affumicati, tipo speck), oca, qualsiasi tipo di carne affumicata
Pesce, molluschi e affini
Il pesce in scatola è meglio al naturale mentre evitare il pesce fritto, impanato o affumicato oltre alla combinazione pesce-latticini. Il dottor Mozzi ritiene valido anche il pesce crudo. La semplicità con cui cuociamo gli alimenti è da prediligere rispetto alla loro lavorazione.
Acciuga, anguilla, aragosta, calamaro, carpa, cernia, coregone, cozze, gambero, granchio, lumache di terra, orata, ostrica, pangasio, passera di mare, rane, spigola o branzino, tonno, triglia, trota salmonata, vongole
Sconsigliati
Aringa affumicata o in salamoia, caviale, palombo, pesce gatto, polpo, salmone affumicato, seppia
Latte e derivati
Meglio evitarli del tutto (anche quelli inseriti nella categoria “neutri”). Una delle critiche che si muove alla dieta del gruppo sanguigno è che il gruppo 0 dovrebbe avere la più alta % d’intolleranti al latte, invece, non è affatto così. Pertanto, non c’è correlazione tra essere o meno intolleranti ed il gruppo sanguigno.
Latte e derivati
Neutri
Feta (formaggio fresco di capra e pecora tipo greco), formaggio di capra, mozzarella di latte vaccino e di bufala
Sconsigliati
Tutti gli altri latticini. Attenzione ai latticini grassi e stagionati ma anche a quelli teneri e molli; soprattutto a latte, yogurt e gelati
Soia e derivati
Non ci sono alimenti benefici ma nemmeno dannosi a prescindere. In questo caso è sempre meglio verificare se la soia è ben tollerata.
Uova
La quantità delle uova consigliate alla settimana è una delle pochissime cose che mi potrebbe piacere di questa dieta. Non vi sono limiti. Se vuoi approfondire leggi il nostro articolo su quante uova puoi mangiare a settimana.
Oli e grassi
Olio e burro si consiglia di consumarli crudi, utilizzandoli direttamente nel piatto; evitare di cuocerli o friggerli e non eccedere nell’uso.
Oli e grassi
Benefici
Olio di vinacciolo (semi di uva), olio di lino, olio di riso, olio di semi di zucca
Neutri
Burro (meglio d’inverno, poco e crudo, mai fritto), olio di fegato di merluzzo, olio di sesamo, olio di girasole, olio di semi di canapa, olio extravergine d’oliva, olio di oliva, olio di soia
Sconsigliati
Olio di arachidi, olio di mais
Semi e frutta secca
Non abbinare le castagne a cereali e latticini. Evitarle durante l’estate. Chi riscontrasse qualche problema di digestione delle mandorle, può provare le mandorle sbucciate. Non eccedere nel consumo di noci e non mangiarle d’estate. Questi sono i tre consigli principali sulla frutta secca.
Semi e frutta secca
Benefici
Noci e semi di zucca
Neutri
Castagne, mandorle, nocciole, noci di Macadamia, noci Pecan, pinoli, semi di canapa, semi di sesamo, semi di girasole, burro di mandorle, burro di nocciole, burro di sesamo; usare questi tipi di burro con moderazione
Sconsigliati
Anacardi, arachidi, burro di arachidi, noci del Brasile, pistacchi, semi di papavero
Legumi
Non combinare i legumi con latticini, frutta e cereali, ma meglio combinarli con carne, pesce, uova e verdure. Anche se i legumi non facevano parte dell’alimentazione dell’uomo preistorico, il gruppo 0, a seconda del tipo può mangiarli.
Legumi
Benefici
Azuki (soia rossa), fagioli dell’occhio
Neutri
Borlotti freschi, ceci, cicerchie, fagioli cannellini, fagioli neri e rossi, fagiolini, fave, lupini, piselli, soia gialla e verde, taccole (piselli col baccello)
Sconsigliati
Borlotti secchi, fagioli bianchi di Spagna, lenticchie e lenticchie rosse
Cereali e simili
Evitare a cena i farinacei e i cereali, soprattutto con l’avanzare dell’età(?); tendono ad alzare il colesterolo, la glicemia, la pressione e il peso (!). Ovviamente non è vero ma sono affermazioni di Mozzi per il gruppo zero.
Fare attenzione che gallette o cracker di quinoa, di riso e miglio o di grano saraceno non contengano zucchero. Evitare il grano saraceno d’estate. Pane di riso, di miglio, di quinoa o di grano saraceno, possono essere utilizzare ma in piccole quantità. La polenta di grano saraceno, di miglio o di farina di castagne può essere consumata, in piccole quantità e non d’estate.
Non consumare il riso con vino, pomodoro, limone e zucca. Molto probabilmente, la maggior parte delle diete per gli individui con gruppo sanguigno 0, sarà una low carb se non addirittura una chetogenica.
Cereali e simili
Neutri
Amaranto, grano saraceno, miglio, quinoa, riso, farina di riso, tapioca
Sconsigliati
Avena, crusca di grano e germe di grano, couscous, farro, fecola di patate, frumento (farina di frumento duro e tenero, pane e pasta), kamut, mais, amido di mais, pop corn, orzo, orzo perlato, segale e pane di segale, seitan, semola di grano duro
Alimenti che non contengono glutine
Mozzi fa differenza tra gli alimenti che contengono glutine e quelli senza glutine (il glutine deve essere evitato a prescindere), e tra quelli senza glutine stila una “classifica” dei migliori.
La sua spiegazione è che alcuni non sono “veri cereali” e per questo sono più adatti rispetto a quelli che sono “veri cereali” come il riso o il miglio (vedi appendice). Se vuoi approfondire l’argomento dai un’occhiata a questo articolo: cos’è il glutine.
Alimenti che non contengono glutine
Più validi
Quinoa
Grano saraceno
Amaranto
Patate dolci bianche e rosse
Meno validi
Miglio
riso
Ortaggi
Si consigliano le colture biologiche. Evita l’aglio se hai infiammazioni all’apparato digerente. Evita carciofo, lattuga, spinaci se è stata asportata la cistifellea. Con l’avanzare dell’età evitare la cipolla in quanto potrebbero esserci problemi a digerirla. Evita di consumare i funghi impanati e fritti. Inoltre, non consumare funghi se hai problemi al fegato, consumali in piccole quantità. Evitare gli eccessi di prezzemolo, utilizzarlo crudo e non in gravidanza.
Ortaggi
Benefici
Alghe marine, bietole (erbette e coste), broccoli, carciofi, cavolo verza, cicoria, cipolla, pastinaca, patate dolci “americane), porro, spinaci, tarassaco (magari si guarisce anche dai tumori), zucca
Cavolgiore, cavolini di Bruxelles, cavolo rosso, champignon, mais in chicchi, melanzana, olive nere, patata
Frutta
Quale frutta mangiare?
Si consiglia l’uso di frutta biologica di stagione, preferibilmente d’estate. Consumare la frutta da sola o in pasti a base di carne, pesce, uova o semi oleosi. Consuma la frutta in quantità moderate in quanto potrebbe essere causa di problemi articolari (?).
Consuma le marmellate da sole come spuntino o abbinale a proteine, ma evita la combinazione con cereali e farinacei. Inoltre, controlla che non contengano zuccheri aggiunti. La frutta secca zuccherina (prugne, fichi, uvetta, datteri, ecc.): controllare che non sia trattata e non ci sia aggiunta di zuccheri. Consumarla in piccole quantità. Evitare i succhi, in inverno.
Alloro, aneto, anice, basilico, bergamotto, cerfoglio, chodi di garofano, coriandolo, cumino, dragoncello, erba cipollina, finocchio, lievito di birra, menta, miso di soia, paprika, pepe nero, peperoncino, rosmarino, salvia, sale (non eccedere nell’uso), santoreggia, senape senza aceto, tamari (salsa di soia)
Sconsigliati
Aceto (balsamico, di mele e di vino bianco e rosso), ketchup, glutammato, noce moscata, pepe bianco, senape con aceto, vaniglia
Bevande
È preferibile bere l’acqua di cottura delle verdure ben calda, prima dei pasti. Evitare il vino di sera. Si può utilizzare al posto dell’olio per cucinare.
Succhi (consumarli raramente)
Benefici
Ananas, ciliegia, prugna
Neutri
Albicocca, mirtilli, pompelmo, uva
Sconsigliati
Arancia, mela
Dolci nella dieta del gruppo sanguigno 0
In tutta questa lunga lista di alimenti, la voce dolci proprio non compare… Ma mettendo insieme gli elementi è proprio facile intuire come non siano (a malincuore!) cibi contemplati all’interno di questa dieta: niente latte e derivati, olio e burri da assumere crudi, no ai farinacei… Insomma, tutti gli ingredienti per una buona torta non ci sono! Sta all’ingegno di chi intraprende questa dieta ideare una ricetta per un dolce (o una parvenza di dolce) con solo gli alimenti consentiti!
Dimagrire con la dieta del gruppo sanguigno 0
Perdere peso con la dieta del gruppo sanguigno è possibile… Allo stesso modo di ogni altra dieta ipocalorica.
Tutte le diete che fanno dimagrire davvero sono ipocaloriche: è questo il vero segreto del loro funzionamento! Non l’esclusione di alimenti, non precise combinazioni di cibi, non determinati orari in cui mangiare o altri parametri ancora più fantasiosi.
Dare dei “paletti” che inducono a mangiare cibi poco densamente energetici e comunque salutari come possono essere questi della dieta del gruppo sanguigno è una strategia per assicurare che il soggetto mangi effettivamente meno di quello che gli serve e, quindi, per la perdita di peso.
Ognuno è libero di scegliere la strategia che preferisce a seconda di come si trova meglio, l’importante è essere consapevoli, come ad esempio non sostenere la scientificità di questo tipo di dieta o che il merito del dimagrimento è il non mangiare le arance, le patate, i farinacei, ecc.
Ti trovi bene con questa dieta perché sei soddisfatto, mangi cosa ti piace e ottieni risultati? Perfetto, continua così. Ci sono troppe regole, non hai risultati? Trova un’altra strada.
Esempio di colazione nella dieta del gruppo sanguigno 0
Le linee guida della dieta del gruppo sanguigno prevedono un’attenzione alla stagionalità: trovi, quindi, due diversi elenchi di esempi per la colazione, a seconda della stagione.
Esempio di colazione in estate e autunno
Prugne (ben mature) con 5-6 mandorle.
Fichi con un po’ di carne ai ferri.
Pane di grano saraceno e olio con un caffè di cicoria non zuccherato.
Riso bianco alle verdure e prezzemolo con tacchino.
Carne ai ferri con zucchine stufate.
Uova strapazzate con patate dolci e caffè di cicoria.
Omelette con marmellata di frutta consentita e caffè di cicoria.
Esempio di colazione in inverno e primavera
Quinoa ben calda con uovo strapazzato e caffè di cicoria.
Farinata di ceci con sopra pinoli e caffè di cicoria.
Ceci o fagioli cannellini con tonno o sgombri.
Carne di manzo o vitello ai ferri con spinaci o carciofi.
Pollo o tacchino ai ferri con erbette.
Dieta del gruppo sanguigno 0: positivo vs negativo
Tutti i gruppi sanguigni (0, A e B nelle varie combinazioni) sono a loro volta divisi tra quelli negativi e quelli positivi: puoi essere così, in questo caso, 0 positivo o 0 negativo, a seconda della presenza o assenza di una molecola nel sangue.
Se dal punto di vista sanguigno questa differenza è fondamentale da considerare (ad esempio per le trasfusioni), da quello dietetico non è così: non si riscontrano differenze se non soggettive ed individuali tra il gruppo sanguigno zero rh positivo o zero rh negativo.
Conclusioni sulla dieta del gruppo sanguigno 0
Questa dieta è praticamente una paleo dieta un po’ più flessibile. Hai a disposizione alcuni legumi e cereali e non devi per forza mangiare alimenti che possono essere mangiati crudi (come in alcuni stili Paleo). In compenso c’è tutta la parte delle combinazioni alimentari, delle stagioni, che vanno inutilmente a complicare l’approccio alimentare.
Lo stile basato sul gruppo zero dei cacciatori/raccoglitori si basa sul mangiare un buon quantitativo di proteine derivanti da pesce e carne magre, sempre compensato da frutta e verdura. Si consiglia di limitare o evitare tutte le carni lavorate, i latticini e buona parte dei cereali. Il glutine è assolutamente evitato anche se, come sappiamo il glutine non è per nulla dannoso su soggetti sani. Devi poi limitare gli alimenti contenenti solanina, il caffè e le bibite zuccherate o frizzanti.
In definitiva questo approccio alimentare ha una prevalenza di cibi a basso indice glicemico, che apportano un buon senso di sazietà ed un buon contenuto di micronutrienti (vitamine e minerali). Le controindicazioni principali sono che è sicuramente difficile da seguire in contesti sociali (feste o cene) e che richiede un contributo economico importante nell’acquistare gli alimenti.
Lo streetlifting è una disciplina sportiva (derivante dalla ginnastica, allenamento corpo libero e calisthenic senza skills) che comprende principalmente due esercizi: dip e trazioni. È uno sport di forza e -neanche a dirlo- ha origine ai tempi dell’URSS che, al fine di promuovere uno stile di vita sano, installò nei parchi sbarre e parallele.
Ad oggi la competizione consiste in un’alzata con il massimo carico possibile (forza massimale) oppure nell’eseguire più ripetizioni con un determinato peso (forza metabolica o resistente).
Esistono gare che prevedono anche muscle up e squat, avendo la possibilità quindi di rendere l’allenamento del corpo più completo.
Come allenarsi nello streetlifting
Per iniziare a praticarlo basta davvero poco, una sbarra per trazioni e parallele si trovano a poco prezzo e ormai anche in Italia esistono molti parchi attrezzati.
Ciononostante, si possono usare vari esercizi di forza e muscolazione e avere più strumenti (anelli ma anche bilancieri e manubri) è utile per completare l’allenamento.
Passiamo dunque a ciò che ci interessa davvero, come allenarsi in stile streetlifting?
Il campione russo Pavel Nikolaevich Putenyov propone un allenamento base che riporto in parte qui sotto alternato gli allenamenti 3-4 volte a settimana.
Giorno A
Pull up 1x5rm
Pull up 3×5 con 10% in meno rispetto al 5rm
Rematore con bilanciere 3×10 (potete cambiarlo con altre trazioni con diverse prese o con i body row)
Curl con bilanciere 3×10
Presa dischi 2x max Plank addominali 2×1-2min
Giorno B
Dip 1x5rm
Dip 3×5 con 10% in meno rispetto al 5rm
Panca piana 3×10 (potete sostituirla con piegamenti in verticale o military press)
Estensioni tricipiti su panca 3x max
Tenuta alla sbarra 2x max
Barchetta 2×1-2 min
Questo rappresenta ovviamente solo un esempio di allenamento e gli esercizi possono essere sostituiti con ciò che si ha a disposizione e puoi inserire esercizi per le gambe come squat, stacchi, affondi, pistol, ecc.
I metodi di allenamento così come le progressioni che si possono fare sono infinite, ma essendo uno sport di forza il mio consiglio è di alternare fasi di maggior volume con fasi di maggior intensità.
Conclusioni
Come si può ben notare, lo streetlifting è molto simile al calisthenics, ciò che lo distingue è la mancanza delle skills e che in un allenamento completo si fa ampio uso di esercizi aspecifici con bilancieri e manubri. È sicuramente adatto per tutti coloro che vogliono un corpo forte e muscoloso, che amano il lavoro a corpo libero, ma non vogliono rinunciare alla ghisa.
Buon allenamento!
Note sull’autore
Alessio Mazza
Lavoro come Personal Trainer a Bologna, specializzato in allenamenti volti al miglioramento dello stato di forma e alla forza
L’epicondilite, detta anche “gomito del tennista”, è il più comune dolore muscolo-scheletrico da overuse che affligge l’articolazione del gomito, arrivando a interessare dall’1% al 3% della popolazione. Per iniziare a capire cos’è l’epicondilite, diciamo che essa consiste essenzialmente in una sindrome dolorosa dovuta generalmente ad una degenerazione del tendine e/o ad un sovraccarico funzionale dei muscoli epicondiloidei. Questi muscoli, localizzati nella regione laterale del gomito e dell’avambraccio, originano dall’epicondilo, si inseriscono sul polso e sulla mano ed hanno la funzione di estendere il polso e le dita.
È una condizione che affligge numerosi sportivi e lavoratori ogni anno, con sintomi al braccio che possono talvolta persistere, secondo la letteratura, anche per mesi o anni. Proprio per questa sua diffusione è da sempre protagonista di dibattiti riguardo alla sua cura, ai suoi sintomi e agli esercizi più efficaci per combatterla. Perchè avviene l’epicondilite? Quali sono le cause e i rimedi? Per quanto tempo può durare? Come si può gestire un allenamento in palestra in presenza di epicondilite? Cerchiamo ora di fare ordine a riguardo, così da aprire la strada ad un piano di trattamento efficace.
Cos’è l’epicondilite (o gomito del tennista)?
L’epicondilite (o “gomito del tennista”) è la principale causa di epicondialgia, ossia di dolore localizzato nella zona laterale del gomito. Questa viene chiamata anche “tendinopatia laterale del gomito”, ed è essenzialmente una tendinopatia inserzionale dei muscoli estensori del polso e delle dita, inseriti anatomicamente proprio a livello dell’epicondilo laterale dell’omero.
Come per tutte le tendinopatie che possono affliggere il corpo umano, le cause possono essere ricercate in uno squilibrio funzionale tra gli stress imposti sulle strutture tendinee e muscolari, e la capacità di recupero dei tessuti stessi. Tali stress sono dovuti ad una combinazione di forze tensive (generate dalla contrazione muscolare) e di forze compressive.
L’epicondilite colpisce più frequentemente l’arto dominante di soggetti tra i 35 e i 50 anni, (anche se è possibile riscontrarla in tutte le fasce di età) e si osserva sia in uomini che donne in egual misura. Nello specifico, ne soffrono maggiormente soggetti che svolgono attività sportive o lavori manuali ripetitivi (come elettricisti, musicisti, macellai, impiegati addetti ai videoterminali, operai addetti alle catene di montaggio…), attività e mestieri il cui comune denominatore è rappresentato da sforzi prolungati o ripetuti che comportano l’estensione del polso e delle dita e/o la rotazione del polso contro resistenza.
Nonostante il proprio nome (che scopriremo in seguito essere oramai obsoleto) questa patologia si riscontra spesso in sport come lo Squash, il Badminton, la Pallanuoto, il nuoto e sport di lancio vari.
Cause dell’epicondilite al gomito
Il dolore al gomito è generato da un sovraccarico funzionale eccessivo di questi muscoli impegnati nelle attività manuali lavorative e sportive nelle quali sono previsti movimenti ripetuti contro resistenza di estensione del polso e delle dita e rotazione dell’avambraccio (come per esempio quando si svita un bullone). In contesto fitness lo stress funzionale in questione può essere dato anche dagli esercizi nei quali è coinvolta in maniera determinante una presa.
La persistenza di tali forze stressanti e lesive per i tessuti interessati genera alla lunga alterazioni e degenerazioni tissutali che instaurano un circolo vizioso caratterizzato da dolore-immobilità-debolezza, il tutto amplificato anche da una possible ipersensibilità al dolore del sistema nervoso (specialmente nei casi di epicondilite cronica).
In particolare è stato osservato che un aumento repentino e poco graduale dello stress imposto sui tessuti tendinei è spesso il fattore che innesca i processi tendinopatici, per cui la colpa non è tanto della quantità di stress imposto, ma più della gradualità con la quale questo viene inserito (i tessuti tendinei hanno infatti necessità di un fisiologico tempo di recupero tra un’attività stressante e la successiva per poter adattarsi allo stimolo).
Nonostante la definizione di “epicondilite” lasci presupporre un quadro infiammatorio dei tendini interessati (il suffisso -ite richiama solitamente una natura patologica di tipo infiammatorio) è stato osservato come l’infiammazione non rappresenti il principale meccanismo patologico alla base di questa patologia, la cui causa risiede invece in fattori di natura degenerativa (brevi picchi infiammatori possono essere presenti in genere solamente nelle fasi iniziali del decorso).
Nell’epicondilite l’inserzione dei muscoli epicondiliari subisce un particolare sovvertimento della struttura tendinea, chiamato “degenerazione angiofibroblastica”, che comporta uno scompaginamento delle fibre collagene (che compongono il tendine) ed una progressiva sostituzione di queste con un tessuto cicatriziale ricco di vasi.
Da un punto di vista microscopico, il sovraccarico meccanico ripetitivo causato da forze tensive e compressive (nel caso di epicondilite le forze in gioco sono principalmente di tipo tensivo, generato dalla contrazione dei muscoli epicondiliari) causa un accumulo di macromolecole dette “proteoglicani” (molecole fortemente idrofile), che attraggono ad esse acqua, portando (insieme ad altri processi pato-degenerativi) al processo di degenerazione (o iperplasia) angiofibroblastica.
Tale fenomeno viene considerato un “dysrepair” (riparazione alterata) cellulare. L’aumento di proteoglicani attrae acqua dentro la matrice extracellulare (tra le fibre di collagene del tendine), la quale altera il collagene e i collegamenti fra i tenociti, provocandone una disorganizzazione spaziale. A questo meccanismo si aggiungono fenomeni di neovascolarizzazione (formazione di nuovi vasi sanguigni e nervi sensoriali): in sostanza, nuovi vasi sanguigni crescono in zone dove normalmente non sarebbero presenti, portando alla concomitante formazione di nuove fibre nervose sensoriali, in grado di trasmettere stimoli nocicettivi (dolorosi).
Questi nuovi vasi sanguigni prodotti in aree che normalmente sarebbero quasi avascolari non sono funzionali alla salute tendinea (sono definiti “iperpermeabili”, non sono cioè in grado di fornire ossigeno e sostanze nutritive necessarie per la riparazione e guarigione tendinea).
Altri processi patologici nei tessuti tendinei in questi casi sono la diffusione di aree di apoptosi (degenerazione) cellulare e l’aumento delle fibre collagene di tipo 3 (nella normalità i tendini sono composti prevalentemente da fibre collagene di tipo 1 con orientamento longitudinale, ottimali per la trasmissione di forza, mentre le fibre collagene di tipo 3 sono più disorganizzate e meno funzionali) con conseguente resistenza biomeccanica inferiore.
Fattori di rischio per l’epicondilite
I fattori di rischio osservati dalla letteratura per l’insorgenza di epicondilite sono i seguenti:
Maneggiare oggetti più pesanti di 1kg per diverse ore al giorno
Movimenti di polso in flesso-estensione e/o prono supinazione ripetitivi per più di 2 ore al giorno
Volume eccessivo di allenamento
Quantità o eccessive velocità di progressione del carico, cambiamenti improvvisi o rapidi in quantità o tipo di carico
Biomeccanica individuale (debolezza e/o alterazioni e squilibri muscolari, diminuzione della flessibilità)
Fisiologico invecchiamento
Alto BMI e ipercolesterolemia
Diabete di tipo 2
Fumo di sigaretta
Problemi dismetabolici, alterata circolazione locale
Per capire come si manifesta l’epicondilite al gomito, analizziamone i sintomi caratteristici. L’epicondilite generalmente ha una manifestazione tipica, caratterizzata da:
Dolore laterale al gomito localizzato a livello dell’epicondilo, dolore che viene evocato durante la palpazione della zona e che può irradiare fin lungo tutto l’avambraccio
Dolore nell’effettuare una presa specie con avambraccio in pronazione
Dolore nell’effettuare l’estensione del polso contro una resistenza esterna.
Spesso, inoltre, è possibile notare deficit della mobilità e forza degli estensori di polso, dei supinatori e dei muscoli posteriori del cingolo scapolare (cuffia dei rotatori, stabilizzatori scapolari), così come un deficit di forza della presa. In fasi acute il dolore può essere presente anche a riposo o con movimenti banali.
A un’attenta analisi è possibile diagnosticare clinicamente l’epicondilite del gomito grazie ad alcuni test come l’estensione del polso contro resistenza e con l’avambraccio pronato, il test di Maudsley, il test di Mill e il test di Cozen.
In generale il dolore al gomito è esacerbato dal sollevamento di un oggetto pesante afferrato specie con l’avambraccio in pronazione. In genere, la positività dei test sopra menzionati può indirizzare la diagnosi verso l’epicondilite, anche se tuttavia è doverosa un’attenta diagnosi differenziale (vedremo in seguito diverse patologie che manifestano sintomatologie simili a quelle dell’epicondilite).
In palestra, in caso di epicondilite, è frequente la riproduzione del dolore in molti esercizi in cui è necessaria una presa salda, tra cui quelli di tirata per la schiena (Lat Machine, Trazioni) e quelli per le braccia nei quali è richiesto il sollevamento di un carico (Curl, Curl inverso, French Press). Ciò non toglie che, in caso di dolore molto intenso, ogni esercizio per gli arti superiori potrebbe provocare dolore.
Epicondilite: qual è il termine più corretto?
Esistono diversi termini che identificano il tipico dolore laterale al gomito: epicondilite, dolore laterale di gomito, epicondialgia laterale, gomito del tennista, tendinite/tendinosi degli estensori del polso…. ma quale è il più corretto?
A dispetto del nome e del suo suffisso -ite, che richiama ad un processo infiammatorio, le evidenze scientifiche attuali non riportano il quadro infiammatorio comune causa principale della condizione dolorosa dell’epicondilite. Al contrario, come visto in precedenza, il quadro è prettamente degenerativo e caratterizzato da alterazioni dei tendini degli estensori del carpo e delle dita (il più colpito è l’estensore radiale breve).
Per questo il termine “epicondilite” risulta improprio (poichè il suffisso -ite richiama a uno stato infiammatorio) ed è consigliabile virare sulla più appropriata dicitura di “tendinopatia dei muscoli epicondiliari” o “tendinopatia laterale del gomito”, attualmente considerato dalla letteratura come il termine da prediligere.
Anche il termine “gomito del tennista” sembrerebbe non avere più ragione di essere utilizzato oggi. Tale dicitura, infatti, risale al 1873, quando nel tennis venivano utilizzate racchette in legno molto più pesanti di quelle odierne , che causavano pertanto un numero molto elevato di “epicondiliti” nei giocatori di tennis (l’incidenza era stimata fra il 75% e l’85%, e ciò è avvenuto anche nel secolo seguente). Oggi, tuttavia, proprio per la notevole diminuzione del peso delle racchette, e per l’aumentata utilizzabilità dei materiali, l’incidenza nei giocatori di tennis è scesa sotto al 5%, per cui anche “gomito del tennista” sembra essere un’etichetta diagnostica da abbandonare.
Diagnosi dell’epicondilite: come individuarla?
La diagnosi dell’epicondilite (nell’articolo continueremo a chiamarla così a scopo prettamente didattico) è prevalentemente clinica, ossia ottenibile mediante una visita medica.
Nella valutazione clinica è importante porre attenzione al tipo di attività sportiva o lavorativa svolta ed alla presenza di pregresse tendinopatie come quella alla cuffia dei rotatori, la sindrome di De Quervain ed il dito a scatto, che sono espressione di una predisposizione individuale per le tendinopatie degenerative.
Clinicamente il dolore sarà localizzato in corrispondenza dell’epicondilo laterale e potrà irradiare verso l’avambraccio lungo i muscoli interessati, fino ad arrivare talvolta anche alla mano. In modo caratteristico si evoca dolore facendo contrarre contro resistenza i muscoli epicondiliidei con gli opportuni testi clinici citati in precedenza (Cozen, Mill, Maudsley…). Nella valutazione clinica può inoltre essere di notevole utilità l’utilizzo di un dinamometro per valutare la forza della presa.
Le indagini strumentali tra cui la radiografia, l’ecografia, la risonanza magnetica e l’elettromiografia possono servire a confermare il sospetto clinico e ad escludere altre cause di dolore laterale al gomito, come sindromi da compressione del nervo radiale, compressione delle radici nervose cervicali, instabilità articolare e patologie articolari degenerative. A riguardo però è fondamentale sottolineare come la letteratura riporti tendenzialmente una scarsa correlazione tra l’intensità del dolore e la patologia tendinea.
In parole semplici, questo significa che non sempre un “brutto” quadro ecografico con tendini molto degenerati può essere correlato ad un dolore severo e che, viceversa, talvolta un quadro tendineo buono o privo di alterazioni importanti può comportare comunque un dolore maggiore. Inoltre, come per altre regioni anatomiche, anche qui c’è un’alta presenza di alterazioni tendinee nei soggetti privi di dolore. Il tutto suggerisce come l’epicondilite possa avere una genesi che va oltre il quadro di degenerazione dei tendini.
Le 3 fasi del processo: il continuum model
Come abbiamo visto, l’epicondilite rientra nel gruppo delle tendinopatie, per cui il decorso patologico sarà similare a quello descritto in letteratura per tendinopatie di altri distretti corporei come la cuffia dei rotatori, il tendine rotuleo, Achilleo ecc…
L’evoluzione dei processi tendinopatici è stata descritta in letteratura attraverso vari modelli. Il più famoso e riconosciuto è stato proposto nel 2009 da Jill Cook e Craig Purdam (due fra i massimi esperti in ambito di tendini), definito come “Continuum Model”, un modello che si propone di descrivere i cambiamenti e i processi che determinano l’evolversi delle tendinopatie. Il modello si compone di tre fasi, e il tendine può spostarsi (a seconda degli input forniti) in alto o in basso nel modello raffigurato, o addirittura trovarsi contemporaneamente in due fasi distinte.
La prima fase è chiamata “tendinopatia reattiva”: in questa fase gli aumenti di carico sul tendine (troppo elevati e/o troppo poco graduali) portano ad una proliferazione cellulare anomala, con un incremento del numero di proteoglicani , un’alterazione della matrice extracellulare tendinea (dove avviene un accumulo acquoso) ed un adattamento a breve termine che vede un incremento dello spessore tendineo. Secondo tale modello, questa fase è ancora reversibile.
Se tale processo continua, l’alterazione della matrice extracellulare e la proliferazione cellulare tendinea prosegue ulteriormente, arrivando ad una seconda fase in cui si assiste ad un fallimento dei processi riparativi tendinei. L’architettura cellulare tendinea a questo punto è disorganizzata, e si verificano fenomeni di neo-vascolarizzazione, ossia la genesi di nuovi vasi sanguigni (e talvolta anche di terminazioni nervose). Questa seconda fase è denominata “fase di Dysrepair (o “alterata riparazione”) tendinea”, in cui è ancora presente un certo grado di reversibilità.
La terza ed ultima fase è denominata “tendinopatia degenerativa”. In questa fase il tendine presenta alcune porzioni completamente degenerate e “inutilizzabili”, ed è presente una completa disorganizzazione della matrice extracellulare. Secondo il Continuum Model, questa fase viene considerata non reversibile. Attenzione, ciò non vuol dire che arrivati a questa fase non ci sia nulla da fare!
Arrivati in questa fase dobbiamo immaginare il tendine come se fosse una “ciambella”: considerando che i tendini patologici hanno ancora ampie porzioni di tendine sano, l’obiettivo del trattamento riabilitativo sarà dunque quello di aumentare la capacità di carico della struttura tendinea nelle sue porzioni sane (la “ciambella” vera e propria) piuttosto che cercare di rigenerare le porzioni di tessuto degenerato, (il “buco”) in cui sarà difficile (se non impossibile) ottenere miglioramenti.
Nel 2016 la stessa Jill Cook, insieme ad altri autori, ha rivisitato il Continuum Model. La principale criticità emersa era dovuta al fatto che diversi studi hanno evidenziato come i cambiamenti strutturali e tissutali degenerativi riscontrati nelle tendinopatie non giustificassero in modo autonomo la presenza del dolore. In altre parole, non è stata riscontrata alcuna correlazione diretta tra dolore e alterazioni tissutali (e quindi al grado di avanzamento della degenerazione tendinea).
Per tale ragione, la nuova rivisitazione propone di considerare le tendinopatie come un insieme composto da tre componenti: una relativa al dolore, una alla funzionalità tendinea e una relativa alla struttura tendinea.
Inoltre, anche la rappresentazione del precedente Continuum Model è stata ampliata:
L’obbiettivo del trattamento riabilitativo sarà quello di portare il tendine verso le sezioni verdi del grafico, dove non c’è dolore ed è presente una buona funzionalità tendinea.
La struttura del tendine può essere riportata alla normalità nelle prime fasi, dove è ancora presente un certo grado di reversibilità, e dove possiamo ancora quindi “spingere” verso l’alto il tendine (riferendoci al grafico). Negli ultimi stadi della tendinopatia, tuttavia, i cambiamenti saranno irreversibili (non sarà quindi possibile “riportare il tendine verso l’alto”) e di conseguenza gli interventi riabilitativi dovrebbero essere mirati a “spostare verso sinistra il tendine”, riportando ad una buona funzionalità e assenza di dolore le porzioni sane del tendine stesso.
Quanto dura l’epicondilite, e quanto il recupero?
Da un punto di vista prognostico, i sintomi possono durare in media dalle 2 settimane ai 2 anni. Nell’85% circa dei casi il dolore svanisce spontaneamente (con la sola rimozione/modifica dello stimolo provocativo) entro un anno ed è caratterizzato da frequenti recidive e riacutizzazioni del dolore. Il restante 15% può andare incontro invece a quadri cronici che perdurano per oltre un anno.
In questo contesto, assolutamente da non trascurare è il sistema di elaborazione del dolore. Specie nei casi cronici che sono restii alla guarigione e che perdurano per molto tempo, è riportato un quadro di ipersensibilità dell’area, con un’alterazione nella modulazione del dolore a livello del sistema nervoso centrale. In altre parole, a questo livello può essere presente un’eccessiva sensibilità dei tessuti agli stimoli che conduce a elaborare uno stimolo doloroso amplificato.
È stato notato come il meccanismo di questa sensibilizzazione del sistema nervoso centrale sia strettamente correlato ad alcuni “fattori psicosociali”(fra i quali troviamo un’infinità di elementi come ambiente familiare/lavorativo/sociale, vissuto familiare, predisposizioni genetiche, ansia, stress, depressione, kinesiofobia, catastrofizzazione, traumi emotivi ecc…).
La presenza di questi elementi, di dolore dall’intensità e/o durata anomala, e di altri fattori (come la migrazione del dolore nel gomito opposto) può essere riconducibile a un quadro di ipersensibilità del sistema nervoso centrale in un contesto di dolore cronico. Essi spiegherebbero perchè talvolta non vi sia correlazione diretta tra la patologia dei tendini nell’ecografia e la gravità dei sintomi.
Un altro motivo della cronicità dell’epicondilite può essere riscontrato nei casi in cui lo stimolo nocivo/doloroso non venga mai modificato/rimosso.
Rimedi per l’epicondilite: quali sono i più efficaci?
Fra le diverse tipologie di trattamento proposte per la gestione dell’epicondilite troviamo:
Correzione/modifica/sospensione delle attività provocative che sovraccaricano durante la giornata i muscoli estensori del polso
Esercizi di rinforzo e allungamento dei muscoli estensori del polso e delle dita e dei muscoli supinatori (esercizi isometrici e/o isotonici).
Terapia manuale
Tutore per epicondilite
Infiltrazioni locali di cortisone
Terapie fisiche (TENS, laser, ultrasuoni…)
Chirurgia
Riposo
Analizzeremo nell’articolo cosa afferma la letteratura scientifica riguardo ciascuna di queste proposte, ma partiamo dal definire quello che ad oggi sembra essere l’approccio più razionale e scientifico a questa patologia.
Secondo gli studi un trattamento di tipo “multimodale” (comprensivo di più interventi terapeutici) è da preferire; tuttavia la parte principale e fondamentale del trattamento dovrà sempre essere l’identificazione e la successiva modifica/rimozione (da valutare per ogni singolo caso) dell’attività provocativa, insieme all’esecuzione di un programma di esercizi di ricondizionamento tendineo volti a restituire elasticità, forza e resistenza ai gruppi muscolari interessati, così da facilitare la risoluzione del dolore e migliorare le proprietà meccaniche dei tessuti colpiti.
La funzionalità tendinea, infatti, è data dalla qualità e dall’organizzazione delle fibre collagene di cui le stesse cellule tendinee sono composte, ed è stato osservato che è proprio il carico espresso sui tenociti (tramite l’esercizio con sovraccarichi) il fattore chiave in questo contesto, in grado di regolare la risposta di sintesi proteica del collagene.
Il fattore più importante nel trattamento delle tendinopatie è quindi la gestione dei carichi. Applicare un carico ottimale (“optimal load”, diverso per ogni soggetto in base alle proprie caratteristiche) permette di “spremere fuori” le molecole di acqua in eccesso presenti nella matrice extracellulare tendinea, garantendo una riorganizzazione delle fibre collagene e migliorando di conseguenza l’organizzazione strutturale, la biomeccanica e la funzionalità tendinea.
Questo processo può essere svolto mediante contrazioni muscolare isometriche e isotoniche (di solito si preferisce somministrare contrazioni isometriche mantenute nelle fasi di irritabilità/dolore più elevate, per passare successivamente a contrazioni isotoniche concentriche/eccentriche e ad esercizi più complessi e globali) dei muscoli target (nel nostro caso gli estensori del polso e delle dita).
Fondamentale in questi contesti sarà anche l’educazione del soggetto, che dovrà essere informato delle caratteristiche e del comportamento tipico di questa patologia, della prognosi media e dei fattori provocativi, così da ottimizzarne la gestione individuale.
Il messaggio chiave da portare a casa è quindi che il trattamento per l’epicondilite si deve basare sull’educazione del paziente, sull’identificazione e gestione dell’attività provocativa, e sulla gestione dei carichi tramite esercizi. Altri tipi di intervento possono essere aggiunti con l’obbiettivo di ridurre i sintomi e ottimizzare il processo di guarigione, ma dovranno essere considerati come un’arma in più, e non come la parte principale del percorso riabilitativo.
Esercizi efficaci per l’epicondilite
Abbiamo definito l’esercizio terapeutico (insieme all’educazione e alla gestione delle attività provocative) come arma principale a nostra disposizione per gestire l’epicondilite. Ma quali esercizi dobbiamo preferire?
Per l’epicondilite possono essere utili:
Esercizi di rinforzo isometrico/concentrico/eccentrico dei muscoli estensori del polso e supinatori dell’avambraccio con elastico, barra o manubrio, eseguiti a gomito flesso a 90° o esteso,
Esercizi di stretching per i muscoli estensori del carpo
Esercizi per l’upper body di spinta e tirata che coinvolgano i muscoli estensori del polso e delle dita nel loro ruolo di stabilizzatori del polso.
Utili anche in alcuni casi esercizi di mobilità per il nervo radiale (neurodinamica)
Immaginando un percorso riabilitativo dall’inizio alla fine, è consigliabile iniziare con contrazioni isometriche nelle fasi più acute e a irritabilità più elevata (dolore forte ed evocato facilmente). Possono essere utilizzati elastici o manubri con tenute da 20” fino a 50” per ogni serie, da ripetere per 3/4 serie più volte al giorno.
Posizione di partenza per esercizio di estensione del polso con manubrio a gomito flessoEsercizio di stretching per i muscoli estensori del polso
Successivamente si potranno aggiungere esercizi di allungamento degli stessi muscoli, ed esercizi isotonico concentrici/eccentrici (eventualmente si può partire inserendo solo contrazioni eccentriche). In una terza fase più avanzata, infine, quando la sintomatologia sarà notevolmente diminuita, andremo ad inserire gradualmente esercizi globali per gli arti superiori di spinta e tirata, sfidando così gli estensori del polso nel loro ruolo di presa e di stabilizzazione del polso, piuttosto che come mobilizzatori primari, e tornando a svolgere senza sintomi quegli stessi esercizi/movimenti che prima generavano dolore.
Fra gli esercizi in questione rientrano, per esempio: trazioni, rematori, push-up, panca piana, spinte con manubri, curl con presa inversa (con manubri o bilanciere sagomato), alzate laterali, extrarotazioni di spalla, french press.
Epicondilite, bodybuilding e palestra: cosa fare e cosa non fare? Ci sono movimenti da evitare?
Anche molti appassionati di fitness e bodybuilding sviluppano non di rado quadri di epicondilite. Il sovraccarico funzionale è infatti dietro l’angolo quando si portano avanti con costanza programmi di allenamento mirati allo sviluppo della forza e dell’ipertrofia muscolare. In linea di massima non esistono esercizi in assoluto da sconsigliare poiché l’epicondilite nasce da uno squilibrio tra il carico a cui è sottoposto l’apparato tendineo e il recupero che necessita per evitare fenomeni degenerativi. Per questo è fondamentale il dosaggio dei carichi di lavoro adeguatamente gestito grazie a una programmazione razionale e di buon senso.
Ad ogni modo, esistono alcune associazioni di movimenti che possono provocare ed esacerbare il dolore in quadri di epicondiliti sintomatiche, e la loro conoscenza è la base per capire perché viene l’epicondilite e come prevenire l’insorgenza di questo disturbo. Il fattore fondamentale in palestra è quindi gestire nel tempo questi movimenti (evitandoli temporaneamente, se necessario) dosando nella maniera più intelligente possibile il carico sui tessuti interessati. Gli esercizi in assoluto più a rischio sono quelli che prevedono movimenti di flessione del gomito associati a pronazione dell’avambraccio.
La flessione di gomito con pronazione forzata aumenta lo stress a livello dell’epicondilo.
Quando il gomito è flesso, infatti, la pronazione forzata comporta tensione a livello dei muscoli aventi inserzione sull’epicondilo, tensione che si ripercuote sulla giunzione mio-tendinea e sui tendini stessi.
Gli esercizi a cui fare attenzione in particolare sono:
il Curl a presa inversa con manubri o bilanciere (in particolare bilanciere dritto, il quale genera forzature che non permettono di rispettare la normale biomeccanica del gomito). Questo esercizio andrebbe quindi limitato (se non eliminato temporaneamente) in fasi molto dolorose di epicondilite, a favore di un Curl con manubri classici (associazione di flessione e supinazione) e/o un Curl con bilanciere sagomato classico.
Lat Machine , Trazioni e Pulley con presa prona. Le tipologie differenti di prese in questi due esercizi andrebbero costantemente cambiate durante i vari periodi dell’anno, evitando di allenarsi tutto l’anno con la presa prona. Alternate presa prona e presa neutra durante la vostra programmazione sia per ridurre il sovraccarico sugli estensori del polso e prevenire l’epicondilite, sia per variare gli stimoli muscolari in ottica ipertrofia.
Qualsiasi altro esercizio che necessita l’utilizzo di una presa salda che ostacola la forza di gravità (molti movimenti e skill del calisthenics, per esempio, sono inclusi in questa categoria).
La Lat Machine con presa prona (in alto), se eseguita con carichi e volumi mal dosati, nel lungo periodo può favorire lo sviluppo dell’epicondilite in soggetti predisposti. Alternate quindi durante l’anno di allenamento questa variante con quella a presa neutra o ai cavi svincolati (sotto) per prevenire l’epicondilite.
È importante aver ben compreso che, anche se esistono esercizi che per loro natura aumentano il fattore di rischio di insorgenza di epicondilite, l’elemento chiave in questo contesto è il rispetto della gradualità nella progressione e programmazione dei parametri allenanti.
L’esercizio fisico, infatti, ha dimostrato di provocare una riduzione netta del collagene tendineo durante le prime 24h-36h successive agli esercizi, ma un aumento netto (arrivando a quantità maggiori di quelle di partenza) dopo 36h-48h. Questo vuol dire che un tempo di recupero insufficiente tra un allenamento e il successivo potrebbe inclinare l’equilibrio tra sintesi e degradazione del collagene tendineo, determinando uno stato catabolico di quest’ultimo. Per tale ragione è raccomandabile inserire un recupero di 2-3 giorni tra le attività di carico pensante sul tendine ogni volta che si aumentano in modo importante i parametri di allenamento.
Attenzione, qui è facile fraintendere: questo non vuol dire che sia necessario prendere 3 giorni di recupero dopo OGNI allenamento, ma che ogni volta che si svolge un allenamento pesante a carico di un determinato distretto muscolo-tendineo, nel quale si è aumentato uno o più parametri allenanti (volume, intensità, densità…) sarebbe consigliabile un recupero di 2-3 giorni prima di fornire un ulteriore stimolo allenante elevato, così da garantire il fisiologico turnover di collagene intratendineo, evitando così l’insorgenza di processi degenerativi tendinopatici.
L’allenamento abituale, quindi, comporta un maggior turnover del collagene, mentre l’inattività riduce la sintesi del collagene (che ricordiamo essere alla base della funzionalità e salute tendinea). D’altro canto, anche un allenamento ripetuto con periodi di riposo troppo brevi può provocare un netto degrado della matrice tendinea e provocare lesioni da sovraccarico.
Altri possibili rimedi per l’epicondilite
Andiamo ad analizzare cosa afferma la letteratura in merito alle altre proposte riabilitative spesso utilizzate nel trattamento dell’epicondilite.
Tutore per epicondilite
Il tutore è una fascia con una placca di compressione che va indossato circa tre dita sotto l’epicondilo. Riguardo al suo utilizzo troviamo due teorie tra loro contrastanti:
Una teoria a favore, che troverebbe il suo fondamento nel fatto che il tutore agirebbe come una sorta di “seconda origine” sull’osso per i muscoli estensori, riducendo le forze sui tendini degenerati e andando nella direzione dello “scarico” tendineo e della guarigione. Tuttavia le evidenze scientifiche a riguardo sembrano essere abbastanza modeste.
Una teoria a sfavore, argomentata dal fatto che il tutore in questo caso andrebbe a generare uno stress compressivo sui tendini degli estensori del polso, ed è risaputo che gli stress compressivi (insieme a quelli tensivo) hanno un ruolo principale nello sviluppo patologico delle tendinopatie, contribuendo ad alimentare la sintomatologia dolorosa.
Infiltrazioni e terapie fisiche
Le infiltrazioni di cortisone in casi di epicondilite hanno dimostrato un effetto benefico a breve termine (nella riduzione dei sintomi) ma negativo nel medio-lungo termine (6-12 mesi), con un ritardo nella guarigione e con un’aumento del 62% della probabilità di andare in contro a recidive rispetto al non fare nulla.
Le infiltrazioni con cortisonici rappresentano quindi un fattore prognostico negativo per la risoluzione spontanea dei sintomi, contribuendo in alcuni alla cronicizzazione di questi, e per tale ragione sembrerebbe sconsigliato eseguirle (anche se va detto che le evidenze sul lungo termine sono discordi fra loro, e vi sono ancora discussioni a riguardo).
Anche per le terapie fisiche come TENS , ultrasuoni e onde d’urto l’evidenza è molto contrastante. Pare che in alcuni casi queste possano aiutare nel ridurre i sintomi nel breve termine, ma in ogni caso il loro inserimento nel piano riabilitativo deve essere sempre considerato come uno strumento aggiuntivo, e mai come parte principale.
Discorso analogo per le infiltrazioni di “Fattori di crescita” derivati dalle piastrine del sangue (plasma del sangue arricchito di piastrine, denominato “PrP”), che hanno mostrato scarsi effetti terapeutici nell’epicondilite.
Riposo
Il riposo assoluto e l’astinenza dai carichi è controindicato nei casi di tendinopatie (come l’epicondilite) in quanto può ridurre la resistenza meccanica del tendine, e la rimozione totale del carico può indurre cambiamenti tendinopatici degenerativi dovuti alla mancanza di uno stimolo meccanico.
Come abbiamo visto in precedenza, infatti, l’allenamento abituale comporta un maggior turnover del collagene tendineo, mentre l’inattività riduce la sintesi e il turn over di quest’ultimo.
Terapia manuale
La terapia manuale, applicata a livello locale sul gomito, ma anche a livello cervicale e/o toracico si è dimostrata essere un valido aiuto nel trattamento dell’epicondilite. Tecniche di terapia manuale possono quindi essere uno strumento aggiuntivo da aggiungere agli elementi visti in precedenza, rimanendo coscienti del fatto che in questo contesto il loro scopo è di aiutare a ridurre la sintomatologia dolorosa attraverso i noti effetti neurofisiologici che la terapia manuale è inutile grado di produrre.
Chirurgia
Per quanto riguarda la chirurgia l’intervento (realizzato artroscopicamente o a cielo aperto) ha l’obbiettivo di rimuovere il tessuto degenerato e di favorire i processi riparativi tendinei attraverso una cruentazione locale, ossia dei gesti tecnici mirati ad aumentare la vascolarizzazione locale del tendine e della sua inserzione ossea che ne favorirebbe la guarigione.
L’intervento chirurgico è considerabile nei casi di fallimento del trattamento conservativo (dopo un minimo di 6 mesi di tempo).
Dolore laterale al gomito: oltre l’epicondilite
In letteratura sono riportare altre altre condizioni che possono portare al dolore al gomito lateralmente nei pressi dell’epicondilo omerale, condizioni che non devono essere trascurate, e che possono mimare un’epicondilite, portando a diagnosi errate. Fra queste troviamo:
Problematiche articolari al gomito: da un punto di vista articolare, l’articolazione fra omero e radio e fra omero e ulna può essere sede di alterazioni
Problematiche al nervo radiale: il nervo radiale può essere coinvolto nella cosiddetta “sindrome del tunnel radiale”, una patologia da compressione di un piccolo ramo del nervo radiale (il nervo interosseo posteriore) in prossimità del muscolo supinatore breve. Questa sindrome rappresenta una delle principali cause di fallimento di molte terapie, e può riferire dolore lateralmente al gomito sull’epicondilo e lungo il decorso del nervo radiale su tutto l’avambraccio dorsalmente fino alla mano. Il nervo in questione può risultare talvolta troppo sensibile agli stimoli meccanici e rispondere evocando i sintomi dell’epicondilite attraverso dei test clinici per la sua messa in tensione.
Dolori riferiti e modulati da alterazioni al rachide cervicale o toracico: esistono evidenze del fatto che anche il rachide cervicale e quello toracico possono avere influenza sul dolore laterale al gomito. Questo soprattutto se il soggetto dolorante differisce in concomitanza anche dolore al collo una storia clinica passata di sofferenza cervicale. Il dolore al gomito potrebbe insorgere come dolore riferito cervicale o da radicolopatia.
Queste condizioni possono spesso unirsi alla degenerazione tendinea complicando il quadro. Ecco perchè spesso l’epicondilite è una problematica ostica da gestire. Viste le insidie dettate dal suo inquadramento clinico, è sempre consigliata una visita specialistica, specie se la condizione dolorosa non guarisce nel tempo con il riposo.
Conclusioni sull’epicondilite (o gomito del tennista)
Arrivando alle conclusioni qualche importante considerazione.
E’ fondamentale ricordare che un dolore a livello dell’epicondilo non è per forza un’epicondilite. In questo senso la valutazione iniziale della problematica permettere un migliore inquadramento clinico e, di rimando, un trattamento mirato ed efficace (un’epicondilalgia non di rado è causata da problematiche radicolari cervicali, rigidità articolari al gomito e alterazioni del nervo radiale).
L’epicondilite in diversi casi guarisce spontaneamente nel lungo periodo e l’intervento di un professionista della riabilitazione aiuterà ad abbreviare i tempi di recupero e ad ottimizzare il ritorno alla performance e la gestione autonoma di eventuali recidive. Attenzione però a eliminare a monte la causa del problema quando questa è un sovraccarico funzionale degli estensori di tipo sportivo o lavorativo, un programma di allenamento mal dosato o gesti motori scorretti. Qualsiasi tipo di terapia fallirà se non verranno corretti questi fattori.
L’otturatore esterno, muscolo di forma appiattita e triangolare, origina dal lato esterno della membrana otturatoria, dall’adiacente ileo e dalla superficie esterna del foro otturatorio, per proseguire con i propri fasci in direzione laterale e pressochè trasversale, passando posteriormente all’articolazione dell’anca e inserendosi sulla superficie mediale del grande trocantere, a livello della fossa trocanterica.
Il ventre di questo muscolo è situato in profondità rispetto ai vari muscoli dell’anca, ed è visibile dal lato anteriore del bacino dopo la rimozione dei muscoli adduttore lungo e pettineo.
A livello funzionale, come scopriremo tra poco, ha un ruolo nel regolare i movimenti dell’anca, ma soprattutto nella sua stabilizzazione. Andiamo ad analizzare in che modo.
ANATOMIA E FUNZIONI DEL MUSCOLO OTTURATORE ESTERNO
Origine
superficie esterna del foro otturatorio, della membrana otturatoria e superfici esterne circostanti del ramo pubico inferiore e del ramo ischiatico
Inserzione
superficie mediale del grande trocantere nella fossa trocanterica
Azione
Ruota esternamente e stabilizza l’articolazione dell’anca. Contribuisce all’adduzione dell’anca quando questa è flessa.
Visione anteriore e posteriore dell’otturatore esterno
Otturatore esterno: funzioni
Visto il suo decorso anatomico, l’otturatore esterno fa parte del gruppo dei sei muscoli rotatori esterni brevi dell’anca, formato dai muscoli:
Le linee di forza di questi muscoli sono orientate principalmente sul piano orizzontale. Questo orientamento è ottimale per generare un momento di torsione di rotazione esterna, poiché la maggior parte della componente di forza di ciascun muscolo ha un’intersezione perpendicolare con l’asse verticale di rotazione.
In modo simile al muscolo infraspinato e al piccolo rotondo nella spalla, i muscoli rotatori esterni brevi sono anche ben allineati per comprimere e quindi contribuire a stabilizzare l’articolazione coxo-femorale.
Queste caratteristiche portano a considerare questi sei muscoli come un gruppo funzionale unico, in grado di ruotare esternamente l’anca ma soprattutto di fornire stabilità a quest’ultima, grazie alla loro localizzazione ravvicinata all’asse di rotazione.
L’otturatore esterno è quindi un rotatore esterno dell’anca, ed è un grado di stabilizzare la testa del femore nell’acetabolo. Questo muscolo è tuttavia considerato un extrarotatore secondario, poiché nella sua posizione anatomica la sua linea di forza si trova solo pochi millimetri dietro l’asse longitudinale di rotazione, fornendo un braccio di leva extrarotatorio meno vantaggioso rispetto agli altri muscoli rotatori esterni brevi.
L’otturatore esterno ha inoltre un ruolo nell’adduzione del femore, tale per cui è stata discussa la sua classificazione tra muscolo extrarotatore o muscolo adduttore. Analizziamo in dettaglio la questione.
Otturatore esterno: extrarotatore o adduttore?
Il muscolo otturatore esterno presenta delle caratteristiche funzionali associate al gruppo dei muscoli extrarotatori brevi, ma anche altre caratteristiche che lo accomunano al complesso muscolare degli adduttori. In che gruppo funzionale va inserito, dunque?
In base al suo effetto leva e alla sua localizzazione, questo muscolo è in grado di produrre adduzione del femore, ed è innervato dai fasci nervosi che originano dal plesso lombare (attraverso il nervo otturatorio), come la maggior parte degli altri muscoli adduttori. Gli altri piccoli muscoli rotatori esterni, al contrario, sono innervati attraverso il plesso sacrale, con i nervi che originano dalle radici a livello della seconda vertebra sacrale.
Alcuni studi hanno quindi cercato di analizzare quale fosse la funzione principale del muscolo otturatore esterno, riscontrando che la sua azione primaria è quella di ruotare esternamente l’anca (e stabilizzarla), mentre la funzione di adduzione d’anca è secondaria e di rilevanza decisamente minore, ed avviene principalmente quando questa è flessa. È stato notato inoltre che l’azione di extrarotazione di questo muscolo viene effettuata quando l’anca si trova in posizione neutra o flessa, mentre è nulla quando si trova in estensione.
Possiamo concludere quindi che l’otturatore esterno ha la funzione principale di ruotare esternamente e stabilizzare l’anca, e contribuisce in minima parte alla sua adduzione quando questa è flessa; per questo motivo si è soliti classificare questo muscolo nel gruppo funzionale dei rotatori esterni brevi dell’anca.
Esercizi otturatore esterno
L’otturatore esterno, a causa delle sue azioni di extrarotazione e di stabilizzazione d’anca, è chiamato in causa in molti esercizi in palestra dove sono coinvolti gli arti inferiori, che richiedono queste funzioni.
Agendo in sinergia con il gruppo muscolare degli extrarotatori brevi, non esiste un esercizio in grado di attivare ed allenare selettivamente questo muscolo, che svolgerà la propria azione sempre insieme ai suoi “colleghi”. In base alle funzioni anatomiche che prima abbiamo analizzato, l’otturatore esterno può essere rinforzato e stimolato secondo due differenti modalità:
– come stabilizzatore dell’anca in esercizi multiarticolari come squat, affondi, stacco a gamba singola e step-up;
– come muscolo agonista assieme ai muscoli extrarotatori in esercizi monoarticolari come le abduzioni sul fianco, il clamshell, il fire hydrants, il macchinario abductor machine e la camminata laterale.
Un buon metodo per stimolare l’attivazione di questi muscoli è utilizzare una banda elastica attorno alle ginocchia durante l’esecuzione degli esercizi.
La dieta disintossicante o dieta detox torna ciclicamente alla ribalta soprattutto dopo le feste: c’è l’idea che i vari cenoni ed eccessi intossichino l’organismo e che ci sia bisogno di una dieta depurativa per ripulirlo. Ma quanto c’è di vero? Ha senso questo approccio alimentare?
Dieta disintossicante e depurativa: cos’è?
È percezione comune che la vita moderna intossichi l’organismo: inquinamento ambientale, alimenti industriali, pesticidi, antibiotici, ecc. che contribuiscono ad accumulare nel corpo sostanze nocive che vanno eliminate. Questa è una paura che ha un fondo di verità, ma che poi nella pratica si traduce con strategie che hanno poco a che vedere con scienza e fisiologia.
Oggettivamente la maggior parte della popolazione occidentale vive in uno stato infiammatorio perenne: l’infiammazione silente è uno dei principali fattori che contribuiscono ad aumentare lo stress ossidativo e a causare diverse malattie, comprese quelle metaboliche. Tuttavia, questo stato infiammatorio è causato semplicemente dal sovrappeso: una persona con un grasso viscerale in eccesso ha un tessuto adiposo che produce diverse citochine pro-infiammatorie, che sono delle molecole che favoriscono l’infiammazione. Dimagrendo, a prescindere dalla dieta, questo stato alterato va migliorando fino a scomparire.
Quando perdi i chili in eccesso, grazie ad una qualsiasi dieta purchè sia ipocalorica e non necessariamente detox, l’infiammazione si riduce e scompare.
I fattori che, a prescindere dal peso corporeo, infiammano sono:
La dieta disintossicante propone di consumare per un certo periodo cibi ricchi di fibra, di vitamine, di minerali, di acqua, di antiossidanti: insomma, frutta e verdura – anche sotto forma liquida o semi-liquida, come ad esempio i centrifugati e le zuppe. Dall’altra parte, sono da evitare gli alimenti proteici animali, quelli ricchi di additivi e processati.
Tradotto in termini energetici, è un regime fortemente ipocalorico: è sicuramente difficile arrivare a mangiare troppo in questo modo e quindi è facile perdere un po’ di chili.
Bisogna però fare attenzione: infatti, non è sufficiente abbondare solo di vitamine e antiossidanti nella dieta per stare bene, dimagrire ed essere meno infiammati: trovare l’equilibrio tra tutti i macro- e micro-nutrienti invece sì.
Così, la dieta completa, varia e consapevole risulta quella più indicata: se da una parte non è salutare eccedere con hamburger, merendine, cibi fritti e zuccherosi e simili, dall’altra non lo è nemmeno basare la propria alimentazione solo su liquidi, frutta e verdura. Come spesso succede, trovare una via di mezzo e un compromesso è sempre meglio che estremizzare.
Esempio di dieta disintossicante
Ecco un esempio di 2 giorni (48h) di dieta depurativa. ATTENZIONE: è una dieta ipocalorica/restrittiva, parlane prima col tuo medico o un professionista riconosciuto dalla legge italiana.
1 giorno
Colazione: 1 frutto + 250g di yogurt magro/greco
Spuntino: 6 noci
Pranzo: 80-100g di riso integrale condito con verdure di stagione
Spuntino: 6 mandorle
Cena: Minestrone + 80-100g di pesce
2 Giorno
Colazione: una tazza di latte scremato + 50 g d’avena
Spuntino: 1 frutto
Pranzo: 80-100 g di orzo/farro condito con verdure di stagione e 60-75g di gamberetti/tonno
Spuntino: 1 yogurt magro
Cena: Carne bianca/2 uova + insalata o verdura di stagione
A base di centrifugati
I centrifugati vanno di moda, ma basare la propria alimentazione solo su questi non è una scelta così salutare: non saziano, anche se sani non ti danno tutti i nutrienti di cui hai bisogno e sono sicuramente tristi rispetto ad un bel piatto di pasta o un frutto con dello yogurt.
Sono utili se di solito mangi poca frutta e verdura, se sostituire uno spuntino molto calorico e ricco di grassi con un centrifugato ti può piacere e aiutare nel non sforare con le calorie giornaliere.
Senza glutine e lattosio
Nel mondo delle persone che non mangiano alimenti con glutine e/o lattosio ci sono due categorie:
Gli intolleranti, quelli veri: hanno fatto un test (valido) e non possono mangiare cibi con queste sostanze perché altrimenti stanno male dato che il loro organismo non è in grado di gestirle.
Gli intolleranti, quelli finti: di solito, non fanno un test e si auto-diagnosticano l’intolleranza grazie al grande mondo dell’internet o al lontano cugino “che ne sa”. La domanda che sorge spontanea è: perché hanno inventato i dottori e la scienza? In pratica, questi soggetti eliminano da un giorno all’altro intere categorie di alimenti. Proprio fare questo può essere la causa del diventare intolleranti davvero.
Se non hai problemi a mangiare prodotti con glutine e/o lattosio, toglierli non farà diventare la tua dieta più sana: il corpo è preparato e in grado di gestire questi nutrienti, così come tutti gli altri che mangi e che non ti provocano danno. Perché toglierli senza motivo?
Senza carboidrati
Sempre il famoso cugino “che ne sa” dice che anche i carboidrati fanno male, bisogna toglierli assolutamente! Ecco, anche questa volta è meglio non fidarsi troppo del cugino.
I carboidrati non sono considerati essenziali come possono essere alcuni aminoacidi e grassi, tali perché l’organismo non sa auto-produrli. Oppure, proprio perché il glucosio è così importante il corpo sa produrlo?
Nella dieta detox i carboidrati non sono vietati in generale, infatti la frutta (che contiene zuccheri) si può mangiare, così come anche i cereali integrali. I glucidi da non consumare sono quelli contenuti nei cibi che vengono comunemente non considerati “sani”: prodotti confezionati, industriali, processati. Dal punto di vista molecolare e quindi dell’organismo una molecola di glucosio resta una molecola di glucosio, che sia presente in una merendina o in una mela. La mela è considerata sana perché contiene pochi zuccheri, acqua, fibra, vitamine e minerali, mentre la merendina no perché ha molti zuccheri, molti grassi “cattivi”, conservanti.
Non sono quindi i carboidrati, o qualsiasi altro nutriente, a fare male di per sè ma l’alimento nel suo complesso e, soprattutto, come questo viene inserito nella dieta: con che frequenza, in quale quantità?
Macrobiotica
Più il nome non sai cosa voglia dire, più quella dieta diventa affascinante: sarà davvero quella giusta? La macrobiotica predilige, in linea con la dieta depurativa, il consumo di cereali integrali, verdure fresche, frutta, frutta secca, legumi. Ciò che cambia in maggior misura è sostanzialmente l’idea di fondo: se da una parte c’è la disintossicazione, dall’altra c’è la ricerca di un equilibrio tra corpo e mente che va anche al di fuori del campo alimentare: più che di “dieta” macrobiotica sarebbe più corretto definirla uno stile di vita.
Benefici ed effetti della dieta disintossicante
I vantaggi che ottieni dalla dieta disintossicante, in realtà, li puoi ottenere con un qualsiasi stile alimentare che sia salutare e bilanciato. Se ti ritrovi con un po’ di chili di grasso in più, scendere di peso porterà naturalmente il tuo organismo ad essere più in salute: cambiamento che ad esempio puoi valutare tramite gli esami del sangue migliorati.
Antinfiammatoria
Le cellule del grasso (adipociti) sono capaci di secernere (produrre) molecole che favoriscono l’infiammazione. In condizioni fisiologiche, quando stai bene, non hai peso in eccesso, segui un’alimentazione equilibrata gli adipociti sono più silenziosi e non scatenano infiammazione. Quando invece gli adipociti sono troppi, il numero delle molecole infiammatorie aumenta in un circolo vizioso.
Quindi, quando perdi peso a causa della diminuzione della massa grassa (!) cala anche l’infiammazione. Entra qui in gioco la dieta disintossicante? Sicuramente se l’hai già provata o se ti è capitato di mangiare poco o anche di non mangiare per un paio di giorni, avrai visto qualche grammo o anche 1 kg in meno sulla bilancia. Sei meno infiammato?
La risposta è no, perché il peso perso non corrisponde a massa grassa in meno: nel breve termine il peso che cala è dovuto sostanzialmente ad acqua (e non adipe) corporea eliminata.
Anticolesterolo
Gli alimenti suggeriti nella dieta detox non presentano colesterolo, che è contenuto nei prodotti animali come carne e uova. C’è da precisare, però, che la maggior parte del colesterolo che c’è nel corpo (almeno nell’individuo sano) è prodotto dal fegato. Come mai ti starai chiedendo… Il colesterolo hai sentito dire che fa male e il corpo lo produce… In realtà viene sintetizzato perché questo particolare grasso è fondamentale: fa parte di tutte le membrane delle cellule e inoltre è il precursore di numerosi ormoni.
Ancora una volta, c’è da distinguere tra l’acuto (qualche giorno detox) e il resto della vita: se hai valori elevati di colesterolo a causa di una dieta scorretta, un paio di giorni disintossicanti non portano ad avere risultati tangibili e permanenti nel lungo periodo.
Metalli pesanti
La maggior parte delle persone è preoccupata di essere intossicata, ma quando le si chiede da che cosa, non lo sa neanche. Le tossine o i metalli pesanti sono spesso citati e c’è preoccupazione a riguardo. In realtà, le linee guida dicono che puoi stare tranquillo.
Solo chi mangia nel lungo periodo abitualmente pesci di grossa taglia potrebbe assumere un eccesso di mercurio – anche se comunque ancora se ne discute.
Pesticidi e conservanti
Anche i pesticidi oggi sono più controllati che negli anni passati, anche se la percezione del consumatore è di essere sempre meno sicuro.
Forse l’unico eccesso in cui puoi incorrere è quello dei conservanti, quando eccedi nel lungo periodo con carni lavorate e insaccati. Queste categorie di alimenti oggettivamente sono da limitare fortemente ed un eccesso di nitriti e nitrati peggiora lo stato di salute.
Dieta disintossicante per depurare fegato, reni e intestino
Fegato, reni e intestino sono i tre organi principali coinvolti nel depurare l’organismo: sono programmati dalla fisiologia per smaltire le sostanze nocive.
Erbe, tisane (drenanti), alghe, ecc. venduti come disintossicanti, che prezzo hanno?Economico sicuramente, è la prima cosa che viene in mente, ma… è una spesa inutile, se non per un bisogno psicologico. Il costo, però, è anche la salute: come può una tisana alle erbe farti stare in salute se mangi ogni giorno al fast food senza ritegno? Quei poveri estratti di alga non possono nulla contro l’eccesso di quantità di zuccheri, di grassi, di calorie, di infiammazione e conseguenze.
Qual è, invece, il costo di fegato, reni e intestino? Dal punto di vista economico nullo, quello che serve davvero è riuscire a perseguire uno stile di vita sano negli anni – ma si sa che è più facile e immediato spendere soldi che fare lo sforzo e la fatica di cambiare le abitudini.
Il fegato è la centrale metabolica dell’organismo: rielabora le sostanze che riceve e contribuisce ai processi digestivi. Però, soprattutto quando bevi molto alcol (fegato grasso) o mangi poche proteine gli epatociti non funzionano più in modo ottimale. I reni, invece, filtrano il sangue ed eliminano le scorie tramite l’urina. Infine, l’intestino, tramite la produzione delle feci, espelle le sostanze che non sono state digerite e assimilate. Fai stare bene questi organi mangiando bene e questi a loro volta, in risposta, svolgeranno bene la propria funziona, in un circolo virtuoso.
Dieta disintossicante e dimagrante per dimagrire
Spesso una dieta detox è venduta come una dieta dimagrante. Mangiare principalmente frutta e verdura facilità il senso di sazietà e se escludi alimenti ad alta densità calorica, facilmente il tuo periodo “depurativo” sarà, in realtà, semplicemente una dieta ipocalorica.
Il consiglio è quello di abituarti 365 giorni l’anno a seguire uno stile alimentare che preveda una buona quantità di verdura e frutta. L’apporto di vitamine, minerali e fibre, sarà così sempre elevato, perché il benessere si può raggiungere solo adottando nel lungo periodo uno stile di vita sano, non ricorrendo a diete disintossicanti post cenoni.
Evita se puoi di fare i centrifugati, perché pur non alterando i valori nutrizionali, non apportano senso di sazietà: frutta e verdure liquide apportano comunque calorie e non aiutano nel controllo dell’appetito e quindi del peso. Piuttosto che non mangiare frutta e verdura è meglio il centrifugato, ma l’alimento intero è comunque da preferire.
Ricordati ancora che tisane depurative hanno di depurativo solo il nome sull’etichetta!
Dieta disintossicante dopo le feste, le vacanze natalizie o un’abbuffata
Ti sarà sicuramente capitato di aver mangiato fino a scoppiare: con lo stomaco che chiede pietà, qual è stato il primo pensiero che ti è venuto in mente? “Domani giornata detox! Così recupero l’abbuffata di oggi”. Scattano così l’insalatina a pranzo e le tristi carotine bollite a cena.
Ci sono però un paio di domande che dovrebbero sorgere dato che, dopotutto, alla base della nutrizione ci deve essere anche la consapevolezza: un’abbuffata occasionale è davvero fonte di accumulo di sostanze nocive? Non mangiare poco o nulla il giorno dopo serve a qualcosa o è più un bisogno psicologico per sentirti a posto con te stesso?
Avrai ormai capito che mangiare più del solito ogni tanto non è un problema per la salute, ma lo diventa se fai del “troppo” un’abitudine, anche perché i cibi salutari sono sicuramente all’ultimo posto nella lista degli alimenti con cui fare un’abbuffata degna di questo nome. E il problema non è nemmeno in termini depurativi: in una pizza mangiata a cena non c’è assolutamente nulla da detossificare e, in ogni caso, l’organismo sa come gestire i nutrienti che riceve.
C’è anche da dire, però, che fare qualche giorno ipocalorico dopo le feste può aiutare nel controllo del peso bilanciando l’introito calorico settimanale/mensile: se perdi peso automaticamente abbassi l’infiammazione (come visto sopra).
Quanto deve durare la dieta disintossicante? Per quanti giorni?
In qualche caso la dieta disintossicante, anche se non è l’unica opzione, può essere utile per il bilancio calorico della settimana: se eccedi un o due giorni, mangiare di meno e con cibi salutari (tendenzialmente poco densamente energetici) è utile per non “trainarti” dietro l’eccesso calorico che andrà via via ad accumularsi abbuffata dopo abbuffata – probabilmente sotto forma di stupendi adipociti pieni di grassi.
Tuttavia, fare troppi giorni di digiuno o non mangiare le proteine (dopo 48-72 ore) affatica il fegato e ne ostacola la corretta attività enzimatica.
Quindi, per quanti giorni devi fare la dieta disintossicante? La maggior parte delle diete depurative lo “sono” davvero quando durano 1 o 2 giorni (24-48 ore): se durano di più sortiscono l’effetto opposto proprio causando problemi a livello renale.
Ad ogni modo, per depurarti e disintossicarti davvero, l’unico modo è adottare uno stile di vita sano, mangiando nelle giuste quantità, alimenti sani e di stagione. E non per 1 o 2 giorni, ma abitualmente sempre.
Conclusioni sulla dieta disintossicante
Ricordati sempre che non esiste la dieta purificante, disintossicante, detox, purificativa, drenante… Ma che esiste una corretta alimentazione che riporta l’organismo al normopeso e gli dà tutti i nutrienti di cui ha bisogno.
Chi segue una dieta varia e bilanciata, basata su prodotti naturali e stagionali, non deve preoccuparsi di depurarsi, mentre, per tutti gli altri, non resta altro che adottare uno stile di vita sano!
Nel vasto mondo del panorama dietetico non poteva mancare anche la dieta del gruppo sanguigno: in questo articolo viene approfondita la dieta del gruppo sanguigno A, mentre a questo link trovi una spiegazione più generale su questo approccio alimentare.
Come ogni proposta di dieta “innovativa” che si rispetti prevede un elenco di cosa mangiare e di cosa evitare: è questo il segreto per dimagrire una volta per tutte?
Prima di tutto, però, scopri cos’è e in cosa consiste questa dieta!
Cos’è la dieta del gruppo sanguigno A? Come funziona?
Gli individui che appartengono al gruppo sanguigno A dovrebbe consumare, secondo gli ideatori della dieta del gruppo sanguigno, una dieta molto simile a quella vegetariana ereditata dagli antenati che erano stanziali e che coltivavano la terra, a differenza di chi segue la dieta del gruppo sanguigno 0 o dei cacciatori – ovviamente tutto questo secondo D’Adamo ed il Dr. Mozzi.
Dal punto di vista nutrizionale questo è un regime prevalentemente ipoproteico in cui viene ridotto o eliminato del tutto il consumo di carne, di latte e di prodotti lattiero-caseari, sostituendoli con frutta secca e legumi. Per quanto riguarda le proteine animali, questi soggetti devono privilegiare il consumo di pesce e di uova.
La dieta del gruppo sanguigno A: cosa mangiare e cosa evitare?
Secondo le linee guida dei due ideatori di questo approccio, in questo capitolo vengono delineati i cibi da mangiare (semaforo verde) e quelli da evitare (semaforo rosso) per ciascuna categoria alimentare. Oltre a quelli benefici e sconsigliati ci sono anche quelli neutrali (semaforo giallo), il cui consumo non fa né bene né male al soggetto, che può quindi scegliere se consumarli o meno.
Cereali
I cereali sono ovviamente accettati nella dieta dei soggetti con gruppo A, in quanto “raccoglitori”, ma la loro assunzione è dipendente da alcune condizioni. Innanzitutto, Mozzi esprime cautela nel consumo di avena e orzo che, per questo, saranno utilizzati raramente e in quantità moderate; inoltre, tutti i farinacei sarebbero da evitare di sera. Per quanto riguarda il tipo di pane consigliato, è preferibile quello di miglio, quinoa, grano saraceno o riso.
CEREALI E SIMILI
Benefici
Amaranto, farina e pasta di grano saraceno, grano saraceno, kasha (grano saraceno tostato)
Neutri
Amido di mais, fiocchi d’avena, farina e cialde di riso, mais (cornflaker, polenta, ecc.), miglio, orzo, orzo perlato, quinoa, riso, tapioca
Sconsigliati
Couscous, crusca di farro, crusca di frumento, crusca di kamut, farro, fecola di patate, frumento, germe di grano, kamut, muesli, segale, seitan, semola di grano duro
Legumi
Una nota importante per i legumi, che probabilmente sono la principale fonte proteica degli individui con gruppo sanguigno A, è che la soia non è sempre tollerata (anche se rientra tra gli alimenti consigliati dal Dr. Mozzi). Inoltre, dal punto di vista delle combinazioni alimentari, è preferibile abbinare i legumi al pesce, alle uova o alle verdure.
Borlotti freschi, cicerchie, fagoli cannellini, fagiolini, fave, lupini, meraviglie di Venezia, piselli, taccole (piselli col baccello)
Sconsigliati
Borlotti secchi, ceci, fagioli bianchi di Spagna
Carne
Non esiste un alimento benefico composto dalla carne per questo gruppo sanguigno. Negli alimenti neutri c’è la carne bianca composta dal pollo, tacchino, gallina, cappone e derivati.
CARNE
Neutri
Cappone, faraona, gallina, gallo, pollo, struzzo, tacchino, Wurstel o salumi di pollo e tacchino (senza lattosio, glutine e conservanti)
Sconsigliati
Agnello, anatra, bresaola di manzo o di cavallo, capretto, cavallo, cinghiale, coniglio, fagiano, maiale e salumi di maiale, manzo, montone, oca, vitello, qualsiasi tipo di carne affumicata
Latte
Il latte e derivati sono generalmente da evitare. Si possono giusto mangiare saltuariamente formaggi di capra, la feta o formaggi magri come la ricotta.
LATTE E DERIVATI
Neutri
Feta (formaggio fresco di capra e pecora tipo greco), formaggio di capra, mozzarella magra, ricotta di capra, ricotta vaccina magra, yogurt di capra
Sconsigliati
Evitare tutti gli altri latticini, soprattutto quelli grassi e stagionati
Pesce e molluschi
Per quanto riguarda il pesce, i molluschi e i cibi affini, bisogna preferibilmente evitare il pesce in scatola e il pesce cotto fritto, impanato o affumicato. Le cotture da privilegiare sono al vapore e bollito, oppure, in alternativa, si può mangiare il pesce crudo, quando possibile.
Per quanto riguarda i grassi, questi saranno ottenuti dall’assunzione principalmente di frutta secca e di oli vegetali, che però devono essere consumati rigorosamente a crudo, mentre, come già accennato precedentemente, i grassi animali sono da ridurre al minimo o eliminare del tutto dalla dieta.
OLIO E GRASSI
Benefici
Olio di girasole, olio di lino, olio di oliva extravergine, olio di riso, olio di semi di zucca, olio di vinacciolo
Neutri
Olio di fegato di merluzzo, olio di girasole, olio di semi di canapa, olio di mandorle
Sconsigliati
Olio di arachidi, olio di mais, olio di sesamo, burro
SEMI E FRUTTA SECCA
Benefici
Arachidi, burro di arachidi, noci, semi di zucca
Neutri
Burro di semi di girasole, di mandorle, di nocciole, di sesamo, castagne, mandorle, nocciole, noci pecan, noci di Macadamia, pinoli, semi di girasole, semi di canapa, semi di papavero, semi di sesamo
Sconsigliati
Anacardi, noci brasiliane, pistacchi
Ortaggi
ORTAGGI
Benefici
Aglio (se non dà problemi di digestione), bietole, broccoli, carciofi, carote, cicoria, cipolle, germogli di soia, indivia scarola, porro, prezzemolo, rape, spinaci, tarassaco, topinambur, verza, zucca
La frutta deve essere consumata da sola o in pasti a base di carne, pesce, uova o semi oleosi, mentre devi evitare di abbinarla ai cereali e di consumare frutti di succhi soprattutto in inverno. Le marmellate devono essere consumate da sole o abbinate a proteine, negli spuntini.
Dieta del gruppo sanguigno A positivo: esempio di menù
Qui sotto, a seconda della stagionalità, trovi qualche esempio e quali sono gli alimenti consigliati per colazione, pranzo e cena. Ricordati che la dieta del gruppo sanguigno A non prevede di contare le porzioni, calorie o macronutrienti ma si basa sulla qualità degli alimenti.
Tuttavia, sia D’Adamo che il Dr. Mozzi indicano di non mangiare mai a volontà, avendo un approccio moderato alla dieta. Il detto “alzarsi sempre con un po’ d’appetito” diventa così un consiglio centrale per raggiungere una buona salute. Se quindi riuscirai a perdere peso con questa dieta, sarà proprio perché sei in deficit calorico.
Esempi di alimenti da utilizzare per la colazione (Inverno e Primavera)
Fiocchi d’avena con noci o nocciole.
Uovo alla coque con succo di pompelmo.
Omelette con marmellata di prugne e caffè.
Kiwi, noci e caffè.
Mele cotte, uovo e caffè di cicoria.
Esempi di alimenti da utilizzare per la colazione (Estate e Autunno)
Albicocche, uovo e caffè, anguria
Pesche o prugne o albicocche fresche
Mirtilli con pollo o tacchino ai ferri
Ricotta magra con more o con altra frutta consentita
Castagnaccio con pinoli o noci e uvette
Torta di mandorle o nocciole e caffè
Fiocchi di mais con latte di soia
Esempi di alimenti da utilizzare per il pranzo e la cena (tutte le stagioni)
Pollo al forno con topinambur, mandorle e prugne
Tacchino ai ferri con spinaci e miglio
Spezzatino di pollo o taccino con piselli, carote e zucchine
Merluzzo o altro pesce consentito con cipolle
Tofu alla piastra con asparagi o altre verdure
Soia rossa con carote
Quinoa con verza e poco formaggio di capra o feta greca
Zuppa di lenticchie con barbabietole rosse e uovo strapazzato
Polpette di fagioli con tonno e zucchine
Frittata con funghi porcini, finocchi e carote
Zucca, cipolle e tacchino
Conclusioni sulla dieta del gruppo sanguigno A
Nella dieta per gli individui con gruppo sanguigno A è preferibile seguire un regime a base di legumi, frutta e verdura. Per questo motivo, tali individui seguiranno quasi una dieta vegetariana o pesco-vegetariana. La carne e i latticini non sono vietati del tutto, ma devono essere consumati raramente e in quantità molto basse.
Inoltre, un dettaglio non di poco conto, è che l’alimentazione non deve includere cibi precotti, carni lavorate, succhi di frutta e alimenti e bevande industriali in genere, mentre privilegia l’assunzione di semi oleosi, frutta secca e frutta fresca.
Il polpaccio è un muscolo composto da tre ventri muscolari: gastrocnemio, plantare, soleo; che nel loro insieme prendono il nome di tricipite della sura. La funzione principale del polpaccio è di estensore del piede, ma, non tutti i tre ventri muscolari si attivano indistintamente, hanno, infatti, compiti e tempi di attivazione diversi: analizzando la loro anatomia comprenderemo come le loro funzioni sono fortemente influenzate dall’articolazione del ginocchio.
Spesso in palestra il polpaccio va allenato stimolando principalmente il gastrocnemio, e viceversa va trascurato il lavoro specifico sul sòleo.
In che modo è possibile quindi allenare il muscolo sòleo isolandolo e dandogli maggior focus?
Anatomia soleo: origine ed inserzione
Il sòleo è situato nella parte posteriore della gamba, pur occupando quasi lo stesso volume che occupa il gastrocnemio, il sòleo non è molto in vista poiché è ricoperto quasi in toto dai gemelli.
Ha origine dalla parte posteriore della testa del perone, dalla tibia e dall’arcata del sòleo; il ventre muscolare decorre inferiormente fino a unirsi con gli altri componenti del tricipite della sura in un unico tendine chiamato tendine d’Achille o tendine calcaneare, il quale va a inserirsi posteriormente sul calcagno.
Il sòleo è deputato alla funzione di planti-flessore, cooperando col gastrocnemio e rivestendo ruoli diversi in base al grado di flessione del ginocchio.
Origine
Inserzione
Azione
Parte posteriore della testa del perone, dalla tibia e dall’arcata del sòleo
Tendine di Achille assieme agli altri muscoli del tricipite della sura.
Plantiflessione, estende il piede
Soleo e gastrocnemio: qual è la differenza
Il gastrocnemio e il soleo hanno in comune il punto d’inserzione sul calcagno mediante il tendine d’Achille, il che rende entrambi i ventri muscolari dei potenti planti-flessori; ma ciò che li differenzia anatomicamente e funzionalmente è il punto d’origine: se il sòleo origina dalla tibia e dal perone e coinvolge la sola articolazione della caviglia, così non è per il gastrocnemio il quale ha origine dal femore e coinvolge dunque anche l’articolazione del ginocchio e prendendo anche la funzione di flessore dello stesso (seppur non in modo importante).
Ciò, oltre ad influenzare i movimenti del ginocchio, va a influire anche sull’attività del muscolo stesso nella sua azione di planti-flessore, infatti, il potenziale d’azione del gastrocnemio varierà secondo il grado di flessione del ginocchio: a ginocchio esteso il gastrocnemio partirà da una posizione di leggero pre-allungamento che favorirà l’espressione di forza; viceversa, man mano che l’estensione viene meno flettendo il ginocchio, il gastrocnemio partirà da una posizione de-tesa che sfavorirà l’espressione di forza rendendo il suo coinvolgimento quasi nullo, delegando quasi totalmente il compito di planti-flessore al sòleo con ginocchio flesso a 90°.
Ricapitolando, a ginocchio esteso il protagonista sarà il gastrocnemio, il quale, all’aumentare del grado di flessione del ginocchio perderà la sua efficienza, affidando quasi totalmente il movimento al sòleo con ginocchio flesso a 90°.
Come allenare il soleo
In palestra sono spesso svolti esercizi per i polpacci che coinvolgono principalmente il gastrocnemio, in altre parole tutti quegli esercizi che sono eseguiti a ginocchio esteso; raramente si nota qualcuno allenare il sòleo, forse perché si sottovaluta, forse per scomodità, o forse poiché al contrario dei gemelli non è un muscolo in vista. Nonostante ciò, in ottica ipertrofia e sezione totale del polpaccio, andrebbe considerato che un suo sviluppo andrebbe ad aumentare il volume totale del tricipite della sura e, dunque, del gastrocnemio.
Oltre a questo emerge un’altra motivazione di natura funzionale/preventiva per il quale si dovrebbe allenare il sòleo: un corretto equilibrio fra forza esercitata dal gastrocnemio e forza esercitata dal sòleo, aiuterebbe a prevenire infortuni al legamento crociato anteriore.
Nello studio che tratta l’argomento, è citato il gastrocnemio come un muscolo che trasla anteriormente la tibia, movimento al quale si oppone il legamento crociato anteriore che sarà dunque sollecitato. Viceversa il sòleo è considerato come un muscolo che trasla posteriormente la tibia e quindi agonista al legamento crociato anteriore.
Seppure non sia chiaro in che modo il sòleo dovrebbe traslare posteriormente la tibia, dai risultati dello studio si evince che comunque la sua contrazione gioca un ruolo importante nel ridurre le sollecitazioni cui è sottoposto il legamento crociato anteriore. Da ciò si deduce che un corretto equilibrio fra i due muscoli e un allenamento specifico per il sòleo sia importante per prevenire infortuni ed allenare il sòleo non sia dunque utile solo a livello ipertrofico ma anche a livello funzionale.
Seated Claf Raise
L’unico esercizio per stimolare direttamente il muscolo sòleo è il seated calf raise (calf raise seduto), che è eseguito da seduti con ginocchia a 90° di flessione, posizione di partenza della caviglia in dorsi-flessione, il che porterà in pre-allungamento il sòleo, e il movimento consiste appunto in una planti-flessione. Può essere eseguito all’apposito macchinario o, se assente, adattandosi tramite l’utilizzo del multipower o della leg extension, poggiando il cuscino sulle ginocchia e utilizzando un rialzo sotto i piedi per permettere il pre-allungamento.
Stretching soleo
L’allungamento selettivo del sòleo rispetto al gastrocnemio sarà possibile, anche in questo caso, eseguendo lo stretching con ginocchio flesso. Esistono prevalentemente 3 metodologie di stretching:
-In piedi, rivolti verso il muro distanziati da esso da un passo circa, poggiandogli le mani per non perdere l’equilibrio, inclinarsi in avanti flettendo entrambe le ginocchia e cercando di portarle in avanti e in basso, senza mai staccare i talloni da terra.
-Posizionatevi in piedi di fronte al muro a una distanza tale che eseguendo un passo medio – lungo e scendendo in affondo vi ritroviate a potervi poggiare con le mani su di esso, arrivate a questa posizione senza mai staccare da terra il tallone del piede che sta dietro, adesso cercate di portare in allungamento il muscolo flettendo il ginocchio del piede che sta dietro il più possibile, sempre mantenendo la suola adesa al terreno.
-In piedi su di uno step/scalino, tenendovi con le mani su un supporto, spostatevi su un’estremità dello step mantenendo solo l’avampiede poggiato e, con ginocchia flesse, allungate il muscolo spingendo i talloni in basso.
Assieme al gastrocnemio può a volte essere causa di una rigidità di caviglia che non permette di eseguire correttamente esercizi come lo squat, poiché una loro retrazione può limitare l’escursione in dorsi-flessione necessaria a tale scopo. In questi casi eseguire dello stretching ed allungare i muscoli potrebbe risultare utile.
Pronucia corretta Soleo
Dopo aver parlato di anatomia, funzioni , e di come allenare il muscolo sòleo, non resta che sciogliere un ultimo dubbio che in molti si fanno…come si pronuncia correttamente soleo?
Come avrete notato l’accento cade sulla “o”, il che vuol dire che si pronuncerà come O aperta, ovverosia il suono che emettiamo quando pronunciamo “ho” verbo avere, di conseguenza, poiché in italiano ad eccezione delle parole composte, se un vocabolo contiene una vocale aperta, tutte le altre si pronunceranno come vocali chiuse, la “e” sarà pronunciata dunque come “e” congiunzione.
Conclusioni
Il sòleo è un muscolo che pur essendo poco conosciuto e poco in vista, come abbiamo visto, può essere un valido alleato in ottica prevenzione infortuni e un suo corretto allenamento può contribuire al volume totale del polpaccio; inoltre abbiamo visto come in alcuni casi una sua retrazione potrebbe essere la causa di una scorretta esecuzione di alcuni esercizi.
Dopo aver analizzato tutti questi aspetti, non vi resta che decidere se inserire degli esercizi di potenziamento e/o allungamento nei vostri allenamenti!
Bibliografia
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-Fisiologia articolare. Kapandji, 2002.
-Effect of Different Ankle- And Knee-Joint Positions on Gastrocnemius Medialis Fascicle Length and EMG Activity During Isometric Plantar Flexion. Arampatzis et al. (J Biomech. 2006)
-Journal of Biomechanics. Contributions of the Soleus and Gastrocnemius muscles to the anterior cruciate ligament loading during single-leg landing (HosseinMokhtarzadeh ,Chen HuaYeow ,James ChoHong Goh ,DennyOetomo,FatemehMalekipour ,Peter Vee-SinLee,2013)
Note sull’autore
Davide Ventura.
Studente di Scienze motorie. Da sempre appassionato di resistance training e all’approccio scientifico inerente all’allenamento e tutto ciò che lo riguarda.
L’epitrocleite, detta anche “gomito del golfista”, è una sindrome dolorosa dovuta generalmente ad una degenerazione dei tendini (tendinopatia) e di un sovraccarico funzionale dei muscoli flessori e/o pronatori del polso, con conseguente dolore nella zona interna del gomito. Questi muscoli, infatti, sono localizzati nella regione mediale (interna) del gomito e dell’avambraccio: originano dall’epitroclea omerale, si inseriscono sul polso e sulla mano ed hanno la funzione di flettere il polso e le dita, e di pronare l’avambraccio. L’epitrocleite è la seconda causa più comune di dolore al gomito (dopo l’epicondilite) ed è molto diffusa in coloro che si allenano in palestra e/o a corpo libero.
Numerosi sportivi e lavoratori sono infatti colpiti da questa patologia ogni anno, con sintomi al gomito che possono talvolta persistere, secondo la letteratura, anche per mesi o anni. C’è ancora molta confusione riguardo a quale sia la gestione ottimale di questo disturbo. Perchè avviene l’epitrocleite? Quali sono le cause e i rimedi? Per quanto tempo può durare? Come si può gestire un allenamento in palestra in presenza di epitrocleite? Cerchiamo di fare ordine, in modo da aprire la strada ad un piano di trattamento efficace.
Che cos’è l’epitrocleite? Definizione
L’epicondilite (o “gomito del golfista”) è la principale causa di eptroclealgia, ossia di dolore localizzato nella zona mediale (interna) del gomito. Questa viene chiamata anche “tendinopatia mediale del gomito”, ed è essenzialmente una tendinopatia inserzionale dei muscoli flessori del polso e delle dita, e/0 dei muscoli pronatori dell’avambraccio, inseriti anatomicamente proprio a livello dell’epitroclea omerale.
Come per tutte le tendinopatie che possono affliggere il corpo umano, le cause possono essere ricercate in uno squilibrio funzionale tra gli stress imposti sulle strutture tendinee e muscolari, e la capacità di recupero dei tessuti stessi. Tali stress (del tutto fisiologici) sono dovuti ad una combinazione di forze tensive e compressive, generate dalla contrazione muscolare. In questo meccanismo rientrano eventuali predisposizioni individuali, errori nel dosaggio dell’allenamento, esercizi/movimenti particolarmente stressanti (stress in valgo sul gomito) e il sovraccarico associato alla vita di tutti i giorni.
L’epitrocleite colpisce più frequentemente l’arto dominante di soggetti tra i 35 e i 50 anni, (anche se è possibile riscontrarla in tutte le fasce di età) con un’incidenza leggermente più alta nel sesso maschile. Nello specifico, ne soffrono maggiormente soggetti che svolgono attività sportive o lavori manuali ripetitivi (come elettricisti, idraulici, macellai, carpentieri…), attività e mestieri il cui comune denominatore è rappresentato da sforzi prolungati o ripetuti che comportano la flessione del polso e delle dita e/o la pronazione dell’avambraccio associata ad una presa.
Nonostante il proprio nome questa patologia si riscontra spesso, oltre che nei golfisti, anche in altri sport come il tennis, allenamento con pesi, lancio del giavellotto, football americano, sport di lancio vari.
Cause dell’epitrocleite
Il dolore al gomito nel caso di epitrocleite è quindi generato da un sovraccarico funzionale eccessivo di questi muscoli impegnati nelle attività manuali lavorative e sportive nelle quali sono previsti movimenti ripetuti contro resistenza di flessione del polso e delle dita e pronazione dell’avambraccio. In contesto fitness lo stress funzionale in questione può essere dato anche dagli esercizi nei quali è coinvolta in maniera determinante una presa.
Solitamente i muscoli più coinvolti in questa patologia sono il flessore radiale del carpo e il pronatore rotondo, ma lesioni possono talvolta comprendere anche i muscoli palmare lungo, flessore superficiale delle dita e flessore ulnare del carpo.
Da sinistra verso destra i muscoli flessore radiale del carpo, pronatore rotondo, palmare lungo e flessore superficiale delle dita
La persistenza di tali forze stressanti e lesive per i tessuti interessati genera alla lunga alterazioni e degenerazioni tissutali che instaurano un circolo vizioso caratterizzato da dolore-immobilità-debolezza, il tutto amplificato anche da una possible ipersensibilità al dolore del sistema nervoso (specialmente nei casi di epitrocleite cronica).
In particolare è stato osservato che un aumento repentino e poco graduale dello stress imposto sui tessuti tendinei è spesso il fattore che innesca i processi tendinopatici, per cui la colpa non è tanto della quantità di stress imposto, ma più della gradualità con la quale questo viene inserito (i tessuti tendinei hanno infatti necessità di un fisiologico tempo di recupero tra un’attività stressante e la successiva per poter adattarsi allo stimolo).
Nonostante la definizione di “epitrocleite” lasci presupporre un quadro infiammatorio dei tendini interessati (il suffisso -ite richiama solitamente una natura patologica di tipo infiammatorio) è stato osservato come l’infiammazione non rappresenti il principale meccanismo patologico alla base di questa patologia, la cui causa risiede invece in fattori di natura degenerativa (brevi picchi infiammatori possono essere presenti in genere solamente nelle fasi iniziali del decorso).
Nell’epitrocleite l’inserzione dei muscoli epitrocleari subisce un particolare sovvertimento della struttura tendinea, chiamato “degenerazione angiofibroblastica”, che comporta uno scompaginamento delle fibre collagene (che compongono il tendine) ed una progressiva sostituzione di queste con un tessuto cicatriziale ricco di vasi.
Da un punto di vista microscopico, il sovraccarico meccanico ripetitivo causato da forze tensive e compressive causa un accumulo di macromolecole dette “proteoglicani” (molecole fortemente idrofile), che attraggono ad esse acqua, portando (insieme ad altri processi pato-degenerativi) al processo di degenerazione (o iperplasia) angiofibroblastica.
Tale fenomeno viene considerato un “dysrepair” (riparazione alterata) cellulare. L’aumento di proteoglicani attrae acqua dentro la matrice extracellulare (tra le fibre di collagene del tendine), la quale altera il collagene e i collegamenti fra i tenociti, provocandone una disorganizzazione spaziale. A questo meccanismo si aggiungono fenomeni di neovascolarizzazione (formazione di nuovi vasi sanguigni e nervi sensoriali): in sostanza, nuovi vasi sanguigni crescono in zone dove normalmente non sarebbero presenti, portando alla concomitante formazione di nuove fibre nervose sensoriali, in grado di trasmettere stimoli nocicettivi (dolorosi).
Questi nuovi vasi sanguigni prodotti in aree che normalmente sarebbero quasi avascolari non sono funzionali alla salute tendinea (sono definiti “iperpermeabili”, non sono cioè in grado di fornire ossigeno e sostanze nutritive necessarie per la riparazione e guarigione tendinea).
Altri processi patologici nei tessuti tendinei in questi casi sono la diffusione di aree di apoptosi (degenerazione) cellulare e l’aumento delle fibre collagene di tipo 3 (nella normalità i tendini sono composti prevalentemente da fibre collagene di tipo 1 con orientamento longitudinale, ottimali per la trasmissione di forza, mentre le fibre collagene di tipo 3 sono più disorganizzate e meno funzionali) con conseguente resistenza biomeccanica inferiore.
Fattori di rischio per l’epitrocleite
I fattori di rischio osservati dalla letteratura per l’insorgenza di epitrocleite sono i seguenti:
Movimenti di polso in flessione-estensione e/o prono-supinazione ripetitivi per più di 2 ore al giorno
Volume eccessivo di allenamento
Quantità o eccessive velocità di progressione del carico, cambiamenti improvvisi o rapidi in quantità o tipo di carico
Biomeccanica individuale (debolezza e/o alterazioni e squilibri muscolari, diminuzione della flessibilità)
Fisiologico invecchiamento
Alto BMI e ipercolesterolemia
Diabete di tipo 2
Fumo di sigaretta
Problemi dismetabolici, alterata circolazione locale
I classici sintomi dell’epitrocleite prevedono un dolore molto localizzato interno al gomito che viene accentuato da movimenti di flessione del polso o delle dita con il gomito in posizione di estensione e l’avambraccio in supinazione. Inoltre, anche uno stress laterale sull’avambraccio con il gomito flesso o esteso e l’omero bloccato può provocare il dolore.
Per capire come si manifesta l’epicondilite al gomito, analizziamone i sintomi caratteristici. L’epitrocleite generalmente ha una manifestazione tipica, caratterizzata da un dolore interno al gomito localizzato a livello dell’epitroclea, che può irradiare talvolta al polso e nel lato ulnare dell’avambraccio. Tale dolore può essere evocato da:
Palpazione diretta della zona di inserzione dei muscoli flessori del polso
Attività che richiedono una presa salda
Attività quotidiane e/o movimenti che richiedono una flessione e/o pronazione forzata del polso contro una resistenza esterna, specie se con il gomito esteso.
Attività o sport in cui sono previsti lanci ripetuti
Spesso, inoltre, è possibile notare deficit della mobilità e forza dei flessori del polso, dei pronatori e dei muscoli del cingolo scapolo-omerale (in particolare nei movimenti di abduzione, extrarotazione ed estensione di spalla), così come un deficit di forza della presa. In fasi acute il dolore può essere presente anche a riposo o con movimenti banali.
In palestra, potenzialmente, a seconda anche della gravità del quadro, il dolore può essere esacerbato in qualsiasi esercizio in cui è necessaria una presa. Tuttavia, di solito il dolore è presente durante esercizi di tirata (come Lat machine e Trazioni) e durante esercizi per i bicipiti, specie con l’avambraccio supinato (come per esempio il Curl con bilanciere).
Importante comunque precisare che un dolore alla parte interna al gomito (epitroclealgia) non per forza è dovuto ai tendini dei flessori o solo ed esclusivamente ad essi. Infatti, sono comuni quadri di dolore derivati da una distrazione o lesione al legamento collaterale ulnare del gomito (specie post trauma) o infiammazioni del nervo ulnare che passa proprio in questa zona del gomito. In quest’ultimo caso i sintomi possono irradiarsi anche a livello dell’avambraccio come una tensione e fino alle ultime due dita della mano con formicolii e intorpidimento. Soprattutto nei casi molto cronici col dolore che persiste da molti mesi o anni è spesso presente un quadro di sensibilizzazione del dolore, il quale può presentarsi “a specchio” anche nel gomito opposto.
Diagnosi dell’epitrocleite: come individuarla?
La diagnosi dell’epicondilite è prevalentemente clinica, ossia ottenibile mediante una visita medica.
Nella valutazione clinica è importante porre attenzione al tipo di attività sportiva o lavorativa svolta ed alla presenza di pregresse tendinopatie come quella alla cuffia dei rotatori, la sindrome di De Quervain, il dito a scatto e l’epicondilite, che sono espressione di una predisposizione individuale per le tendinopatie degenerative.
Clinicamente il dolore sarà localizzato in corrispondenza dell’epitrocela omerale e potrà irradiare verso il polso e il lato ulnare dell’avambraccio. In modo caratteristico si evoca dolore facendo contrarre contro resistenza i muscoli flessori del polso e pronatori con gli opportuni testi clinici ortopedici. Nella valutazione clinica può inoltre essere di notevole utilità l’utilizzo di un dinamometro per valutare la forza della presa.
Le indagini strumentali tra cui la radiografia, l’ecografia, la risonanza magnetica e l’elettromiografia possono servire a confermare il sospetto clinico e ad escludere altre cause di dolore interno al gomito. A riguardo però è fondamentale sottolineare come la letteratura riporti tendenzialmente una scarsa correlazione tra l’intensità del dolore e la patologia tendinea.
In parole semplici, questo significa che non sempre un “brutto” quadro ecografico con tendini molto degenerati può essere correlato ad un dolore severo e che, viceversa, talvolta un quadro tendineo buono o privo di alterazioni importanti può comportare comunque un dolore maggiore. Inoltre, come per altre regioni anatomiche, anche qui c’è un’alta presenza di alterazioni tendinee nei soggetti privi di dolore.
Cosa fare per curare l’epitrocleite al gomito?
Come curare l’epitrocleite? I rimedi per questa condizione sono svariate e presentano evidenze contrastanti. Fra le diverse tipologie di trattamento proposte per la gestione e il trattamento di questa patologia troviamo:
Correzione/modifica/sospensione delle attività provocative che sovraccaricano durante la giornata i muscoli flessori del polso e pronatori dell’avambraccio
Esercizi di rinforzo e allungamento dei muscoli flessori del polso e delle dita e dei muscoli pronatori (esercizi isometrici e/o isotonici).
Terapia manuale
Tutore per epitrocleite
Infiltrazioni locali di cortisone
Terapie fisiche (TENS, laser, ultrasuoni…)
Ghiaccio e farmaci antinfiammatori
Chirurgia
Riposo
Analizzeremo nell’articolo cosa afferma la letteratura scientifica riguardo ciascuna di queste proposte, ma partiamo dal definire quello che ad oggi sembra essere l’approccio più razionale e scientifico a questa patologia.
Secondo gli studi un trattamento di tipo “multimodale” (comprensivo di più interventi terapeutici) è da preferire; tuttavia la parte principale e fondamentale del trattamento dovrà sempre essere l’identificazione e la successiva modifica/rimozione (da valutare per ogni singolo caso) dell’attività provocativa, insieme all’esecuzione di un programma di esercizi di ricondizionamento tendineo volti a restituire elasticità, forza e resistenza ai gruppi muscolari interessati, così da facilitare la risoluzione del dolore e migliorare le proprietà meccaniche dei tessuti colpiti.
La funzionalità tendinea, infatti, è data dalla qualità e dall’organizzazione delle fibre collagene di cui le stesse cellule tendinee sono composte, ed è stato osservato che è proprio il carico espresso sui tenociti (tramite l’esercizio con sovraccarichi) il fattore chiave in questo contesto, in grado di regolare la risposta di sintesi proteica del collagene.
Il fattore più importante nel trattamento delle tendinopatie è quindi la gestione dei carichi. Applicare un carico ottimale (“optimal load”, diverso per ogni soggetto in base alle proprie caratteristiche) permette di “spremere fuori” le molecole di acqua in eccesso presenti nella matrice extracellulare tendinea, garantendo una riorganizzazione delle fibre collagene e migliorando di conseguenza l’organizzazione strutturale, la biomeccanica e la funzionalità tendinea.
Questo processo può essere svolto mediante contrazioni muscolare isometriche e isotoniche (di solito si preferisce somministrare contrazioni isometriche mantenute nelle fasi di irritabilità/dolore più elevate, per passare successivamente a contrazioni isotoniche concentriche/eccentriche e ad esercizi più complessi e globali) dei muscoli target (nel nostro caso i flessori del polso e pronatori).
Fondamentale in questi contesti sarà anche l’educazione del soggetto, che dovrà essere informato delle caratteristiche e del comportamento tipico di questa patologia, della prognosi media e dei fattori provocativi, così da ottimizzarne la gestione individuale.
Il messaggio chiave da portare a casa è quindi che il trattamento per l’epitrocleite si deve basare sull’educazione del paziente, sull’identificazione e gestione dell’attività provocativa, e sulla gestione dei carichi tramite esercizi. Altri tipi di intervento possono essere aggiunti con l’obbiettivo di ridurre i sintomi e ottimizzare il processo di guarigione, ma dovranno essere considerati come un’arma in più, e non come la parte principale del percorso riabilitativo.
Esercizi efficaci contro l’epitrocleite
Abbiamo definito l’esercizio terapeutico (insieme all’educazione e alla gestione delle attività provocative) come arma principale a nostra disposizione per gestire l’epicondilite. Ma quali esercizi dobbiamo preferire?
Per l’epitrocleite possono essere utili:
Esercizi di rinforzo isometrico/concentrico/eccentrico dei muscoli flessori del polso e pronatori dell’avambraccio con elastico, barra o manubrio, eseguiti a gomito flesso a 90° o esteso
Esercizi di stretching per i muscoli flessori del carpo
Esercizi per l’upper body di spinta e tirata che coinvolgano i muscoli flessori del polso e delle dita nel loro ruolo di stabilizzatori del polso e della presa.
Esercizi di rinforzo dei movimenti di abduzione, estensione ed extrarotazione di spalla
Immaginando un percorso riabilitativo dall’inizio alla fine, è consigliabile iniziare con contrazioni isometriche nelle fasi più acute e a irritabilità più elevata (dolore forte ed evocato facilmente). Possono essere utilizzati elastici o manubri con tenute da 20” fino a 50” per ogni serie, da ripetere per 3/4 serie più volte al giorno.
Successivamente si potranno aggiungere esercizi di allungamento degli stessi muscoli, ed esercizi isotonico concentrici/eccentrici (eventualmente si può partire inserendo solo contrazioni eccentriche), sempre con elastico, barra o manubrio. In una terza fase più avanzata, infine, quando la sintomatologia sarà notevolmente diminuita, andremo ad inserire gradualmente esercizi globali per gli arti superiori di spinta e tirata, sfidando così i flessori del polso nel loro ruolo di presa e di stabilizzazione del polso, piuttosto che come mobilizzatori primari, e tornando a svolgere gradualmente e senza sintomi quegli stessi esercizi/movimenti che prima generavano dolore.
Fra gli esercizi in questione rientrano, per esempio: trazioni, rematori, push-up, panca piana, spinte con manubri, curl (con manubri o bilanciere sagomato), alzate laterali, french press, squat.
Inoltre, è stato osservato che i soggetti con epitrocleite mostrano deficit significativi di forza nei movimenti di spalla di abduzione, extrarotazione, ed estensione. Questo accade perchè se la spalla non riesce a sopportare una certa quantità di carico in un movimento, tenderà a scaricare molto lavoro sul gomito, aumentandone lo stress ricevuto.
Nel gesto del lancio, per esempio, una spalla che non ruota abbastanza esternamente, causerà un compenso a livello del gomito che aumenterà lo stress in valgo. Per questo motivo, in fasi riabilitative intermedie e avanzate per l’epitrocletie, sarà utile aggiungere anche esercizi di rinforzo dei movimenti di abduzione (alzate alterali), estensione (estensioni da prono, pulldown, trazioni…) e rotazione esterna (extrarotazioni con cavo o manubrio) di spalla.
Quanto dura l’epitrocleite e quanto il recupero?
Da un punto di vista prognostico, i sintomi possono durare in media dalle 2 settimane ai 3 anni. Nell’80% circa dei casi il dolore svanisce spontaneamente (con la sola rimozione/modifica dello stimolo provocativo) entro un anno ed è caratterizzato da frequenti recidive e riacutizzazioni del dolore. La restante percentuale può andare incontro invece a quadri cronici che perdurano per oltre un anno.
In questo contesto, assolutamente da non trascurare è il sistema di elaborazione del dolore. Specie nei casi cronici che sono restii alla guarigione e che perdurano per molto tempo, è riportato un quadro di ipersensibilità dell’area, con un’alterazione nella modulazione del dolore a livello del sistema nervoso centrale. In altre parole, a questo livello può essere presente un’eccessiva sensibilità dei tessuti agli stimoli che conduce a elaborare uno stimolo doloroso amplificato.
È stato notato come il meccanismo di questa sensibilizzazione del sistema nervoso centrale sia strettamente correlato ad alcuni “fattori psicosociali”(fra i quali troviamo un’infinità di elementi come ambiente familiare/lavorativo/sociale, vissuto familiare, predisposizioni genetiche, ansia, stress, depressione, kinesiofobia, catastrofizzazione, traumi emotivi ecc…).
La presenza di questi elementi, di dolore dall’intensità e/o durata anomala, e di altri fattori (come la migrazione del dolore nel gomito opposto) può essere riconducibile a un quadro di ipersensibilità del sistema nervoso centrale in un contesto di dolore cronico. Essi spiegherebbero perchè talvolta non vi sia correlazione diretta tra la patologia dei tendini nell’ecografia e la gravità dei sintomi.
Un altro motivo della cronicità dell’epitrocleite può essere riscontrato nei casi in cui lo stimolo nocivo/doloroso non venga mai modificato/rimosso.
Epitrocleite, bodybuilding e palestra: cosa fare e cosa non fare? Ci sono movimenti da evitare?
Anche molti appassionati di fitness e bodybuilding sviluppano non di rado quadri di epitrocleite. Il sovraccarico funzionale è infatti dietro l’angolo quando si portano avanti con costanza programmi di allenamento mirati allo sviluppo della forza e dell’ipertrofia muscolare. In linea di massima non esistono esercizi in assoluto da sconsigliare poiché l’epitrocleite nasce da uno squilibrio tra il carico a cui è sottoposto l’apparato tendineo e il recupero che necessita per evitare fenomeni degenerativi. Per questo è fondamentale il dosaggio dei carichi di lavoro adeguatamente gestito grazie a una programmazione razionale e di buon senso.
Ad ogni modo, esistono alcune associazioni di movimenti che possono provocare ed esacerbare il dolore in quadri di epitrocleiti sintomatiche, e la loro conoscenza è la base per capire perché viene l’epitrocleite e come prevenire l’insorgenza di questo disturbo. Il fattore fondamentale in palestra è quindi gestire nel tempo questi movimenti (evitandoli temporaneamente, se necessario) dosando nella maniera più intelligente possibile il carico sui tessuti interessati. Gli esercizi in assoluto più a rischio sono quelli che prevedono movimenti di flessione del gomito associati a supinazione dell’avambraccio.
Gli esercizi a cui fare attenzione in particolare sono:
Il Curl con manubri o bilanciere (in particolare bilanciere dritto, il quale genera forzature che non permettono di rispettare la normale biomeccanica del gomito). Questo esercizio andrebbe quindi limitato (se non eliminato temporaneamente) in fasi molto dolorose di epitrocleite.
Lat Machine e Trazioni con presa supina. Le tipologie differenti di prese in questi due esercizi andrebbero costantemente cambiate durante i vari periodi dell’anno, evitando di allenarsi tutto l’anno con la presa prona. Alternate presa prona e presa neutra durante la vostra programmazione sia per ridurre il sovraccarico sui flessori del polso, sia per variare gli stimoli muscolari in ottica ipertrofia.
Qualsiasi altro esercizio che necessita l’utilizzo di una presa salda che ostacola la forza di gravità (molti movimenti e skill del calisthenics, per esempio, sono inclusi in questa categoria).
In soggetti molto rigidi anche la posizione forzata dei gomiti in avanti nell’incastro del bilanciere sulle spalle durante lo squat con bilanciere. In questi casi è consigliato allargare l’ampiezza della presa delle mani sul bilanciere per compensare un’eventuale rigidità di spalla in rotazione esterna.
Oltre alla fondamentale ricalibrazione dei parametri allenanti (serie, ripetizioni, carichi) negli esercizi appena citati, vediamo quindi tre accorgimenti utili per ridurre l’epitrocleite in palestra e avviarci verso una definitiva guarigione.
Il primo accorgimento riguarda l’allineamento della presa: è tipico in soggetti che soffrono di epitrocleite cronica con recidive costanti, che durante esercizi come Lat machine, Trazioni o Pulley si assista ad una presa con eccessiva flessione del polso (allo scopo anche di vincere un sovraccarico eccessivo). In questo modo si genererà un sovraccarico importante a carico dei muscoli flessori del polso e delle dita, ostacolando la guarigione; per cui è fondamentale prendere coscienza di un’eventuale alterazione nell’allineamento della presa e correggerla (il polso dovrà ritrovarsi leggermente esteso di circa 20-30°).
Secondo accorgimento: la cura dello schema motorio, in particolare durante esercizi multiarticolari. In questi esercizi sarà importante cercare di ridurre il sovraccarico sui muscoli dell’avambraccio. Per fare ciò è fondamentale imparare a selezionare al meglio i movimenti dell’omero durante gli esercizi di tirata e di spinta. Per esempio, durante gli esercizi di tirata si dovrà pensare a tirare l’omero all’indietro e verso il basso. In questo modo lo stimolo sarà veicolato al massimo sui muscoli della schiena, diminuendo il sovraccarico sui muscoli dell’avambraccio. Sarà quindi necessario non pensare di tirare dai polsi, ma concentrarsi invece sul muovere i gomiti
Terzo accorgimento: sarà fondamentale aggiungere e integrare nella scheda di allenamento esercizi di ricondizionamento della matrice tendinea degenerata. Come riportato precedentemente, a seconda dello stadio dell’epitrocleite potremmo inserire esercizi isometrici, eccentrici o concentrico-eccentrici per i muscoli flessori del polso e pronatore rotondo.
Per quanto riguarda la gestione del dolore durante l’esecuzione degli esercizi la regola da rispettare secondo la letteratura è la seguente: è consentito al massimo un dolore che sia di bassa entità (che risulti quindi tollerabile) e che non peggiori ne durante ne nelle 24 ore dopo l’allenamento (deve quindi rimanere relativamente stabile, o diminuire poco dopo l’allenamento). In caso contrario, probabilmente il carico esercitato sui tendini è stato eccessivo, e sarà necessario ricalibrare nuovamente i parametri allenanti.
È importante aver ben compreso che, anche se esistono esercizi che per loro natura aumentano il fattore di rischio di insorgenza di epicondilite, l’elemento chiave in questo contesto è il rispetto della gradualità nella progressione e programmazione dei parametri allenanti.
L’esercizio fisico, infatti, ha dimostrato di provocare una riduzione netta del collagene tendineo durante le prime 24h-36h successive agli esercizi, ma un aumento netto (arrivando a quantità maggiori di quelle di partenza) dopo 36h-48h. Questo vuol dire che un tempo di recupero insufficiente tra un allenamento e il successivo potrebbe inclinare l’equilibrio tra sintesi e degradazione del collagene tendineo, determinando uno stato catabolico di quest’ultimo. Per tale ragione è raccomandabile inserire un recupero di 2-3 giorni tra le attività di carico pensante sul tendine ogni volta che si aumentano in modo importante i parametri di allenamento.
Attenzione, qui è facile fraintendere: questo non vuol dire che sia necessario prendere 3 giorni di recupero dopo OGNI allenamento, ma che ogni volta che si svolge un allenamento pesante a carico di un determinato distretto muscolo-tendineo nel quale si è aumentato uno o più parametri allenanti sarebbe consigliabile un recupero di 2-3 giorni prima di fornire un ulteriore stimolo allenante elevato, così da garantire il fisiologico turnover di collagene intratendineo, evitando così l’insorgenza di processi degenerativi tendinopatici.
L’allenamento abituale, quindi, comporta un maggior turnover del collagene, mentre l’inattività riduce la sintesi del collagene (che ricordiamo essere alla base della funzionalità e salute tendinea). D’altro canto, anche un allenamento ripetuto con periodi di riposo troppo brevi può provocare un netto degrado della matrice tendinea e provocare lesioni da sovraccarico.
Altri rimedi per l’epitrocleite: quali sono efficaci?
Andiamo ad analizzare cosa afferma la letteratura in merito alle altre proposte riabilitative spesso utilizzate nel trattamento dell’epitrocleite.
Tutore per epitrocleite
Il tutore è una fascia con una placca di compressione che va indossato circa tre dita sotto l’epicondilo. Riguardo al suo utilizzo troviamo due teorie tra loro contrastanti:
Una teoria a favore, che troverebbe il suo fondamento nel fatto che il tutore agirebbe come una sorta di “seconda origine” sull’osso per i muscoli estensori, riducendo le forze sui tendini degenerati e andando nella direzione dello “scarico” tendineo e della guarigione. Tuttavia le evidenze scientifiche a riguardo sembrano essere abbastanza modeste.
Una teoria a sfavore, argomentata dal fatto che il tutore in questo caso andrebbe a generare uno stress compressivo sui tendini degli estensori del polso, ed è risaputo che gli stress compressivi (insieme a quelli tensivo) hanno un ruolo principale nello sviluppo patologico delle tendinopatie, contribuendo ad alimentare la sintomatologia dolorosa.
Infiltrazioni e terapie fisiche
Le infiltrazioni di cortisone in casi di epitrocleite hanno dimostrato un effetto benefico a breve termine (nella riduzione dei sintomi) ma negativo nel medio-lungo termine (6-12 mesi), con un ritardo nella guarigione e con un’aumento del 62% della probabilità di andare in contro a recidive rispetto al non fare nulla.
Le infiltrazioni con cortisonici rappresentano quindi un fattore prognostico negativo per la risoluzione spontanea dei sintomi, contribuendo in alcuni alla cronicizzazione di questi, e per tale ragione sembrerebbe sconsigliato eseguirle (anche se va detto che le evidenze sul lungo termine sono discordi fra loro, e vi sono ancora discussioni a riguardo).
Anche per le terapie fisiche come TENS , ultrasuoni e onde d’urto l’evidenza è molto contrastante. Pare che in alcuni casi queste possano aiutare nel ridurre i sintomi nel breve termine, ma in ogni caso il loro inserimento nel piano riabilitativo deve essere sempre considerato come uno strumento aggiuntivo, e mai come parte principale.
Discorso analogo per le infiltrazioni di “Fattori di crescita” derivati dalle piastrine del sangue (plasma del sangue arricchito di piastrine, denominato “PrP”), che hanno mostrato scarsi effetti terapeutici nell’epitrocleite.
Ghiaccio e antinfiammatori
L’applicazione di ghiaccio può essere utilizzata a scopo unicamente antalgico nelle fasi più acute e dolorose. La sua efficacia è stata tuttavia messa in forte discussione da diversi studi. Anche l’utilizzo di farmaci antinfiammatori è sconsigliato in quadri di epitrocleiti croniche, poichè come abbiamo visto l’eziologia di questo disturbo è di natura degenerativa e non infiammatoria.
Riposo
Il riposo assoluto e l’astinenza dai carichi sono controindicati nei casi di tendinopatie (come l’epitrocleite) in quanto può ridurre la resistenza meccanica del tendine, e la rimozione totale del carico può indurre cambiamenti tendinopatici degenerativi dovuti alla mancanza di uno stimolo meccanico.
Come abbiamo visto in precedenza, infatti, l’allenamento abituale comporta un maggior turnover del collagene tendineo, mentre l’inattività riduce la sintesi e il turn over di quest’ultimo.
Terapia manuale
La terapia manuale, applicata a livello locale sul gomito, ma anche a livello cervicale e/o toracico si è dimostrata essere un valido aiuto nel trattamento dell’epicondilite. Tecniche di terapia manuale possono quindi essere uno strumento aggiuntivo da aggiungere agli elementi visti in precedenza, rimanendo coscienti del fatto che in questo contesto il loro scopo è di aiutare a ridurre la sintomatologia dolorosa nel breve e medio termine attraverso i noti effetti neurofisiologici che la terapia manuale è inutile grado di produrre.
Chirurgia
Per quanto riguarda la chirurgia l’intervento (realizzato artroscopicamente o a cielo aperto) ha l’obbiettivo di rimuovere il tessuto degenerato e di favorire i processi riparativi tendinei attraverso una cruentazione locale, ossia dei gesti tecnici mirati ad aumentare la vascolarizzazione locale del tendine e della sua inserzione ossea che ne favorirebbe la guarigione.
L’intervento chirurgico è considerabile nei casi di fallimento del trattamento conservativo (dopo un minimo di 9-12 mesi di tempo). All’intervento chirurgico dovrà successivamente seguire un periodo di riabilitazione post-operatoria con una ripresa graduale del movimento, volta al recupero della mobilità, della forza e della funzionalità dell’arto (ed un ritorno allo specifico gesto atletico nel caso di sportivi).
Epitrocleite: qual è il termine più corretto?
Esistono diversi termini che identificano il tipico dolore laterale al gomito: epitrocleite, dolore mediale di gomito, epicondialgia mediale, gomito del golfista, tendinite/tendinosi dei flessori del polso…. ma quale è il più corretto?
A dispetto del nome e del suo suffisso -ite, che richiama ad un processo infiammatorio, abbiamo visto come le evidenze scientifiche attuali non riportino il quadro infiammatorio comune causa principale della condizione dolorosa dell’epicondilite. Al contrario, il quadro è prettamente degenerativo, per cui il termine “epitrocleite” risulta improprio (poichè il suffisso -ite richiama a uno stato infiammatorio) ed è consigliabile virare sulla più appropriata dicitura di “tendinopatia dei muscoli epitrocleari” o “tendinopatia mediale del gomito”, attualmente considerato dalla letteratura come il termine da prediligere.
Dolore mediale (interno) al gomito: oltre l’epitrocleite
In letteratura sono riportare altre altre condizioni che possono portare al dolore al gomito lateralmente nei pressi dell’epicondilo omerale, condizioni che non devono essere trascurate, e che possono mimare un’epicondilite, portando a diagnosi errate. Fra queste troviamo:
Problematiche articolari al gomito: da un punto di vista articolare, l’articolazione fra omero e radio e fra omero e ulna può essere sede di alterazioni e micro-instabilità
Problematiche al nervo ulnare: sindromi da compressione nervosa di questo nervo possono spesso sembrare epitrocleiti (può comunque succedere che le due cose siano presenti insieme simultaneamente). In questi casi potrebbe essere utile inserire esercizi di mobilità per il nervo ulnare (neurodinamica).
Dolori riferiti e modulati da alterazioni al rachide cervicale o toracico: esistono evidenze del fatto che anche il rachide cervicale e quello toracico possono avere influenza sul dolore mediale al gomito. Questo soprattutto se il soggetto dolorante differisce in concomitanza anche dolore al collo una storia clinica passata di sofferenza cervicale. Il dolore al gomito potrebbe insorgere come dolore riferito cervicale o da radicolopatia.
Lesioni del legamento collaterale ulnare del gomito
Queste condizioni possono spesso unirsi alla degenerazione tendinea complicando il quadro. Ecco perchè l’epitrocleite può essere una problematica ostica da gestire. Viste le insidie dettate dal suo inquadramento clinico, è sempre consigliata una visita specialistica, specie se la condizione dolorosa non guarisce nel tempo con il riposo.
Conclusioni sull’epitrocleite
Arrivando alle conclusioni, è importante ricordare che l’epitrocleite in diversi casi guarisce spontaneamente nel medio-lungo periodo e l’intervento di un professionista della riabilitazione potrà aiutare ad abbreviare i tempi di recupero e ad ottimizzare il ritorno alla performance e la gestione autonoma di eventuali recidive.
Attenzione però a eliminare a monte la causa del problema quando questa è un sovraccarico funzionale di tipo sportivo o lavorativo, un programma di allenamento mal dosato o gesti motori scorretti. Qualsiasi tipo di terapia fallirà se non verranno corretti questi fattori. È bene inoltre sapere che un dolore a livello dell’epitroclea non è per forza un’epicondilite. In questo senso la valutazione iniziale della problematica permettere un migliore inquadramento clinico e, di rimando, un trattamento mirato ed efficace.
Diversi studi hanno dimostrato come un’alimentazione sana, bilanciata e con i giusti micro e macro nutrienti è essenziale per la salute della madre e del feto.
Ovviamente lo stile di vita occidentale non è indicato per la donna in dolce attesa visto che si basa principalmente su cereali e zuccheri raffinati (prodotti da forno, dessert, ecc..) ma anche carne rossa e grassi saturi. La gestante dovrebbe invece prediligere una dieta ad alto contenuta di verdura, frutta, cereali integrali, pesce e lattici a medio e basso contenuto calorico.
L’opzione più consona è quella di basare il proprio modello alimentare su una dieta tipicamente mediterranea visto che enfatizza un elevato apporto di verdura e cereali integrali, proteine da legumi, piccole quantità di carni magre, semi oleosi e frutta secca ma allo stesso tempo ha un basso apporto di carni lavorate e zuccheri semplici.
Una particolare attenzione dovrebbe essere posta sulle donne vegane (le quali non consumano nessun prodotto di origine animale: neanche latticini o uova) e vegetariane (che invece consumano latte e uova). Queste ultime possono infatti intercorrere in alcune carenze visto un basso apporto nella dieta di vitamina B12, riboflavina, vitamina D, calcio ed omega 3. Ovviamente in questi casi può essere presa in considerazione sin da subito un’integrazione ma le indicazioni dovrebbero essere personalizzate e contestualizzate in base al soggetto che abbiamo di fronte.
Quali cibi si possono mangiare in gravidanza?
Quali salumi si possono mangiare in gravidanza?
La carne fresca consumata cruda o poco cotta e i salumi e gli insaccati poco stagionati (meno di 30 giorni) possono rappresentare un rischio per il toxoplasma, listeria monocytogenes, Salmonella, Campylobacter e E. Choli.
La toxoplasmosi è una patologia di origine parassitaria. Il protozoo responsabile è il Toxoplasma dondii che è un vero e proprio rischio per il feto e, di conseguenza, anche per la donna in gravidanza. In molti casi, il contagio nel primo trimestre può portare ad aborti spontanei oppure a malformazioni del sistema nervoso con conseguenti danni alla vista da parte del nascituro.
Appena si scopre di essere in dolce attesa è necessario capire quale sia la situazione immunitaria della futura mamma in rapporto alla toxoplasmosi. Per farlo è necessario effettuare un esame del sangue per capire se abbia o meno contratto il protozoo andando a dosare gli anticorpi nel sangue. Nel caso in cui le analisi confermino l’immunità possiamo tirare un sospiro di sollievo.
Se invece la gestante non ha mai contratto la toxoplasmosi dovrà seguire un rigoroso regime alimentare e sposare giornalmente alcune accortezze alimentari e non solo per evitare il contagio nei seguenti mesi di gestazione. Per questo motivo, soprattutto in gravidanza, è sconsigliato il consumo di carni crude e poco cotte ed il consumo di salumi e insaccati poco stagionati.
Se si sceglie di consumare affettati cotti (come ad esempio prosciutto cotto, mortadella, fesa di tacchino) meglio evitare gli affettati al banco gastronomia perché a rischio di cross-contaminazione; sono invece da preferire le vaschette preconfezionate di produzione industriale da consumare però preferibilmente entro pochi giorni dall’acquisto.
Posso mangiare il prosciutto crudo in gravidanza?
I salumi da considerare crudi sono il salame, prosciutto crudo, il capocollo, la pancetta, la bresaola e lo speck. Oltre a non essere cotti questi salumi vengono sottoposti ad una serie di processi: la salatura, la stagionatura e l’affumicatura.
Tutti questi processi non uccidono il toxoplasma, motivo per cui il prosciutto crudo e gli altri salumi crudi andrebbero esclusi in gravidanza per i nove mesi prima del parto.
L’unica eccezione che ne permette il consumo è la cottura dei salumi crudi ad alte temperature. Per esempio, se il salame o lo speck vengono utilizzati come ingredienti in sformati di pasta o preparati da forno e sono ben cotti si possono mangiare senza timori.
A questo proposito è bene fare attenzione alla pizza: i salumi, di solito, sono aggiunti alla pizza a fine cottura, ciò vuol dire che, non raggiungendo la temperatura appropriata, il parassita responsabile della toxoplasmosi potrebbe non essere abbattuto. Una nota di demerito va data alla salsiccia cruda, spesso utilizzata in alcune preparazioni culinarie: in questo caso si tratta di un alimento davvero sconsigliato in gravidanza se non prima di averlo cotto.
Quali tisane posso bere in gravidanza?
Bere tisane in gravidanza può essere un metodo utile per rimanere ben idratate ed allo stesso tempo rilassarsi e prendersi un po’ di tempo utile per dedicarsi a se stesse. Divengono efficaci per conciliare il sonno ed alleviare i disturbi tipici della gravidanza come nausea e stipsi.
Un esempio è l’infuso di camomilla: questa pianta è conosciuta per le sue proprietà calmanti ed antinfiammatorie; una tisana alla camomilla può offrire un piacevole senso di calma e benessere, alleviando dolori ed infiammazioni allo stomaco e all’intestino.
La tisana allo zenzero, invece, potrebbe essere un modo efficace nel trattamento della nausea o di piccoli disturbi digestivi. Una soluzione potrebbe essere mettere una fettina di zenzero in acqua calda a circa 90 gradi.
La tisana alla melissa potrebbe essere invece una valida soluzione per la nausea e vari disturbi gastrointestinali.
La tisana alla malva, invece, grazie alle sue proprietà decongestionanti ed antisettiche, è consigliata a soggetti che soffrono di stitichezza e cistite in gravidanza.
L’elenco delle tisane che invece vanno bandite durante la gravidanza è abbastanza lungo e comprende tutti i preparati potenzialmente nocivi sia per la madre che per il feto visto che molte erbe favoriscono, per esempio, la contrazione della muscolatura uterina e per questo motivo devono essere necessariamente bandite; tra queste si annoverano l’ortica, l’aloe, l’artiglio del diavolo, la verbena e l’iperico.
Prima di intraprendere un qualsiasi trattamento è perciò indispensabile contattare il proprio ginecologo di fiducia e seguire in modo molto scrupoloso tutte le sue indicazioni.
Quale frutta e verdura mangiare in gravidanza?
La frutta e la verdura consumate crude e mal lavate possono essere un rischio per Toxoplasma, Norovirus, Virus dell’epatite A e Listeria monocytogenes. In modo particolare i prodotti coltivati nell’orto familiare potrebbero essere veicolo per il Toxoplasma.
Per questo motivo è necessario lavare bene frutta e verdura spazzolandone la buccia sotto acqua corrente quando il prodotto lo permette. Per un’ulteriore sicurezza è consigliato l’utilizzo di appositi prodotti disinfettanti a base di cloro per alimenti.
Tra le insalate la rucola è quella più rischiosa in quanto la conformazione delle sue stesse foglie protegge eventuali microorganismi.
Quando si mangia fuori casa meglio evitare di consumare frutta e verdura cruda prestando attenzione alla cross-contaminazione, la quale potrebbe avvenire ponendo a contatto frutta e verdura lavate e pronte al consumo con frutta e verdura non lavate, prodotti di origine animale crudi oppure utensili e superfici di lavoro sporche e venute a contatto con il prodotto stesso prima del lavaggio.
Tra la frutta e la verdura consigliata durante la gravidanza (dopo essere stata ben lavata ovviamente) si sono:
1. Arance, mandarini, frutti di bosco e banane in quanto contengono elevate quantità di vitamina C, potassio ed acido folico.
2. Mango, pesche e albicocche: ricche di beta-carotene, vitamina C ed A.
3. Cime di rapa, cavolini di Bruxelles e spinaci: ricchi di vitamine C, beta-carotene, nonché di ferro ed acido folico.
4. Peperoni: ricchi di vitamina C.
Posso mangiare i latticini ed i formaggi in gravidanza?
Il latte crudo può rappresentare un rischio per alcuni patogeni come ad esempio il Campylobacter, la Salmonella e l’E. Choli.
I formaggi poco stagionati a pasta molle ottenuti da latte non pastorizzato (ad esempio il brie o il camembert) o erborinati (ad esempio il gorgonzola) possono essere un rischio per Listeria monocytogenes. Per questo motivo, soprattutto in gravidanza, è sconsigliato il consumo di latte crudo e di formaggi a breve stagionatura ottenuti da quest’ultimo.
I formaggi stagionati, anche se prodotti da latte crudo come ad esempio il grana, viste le sue particolari caratteristiche di acidità, contenuto di sale e minor contenuto di acqua, non consentono lo sviluppo di patogeni. Anche il latte pastorizzato e lo yogurt sono alimenti sicuri.
È importante prestare attenzione anche al gelato: bisogna evitare quello artigianale se prodotto a partire da latte crudo. Meglio inoltre evitare i gusti alla frutta in quanto potrebbe non essere stata lavata in modo corretto.
Proteine in gravidanza
Le proteine alimentari hanno una funzione prettamente plastica e sono coinvolte sia nei processi strutturali, periodi di crescita, di sviluppo e riparazione dei tessuti sia in ruoli funzionali come sintesi di enzimi ed ormoni.
Il fabbisogno proteico per la donna incinta è di 1 g/kg p.c. (che aumenta leggermente con l’andare avanti della gravidanza) ed 1,2 g/kg di p.c nel periodo di allattamento.
La donna in dolce attesa dovrebbe prediligere fonti di proteine da cibi di origine vegetale come legumi (circa il 57% dell’assunzione giornaliera) seguiti da alimenti di origine animale come carne (18%) e latticini (10%). Gli studi sul turnover proteico suggeriscono come quest’ultimo sia molto simile nelle donne nei primi mesi di gravidanza come in quelle non in gravidanza, anche se con il crescere del feto si evince un aumento assoluto della sintesi proteica rispettivamente del 15% e del 25% che si verifica durante il secondo ed il terzo trimestre di gravidanza.
Tuttavia non si dovrebbe mai superare il 25% di energia totale data da proteine visto che alcune meta-analisi suggeriscono come un’ingente quota proteica possa portare ad un aumentato rischio di SGA, nascita pre-termine, aumento del peso del nascituro, morte nel momento del parto e morte neonatale.
Gli studi sono ancora troppo pochi per dare una certezza scientifica a tale indicazione, anche se, fino a quando non saranno rese disponibili ulteriori prove, l’assunzione di proteine dovrebbe essere mantenuta in questo range: il 10-25% dell’energia totale data da proteine, una quota proteica moderata che possa sostenere la crescita del nascituro senza provocare alcun tipo di danno.
Alimentazione in gravidanza per restare in forma e non ingrassare
Ecco alcuni consigli su come orientarsi quando siamo in dolce attesa per una sana alimentazione che rispetti la linea:
• scegliere una porzione abbondante di verdura (cotta o cruda) che ricopra circa la metà del piatto. Prediligere sempre una varietà: carote, broccoli, peperoni, zucchine, ecc…
• scegliere una fonte di proteine che vada a costituire un quarto del piatto, Come prima opzione optare per alimenti come ad esempio: legumi, pesce, formaggi a basso contenuto di grassi, tofu, uova e così via. Limitare invece il consumo di carne rossa e processata.
• scegliere una fonte glucidica che ricopra la porzione restante del piatto e prediligere cereali integrali, pasta, pane, riso, quinoa, avena e patate dolci limitando tutti i prodotti a base di farine bianche o fritture varie.
• scegliere una piccola dose di grassi buoni (un cucchiaio da minestra di olio EVO andrà benissimo) che dovranno essere conteggiati anche nella cottura delle pietanze. Noci, nocciole e altra frutta secca, avocado o semi oleosi hanno anch’essi grassi buoni ma sono fortemente ipercalorici quindi è bene ricordarselo per non abusarne.
• utilizzare la frutta come spuntino.
Problematiche comuni in dolce attesa
Ho sempre fame
Per l’essere umano il cibo non è solo nutrimento bensì è anche e soprattutto piacere. Ecco perché per alimentarsi in modo corretto bisognerebbe per prima cosa imparare a distinguere la vera fame dal semplice desiderio di mangiare determinati cibi.
Un cibo può quindi risultare gradevole o meno a seconda dei bisogni nutritivi del momento. Sarebbe proprio questa sapienza istintiva a determinare alcune modifiche al comportamento alimentare nel periodo di gravidanza. Molto spesso già durante le prime settimane di gestazione si avverte un cambiamento del gusto: alcune donne accentuano la preferenza per il sapore dolce, altre per il salato, altre ancora rifiutano alimenti fino ad allora graditi.
Anche l’olfatto cambia e si accentua la sua sensibilità nei confronti di odori particolari che l’organismo considera malsani.
Dal terzo mese in poi la gestazione richiede un supplemento di energia di circa 300-360 kcal al giorno. Non sono moltissime, ma abbastanza per farsi sentire in termini maggiori di appetito.
Per soddisfare i bisogni dell’organismo non c’è bisogno di rivoluzionare il comportamento a tavola, ma incrementando solo del 15/20% le normali porzioni del cibo che quotidianamente mangiamo (pasta, pane, riso, pesce magro, carne magra, ecc..) l’appetito in gravidanza dovrebbe non farsi più sentire. Capita spesso, però, che questo non succeda.
Le teorie più recenti si dividono tra quelle che attribuiscono a questi atteggiamenti cause di tipo psicologico (bisogno di sicurezza, gratificazione, di attenzione, ecc…) e cause di malfunzionamento del centro della sazietà, legato allo sconvolgimento generale del fisico durante i nove mesi. Qualunque sia la causa, la soluzione, in taluni casi, è di mangiare ma puntare su alimenti a bassa densità calorica con un buon apporto di fibre, acqua e proteine così da avere una maggiore senso di sazietà.
Ho sempre freddo
Dopo il concepimento la temperatura corporea si alza leggermente di circa 0,5 gradi perché il nostro apparto endocrino aumenta la produzione di progesterone, un ormone fondamentale durante la gravidanza. Questo derivato del colesterolo è il responsabile del cambiamento degli organi riproduttivi femminili in gravidanza ed il mantenimento delle particolari condizioni necessarie per lo sviluppo dell’embrione nell’utero.
Il progesterone influenza i centri di termoregolazione che si trovano nell’ipotalamo inducendo l’aumento della temperatura interna che causa la sensazione di freddo. Infatti, proprio come quando si ha la febbre, si possono avvertire dei brividi di freddo. Questa sensazione di solito si avverte fino al secondo trimestre di gravidanza visto che nel terzo trimestre la temperatura scende a livelli normali e quindi la sensazione di freddo svanisce.
Questo sintomo si presenta soprattutto nelle ore serali e può essere contrastato attraverso rimedi semplici e naturali come ad esempio tisane e zuppe calde di cereali o legumi.
Nausea in gravidanza
La nausea è un sintomo molto disturbante che si evidenzia già durante le prime settimane. La nausea in gravidanza, quando compare, molto spesso si associa ad alterata percezione dei sapori e aumentata sensibilità agli odori ed è legata ad alti livelli di beta-HCG (gonadotropina corionica, anche detto “l’ormone della gravidanza”).
Le donne con elevata sensibilità agli odori e quelle che soffrono di mal d’auto/mal di mare / emicrania sono maggiormente a rischio di nausee e vomito in gravidanza.
Altro fattore di rischio è il reflusso gastro-esofageo visto che ormoni gravidici come il progesterone e gli estrogeni causano il rilassamento della muscolatura e dei visceri e dello sfintere che si trova tra l’esofago e lo stomaco e che normalmente impedisce la risalita di materiale acido dallo stomaco. A questo punto viene spontaneo chiedersi come combattere a nausea in gravidanza.
Per le donne con la sola nausea senza vomito bisogna tentare un cambiamento delle abitudini alimentari e dello stile di vita: consumare pasti piccoli e frequenti ed evitare possibili fattori scatenanti (come ad esempio caffè, spezie, cibi ad elevato contenuto di grassi o eccessivamente dolci prediligendo snack salati prevalentemente proteici) potrebbe essere una buona soluzione. Anche l’utilizzo di tè e caramelle alla menta potrebbero essere delle soluzioni contro la nausea in gravidanza.
Aiuto! ho preso 5 kg in gravidanza!!
L’Accademia Nazionale di Medicina (NAM) ha stilato delle indicazioni per quanto riguarda il guadagno di peso materno atto a sostenere la gravidanza nell’arco dei diversi trimestri.
(vedi tabella numero 1 sotto).
In sintesi, l’incremento di energia aggiuntivo necessario per supportare un adeguato aumento di peso durante la gravidanza è da 90 a 125 kcal nel primo trimestre, da 286 a 350 kcal nel secondo e da 446 a 500 kcal nel terzo trimestre.
È importante dire che in questi studi sono state escluse tutte le donne gravide affette da diabete gestazionale in quanto si è visto che un minor apporto calorico ha permesso loro un mantenimento più stabile del BMI e quindi migliori risultati sia per quanto riguarda le diverse complicanze fetali sia per la salute della madre stessa.
Il 40% dell’aumento di peso in generale è associato al feto e alla placenta. Il 60% è invece associato a cambiamenti materni (utero, seno e tessuto adiposo).
Il fabbisogno energetico delle singole donne varia notevolmente durante la gravidanza a secondo del BMI pre-gravidico, il tasso metabolico ed il livello di attività fisica, pertanto le raccomandazioni per l’assunzione di energia devono essere adattate in base agli obiettivi di aumento di peso gestazionale individuali.
Molti studi hanno evidenziato come sia importante prevenire l’obesità materna per scongiurare il rischio di macrosomia nei neonati, ma anche complicanze ostetriche e traumi durante la nascita (da ciò si evince quanto sia infondato il famoso detto: “in gravidanza mangia per due”; diventa solo una scusa da parte della madre per mangiare quello che vuole senza sentirsi in colpa).
I potenziali benefici di un deficit calorico in gravidanza non sono stati ancora evidenziati, anzi, si è visto come una restrizione energetica con conseguente perdita di peso nella madre possa limitare la crescita fetale.
In sintesi, un elevato apporto di energia è associato a quanto segue:
• aumento di peso materno
• aumento del rischio di ipertensione materna
• diabete gestazionale (GDM)
• parto cesareo e macrosomia (peso alla nascita maggiore di 4500 g) con maggior rischio nel bambino di sviluppare una ridotta tolleranza al glucosio o diabete mellito di tipo 2.
Un apporto energetico inadeguato è associato invece:
• ad SGA (neonato troppo piccolo per l’età gestazionale)
• la SGA è associata ad un aumentato rischio di malattie metaboliche da adulto, incluso il diabete di tipo 2.
Tabella aumento di peso raccomandato in gravidanza (istituto della sanità)
BMI (kg/m2)
Aumento di peso totale (in kg)
Aumento di peso nel 2° e 3° trimestre (kg/settimana)
Sottopeso (<18,5)
12,5-18
0,51 (0,44-0,58)
Normopeso (18,6-24,9)
11,5-16
0,42 (0,35-0,50)
Sovrappeso (25-29,9)
7-11,5
0,28 (0,23-0,33)
Obesità (>30)
5-9
0,22 (0,17-0,27)
Controllare il vostro peso sarà ancora più semplice se seguirete questi consigli:
• non fatevi prendere dalla leggenda che in gravidanza si possa mangiare per due, non è così, le vostre necessità saranno solo leggermente maggiori (ed è per questo motivo che si ha un aumento della sensazione di fame).
• fate una regolare attività fisica: sono pochissime le persone per le quali è rischioso svolgere dell’esercizio fisico durante la gravidanza, perciò non cercate scuse, l’obiettivo è far crescere bene vostro figlio.
• bevete tanta acqua ed eliminate ogni altro tipo di bevanda industriale che aumenterebbe solo gli zuccheri e le calorie che introducete.
• ripulite la dispensa da tutto ciò che non è salutare: snack, patatine, dolci, salse, bibite, burro…e non compratene più se non in moderate dosi.
Esempio dieta in gravidanza
COLAZIONE: wasa/ fette biscottate/ pane integrale con yogurt greco / ricotta / Philadelphia active / yogurt magro e 10 g di marmellata di albicocche.
Se preferite la colazione salata: pane integrale con hummus/ fesa di tacchino/ bresaola / uova / albume. SPUNTINO: frutta fresca di stagione e mandorle/nocciole/anacardi PRANZO: risotto/pasta agli asparagi/zucchine/melanzane con robiola/parmigiano/primo sale/ fiocchi di formaggio magro + 1 cucchiaio di olio EVO MERENDA: frullato di frutta fresca con latte scremato o di soia e granella di pistacchio / cioccolato fondente. CENA: filetto di merluzzo gratinato al forno con pomodorini, insalata mista e pane integrale+ 1 cucchiaio di olio EVO.
Integrazione in gravidanza
Tra le vitamine del gruppo B il folato (che si trova principalmente nelle verdure a foglia verde) è forse una delle principali su cui riporre l’attenzione.
Una sua integrazione prima del concepimento può diminuire il rischio per quanto riguarda un difetto del tubo neurale da parte del feto.
L’integrazione di vitamine liposolubili durante la gravidanza, A e D, possono influenzare la salute materna e fetale, specialmente nelle aree ad alto rischio di carenza.
La supplementazione di acidi grassi omega-3 durante la gravidanza ha diversi benefici per la madre ed il bambino. Essi riducono il rischio di intercorrere in un parto pre-termine ed una diminuzione delle allergie infantili.
L’integrazione di colina durante la gravidanza può aiutare ad ottimizzare lo sviluppo cognitivo nel feto.
Tra i minerali in traccia, l’integrazione di zinco e ferro durante la gravidanza possono aiutare a ridurre il rischio di parti pre-termine e danni al sistema nervoso irreversibili.
Quali cibi evitare durante la gravidanza
Gli alimenti da evitare assolutamente durante la gravidanza sono quelli che potrebbero causare gravi danni al bambino, per il rischio di contrarre gravi infezioni o sviluppare gravi malformazioni.
Cibi crudi
Evitare tutti gli alimenti di origine animale che non sono stati accuratamente cotti, quindi: carni crude o roastbeef, carpacci e tartare, carni e pesci affumicati, uova crude o parzialmente crude (e quindi anche creme che non siano state cotte) latte non pastorizzato e formaggi ottenuti da latte non pastorizzato, salumi e affettati crudi.
Frutti di mare
Cozze, ostriche, vongole e fasolari sono da evitare poiché in mare filtrano le acque e possono trattenere al loro interno microrganismi pericolosi per la nostra salute.
Formaggi maturati con muffe
Brie, camembert, roquefort e gorgonzola non dovrebbero essere consumati in gravidanza.
Dolcificanti artificiali
Non sono del tutto noti gli effetti che potrebbero avere sul nostro organismo quindi meglio evitarli. Essi sono presenti in gran parte degli alimenti definiti “senza zuccheri” o “con zero calorie” come bibite light, caramelle o gomme da masticare.
Tisane
Non colleghiamo il concetto di “naturale” con quello di “salutare”, poiché esistono erbe e fiori totalmente naturali che potrebbero causare effetti pericolosi nelle donne in gravidanza. Fatevi suggerire da un medico esperto quelle che potrebbero essere sicure o in alternativa evitatele del tutto.
Alcolici
Zero alcol in gravidanza. Il divieto non è solo per i superalcolici o per le grandi quantità, poiché non esiste una soglia al di sotto della quale il consumo di alcol è ritenuto sicuro. Diversi studi hanno dimostrato come le donne che consumano alcool in gravidanza abbiano un maggior rischio di sviluppare diverse patologie associate al feto, come ad esempio: limitazione della crescita, problemi nello sviluppo neuronale, visivo, ritardi mentali e maggior rischio di intercorrere in aborti spontanei.
Ci sono state sostanziali limitazioni negli studi effettuati per poter stimare un livello non nocivo di assunzione di alcol in gravidanza ma ad oggi non è possibile trarre delle vere e proprie conclusioni in merito a ciò quindi si consiglia caldamente l’astinenza totale da alcol durante la gravidanza.
Posso bere il caffè durante la gravidanza?
La caffeina è una sostanza nervina anche chiamata 1,3,7 trimetilxantina ed è la sostanza psicoattiva più comunemente usata in tutto il mondo. Il caffè è la fonte più comune di caffeina, ma è contenuta anche in altri alimenti come ad esempio: cioccolato, cacao, tè, coca-cola ed alcuni farmaci.
Il metabolita primario della caffeina si chiama paraxantina ed attraversa la placenta antagonizzando i recettori per l’adenosina. Durante la gravidanza la sua emivita triplica ed il feto non riesce a metabolizzarla in modo adeguato.
L’assunzione di caffeina può quindi favorire la vasocostrizione nella circolazione uterina e placentare aumentando la frequenza cardiaca e le aritmie fetali con effetti potenzialmente dannosi sulla crescita e lo sviluppo fetale. Per questo motivo è fortemente consigliato per le donne che consumano un elevato consumo di caffeina (maggiore di 300 mg/ die) di diminuire la dose per prevenire aborti spontanei e nascituri con basso peso corporeo.
Conclusioni sulla dieta in gravidanza
In conclusione, l’importanza di mantenere una dieta sana e varia durante la gravidanza non deve essere sottovalutata.
Le carenze nutrizionali durante i nove mesi rimangono ancora oggi un problema molto scottante inerente la salute pubblica italiana ma in particolare anche per quanto riguarda le popolazioni svantaggiate dei Paesi in via di sviluppo viste le condizioni precarie e l’alimentazione molto povera di micronutrienti, i quali abbiamo visto essere essenziali per un supporto ottimale durante un periodo così tanto delicato.
Tuttavia, rimangono ancor oggi delle importanti lacune nell’interazione tra i vari micronutrienti durante la gravidanza visto che la loro funzione è generalmente dedotta da studi in vitro e modelli sperimentali su animali: il numero di casi sull’uomo rimangono degli studi abbastanza limitati.
Un’altra limitazione è che gran parte della ricerca nutrizionale deriva da studi osservazionali basati su questionari retrospettivi che spesso si basano su assunzioni dietetiche autoriferite da parte dei partecipanti che possono essere soggette a distorsioni legate a ricordi non del tutto attinenti con la realtà. Inoltre, negli studi non sono tenuti in considerazione le cattive abitudini della persona presa in esame, come ad esempio: alcol, fumo, abuso di farmaci, e così via… i quali si è visto che influenzano negativamente l’andamento della gravidanza.
I micronutrienti fondamentali per un buon andamento di questi nove mesi sono fondamentalmente otto: carotenoidi, colina, acido folico, iodio, ferro, acidi grassi omega-3 e vitamina D.
Tutte le donne in gravidanza dovrebbero essere incoraggiate a seguire una dieta equilibrata ricca di frutta e verdura fresca, cereali integrali, legumi, carni magre, pesce, uova ed alcuni latticini.
La dieta dovrebbe basarsi sul modello alimentare mediterraneo, ovvero povera di zuccheri aggiunti e con ridotto consumo di carne rossa e cibi trasformati. L’attività fisica è fondamentale per il benessere della madre e del feto ma deve essere praticata con le dovute accortezze ed in piena sicurezza.
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Le proteine sono il macronutriente più famoso tra gli sportivi, i frequentatori della palestra, chi fa bodybuilding: insomma, sembra che un mondo privo di protidi e allenamento non possano coesistere. “25 g di proteine per volta, mi raccomando!”, “Bevi subito lo shaker proteico dopo allenamento, che altrimenti catabolizzi!”, “Le proteine vegetali non servono a niente per il muscolo, continua solo con il tuo petto di pollo”. Hai già sentito frasi del genere? Probabilmente (e purtroppo) sì.
Per non farti coinvolgere nei “sentiti dire”, devi essere consapevole e padrone dei concetti: la conoscenza è prevenzione. Puoi iniziare da qui, capendo a cosa servono le proteine, quante mangiarne, se fanno male e altro ancora. Buona lettura!
Qual è il ruolo delle proteine nell’alimentazione e nel corpo umano? Perché sono importanti?
I protidi sono costituiti da aminoacidi differenti: più questi si avvicinano alla composizione dell’essere umano, più la fonte alimentare viene considerata con un valore biologico alto. I cibi proteici hanno due origini: ci sono le proteine animali (con un alto valore biologico) e le proteine vegetali, a cui generalmente manca, almeno in parte, un aminoacido, rendendo così il loro valore biologico medio basso.
I protidipossono essere utilizzati per fini energetici ma, a parità di consumo d’ossigeno, rendono molto meno del glucosio e producono prodotti di scarto che devono essere eliminati: quindi non sono un substrato energetico preferenziale ma secondario, da utilizzare in caso di necessità.
Il ruolo più importante e caratteristico rivestito dalle proteine è quello plastico: esse costituiscono i muscoli (20%), ma anche gli enzimi, alcuni ormoni e tante altre strutture del tuo corpo. Inoltre, i protidi sono caratterizzati da un fenomeno chiamato turnover proteico: le proteine che in questo momento costituiscono il tuo tessuto connettivo, i tuoi enzimi digestivi o i tuoi capelli non sono le stesse di quando eri bambino. Questo perché le proteine vengono degradate se in quel momento non servono e vengono scomposte in amminoacidi, i quali andranno a costruire un’altra struttura proteica e quindi a svolgere un’altra funzione a seconda della necessità.
Dato che è fisiologico perdere amminoacidi, il cui azoto viene eliminato tramite l’urina, ma il turnover continua, è necessario assumere proteine, in modo che l’organismo abbia sempre a disposizione la materia prima per costruire o, anche meglio, costruirsi. Infatti, nel corpo umano non ci sono riserve di proteine, come può essere l’organo adiposo per i grassi o il glicogeno epatico per i carboidrati.
In poche parole, le proteine hanno una funzione strutturale nell’organismo e sono fondamentali per garantire e mantenere il fisiologico svolgimento delle innumerevoli funzioni corporee (omeostasi).
A cosa servono le proteine post allenamento dopo la palestra (bodybuilding)?
Tutte le domande riferite al “quando assumere” rientrano nel grande argomento del timing, in questo caso timing proteico. Anche se l’attenzione di molti va al “quando” mangiare, è meglio prima rivolgerla al “quanto”: riuscire a raggiungere il proprio fabbisogno protidico giornaliero è molto più importante e utile che il non raggiungerlo dando, però, peso al timing.
Assumere una quota proteica dopo l’allenamento è sicuramente utile quando ti alleni contro resistenze (con i pesi in palestra, bodybuilding). Perché? Presi due gruppi di soggetti che si allenano, ad uno vengono fatte assumere proteine subito dopo il workout, all’altro gruppo, invece, lo stesso pasto proteico viene somministrato dopo due ore dalla fine dell’allenamento: nel primo gruppo sono stati riscontrati un maggior sviluppo muscolare e di forza. A parità di calorie, la combinazione di aminoacidi e glucidi è più funzionale alla sintesi proteica rispetto ai soli carboidrati.
Inoltre, introdurre una quota proteica favorisce anche la risintesi del glicogeno, quando fai un pasto proteo-glucidico post-allenamento. Comunque, se nelle 4 ore post-workout assumi sufficienti carboidrati l’aggiunta della parte proteica non accresce il tasso di ripristino del glicogeno.
Quante proteine assumere al giorno
Le vecchie raccomandazioni prevedono una quota proteica, per una persona normopeso, intorno a 0,8-0,9g/kg o anche meno intorno a 0,7. Le raccomandazioni per il quantitativo proteico per chi si allena, anche da istituti come l’ISSN, sono sicuramente superiori.
Proteine durante la fase di massa 1,5-2,2g/kg
50kg
75-11og
60kg
90-132g
70kg
105g-154g
80kg
120g-176g
90kg
135g-198g
100g
150g-220g
Questi range si rivolgono a persone normopeso con una massa grassa intorno al 8-12%, se hai più grasso corporeo la quota può scendere. Le donne hanno meno bisogno di proteine rispetto agli uomini. Durante la fase di massa servono meno protidi e più carboidrati per stimolare la massima crescita muscolare
Proteine durante la fase di definizione 1,8-2,8g/kg
50kg
90-14og
60kg
108-160g
70kg
126g-196g
80kg
144g-224g
90kg
162g-252g
100g
180g-280g
Durante la definizione la quota proteica va aumentata per aiutare a preservare i muscoli. Più sei grassi e più quest’ultimi hanno un effetto di risparmio sulle proteine muscolari, così puoi rimanere nel range basso. Più sei magri o la dieta ha un taglio importante delle calorie e più invece il range dovrà essere alto.
Come funzionano le proteine nei muscoli?
La proteina, di solito, è un macronutriente molto ricercato dagli sportivi, soprattutto per chi vuole aumentare la massa muscolare e abbiamo intravisto che i muscoli sono fatti da un 20% di proteine (anche la carne magra si aggira intorno a questa %).
Tuttavia, non c’è relazione tra più proteine = più muscoli. Sicuramente i protidi sono importanti e la quota va aumentata rispetto alle raccomandazioni per le persone sedentarie (intorno a 0,8g di proteine/kg di peso corporeo), ma per altri fattori. Le proteine aiutano i muscoli perchè permettono un miglior partizionamento dei nutrienti, verso le fibre muscolari e non il tessuto adiposo. Ovvero quando mangi i muscoli si nutriranno prima degli adipociti (cellule grasse).
Per approfondire, in questo articolo trovi quante proteine servono per mettere su muscolo.
Quali proteine assumere? A cosa servono?
Le proteine sono presenti sia in alimenti animali che in quelli vegetali. Questi sono da preferire rispetto a quelle in polvere quando possibile, in modo da utilizzare queste in polvere solo se non riesce a raggiungere il fabbisogno proteico necessario o se non hai tempo per fare un pasto: in questi casi lo shaker proteico è la soluzione migliore per rapidità e comodità.
È vero che gli alimenti animali (carne, pesce, uova, latticini) hanno mediamente una maggior quantità di proteine e un miglior spettro amminoacidico rispetto a quelli vegetali (legumi, frutta secca, cereali) a parità di quantità. Tuttavia, ciò non è un problema rilevante (amici vegetariani e vegani potete stare tranquilli), dato che dalla combinazione di più fonti e dell’aumento della quota proteica giornaliera puoi sopperire bene al medio-basso valore biologico che può avere un legume o una frutta secca rispetto ad un filetto di pesce. Infatti, mischiare le fonti aumenta il valore biologico del pasto.
Le proteine in polvere sono un integratore utile per chi ha un grande fabbisogno proteico da soddisfare e che non riesce a raggiungere tramite gli alimenti o per chi cerca una soluzione pratica e veloce per assicurarsi la sua quota amminoacidica. Infatti, le proteine in polvere non hanno nessun vantaggio in più rispetto alle proteine che trovi nel cibo: non fanno crescere di più il muscolo. L’organismo guarda alla quantità e alla qualità proteica che riceve e non riconosce la fonte alimentare.
Proteine del latte
Il latte vaccino in percentuale presenta circa il 3,6% di proteine, insieme ai grassi (4%), gli zuccheri (5%) e alla restante parte di acqua. Il latte di pecora, invece, ha un contenuto proteico quasi doppio, pari al 6,5%.
L’80% delle proteine del latte è costituito dalle caseine (beta, K, alpha, gamma), mentre il restante 20% dalle siero-proteine (beta-lattogloblulina, alpha-lattoalbumina). Le prime hanno un minor valore biologico rispetto alle seconde, sono più difficili da digerire e infatti richiedono un maggior tempo di assimilazione.
Proteine del siero del latte
Le proteine sieriche (whey protein) sono forse le più famose ed utilizzate. Costituiscono la frazione minore delle proteine del latte ma sono anche quelle con un maggiore valore biologico, più facilmente digeribili rispetto alle sorelle caseine.
Ci sono più tipologie di whey, che possono essere distinte in base alla facilità e quindi ai tempi di digestione: quelle concentrate sono quelle che richiedono più tempo, mentre quelle idrolizzate meno; le idrolizzate sono una via di mezzo. Se per le concentrate si stima 1-1.5 ore, per quelle idrolizzate 10-30 minuti – queste ultime sono quindi da preferire, ad esempio, pre-workout in modo da non inficiare sull’allenamento.
Proteine della carne
Le proteine della carne sono a rapida assimilazione e derivano principalmente da manzo e pollo. Rispetto alle whey, meno costose, non si riscontrano particolari vantaggi in termini di sintesi proteica muscolare.
Massimo 30 g di proteine in polvere per pasto?
Diversi studi scientifici hanno mostrato che la sintesi proteica muscolare è stimolata al massimo da 20-30g di proteine, oltre non ci sono ulteriori effetti. Questo ha portato a credere che fosse inutile mangiare oltre a 30g di proteine per pasto. In realtà il quantitativo non è così importante, perchè se è vero che oltre 30g non stimoli di più la sintesi proteica, è altrettanto vero che più proteine mangi e più la loro assimilazione impiegherà tempo – il che vuol dire che la sintesi proteica sarà stimolata più a lungo.
È così indifferente quanti pasti fare, in generale se ne consigliano 4, ma aumentarli ulteriormente è più una scelta individuale che un vantaggio biochimico.
A cosa servono le proteine nello sport?
Il soggetto sportivo ha bisogno di una quota maggiore di proteine rispetto ad uno sedentario, dato l’aumentato fabbisogno protidico. Il turnover proteico muscolare è un processo che richiede energia e che, quindi, in caso di restrizione energetica (dieta ipocalorica) o di insufficiente apporto amminoacidico viene depresso (diminuito).
Il quantitativo proteico giornaliero rimane il fattore chiave e più importante, ma considerare anche il timing per ottimizzare l’allenamento e il recupero è importante per gli sportivi. Consumare una quota proteica subito dopo l’allenamento favorisce il rimodellamento muscolare, che avviene anche fino alle 24 ore successive rispetto all’allenamento: è così evidente come non sia il singolo pasto il responsabile dell’anabolismo muscolare e del recupero completo, ma tutti i pasti della giornata.
In generale per gli atleti, la quota proteica giornaliera è consigliato suddividerla nel post-allenamento e nei pasti ogni 3-4 ore.
Inoltre:
se assumi una buona quota proteica pre-allenamento, il post allenamento ha meno importanza in quanto nel flusso ematico avrai l’immissione di aminoacidi per svariate ore;
se sono 5 ore che non mangi, post allenamento conviene assumere entro 1-2h una quota proteica (proteine in polvere ma anche cibo solido) di almeno 20-40g.
Le proteine fanno male?
Che le proteine facciano male attualmente è una questione ancora aperta: fino agli anni 90 c’era una forte convinzione che le proteine potessero fare male alla salute (ai reni, fegato, acidificando il corpo ecc.). La letteratura di supporto era basata principalmente su soggetti malati e su dati che allora si faceva fatica ad interpretare (come la cicatrizzazione dei nefroni).
Ad oggi, invece, sempre più studi supportano una correlazione positiva tra una maggior quota proteica e la salute, tuttavia è ancora presto per dire in modo definitivo che le proteine facciano bene o male nel lungo periodo. In generale nel pratico, su soggetti sani, da molti ricercatori ed istituti le quote di proteine indicate nell’articolo sono ritenute sicure.
Conclusioni sulla funzione delle proteine
In questo articolo hai visto a cosa servono le proteine in polvere o dal cibo solido e sono stati sfatati un po’ di miti (che non fa mai male, anzi!). Come tutti i nutrienti anche per i protidi la virtù sta nel mezzo e imparare a capire come funzionano, a cosa servono, quando e quante utilizzarle è fondamentale per essere più consapevole e più critico nei confronti di ciò che “si sente dire”.
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Basta discorsi sul deficit calorico, sul fare valutazioni sul lungo periodo, sul considerare le calorie o l’importanza dell’allenamento in palestra: la verità per perdere peso è escludere i glucidi. Così come il togliere i grassi. O le proteine. Ma, che resti tra noi, di aria non vive nessuno. Far mettere da parte il terrore di un risotto, di una porzione di patate al forno o addirittura di una pizza a cena è l’obbiettivo di questo articolo, grazie a riferimenti alla fisiologia della nutrizione e non a miti alimentari (come, appunto, l’escludere i glucidi la sera!).
Un piccolo spoiler per gli sportivi più o meno avanzati, per i frequentatori delle palestre e per gli amanti del bodybuilding: mangiare carboidrati la sera a cena post-allenamento diventa addirittura un vantaggio!
Meglio i carboidrati la sera o a pranzo?
La scelta di quando mangiare i carboidrati è soggettiva, teoricamente dovresti mangiarli sia a pranzo che a cena. Se hai un’esigenza di mangiarli principalmente solo in un pasto conviene introdurli in quello più vicino all’allenamento (se sei sportivo), poco importa se è prima o dopo. Altrimenti, mettili quando più ti aggrada.
I glucidi la sera aiutano a dormire meglio, mentre a pranzo ad alcuni possono provocare la famosa sonnolenza post-prandiale, che è meglio evitare se ad esempio nel primo pomeriggio ti metti subito al lavoro o a studiare. C’è chi preferisce il piatto di pasta a pranzo, chi a cena anche solo per abitudine: entrambi possono dormire sonni tranquilli (ma di più chi li preferisci la sera), dal punto di vista dell’energia giornaliera assunta non cambia nulla!
Carboidrati alla sera sì o no? Fanno bene o fanno male?
È opinione comune pensare che sia meglio mangiare i carboidrati durante il giorno e non la sera, principalmente per due motivi:
Il primo riguarda il consumo calorico, in quanto immettere zuccheri quando ti appresti ad andare a dormire aumenta le probabilità che questi vengano trasformati in grassi.
Il secondo, invece, è un discorso ormonale: la produzione ed il picco notturno dell’ormone della crescita (GH) vengono smorzati dall’introduzione di zuccheri – il GH è in antagonismo con i glucidi, in quanto spinge la cellula ad utilizzare il metabolismo lipidico.
Tutte e due queste convinzioni sono sbagliate:
La prima perché non ci si accorge che il dispendio energetico nel sonno è pressappoco uguale a quello delle attività a basso impatto, come stare seduti su un banco o su una scrivania. Quindi, se svolgi un lavoro sedentario le variazioni dell’energia non sono così significative da giustificare la distribuzione giornaliera dei carboidrati. In più la notte prima del sonno c’è un’impennata degli ormoni tiroidei che aumentano il dispendio energetico.
La seconda riguarda il picco di GH notturno: le variazioni ormonali nelle persone natural (che non fanno uso di anabolizzanti) non sono così significative nel cambiare radicalmente la composizione corporea. Per capirci, a parità di calorie, non è che se non hai il picco notturno non dimagrisci: le alterazioni ci sono ma non sono così determinati. In più se mangi carboidrati ad alto indice glicemico alle 20.00 hai un’ipoglicemia reattiva durante la notte, che andrà a potenziare gli effetti del GH. Infatti, questo ormone ha la funzione di preservare gli zuccheri nel sangue e più questi calano più l’ormone della crescita agisce.
Carboidrati la sera per dimagrire?
La perdita di peso non si basa su fattori singoli acuti, come il mangiare i carboidrati in un momento piuttosto che in un altro, ma sul riuscire a protrarre un regime ipocalorico nel tempo. Per questo è tanto difficile dimagrire: puoi stare a dieta 5 giorni a settimana, ma se poi nel weekend sgarri, è come se tornassi in normocalorica. Mangiare carboidrati quando ti aggrada (a colazione, pranzo e/o cena) è un’ottima strategia per migliorare l’aderenza alla dieta.
Inoltre, dopo le 18.00 il consumo glucidico è associato ad una maggior produzione di leptina il giorno dopo. La leptina è un ormone essenziale per tenere attivo il metabolismo ed è anche una sostanza che sopprime il senso della fame: ti fa sentire più sazio.
Meno vincoli hai e meno problemi ti fai, più riesci a rendere fattibile e sostenibile un regime ipocalorico e, quindi, più riesci a dimagrire. Mangiare carboidrati alla sera non fa né dimagrire né ingrassare. Semplicemente se ne hai voglia, nel contesto energetico giornaliero, rende il regime alimentare più semplice.
Per sapere quanti carboidrati al giorno per dimagrire, ti rimandiamo a questo articolo.
È vero che i carboidrati a cena aiutano a dormire e prendere sonno?
Mangiare i glucidi dopo le 18.00 favorisce il sonno e la produzione di serotonina, un ormone implicato nella qualità del sonno.
Perché questo avvenga devi fare un pasto glucidico con almeno 80-100g di amido, per stimolare correttamente l’insulina. Il fruttosio che trovi principalmente nella frutta non porta a migliorare la qualità del sonno, quindi a cena è meglio preferire cereali e/o legumi e non basta la sola frutta e verdura.
Inoltre, l’assunzione di carboidrati, se non eccessiva, è associata ad una diminuzione del cortisolo. Il cortisolo (più conosciuto come ormone dello stress) è un ormone controinsulinare, che stimola il metabolismo lipidico e proteico. Quando assumi carboidrati attivi il metabolismo glucidico e in questo modo si spegne la produzione dell’ormone prodotto dalle ghiandole surrenali. Questo è un altro motivo valido per mangiare i glucidi dopo le 18.00, infatti lo stress è un fattore che non favorisce il prendere sonno.
I carboidrati mangiati di sera fanno ingrassare?
Un piatto di pasta (sugo escluso) da 100 g ha circa 365kcal – valore che puoi controllare sulla tabella nutrizionale che trovi stampata direttamente sul pacco di pasta. Alle 13.00 questo piatto ha 200 kcal e man mano che le ore trascorrono le calorie salgono, fino a mezzanotte dove contano ben 600 kcal. È possibile? Per fortuna no: il contenuto calorico rimane sempre lo stesso a prescindere dall’ora del giorno. Anche a livello metabolico, nonostante la variazione dei livelli ormonali per via dei cicli circadiani, la risposta metabolica non modifica il contenuto calorico e quindi il dimagrimento.
Non ingrassi o dimagrisci a seconda del singolo pasto, ma per periodi di tempo più lunghi (24 ore o l’intera settimana). È la differenza tra le entrate e le uscite su tempi medio-lunghi che decreta realmente come varia il tuo peso, non se mangi i carboidrati alle 20 o alle 13.
Carboidrati la sera per il bodybuilding e la palestra
L’allenamento per gli sportivi è il più grande fattore che può influenzare il quando mangiare i carboidrati: se ti alleni di pomeriggio/sera, la cena diventa il momento migliore in cui consumare un’alta quota glucidica; più in generale, il consiglio è quello di inserire i glucidi nel post-workout.
Questo perché la sensibilità all’insulina rimane elevata nelle due ore successive al training, in seguito non cala drasticamente ma inizia a scendere gradualmente. In pratica, se ti alleni al mattino meglio i carboidrati a pranzo, se nel pomeriggio/sera a cena, perché alta sensibilità insulinica (recettori GLUT4 già presenti sulla membrana) e basso glicogeno muscolare faranno sì che i carboidrati assunti migliorino il recupero, interrompendo la fase catabolica e favorendo quella anabolica, con un minor rischio di trasformare l’eccesso glucidico in trigliceridi (grassi)!
Avere le scorte glucidiche esaurite, molte ore dopo l’allenamento, inizialmente può far dimagrire (miglior attività lipolitica), tuttavia nel medio-lungo periodo può innescare processi che portano all’insulino-resistenza. Bassi zuccheri, alta beta ossidazione ed alta lipolisi shiftano il metabolismo verso i grassi con pregi ma anche difetti, tra cui una sempre peggiore affinità delle cellule con il glucosio.
Carboidrati a pranzo e proteine la sera: ha senso?
Instaurare un’abitudine che funziona ha sempre senso, non solo nel campo alimentare, perché compi quell’azione senza fare fatica e ne trai tutti i vantaggi, senza accorgertene. È più facile continuare a fare qualcosa che iniziare a farla. Ad esempio, Luca non era mai andato in palestra e fa fatica ad iniziare ad allenarsi con costanza, ma poi ha ottenuto i primi risultati e allenarsi 3 volte a settimana non è più stato un peso, anzi, addirittura gli piace: è diventata un’abitudine.
Così con le abitudini alimentari: quanti mangiano un dolcetto dopo pranzo solo perché “faccio così sempre” e non realmente per l’avere ancora fame? E se quel dolcetto venisse sostituito da un frutto? Diventerebbe sicuramente un’abitudine più sana – sempre da contestualizzare con il resto dell’alimentazione: un cioccolatino non ha mai fatto male a nessuno quando la maggior parte dei pasti sono sani e non ipercalorici!
Il mangiare i carboidrati a pranzo e le proteine la sera può così avere un senso: sei sicuro di assicurarti una quota glucidica e una proteica ogni giorno, entrambe fonti indispensabili, insieme al consumo dei grassi e dell’acqua. Dal punto di vista della composizione corporea non cambia nulla rispetto all’opzione contraria (carboidrati a cena e proteine a pranzo), dipende da come ti trovi meglio.
Come non mangiare i carboidrati la sera? Esempio di dieta senza carboidrati la sera
Se segui una dieta dissociata o per qualche ragione non vuoi mangiare glucidi a cena, puoi optare direttamente per un secondo di carne o di pesce con verdure. In questo modo eviti i carboidrati serali e riesci ad avere comunque un pasto appetitoso e saziante.
Esempi di cena senza carboidrati:
petto di pollo con broccoli
orata al forno con zucchine
tagliata di manzo con insalata
varietà ed assaggi di formaggi
filetto di salmone ed avocado
frittata con verdure
Ci sono infiniti esempi di pasti low-carb che puoi fare a cena, sarà sufficiente dirigerti verso carne, pesce (anche crostacei e molluschi), formaggi con della verdura, evitando cereali, legumi e se vuoi essere più estremo puoi anche evitare anche la frutta.
Carboidrati integrali a cena
Mentre fai la spesa, ti cade l’occhio su prodotti che vantano un “integrale”, “biologico”, “gluten-free”, “light” ben scritto in evidenza sulla confezione. Li compri: sicuramente sono più sani e fanno dimagrire di più dei corrispettivi senza queste affascinanti proprietà.
È certo che i cereali integrali sono “meglio” di quelli raffinati perché apportano più fibre e più micronutrienti (sali minerali, vitamine). È ugualmente vero, però, che se già nella tua dieta mangi fibre e micronutrienti a sufficienza e la pasta integrale proprio non ti va giù, puoi mangiare quella raffinata senza alcun tipo di problematica. Chi compra integrale è di solito considerato “più sano” perché è un indice di uno stile di vita salutare: non è “più sano” perché mangia i cereali integrali, ma perché fa una serie di scelte (integrale incluso) che lo fanno essere “più sano”.
Fai sempre attenzione: un prodotto è davvero integrale quando contiene almeno 7 g di fibre e almeno 2 g di grassi per 100 g di alimento.
Dal punto di vista delle calorie e della presenza di macronutrienti (carboidrati, grassi, proteine) i carboidrati integrali sono, grammo più grammo meno, uguali a quelli non integrali: puoi quindi inserirli nei pasti quando vuoi e come più ti piace.
3 motivi per assumere i carboidrati di sera a cena
I motivi per cui puoi assumere i carboidrati anche a cena sono principalmente tre:
Gli zuccheri danno facilmente sonnolenza e aumentano, dopo un primo periodo, l’attività del sistema parasimpatico, pertanto se vuoi tenerti sveglio ed attivo conviene limitarli durante l’orario lavorativo;
un’assunzione serale di glucidi è correlata ad una miglior secrezione di leptina durante la giornata, un ormone determinante per dimagrire;
rilasciano serotonina: un precursore della melatonina essenziale per dormire bene. In realtà, i glucidi, non producono serotonina ma stimolando l’insulina aumentano l’up-take cellulare degli aminoacidi. Il triptofano (precursore della serotonina) non ne è soggetto, pertanto i livelli ematici di questo aminoacido rimangono elevati e passano più facilmente la barriera emato-encefalica (non trovando altri aminoacidi antagonisti), dove verrà convertito in serotonina. Questo evento diminuisce anche l’appetito (nel breve termine) determinando un miglior senso di sazietà, fattore da non sottovalutare.
Quante calorie si dovrebbero assumere la sera?
Il quantitativo di glucidici da assumere andrebbe calcolato nelle 24 ore o nella settimana. Per avere dei parametri, la sera puoi condensare, se ti alleni nel tardo pomeriggio, il 60-65% dei carboidrati giornalieri; al contrario, se ti alleni durante l’ora di pranzo puoi assumerne intorno al 35-40%. È in ogni caso raccomandato, se vuoi avere una buona stimolazione insulinica che faciliti la produzione di serotonina, di assumere almeno 80-100g di glucidi a cena.
Non c’è una quantità calorica precisa da assumere per ogni pasto, dipende ancora una volta dalla soggettività. Solitamente, soprattutto se in dieta ipocalorica, sono consigliati, oltre alla colazione, due pasti più sostanziosi (pranzo e cena) e due spuntini per smorzare la fame. Fare una cena troppo calorica ed abbondante può inficiare sul sonno se il pasto viene fatto poco prima di andare a dormire, dato che la digestione richiede i suoi tempi.
Quando mangiare quindi i carboidrati? Conclusioni
Arrivati a questo punto, avrai capito che puoi benissimo mangiare i carboidrati anche a cena! Non ingrassi o dimagrisci di più a seconda della distribuzione dei pasti nella giornata: prima del “quando” c’è sempre il “quanti” carboidrati che fa da regolatore della composizione corporea, per qualsiasi nutriente.
In conclusione, quando decidi quale scelta alimentare intraprendere devi sapere che non esiste mai una soluzione vincente al 100%! Pertanto, bisogna partire dalla persona, dalla sua individualità, dalle sue abitudini ed esigenze.
Nell’immaginario collettivo un vegano viene raffigurato a pranzo con i suoi legumi, il suo tofu, il suo hamburger vegetale con insalata e semi di lino: un’immagine (stereotipata) che infonde salute solo al pensiero. Hai mai pensato che anche un sontuoso boccale di birra e un piatto di unte patatine fritte con il ketchup sono vegane?
Alcuni vegani pensano che questa dieta sia la migliore, i convinti onnivori che sia la peggiore. Chi ha ragione? In questo articolo non trovi opinioni già formulate ma degli spunti teorici, degli esempi pratici di menù e delle considerazioni in base alle quali capire la dieta vegana, con i suoi pro e suoi contro, proprio come qualsiasi altra dieta.
Cos’è la dieta vegana? Come funziona?
La dieta vegana negli ultimi anni sta riscuotendo sempre un maggior interesse, anche più del vegetarianismo: è un regime alimentare che esclude il consumo di prodotti di origine animale, per motivi religiosi, etici, ambientali, salutistici o anche semplicemente perché “fa moda”. Questa scelta quando è davvero sentita a livello etico in realtà fa parte di un vero e proprio stile di vita: sono eliminati non solo i cibi che derivano da animali, ma anche ad esempio certi tessuti o cosmetici che prevedono il loro coinvolgimento.
In ogni caso, per un’alimentazione consapevole è bene conoscere in modo oggettivo pregi e difetti di questo stile nutrizionale, in modo da sapere a cosa puoi andare incontro in termini di carenze o quali sono i vantaggi rispetto ad altre diete. In termini assoluti, la dieta vegana non è la migliore, così come tutte le altre: la migliore è quello che risponde nel modo più ottimale alle tue esigenze. E chissà, magari è proprio la dieta vegana.
In questo regime alimentare sono esclusi carne, uova, latte e derivati (yogurt, formaggi, burro), pesce, miele. Così, la nutrizione vegana si basa su frutta e verdura, cereali integrali e non, derivati vegetali (tofu, seitan, latte vegetale,…), olio.
Benefici e vantaggi della dieta vegana
La dieta vegana deve i suoi vantaggi in termini di salute al grande consumo di frutta, verdura, legumi, cereali integrali, frutta secca. Nei vegani si riscontra una minor incidenza di casi di sovrappeso, obesità, diabete di tipo 2 e loro conseguenze croniche. Infatti, la fibra alimentare garantisce un rallentamento dello svuotamento gastrico (e quindi sazietà), un miglior controllo della glicemia e forse anche del colesterolo, un effetto positivo sulla crescita della flora batterica intestinale.
Inoltre, la dieta vegana è associata ad un minor consumo di acidi grassi saturi, trans e di colesterolo: tutti grassi che, in una dieta onnivora poco controllata, facilmente possono essere consumati in eccesso e portare a effetti negativi sulla salute (dislipidemie, ipercolesterolemia, malattie cardiovascolari, infiammazione sistemica,…).
Anche il largo consumo di frutta e verdura è un vantaggio. Esiste, infatti, una corrispondenza tra consumo di vegetali e mortalità: più il consumo è basso, più l’incidenza di morte è alta e viceversa. Ovviamente, un parametro da inserire in un contesto di alimentazione sana e bilanciata, un singolo aspetto in alimentazione non è mai sufficiente per garantire la salute; un insieme di singoli aspetti positivi invece sì.
Come ultimo punto, anche se non prettamente nutrizionale, è la sostenibilità ambientale della dieta vegana: i prodotti animali sono i responsabili di un grande consumo di energia con un grande impatto a livello mondiale che va ad aumentare dato che il consumo di carne sta incrementando – con a monte l’aumento degli allevamenti intensivi, dei processi industriali, dell’emissione di CO2 e del consumo di acqua. Vegan e green vanno d’accordo.
Controindicazioni e rischi della dieta vegana
Chi snobba la dieta vegana si avvale spesso di questo ragionamento: escludi categorie di alimenti, quindi per forza di cose ci sono carenze e, di conseguenza, non è possibile considerare la dieta vegana come bilanciata e completa di tutti i nutrienti che servono all’organismo per mantenere le funzioni fisiologiche. Il bello è che si potrebbe dire la stessa cosa anche ad una persona in sovrappeso, che mangia troppo e principalmente junk food: dove sono le vitamine, i minerali, le fibre, le proteine, i grassi “buoni” di cui ha bisogno? Sovrastati da zuccheri e grassi “cattivi”.
È facile e spontaneo pensare che dove ci sia un’esclusione (come, in questo caso, dei cibi animali) ci sia una carenza e quindi un rischio per la salute. Vediamo se è davvero così e per quali aspetti alimentari.
Con una dieta vegana non puoi raggiungere un adeguato apporto di proteine e di ferro? Devi dire addio a muscoli ipertrofici e livelli ematici di emoglobina e globuli rossi nella norma? Per fortuna no e, infatti, proteine e ferro, anche se spesso sono oggetto di discussione senza veri motivi di fondo, non vengono analizzati in questo capitolo sui rischi della dieta vegana, ma più avanti nel capitolo sulla dieta vegana bilanciata.
Il vero rischio dell’esclusione degli alimenti animali è la carenza della vitamina B12: una dieta vegana, ma anche più ampiamente vegetariana, non è generalmente in grado di mantenere un adeguato stato nutrizionale della B12, indipendentemente da caratteristiche demografiche, luogo di residenza, età. Solo gli alimenti animali, infatti, contengono la B12. La quantità giornaliera raccomandata è di 2,4 microgrammi. Il fegato ha un deposito di questa vitamina, che può durare per 6-12 mesi, perciò l’integrazione è consigliata quando questo regime alimentare quando perdura oltre questo periodo e in seguito a verifica della carenza.
Anche la vitamina D per i vegani che sono scarsamente sottoposti alla luce solare è da considerare l’integrazione. È comunque da ricordare che oggi la maggior parte della popolazione, vegana e non, è carente di vitamina D: la sua concentrazione è influenzata più dall’esposizione al sole che dalla nutrizione. 20-30 minuti per 2-3 volte a settimana di esposizione al sole (una passeggiata, una merenda in giardino, smart-working in terrazza) sono sufficienti per garantire livelli accettabili di vitamina D, quando è mantenuto un buon introito di calcio e fosforo.
Un’altra controindicazione è dovuta al grande consumo di fibre derivante da cereali integrali, frutta, verdura o sostanze che l’organismo non è in grado di digerire, come nel caso dei legumi: gli unici alimenti che contengono trisaccaridi. Se solitamente una quota giornaliera è positiva e senza rischi per la salute (30 g/die in media), un eccesso di fibre può portare a disturbigastrointestinali come difficoltà di digestione, gonfiore, flatulenza.
La piramide alimentare vegana
La piramide alimentare vegana (anche se formalmente non esiste) propone alla propria base frutta e verdura, subito seguiti dai cereali – in pratica, come la dieta mediterranea. Poi, ci sono i prodotti di latte vegetale, legumi, tofu, seitan, tempeh, semi, frutta secca. All’apice ci sono i dolci (ovviamente con ingredienti privi di prodotti animali) e l’olio.
I cibi alla base sono quelli da preferire e da consumare più frequentemente rispetto a quelli situati più in alto nella piramide.
Dieta vegana per dimagrire
Anche la dieta vegana non è esente dal deficit calorico per assicurare il dimagrimento. Il fatto che venga definita “dieta” non vuol dire che fa perdere peso: “dieta” infatti è sinonimo di stile di vita, anche se oggi il termine è quasi sempre associato all’idea del dimagrimento (dieta ipocalorica). La dieta vegana può così essere una:
È più facile perdere peso con la dieta vegana che con altre? La risposta sta proprio nelle sue caratteristiche alimentari. Con un pasto molto ricco di fibre (verdure, cereali integrali) è difficile eccedere con le porzioni dato che la fibra alimentare contribuisce molto al senso di sazietà. Inoltre, per gli onnivori, è più facile cedere al cioccolato al latte, alla torta burrosa della nonna, al panino con hamburger: tutti cibi molto calorici che, per forza di cosa, chi segue una dieta vegana non mangia. Anche per questo, per i vegani è più difficile incorrere in una dieta ipercalorica – anche se, i cibi densamente energetici ci sono anche per loro (es. patatine, arachidi salate, biscotti vegan).
Se non conti e non vuoi contare le calorie è più probabile (non ovvio e scontato) dimagrire con una dieta vegana se prima seguivi un regime dietetico più variegato, proprio perché da una parte ti sazierai prima e dall’altra escluderai alcuni cibi tanto golosi quanto densamente calorici.
Dieta vegana bilanciata
L’ American Dietetic Association sostiene che le diete vegane quando ben pianificate (!) sono in grado di rispondere alle esigenze nutrizionali degli individui; la stessa posizione è sostenuta anche in Italia dalla SINU (Società Italiana di Nutrizione Umana).
Una dieta bilanciata deve esserlo in primo luogo per l’apporto energetico, poi per macronutrienti e micronutrienti.
Dal punto di vista dell’energia, la dieta vegana riesce a soddisfare il fabbisogno energetico dell’individuo, nonostante l’esclusione di alimenti densamente calorici: bisogna quindi fare attenzione a consumare anche i cibi che abbiano un’alta densità energetica, come i cereali, la frutta secca, l’olio.
Per quanto riguarda i macronutrienti:
I carboidrati li puoi ricavare da molte fonti (cereali, frutta, verdura, legumi) e riuscire a soddisfare il fabbisogno glucidico non è un problema.
La dieta vegana bilanciata è in grado di assicurare un adeguato apporto di proteine e, nel particolare, anche di amminoacidi essenziali: bisogna però aumentare il fabbisogno proteico del 10-20% rispetto agli apporti consigliati per i non-vegetariani e, a tavola, variare le fonti Le proteine vegetali sono considerate a basso valore biologico (mentre i prodotti animali ad alto), ma con questi accorgimenti puoi ben sopperire a questo eventuale problema.
Una dieta vegana ha di solito meno grassi delle diete non-vegane, ma questo è un punto a favore in quanto questa riduzione dell’apporto lipidico si verifica a causa dell’esclusione di grassi saturi e trans (“cattivi” quando in eccesso). L’olio, la frutta secca, i semi sono gli alimenti su cui contare per un adeguato apporto lipidico. Potrebbe esserci una carenza di omega-3 (particolari acidi grassi “buoni”), che però si trovano nei semi di lino o in caso di necessità in integratori alimentari.
I micronutrienti (vitamine e minerali) nei vegani non sono mai stati rilevati più carenti rispetto ai non-vegetariani, anche se per quanto riguarda il ferro e lo zinco ci sono degli accorgimenti da considerare per il loro bilanciamento. Il ferro dei cibi vegetali è meno biodisponibile (ferro non-eme) rispetto a quelli animali (ferro-eme), per questo è consigliato incrementare l’apporto dell’80% rispetto ai valori consigliati ai non-vegani. In questo modo è comunque garantita una sufficiente assimilazione, soprattutto quando accompagnata da cibi con vitamina C, che favorisce l’assorbimento del ferro, al contrario di quelli ricchi di calcio.
Lo zinco anche va aumentato (+40-50%), soprattutto perché il suo assorbimento può essere inibito dai fitati, molto presenti nei legumi e nei cereali che occupano una buona parte dell’alimentazione vegana.
seitan e patate al forno, insalata con semi di lino
tofu e ceci, cavolo al vapore
risotto ai funghi ed erbe aromatiche
farro con lenticchie e piselli
La dieta vegana è “famosa” per alcuni cibi, poco noti agli onnivori se non per i nomi non troppo familiari, ma che sono validi anche per i non vegani per ampliare il proprio spettro alimentare:
Tofu: manche detto caglio di semi di soia, si ottiene dalla cagliatura del latte di soia e dalla sua pressatura in blocchi. È spesso indicato come “formaggio vegetale” ed è disponibile come molle, affumicato, aromatizzato alle erbe.
Tempeh: alimento fermentato ricavato dai semi di soia gialla, che conserva tutte le qualità nutrizionali della soia, cioè un alto contenuto di fibre e di vitamine. È molto più digeribile dei semi di soia.
Seitan: anche detto “carne vegetale”, è molto proteico e ricavato dal glutine del grano tenero, del farro o del kamut. Viene cotto e insaporito in acqua con salsa di soia, alga kombu e sale.
Tahin: anche detto “burro o crema di sesamo”, deriva dai semi di sesamo bianco. È ricco di vitamina B, magnesio, grassi insaturi, calcio, ferro, selenio.
Miso: è un condimento derivato dai semi della soia gialla, a cui spesso vengono aggiunti cereali come orzo, riso, segale, grano saraceno, miglio. È ricco di proteine, vitamine del gruppo B, minerali ed enzimi simili a quello dello yogurt.
Conclusioni: pro e contro della dieta vegana
La dieta vegana anche se comunemente è considerata monotona (“ma mangi solo frutta e verdura?!”) e non in grado di soddisfare i bisogni nutrizionali, in realtà ha poco da invidiare ad altre diete, con i suoi pro e i suoi contro. È certo che bisogna fare attenzione ad alcuni accorgimenti, come nel caso delle proteine e di alcuni micronutrienti e nel non esagerare con le fibre. Ma, se la conoscenza è davvero prevenzione, è facile (ma non scontato) riuscire a seguire una dieta vegana completa e bilanciata in termini energetici e di nutrienti. Infatti, la dieta vegana è valida anche agli sportivi.
Inoltre, il suo andare contro tendenza per quanto riguarda il minor consumo generale di grassi saturi, trans, colesterolo e la maggior assunzione di verdura, frutta, legumi è un grande punto a favore per la salute.
In questo articolo vedremo come allenarsi a casa con pochi attrezzi. Partiremo dai principi chiave per ottenere risultati ed alla fine ti daremo, scaricabile in PDF, una scheda che puoi fare per un allenamento completo.
Ma prima d’iniziare ricorda i due cardini principali: costanza e tenacia, che tu sia in palestra, in salotto o in un garage, senza stringere i denti quando ti alleni, senza farlo costantemente nel tempo, non potrai ottenere reali risultati, sia per dimagrire che per mettere massa muscolare.
Ma ora basta preamboli partiamo!
Come allenarsi a casa
Teoricamente per ottenere dei risultati, per i principianti, basta il pavimento, su internet è pieno dei bei ragazzi/ragazze che propongono workout da fare a casa con nessuna attrezzatura.
Ed hai allenato buona parte del corpo e ti sei stancato. Funziona? eh dipende, dipende dal tuo livello; se eri completamente sedentario si, magari è anche troppo, ma di sicuro non ti diventa il fisico come chi ti propone questi workout.
Dimagrimento e massa muscolare rispondono a dei principi precisi, se li conosci capisci poi come allenarti a casa e se quello che fai ha senso per raggiungere l’obiettivo.
Come allenarsi a casa per dimagrire
La perdita di grasso corporeo risponde solo ad un principio, il deficit calorico. Per perdere peso devi mangiare meno a tavola. L’allenamento ti aiuta a preservare la massa magra, a consumare calorie, ma tutto è vano senza una dieta ipocalorica.
A casa vanno molto di moda i workout brucia grassi. Ovvero circuiti dove salti, giri, ruoti, in definitiva sudi. Funzionano?
Si e no, dipende da cosa ti aspetti da questi allenamenti.
20 burpees sono mediamente 12,5kcal per una persona di 70kg, se pesi di più o di meno varia leggermente +/- 2,5kcal. Questo vuol dire che se fai 200 burpees hai bruciato 125kcal. Ora pensa a quanta fatica fai a fare 200 burpees ed in relazione comprendi quanto si consuma con gli allenamenti brucia grassi a casa: poco molto poco.
Ovviamente è sempre meglio di niente, per dimagrire bene muoversi è fondamentale, in generale ricorda che più gli esercizi sono intensi, più coinvolgono tutto il tuo corpo, più richiedono di spostarlo in verticale come nei salti e più consumano. Uno squat profondo usa quasi tutto il tuo peso, lo slancio di una gamba solo pochi kg.
Ecco una tabella con gli esercizi principali che puoi fare a casa a seconda dell’attrezzatura che hai. Abbiamo messo solo quelli base perchè esistono infinite varianti. Sei hai un kettlebell la lista d’esercizi (swing, turkish get up, ecc.) si allunga, ma qui trovi una base.
Nessun attrezzo
Manubri /bilanciere
Sbarra/TRX
Gambe
Air squat
Affondi
Ponte glutei
Squat Jump
Affondi bulgari
Squat
Affondi
Hip thrust
Affondi TRX
Squat TRX
Pettorali/ Spalle
Piegamenti sulle braccia:
ginocchia
normali
stretti
Panca piana o floor press
Distensioni sopra la testa
Croci
Alzate laterali
Piegamenti TRX
Dorsali
/
Rematore
Trazioni
Australian pull up
Braccia
Piegamenti stretti
Curl
Estensioni tricipiti
/
Allenarsi a casa coi manubri
Molti ragazzi non riescono ad andare in palestra e si chiedono se a casa riescono a mettere su massa muscolare. Il nostro corpo non legge gli esercizi ma solo:
la tensione meccanica (il carico sollevato)
lo stress metabolico (l’acido lattico prodotto)
il danno muscolare (lo stimolo nuovo)
Ecco tutte queste cose si possono fare benissimo anche a casa, c’è chi si prepara alle gare di bodybuilding in garage ed ha un rack, un bilanciere, e centinaia di kg da caricare.
Tuttavia se non hai questa possibilità e ti ritrovi a casa con dei manubri da massimo 20kg, eccoti una scheda per allenarti e sfruttare al meglio quello che hai per mettere su muscolo o almeno non perderlo finché non tornerai in palestra. Il programma è di Massimo Brunaccioni nostro docente e campione del mondo WNBF per maggiori informazioni guardati il suo video.
Il corpo libero: perfetto per gli allenamenti a casa
Negli ultimi anni il calisthenic (allenamenti a corpo libero) ha sempre di più preso piede. La ragione è semplice si ottengono ottimi benefici, spesso per la parte alta del corpo migliori della palestra (se ti perdevi a fare mille macchine senza caricare).
Se ti alleni a casa perchè non iniziare col calisthenics? Ti occorre una sbarra per le trazioni, delle parallele per i dip e volendo degli anelli, fine.
Gli esercizi che puoi fare a casa a corpo libero sono tantissimi:
Gruppo muscolare
Esercizi corpo libero
Schiena
Trazioni
Front lever
Petto
Dip
Piegamenti
Spalle
Piegamenti in verticale
Braccia
Compra dei manubri
Gambe
Salti
Pistol
Air squat ed affondi
Anche in questo caso abbiamo messo solo i principali ma se cerchi anche sul nostro sito troverai tantissimi spunti.
L’allenamento a corpo libero, il calisthenics sono un’ottima soluzione per mettere massa muscolare allenandosi a casa.
Allenamento corpo libero / calisthenics
Trazioni 30/50/100 rip in meno tempo possibile (a seconda del livello)
Piegamenti in verticale o dip 10′ più ripetizioni possibili
Body row 3xmax rec 1’30”
Piegamenti sulle braccia piedi rialzati 3xmax rec1’30
Jump squat (Tabata da 5′ 20″ rip rec10″)
Addominali: Plank o barchetta 5′ di lavoro effettivo
Conclusione sull’home workout
Visti i tempi che corrono tantissime persone si trovano obbligate a ripiegare sugli home workout, altre non amano proprio andare in palestra. Conviene così comprarsi poca ma essenziale attrezzatura scegliendo quello che piace di più.
Volete comprarvi gli elastici, scaricare l’ultima app per allenarsi a casa? Va benissimo basta che siate costanti e che nel tempo gli stimoli siano sempre maggiori. Se seguirete queste due semplici regole, a prescindere da dove vi allenate, otterrete risultati.
La dieta chetogenica è una strategia nutrizionale che prevede un basso apporto di carboidrati, forse per questo è spesso ricercata da chi vuole perdere peso? In realtà, non è l’escludere i glucidi che rende utile la dieta chetogenica per dimagrire: se fa dimagrire è perché è ipocalorica, nessun altro segreto.
Per gli sportivi, viene affrontato anche il tema della preservazione della massa muscolare: può (e come) la keto diet venire incontro alle esigenze di chi si allena in palestra?
Che cos’è la dieta chetogenica? In cosa consiste?
Una dieta chetogenicanon è altro che una dieta capace di indurre uno specifico adattamento del fegato che inizia a produrre una quantità maggiore di corpi chetonicie che spostail metabolismo dall’utilizzo prevalente del glucosio a quello dei lipidi.
Più concretamente è una dieta che limita i carboidrati sotto una soglia più o meno bassa. L’assunzione di proteine e grassi è in realtà variabile a seconda anche del soggetto e degli obiettivi della dieta. Sebbene le proteine possono avere un effetto anti-chetogenico, in conseguenza della loro capacità di promuovere l’insulina, in realtà è veramente difficile contrastare l’adattamento alla chetosi se i carboidrati sono tenuti bassi, anche con alte quantità di proteine.
Come funziona la dieta chetogenica? A cosa serve?
In condizioni alimentari “normali” e in uno stato di salute nutrizionale fisiologica, l’organismo utilizza una miscela di grassi, proteine e carboidrati a scopo energetico. Quando tuttavia i glucidi sono rimossi dalla dieta o sono presenti solo in piccole quantità (massimo 100 grammi al giorno anche se in realtà la maggior parte delle diete chetogeniche prevede un’introduzione molto più limitata: circa 30-50 g/die), le scorte glucidiche del nostro corpo tendono ad esaurirsi abbastanza in fretta.
In conseguenza di ciò, l’organismo si adatta e utilizza in maggior misura un combustibile alternativo al glucosio per fornire energia. Uno di questi combustibili è rappresentato dagli acidi grassi liberi (FFA), che possono essere utilizzati dalla maggior parte dei tessuti del corpo.
La disponibilità di glucosio è assicurata prima principalmente dalla degradazione del glicogeno epatico, poi dall’aumento della gluconeogenesi, che sfrutta precursori non glucidici, tra cui prevalentemente alcuni aminoacidi, per produrre glucosio. Tuttavia, una gluconeogenesi spinta e prolungata per troppo tempo si traduce in una quantità esorbitante di proteine, anche muscolari, degradate per produrre aminoacidi e successivamente glucosio. Ecco perché dopo circa 1-2 giorni si ha un brusco calo anche della gluconeogenesi, con il fine di ridurre la degradazione proteica e preservare la massa magra.
Come fa, allora, l’organismo a non andare incontro a problemi per carenza di glucosio?
Il punto è che il fabbisogno stesso di glucosio viene ridotto rilevantemente per adattamenti fisiologici al digiuno:
Riduzione del tasso metabolico
Maggior utilizzo dei FFA
Gli acidi grassi, dunque, tenteranno di sostituire i fini energetici del glucosio. Tuttavia, non tutti gli organi possono usare FFA: ad esempio, il cervello non può usare gli acidi grassi a scopo energetico ma può adattarsi all’utilizzo dei corpi chetonici. Quando questi ultimi sono prodotti in maggior quantità e a una velocità maggiore (i corpi chetonici provengono dal metabolismo dei grassi), si accumulano nel sangue inducendo uno stato metabolico detto chetosi.
Contemporaneamente all’aumento dei chetoni nel sangue vi è un’ulteriore diminuzione dell’utilizzazione del glucosio e anche della sua produzione e di conseguenza una diminuzione della degradazione delle proteine utilizzate a scopo energetico. Quando l’adattamento alla chetosi porta a una minor quantità di proteine utilizzate a scopo energetico, c’è un effetto positivo per il risparmio di massa muscolare.
Ad ogni modo bisogna chiarire che l’adattamento alla chetosi non ha dimostrato di portare a maggiori vantaggi rispetto ad altre ipocaloriche iperproteiche. Tuttavia, non è nemmeno inefficace come vorrebbe far credere una buona parte dei sostenitori delle diete ad alto contenuto di carboidrati.
In sostanza non c’è nessun vantaggio o svantaggio metabolico rispetto a una dieta proteica non chetogenica sia per quanto riguarda la perdita di grasso che per il risparmio delle proteine muscolari. Una delle ragioni per cui si adotta questo approccio alimentare è che viene considerato una dieta facile da seguire.
Quanto tempo ci vuole per andare in chetosi?
In condizioni di digiuno, il glucosio contenuto nel fegato e che ha il ruolo di mantenere stabile la glicemia viene esaurito in circa 24 ore o anche prima se svolgi attività fisica. Se non vengono introdotti molti carboidrati, il glucosio nel fegato non c’è, ma le cellule hanno comunque bisogno di energia! Quindi, il corpo inizia ad adattarsi (stato di chetosi) per essere in grado di utilizzare acidi grassi e corpi chetonici al posto del glucosio come fonte di energia.
Il corpo comincia davvero a consumare i grassi come carburante primario dopo circa 3 settimane. Per questo motivo, i principi della chetosi (consumo dei grassi, risparmio proteico perché diminuzione della gluconeogenesi) solo validi al raggiungimento di questo lasso temporale.
Dieta chetogenica ed effetti su insulina e glucagone
Per quanto riguarda gli effetti sugli ormoni, l’adattamento alla chetosi ne influenza principalmente due: glucagone e insulina.
L’insulinaè un ormone responsabile dell’immagazzinamento dei nutrienti dal sangue ai tessuti bersaglio ma l’effetto più precoce e potente è l’inibizione della lipolisi a livello degli adipociti bianchi agendo sulla lipasi ormono sensibile (HSL). Questo è un enzima responsabile dell’idrolisi dei trigliceridi (TAG) in acidi grassi e glicerolo.
Il glucagoneè un ormone che stimola il corpo a utilizzare e a liberare il glicogeno immagazzinato nel fegato sotto forma di glucosio. Importante ricordare che si tratta del glicogeno epatico e non muscolare, poiché quest’ultimo è utilizzato solo dalle fibre muscolari per la loro attività fisiologica, mentre è il fegato l’organo che smista i glucidi in tutti gli altri tessuti in base alle loro esigenze e alla disponibilità ovviamente di glucosio.
Quando i carboidrati sono rimossi dalla dieta, i livelli di insulina diminuiscono e i livelli di glucagone aumentano. Questo provoca un aumento del rilascio di FFA da parte degli adipociti e un aumento dell’utilizzo dei FFA da parte del fegato proprio per riduzione dell’effetto anti-lipolitico dell’insulina.
Proprio quest’ultimo adattamento porta poi come conseguenza la produzione di corpi chetonici e lo stato metabolico di chetosi descritto prima.
Benefici e vantaggi dieta chetogenica
Se per vantaggio pensi che possa far dimagrire e mantenere la massa muscolare, allora la dieta chetogenica funziona. Tuttavia, sono smentiti i vantaggi metabolici della chetosi, per cui è sbagliato pensare che una dieta chetogenica sia a prescindere migliore (o peggiore) di un’altra dieta per la perdita di grasso: semplicemente ci saranno persone che si trovano bene con un approccio chetogeniche e persone che ottimizzerebbero i loro risultati seguendo strategie alimentari differenti.
Uno dei vantaggi attribuiti alla dieta chetogenica è l’aumento della sazietà, quindi un miglior controllo alimentare e una maggior compliance alla dieta. Tuttavia, la compliance non è solo dovuta all’effetto saziante teorico di un macronutriente, pasto o dieta, ma anche alla possibilità di scelta degli alimenti da poter consumare più o meno liberamente.
Una chetogenica è una dieta che inevitabilmente preclude il consumo di una gran varietà di alimenti per cui non sempre è una dieta facile da seguire per le persone, anzi, solitamente è il contrario. Inoltre, l’effetto saziante delle chetogeniche pare esser attribuito in gran parte (se non totalmente) all’apporto proteico, e questo significa che sono le proteine e non la chetogenica in sé ad avere un vantaggio su quest’aspetto, suggerendo che altre diete, non chetogeniche, possono apportare gli stessi vantaggi sulla regolazione della fame e sazietà che riscontriamo nelle diete chetogeniche.
Da sottolineare, comunque, che la dieta chetogenica è considerata sicura, gli effetti collaterali sono minimi e temporanei. Chiaramente, come tutti gli approcci particolari, prevedono delle controindicazioni in alcuni casi patologici.
Infine, c’è da considerare che l’efficacia delle diete chetogeniche dipende anche da come sono strutturate, poiché ci sono diversi protocolli e varianti.
Controindicazioni, danni ed effetti collaterali della dieta chetogenica
La dieta chetogenica è particolarmente controindicata nei disturbi del metabolismo lipidicoin quanto i protocolli dietetici chetogenici prevedono un abnorme apporto di lipidi. Quindi, tutti quei soggetti con deficit di carnitina, carnitina palmitoiltransferasi I e II (il sistema enzimatico che permette il trasporto degli acidi grassi all’interno del mitocondrio dove avviene la beta-ossidazione), 3-idrossiacil-CoA, piruvato carbossilasi non devono seguire una dieta chetogenica.
Non ci sono poi particolari controindicazioni per una dieta chetogenica se non sottolineare che l’applicazione di questa strategia dietetica, in presenza di alcune patologie, come il diabete, è particolarmente complessa e necessita di attento monitoraggio e alcune modifiche ai protocolli tradizionali.
Alla base della preoccupazione circa i danni renali indotti da una dieta chetogenica c’è la convinzione che un apporto proteico maggiore rispetto alle RDA per soggetti sedentari (0,8-1g/kg) possa provocare danni al sistema renale e progressiva perdita di capacità funzionale dei reni. In realtà la letteratura scientifica ha da tempo smentito queste ipotesi, quanto meno per apporti proteici (anche molto elevati) per alcune settimane o mesi, mentre effetti a lunghissimo termine non sono del tutto conosciuti a causa della carenza di studi adeguati.
Una preoccupazione spesso sollevata dai medici circa i potenziali effetti negativi di una dieta a basso contenuto di carboidrati e ad alto contenuto di proteine riguarda i presunti potenziali danni epatici da un eccesso di proteine.
In realtà la ricerca scientifica non è molto corposa a riguardo: in uno dei pochi studi a più lungo termine (solo 4 settimane comunque) non si sono osservati cambiamenti circa gli enzimi epatici in seguito a dieta chetogenica. Gli altri studi a lungo termine riguardano i bambini epilettici che seguono una dieta chetogenica e anche in questo caso non si sono mai verificati danni epatici.
Tuttavia, per onestà intellettuale, questi studi non sono affidabili al 100%. In sostanza, non si può dire con certezza che le chetogeniche non abbiano effetti a lungo termine (anni) sulla funzionalità epatica, e allo stesso tempo è assolutamente poco corretto fare terrorismo psicologico su questo argomento: al momento non ci sono evidenze che una dieta chetogenica correttamente osservata possa danneggiare il fegato.
Insulino-resistenza
Anche se le diete a basso contenuto di carboidrati, e così le diete chetogeniche, tendono, generalmente, a normalizzare i livelli di insulina e di glucosio nel sangue, occorre tener presente che quando i carboidrati vengono reintrodotti, c’è un aumento dell’insulino-resistenza. Tuttavia, questo fenomeno non deve portare alla conclusione che sia meglio non introdurre a vita i carboidrati nella dieta. Semmai dovrebbe far riflettere e spingere gli esperti in nutrizione a ricercare altri metodi per migliorare la sensibilità al glucosio e la funzionalità dei meccanismi insulinici.
C’è poca ricerca riguardante gli effetti fisiologici dei carboidrati reintrodotti dopo un lungo periodo di dieta chetogenica, ma pare che la risposta fisiologica iniziale data dalla reintroduzione dei carboidrati sia simile a ciò che accade in diabetici di tipo II, ovvero, oscillazioni della concentrazione di glucosio nel sangue (glicemia) e iperinsulinemia. Ad ogni modo, queste risposte non si sono verificate in tutti gli studi e che, a volerla dire tutta, è prevalente in quegli individui che avevano già in precedenza (intendo dire prima di aver seguito la dieta a basso contenuto di carboidrati) problemi di gestione del glucosio e un certo grado di insulino-resistenza.
Più che un effetto collaterale, o un eventuale danno all’organismo a causa della dieta chetogenica, sarebbe più giusto dire che in molti casi una dieta chetogenica non è una strategia ottimale per migliorare le condizioni patologiche di insulino-resistenza, al netto degli eventuali risultati su perdita di peso e grasso.
Trigliceridemia e colesterolo
Il fatto che una dieta chetogenica sia ad alto contenuto di grassi, porta la maggior parte delle persone ad avere preoccupazioni per quanto riguarda gli effetti sulla trigliceridemia, sulla colesterolemia e sul potenziale aumento del rischio per le malattie cardiovascolari. Infatti, alti livelli di colesterolo totale ma soprattutto alti livelli di LDL (il cosiddetto colesterolo cattivo) e bassi di HDL (il cosiddetto colesterolo buono) correlano con un aumento del rischio di malattie.
Effettivamente, i primi studi a breve termine hanno mostrato un forte aumento dei livelli dei lipidi nel sangue in seguito a una dieta high fat. Tuttavia alcune ricerche successive non hanno mostrato cambiamenti rilevanti nei parametri ematici e addirittura alcuni hanno mostrato una diminuzione dei livelli di colesterolo. La ricerca scientifica non ha quindi portato risultati conclusivi ed è errato estrapolare conclusioni a partire dall’analisi di solo una parte degli studi esistenti sull’argomento. Ma perché queste ricerche non sono affidabili?
Il problema è sempre lo stesso: questi sono studi a breve termine e pertanto non solo non sono predittivi di nulla, ma tendono anche a presentare conclusioni variabili. Pochi sono invece gli studi a lungo termine eccetto quelli sui bambini epilettici che hanno seguito anche per 2-3 anni una dieta chetogenica. Questi soggetti però non rappresentano un modello di studio adeguato e quindi non possono essere utilizzati per giungere a delle conclusioni assolute.
Nel loro caso, comunque, i livelli di lipidi nel sangue aumentano (in effetti è considerato uno degli effetti collaterali di una dieta chetogenica osservata in un periodo di tempo così lungo). Ad ogni modo una dieta del genere non è pensata per essere sostenuta a vita e i ricercatori affermano che eventuali alterazioni nei lipidi del sangue possono essere corretti al termine della dieta. A sostegno di questa tesi si fa spesso l’esempio degli Inuit: queste persone seguono una dieta a bassissimo contenuto di carboidrati e alto apporto lipidico per lunghi periodi di tempo ogni anno e nonostante ciò non ci sono evidenze che sviluppino malattie cardiache più rapidamente di altri americani. Questo suggerisce che ci siano altri effetti protettivi a lungo termine (pur con tutte le limitazioni del caso che hanno studi epidemiologici del genere).
Detto questo, alcuni medici esprimono le loro preoccupazioni in seguito all’aumento delle malattie degenerative che si è scoperto essere correlate con alti livelli di lipidi nel sangue. Tuttavia, queste patologie richiedono anni se non addirittura decenni per svilupparsi. A meno che un individuo non osservi una dieta eccessivamente iperlipidica per 10-15 anni senza interruzioni, i ricercatori non ritengono ci possano essere problemi di salute.
Infine, un altro problema nel valutare i livelli di lipidi nel sangue sta nel fatto che questi sono assolutamente dipendenti dalla restrizione calorica e soprattutto dalla perdita di peso (peraltro parliamo di due aspetti correlati). Quindi, possiamo semplicemente dire che la posizione della ricerca scientifica sull’ argomento è questa:
Se un individuo perde peso/grasso seguendo una dieta ipoglucidica/chetogenica, i suoi livelli di colesterolo caleranno.
Se un individuo non perde peso/grasso seguendo una dieta chetogenica, i suoi livelli di colesterolo aumenteranno.
L’esperienza clinicaci dice che gli individui che seguono una dieta ipoglucidica iperlipidica hanno una vasta gamma variabile di risposte: alcuni mostrano una diminuzione drastica del colesterolo, altri un aumento. Per quanto riguarda i trigliceridi di solito con la dieta chetogenica si ha una riduzione dei livelli nel sangue. Questo può essere spiegato con un maggior utilizzo degli acidi grassi nella maggior parte dei tessuti, come ad esempio nel muscolo scheletrico.
Dal momento che non c’è nessuna conclusione assoluta circa i livelli di colesterolo durante una dieta di questo tipo, i soggetti dovrebbero monitorare i livelli di lipidi nel sangue periodicamente.
Stipsi
Un’altra critica che viene fatta alle diete chetogeniche è la sua correlazione con la stipsi. Tale disturbo rappresenta uno degli effetti collaterali più comuni riscontrati in una dieta di questo tipo. Molto probabilmente tutto ciò deriva dallo scarso apporto di fibre alimentarigiornaliere: la mancanza di carboidrati induce i ricercatori a pensare che l’assunzione di fibre sia generalmente bassa o comunque molto più bassa rispetto a chi segue una dieta ipocalorica più equilibrata. Non vi è dubbio che la fibra sia un “nutriente” importante per la salute umana. Alla base di ciò si consiglia sempre di utilizzare un integratore di fibre (senza zuccheri) per aumentare l’apporto totale giornaliero.
A onor del vero, comunque, la ricerca pare stabilire (ma non in modo certo e assoluto per ora) che le fibre aggiunte non siano benefiche come le fibre che si trovano naturalmente negli alimenti. Il mio consiglio, dettato sinceramente solo da un po’ di buon senso, è di prevedere il consumo di diverse porzioni di verdure anche nel caso si seguisse una dieta chetogenica in quanto sono indubbiamente benefiche per lo stato di salute e inoltre non contengono grandi quantità di carboidrati e difficilmente ostacolano l’adattamento alla chetosi.
Cosa mangiare nella dieta chetogenica?
I cibi della dieta chetogenica devono essere privi o quasi totalmente privi di carboidrati: per questo l’attenzione viene rivolta a prodotti come carne, pesce, uova, frutta secca, olio.
Alimenti consentiti
Per quanto riguarda le fonti proteiche, non c’è restrizione di sorta, anche se è evidente che una dieta chetogenica sarà sbilanciata sulle proteine animali piuttosto che vegetali, poiché quest’ultime provengono spesso da fonti anche ricche di carboidrati. Infine, le diete chetogeniche sono ricche in grassi, e le fonti principali da considerare sono frutta secca, pesce, olio evo e tutte le fonti di grassi insaturi e a media catena. Tuttavia, proprio per l’enorme apporto lipidico previsto, spesso bisogna giungere a compromessi e accettare di consumare anche fonti ricche di grassi saturi, che sono anche ricche di proteine
Alimenti vietati
Sono implicitamente eliminati dalla dieta (o ridotti all’osso) i cereali, le patate, la frutta zuccherina e qualsiasi alimento ricco di carboidrati. L’esiguo apporto glucidico sarà soddisfatto totalmente (o in gran parte) dal consumo di verdure.
Dieta chetogenica per dimagrire
Il discorso base non cambia mai: per dimagrire e perdere grasso c’è bisogno del deficit calorico, quindi di una dieta ipocalorica. Alcune caratteristiche attribuite allo stato di adattamento alla chetosi hanno reso maggiormente interessante la dieta chetogenica rispetto ad altre ipocaloriche: la soppressione dell’appetitoe il senso di benessere(assenza di astenia e senso di spossatezza), condizioni che spesso la gente soffre nel tentativo di perdere peso.
Ad ogni modo, almeno per quanto riguarda la sensazione di sazietà, ciò non sembra dovuto tanto allo stato di chetosi, quanto all’effetto delle proteine. Dunque, tale vantaggio non è caratteristica esclusiva delle chetogeniche, piuttosto delle diete iperproteiche.
Già da un po’ di anni, alcuni ricercatori suggeriscono che le diete a basso contenuto di carboidrati come trattamento per l’obesità, si basano sul semplice assunto che i soggetti tendono a mangiare menocalorie (e quindi a perdere più peso/grasso) quando i carboidrati sono limitati a massimo 30-50 grammi al giorno o meno.
La dieta chetogenica non è comunque superiore ad altre ipocaloriche relativamente iperproteiche per quanto riguarda la perdita di grasso. Semmai può essere migliore, in alcuni casi, e su alcuni soggetti, per gli effetti di soppressione dell’appetito indotti dall’introito elevato di proteine e grassi che stimolano maggiormente la sazietà, rispetto agli zuccheri e per l’effetto dei chetoni (seppur questo anche è ancora discusso).
Nel corso del tempo sono stati sviluppati approcci differenti a questo regime alimentare, sono nate così le diete chetogeniche cicliche, di cui probabilmente la più famosa è ancora la dieta metabolica.
Esempio di dieta chetogenica
Ecco un esempio di dieta chetogenica con alcuni alimenti comuni che puoi mangiare.
In generale è sempre meglio preferire grassi monoisaturi e di non esagerare con la carne rossa ed i grassi animali. Anche i formaggi ed il loro contenuto di sale non dovrebbe eccedere le dosi giornaliere raccomandate (3-5g). Si consiglia di aumentare l’idratazione bevendo anche 3-3,5dl ogni 10kg di peso corporeo.
Dieta chetogenica schema
Esempio 1 – Maschio di 80 kg che si allena con i pesi
Fase 1
Impostare l’apporto calorico totale
Calcolare il proprio TDEE – facciamo sia 2500 kcal
Tagliare del 20-25% le calorie – 2500-600= 1900 kcal
Fase 2
Impostare l’assunzione proteica
Moltiplicare il peso in kg per 1,6-2,2 g/kg= 80×2= 160 g
160 g di proteine equivalgono a 640 kcal
Fase 3
Impostare l’assunzione di carboidrati
20g di carboidrati = 80 kcal
Da assumere attraverso verdure
Fase 4
Impostare l’assunzione di grassi
Sottrarre le kcal assunte da proteine e carboidrati al totale calorico
1900 – 640 – 80 = circa 1180 kcal
1180 kcal / 9 = circa 130 g di grassi
Quindi, la dieta chetogenica della persona presa da esempio sarà così composta:
Proteine:160 grammi / giorno.
Carboidrati:20 grammi / giorno.
Grassi:130 grammi / giorno.
Dopo le prime tre settimane di dieta, è possibile aumentare leggermente l’introito di glucidi e ridurre l’introito proteico.
Esempio 2 – Donna di 65 kg che si allena con i pesi
Fase 1
Impostare l’apporto calorico totale
Calcolare il proprio TDEE – facciamo sia 1800 kcal
Tagliare del 20-25% le calorie – 1800-400= 1400 kcal
Fase 2
Impostare l’assunzione proteica
Impostiamo le proteine a 130g perché è il minimo consentito
130 g di proteine equivalgono a 520 kcal
Fase 3
Impostare l’assunzione di carboidrati
20g di carboidrati = 80 kcal
Da assumere attraverso verdure
Fase 4
Impostare l’assunzione di grassi
Sottrarre le kcal assunte da proteine e carboidrati al totale calorico
1400 – 520 – 80 = circa 800 kcal
800 kcal / 9 = circa 90 g di grassi
La dieta chetogenica sarà quindi così composta:
130 proteine.
20 carboidrati.
90 grassi.
Dopo tre settimane, l’assunzione di proteine nella dieta può essere abbassata e l’assunzione dei grassi o dei carboidrati potrà essere aumentata al fine di raggiungere il fabbisogno calorico determinato.
Dieta chetogenica nello sport
La degradazione delle proteine durante il digiuno totale per la produzione di glucosio ha portato negli anni a studiare e sperimentare due approcci nettamente diversi tra loro, con il fine di evitare o quanto meno ridurre questa perdita. L’approccio più intuitivo e più semplice è stato quello di fornire glucosio in modo da eliminare la necessità di utilizzare le proteine a scopo energetico. Questo ha però avuto un effetto secondario negativo e intuibile: l’adattamento alla chetosi non avveniva o avveniva più lentamente.
Il secondo approccio si è basato, invece, su un ragionamento sostanzialmente differente: poiché in assenza di glucosio, prima che il corpo si adatti completamente alla chetosi, una buona parte delle proteine viene utilizzata a scopo energetico con conseguenze negative sulla massa muscolare, noi risolviamo il problema semplicemente aumentando l’introito proteico. In questo modo, la massa muscolare verrà intaccata in modo molto minore.
Questa intuizione non presenta nemmeno il lato negativo del primo approccio: è vero che anche le proteine innalzano l’insulina, ma lo fanno in maniera minore rispetto ai carboidrati che portano a una consistente elevazione della glicemia; inoltre, le proteine stimolano anche il glucagone. In questo modo le condizioni per instaurare la chetosi sono grossomodo mantenute (il livello di proteine assumibili prima che queste intaccano sui processi di chetosi è molto alto se l’apporto glucidico è minimo).
Dopo molte ricerche, studi e dibattiti, si è concluso che un apporto di proteine di circa 1,5 – 1,75 g/kg di peso corporeo ideale basterebbe a risparmiare la maggior parte della perdita di azoto (e quindi a ridurre il catabolismo proteico muscolare) soprattutto una volta che ci si è adattati alla chetosi e quindi le richieste di glucosio sono diminuite sensibilmente (circa 30 grammi solo per il cervello a fronte di quasi 100 grammi al giorno in condizioni normali).
Sotto questo punto di vista, quindi, in qualsiasi tipo di dieta chetogenica, l’adeguamento dell’introito proteico giornaliero è indispensabile per preservare la maggior parte della massa muscolare. In generale, indipendentemente dal peso corporeo, la quantità minima di proteine che deve essere consumata durante le prime 3 settimane di una dieta chetogenica sembrerebbe essere di circa 150 grammi al giorno, come indicato anche da Lyle McDonald, mentre dopo le prime 3-4 settimane l’apporto proteico può anche essere abbassato.
In conclusione, le diete chetogeniche possono essere utili per mantenere la massa muscolare se l’apporto proteico è adeguatamente corretto, ma ad ogni modo non ci sono evidenze che siano peggiori o migliori di altre ipocaloriche con apporto proteico idoneo.
Epilessia e dieta chetogenica
La dieta chetogenica è uno strumento terapeutico sempre più impiegato (io ne auspico una sempre maggior diffusione in quanto sono ancora tanti i pediatri e i neurologi non sufficientemente aggiornati in questo senso) nelle epilessie farmacoresistenti. Secondo una recente Consensus, la dieta chetogenica andrebbe considerata dopo aver costatato l’inefficacia dei primi 2 farmaci antiepilettici utilizzati, oppure, ancora meglio, come adiuvante la terapia farmacologica.
Ormai è stato stabilito che durante l’età evolutiva, se correttamente condotta, la dieta chetogenica non determina sovvertimenti del trend auxologico come invece si credeva in passato (cioè, la crescita dei bambini non è compromessa). Sotto il profilo strettamente clinico la dieta chetogenica sembra associata a una riduzione della frequenza di crisi maggiore del 90% nel 30% dei pazienti trattati, indipendente da età, tipo di crisi ed eziologia.
Conclusioni sulla dieta chetogenica: pro e contro
In conclusione, la dieta chetogenica non dimostra particolari controindicazioni, ma nemmeno grandi vantaggi rispetto ad altre diete iperproteiche: la sazietà, sicuramente un fattore utile da considerare per chi vuole dimagrire con una dieta ipocalorica, è infatti garantita dall’alto apporto proteico e non dalla chetogenica in sé. I potenziali contro di danni epatici o renali sono smentiti, almeno per ora, dalla ricerca scientifica.
Autore: dott. Daniele Esposito, autore di Project Diet.
Il dolore alla spalla è un disturbo estremamente frequente e molto variabile: può presentarsi sia in sportivi che in sedentari, in alcuni casi può passare in pochi giorni, mentre in altri può manifestarsi per periodi di durata ben più lunga, o ritornare periodicamente.
In generale, la spalla può andare incontro a quadri dolorosi per un’ampia varietà di cause. Esse possono essere di natura traumatica, come nel caso di una frattura dell’omero o di una lussazione di spalla, oppure di natura atraumatica/degenerativa, come per esempio la lesione della cuffia dei rotatori, la sindrome da dolore subacromiale o la borsite. Infortuni alla spalla sono molto frequenti anche in coloro che si allenano in palestra, i quali si trovano spesso costretti a sospendere o ad evitare del tutto diversi esercizi a causa del dolore.
Ma quali sono le possibili cause di dolore alla spalla? Quanto sono diffuse queste tipologie di dolori?Quali i sintomi e i rimedi più efficaci? Scopriamolo!
Dolore alla spalla: quanto è diffuso?
Nella quotidianità di tutti noi la spalla viene sottoposta a stress in maniera continua, ed è pertanto facile comprendere perché i disturbi di spalla siano estremamente frequenti nella popolazione generale.
I disturbi alla spalla sono estremamente duraturi: tra il 40 e il 54% delle persone con disturbi di spalla riferisce sintomi anche a distanza di 3 anni dall’esordio. Statisticamente, i disturbi patologici della spalla sono più frequenti con l’avanzare dell’età, con un picco tra i 50 e i 70 anni. Vi è inoltre una maggiore incidenza di dolore alla spalla in soggetti che partecipano ad attività che prevedono di portare una o entrambe le braccia sopra la testa, tra cui sport di lancio come baseball e pallavolo, o lavori come pittura o carpenteria.
Tra i fattori di rischio principali per l’insorgenza di dolore di spalla troviamo lavori ed attività pesanti, con gesti ripetitivi sopra la testa, mancanza di riposo, sovrappeso, diabete e ipercolesterolemia, età avanzata, fumo di sigaretta e stile di vita sedentario.
Spalla dolorosa: cause principali
Partiamo con una premessa: non sempre è possibile definire con certezza assoluta la causa di un dolore di spalla. Spesso, infatti, tale dolore è il risultato di una moltitudine di fattori, più che di una sola causa principale. Per tale ragione, in letteratura si parla in alcuni casi di “dolore aspecifico di spalla”. Fatta questa considerazione, quali possono essere, dunque, le possibili cause e concause che alimentano questi quadri dolorosi?
In un’ottica anatomo-patologica i quadri patologici più frequenti nella spalla dolorosa sono le tendinopatie della cuffia dei rotatori e/o del capo lungo del bicipite, infiammazione della borsa sotto-deltoidea (“borsite”) e rappresentazioni cliniche della cosiddetta “sindrome da dolore subacromiale” (termine proposto da alcuni autori in sostituzione dell’oramai obsoleta etichetta di “impingement/conflitto subacromiale”).
Altre possibili patologie della spalla sono rappresentate dall’instabilità di spalla (dovuta a una lassità congenita con associata debolezza muscolare o conseguente ad un trauma lussativo) con possibile presenza associata di lesioni del labbro (o cercine) glenoideo (tipiche nei lanciatori o negli atleti di sport “overhead” come baseball, pallavolo e pallanuoto), lesioni piccole, medie o a tutto spessore della cuffia dei rotatori (in primis del muscolo sovraspinato) traumatiche o degenerative, impingement esterno e coracoideo, patologie dell’articolazione acromioclaveare (artrosi, lussazioni…) e la cosiddetta “spalla congelata” o “capsulite adesiva” (un processo infiammatorio a carico della capsula articolare della spalla).
Un dolore alla spalla può anche esser dovuto, seppur raramente rispetto alle patologie appena citate, a una problematica della colonna cervicale o toracica, che trova nel territorio della spalla una zona di diffusione e irradiazione del dolore provocato.
Ragionando invece da un punto di vista anatomo-funzionale, in maniera molto generale possiamo dire che il dolore si presenta nel momento in cui le capacità di carico dei tessuti non sono abbastanza elevate da sopportare gli stress esterni. In parole povere i nostri muscoli, tendini, ossa e legamenti non sono abbastanza forti per sopportare gli stress che provengono dall’esterno. Per “stress” esterni intendiamo una moltitudine di fattori: quelli meccanici (come traumi violenti, cadute, movimenti bruschi, allenamenti eccessivi), il mantenimento prolungato di posture, ma anche altre componenti come la predisposizione genetica, l’età, la professione, lo stile di vita e fattori “psicosociali” come stress a lavoro, stress familiare, traumi emotivi importanti, paura, ansia e catastrofizzazione.
Più specificatamente, le principali cause che in questo contesto possono portare allo sviluppo del dolore alla spalla possono essere suddivise in cause di natura intrinseca e cause di natura estrinseca. Alcune di queste possono avere una correlazione diretta con il dolore, mentre altre rappresentano solo dei fattori contribuenti, non imputabili quindi come causa diretta del dolore di spalla, ma aventi un ruolo parziale nell’intensità della sintomatologia. Fra i fattori di natura intrinseca abbiamo:
Invecchiamento e degenerazione tendinea, con possibile correlazione all’età (comuni dopo i 40 anni), a una predisposizione genetica o a una scarsa vascolarizzazione dei tendini. Questi cambiamenti indeboliscono i tendini che risultano pertanto meno resistenti ai carichi e più suscettibili a lesioni. Anche la presenza di particolari predisposizioni genetiche e di un’associata presenza di ulteriori patologie concomitanti (come il diabete e l’ipercolesterolemia) può peggiorare la prognosi del dolore di spalla.
Eccessivo sovraccarico funzionale, il quale determina un’alterazione della matrice tendinea. Negli allenamenti sarà fondamentale impostare una progressione dei carichi di lavoro razionale e rispettare i tempi di recupero e ricondizionamento tendineo, evitando di eccedere con il carico funzionale sulla spalla. Anche tecniche esecutive approssimate e non ottimali possono contribuire ad aumentare il rischio di infortuni e dolore alla spalla.
Tra i fattori di natura estrinseca troviamo invece alcune disfunzioni articolari e alterazioni strutturali come:
Rigidità gleno-omerale con conseguenti alterazioni nell’allineamento e nella biomeccanica della testa omerale durante i movimenti della spalla.
Morfologia dell’acromion “a uncino” e artrosi avanzata dell’articolazione acromion-claveare (condizioni tipicamente riportate in soggetti sopra i 40 anni di età).
Instabilità gleno-omerale provocata da una scarsa performance dei muscoli della cuffia dei rotatori (debolezza o scarsa resistenza e controllo motorio) e degli stabilizzatori scapolari, sfociante in uno scarso controllo della testa dell’omero durante il movimento di spalla, con eccessiva migrazione superiore dell’omero in abduzione. Questa condizione è tipica nei soggetti molto lassi o nei soggetti che hanno subito operazioni chirurgiche alla spalla.
Alterazione del normale allineamento statico e della normale dinamica scapolare durante il movimento della spalla
In ultimo, la recente letteratura scientifica ha riscontrato un’elevata influenza dei fattori “psicosociali” riguardo al dolore di spalla e all’intensità dolorosa percepita. In questa categoria rientrano fattori come ansia, catastrofizzazione, depressione, credenze errate, kinesiofobia (paura del movimento), preoccupazioni eccessive e vissuto della persona. Tali fattori sono alla base del processo di “shift” da dolore “fisiologico” a dolore “persistente” con associata sensibilizzazione del sistema nervoso centrale.
Infortuni e patologie più comuni della spalla
Potenzialmente ogni componente anatomica della spalla dotata di innervazione può evocare dolore ma, da un punto di vista biomedico, le strutture generalmente più colpite sono i tendini della cuffia dei rotatori, del capo lungo del bicipite e le corrispettive borse articolari. Analizziamo più dettagliatamente le più comuni patologie muscoloscheletriche a carico del complesso articolare della spalla.
Tendinopatie della cuffia dei rotatori e/o del capo lungo del bicipite
Il quadro patologico che più di frequente è responsabile del dolore di spalla (in circa l’80% dei casi di dolore di spalla) è la cosiddetta “tendinopatia della cuffia dei rotatori”, in particolare dei muscoli sovraspinato e infraspinato, o del capo lungo del bicipite brachiale (che si inserisce nel margine superiore della fossa glenoidea, attraversando l’articolazione gleno-omerale e stringendo intimi rapporti con la cuffia dei rotatori).
In questi casi il dolore spesso insorge lentamente, senza un trauma apparente, e si presenta ben localizzato nella zona anteriore e/o laterale della spalla. È evocato durante i movimenti attivi a carico della spalla, in particolare oltre i 90° di flessione (sollevamento anteriore del braccio) e/o abduzione (sollevamento laterale del braccio), durante attività di sollevamento e talvolta durante il sonno sul lato interessato.
Da sinistra verso destra: muscoli infraspinato, sovraspinato, capo lungo del bicipite brachiale
Nelle fasi più acute e irritative il dolore può presentarsi anche durante banali attività di vita quotidiana, riducendo di molto le capacità funzionali di tutto l’arto superiore. Grazie alle recenti scoperte messe in luce dalla letteratura scientifica è stato abbandonato il vecchio modello secondo cui si pensava che i disturbi dei tendini fossero dovuti a meccanismi infiammatori (da qui il famoso termine “tendinite”, ormai abbandonato in quanto obsoleto, poichè il suffisso “-ite” sottintende un quadro di natura infiammatoria) e il cui trattamento era basato prevalentemente sull’utilizzo esclusivo di farmaci e di riposo prolungato dall’attività.
Ad oggi sappiamo invece che il quadro patologico è di tipo “degenerativo” (con alterazioni patologiche dell’architettura tendinea e delle proprietà intrinseche del tendine stesso), e non infiammatorio (alcuni brevi picchi infiammatori possono essere presenti nelle fasi più acute, ma non in quelle che seguono), e il termine più consono per rappresentare tale situazione risulta pertanto essere “tendinopatia”. In questo senso il problema è legato a una degenerazione del tessuto o a una mancata guarigione dello stesso, priva di meccanismi infiammatori.
Fra le varie cause quella più importante e provocativa sembra essere l’aumento di carico sul tendine: in tutti i quadri di tendinopatia, infatti, se si indaga la storia del soggetto che ne soffre si può identificare quasi sempre un’attività “non ordinaria” che ha sottoposto il tendine ad un carico per il quale non è stato abituato, e che spesso può innescare un processo tendinopatico.
Nelle tendinopatie il riposo totale (ad eccezione di fasi molto acute e con alta irritabilità) è deleterio quanto il sovraccarico, in quanto non si fornisce in questo modo alcuno stimolo di adattamento positivo al tendine, che tornerà così a provocare dolore quando verrà sottoposto nuovamente al carico. I principi riabilitativi prevedono un sovraccarico progressivo, fornendo alla spalla via via stimoli sempre maggiori per riabituarla e rieducarla al movimento e al carico.
Lesioni della cuffia dei rotatori
Oltre alle tendinopatie, sono frequenti vere e proprie lesioni (“rotture”) dei muscoli della cuffia dei rotatori (in primis, ancora una volta, il sovraspinato) classificate in base alla dimensione della lesione (o al numero di muscoli coinvolti) e al meccanismo lesivo (con trauma o in assenza di trauma). Lesioni atraumatiche (assenza di trauma) dei muscoli della cuffia sono riscontri molto frequenti negli esami diagnostici, e vengono spesso malinterpretati, generando ansia e preoccupazioni prive di fondamento.
Chi legge di avere una rottura del sovraspinato, infatti, tende spesso ad immaginare questa rottura come una “corda sfilacciata”, pensando così che tale muscolo risulti ormai inutilizzabile e che il dolore rimarrà finché sarà presente questa rottura. Grazie alla letteratura scientifica sappiamo però che le strutture muscolo-tendinee della cuffia dei rotatori sono organizzate in modo da riuscire a “bypassare” lesioni dei muscoli che la compongono nella maggioranza dei casi, garantendo una completa funzionalità della spalla anche in presenza di queste.
A conferma di ciò vi è il fatto che lesioni del sovraspinato e di altri muscoli della cuffia sono frequenti (come vedremo meglio in seguito) in individui che non presentano alcun dolore di spalla (anche in individui che praticano sport ad alti livelli). Per rendere meglio l’idea, quindi, piuttosto che immaginare una lesione del sovraspinato come una corda sfilacciata, parrebbe più sensato immaginarla come una coperta con un piccolo “foro”, che non inficia quindi sulla sua funzionalità.
Le lesioni o degenerazioni tendinee della cuffia in alcuni casi vanno considerati “segni del fisiologico invecchiamento” esattamente come il capelli bianchi o le rughe sulla pelle. Nella maggior parte dei casi il trattamento delle lesioni della cuffia è conservativo, ma va tuttavia detto che in diverse situazioni (come nei casi di lesioni conseguenti a un trauma, o in presenza di lesioni molto ampie con concomitante impotenza funzionale marcata) può essere necessario l’intervento chirurgico.
Instabilità di spalla
Data la grande mobilità di cui è dotata l’articolazione della spalla, vi è un necessario bisogno di forti componenti che la stabilizzino. A garantire la stabilità della spalla troviamo:
• Fattori statici: congruenza delle superfici articolari, cercine glenoideo, pressione negativa interna, capsula articolare e legamenti
• Fattori dinamici: cuffia dei rotatori, capo lungo del bicipite brachiale, muscoli periscapolari
Quando uno o più di questi elementi viene a mancare, si creano potenzialmente le condizioni di insorgenza di instabilità articolare. Nello specifico l’instabilità di spalla è una condizione in cui la testa dell’omero non viene stabilizzata adeguatamente durante i movimenti. Tale condizione può essere favorita da un’ipermobilità congenita e da patologie come tendinopatie avanzate, artrosi e lesioni del cercine glenoideo, ma spesso è conseguente a lussazioni traumatiche.
L’instabilità può essere multidirezionale o unidirezionale. La letteratura è concorde nell’affermare che l’instabilità multidirezionale, intesa come lussazione o dislocazione dell’articolazione gleno-omerale in più di una direzione, sia dovuta a ripetuti microtraumi in soggetti con lassità congenita legamentosa o della capsula articolare; al contrario dell’instabilità unidirezionale (anteriore nel 90% dei casi), che tipicamente è il risultato di un evento traumatico in un soggetto con un’articolazione gleno-omerale normale. Entrambe possono essere comuni in soggetti giovani o anziani, con un rischio di recidiva di lussazione o sublussazione maggiore dell’80% in pazienti tra 17 e 22 anni.
La classificazione più utilizzata suddivide le instabilità di spalla in tre categorie:
• TUBS (Traumatic Unidirectional Bankart Surgery): pazienti instabili per cause traumatiche; può portare a quadri di lesione di diverso tipo: a livello scheletrico, dei tessuti molli, capsulari/legamentosi, ma anche dell’ancora bicipitale (slap lesion)
• AMBRI (Atraumatic Multidirectional Bilateral Rehabilitation Inferior): pazienti generalmente lassi con instabilità multidirezionale; la quale non porta a lussazioni, ma a quadri clinici potenzialmente dolorosi
• AIOS (Acquired instability in overhead shoulder): pazienti con instabilità acquisita conseguente a gesti sportivi ripetuti.
Il trattamento riabilitativo conservativo o chirurgico dovrà tenere in considerazione le differenti cause d’instabilità al fine di strutturare il percorso più opportuno.
Fratture di spalla
Tutte le componenti osse del complesso articolare della spalla possono potenziamento andare incontro a fratture (nella maggior parte dei casi conseguenti ad un trauma). Le strutture che più spesso vengono fratturate sono la diafisi prossimale dell’omero, la testa omerale, la clavicola e la scapola. In caso di trauma con impatto laterale sulla spalla in soggetti anziani o osteoporotici un dolore alla spalla può essere un campanello di allarme per una frattura dell’omero prossimale.
Le fratture a un frammento sono le più frequenti e prevedono spesso una terapia conservativa con un periodo di immobilizzazione seguito da un percorso riabilitativo. Per le fratture a due, tre o quattro parti la terapia dipende da tipo di frattura, condizioni del paziente e qualità dell’osso e sarà conservativa o chirurgica (con l’eventuale utilizzo di mezzi di sintesi o protesi).
Sindrome da dolore subacromiale
Un’altra famosa “alterazione patologica” che viene diagnosticata spesso ancora oggi è il famoso “impingement subacromiale” (o “conflitto subacromiale”). Con questo termine si intende generalmente un “intrappolamento” dei tessuti molli (tendini e borse) tra la testa dell’omero e la volta acromiale all’interno di questa articolazione “falsa” denominata acromion-omerale. Questo intrappolamento durante i movimenti di spalla si ipotizza possa creare uno stress tissutale e una conseguente lesione che può sfociare in un quadro di tendinopatia della cuffia dei rotatori.
Secondo questo modello, all’interno del termine ombrello “sindrome da impingement subacromiale” rientrerebbero tendinopatie della cuffia dei rotatori e del capo lungo del bicipite, borsite e lesioni della cuffia. Nel sottile spazio tra volta acromiale e testa dell’omero vi è un intimo rapporto tra le superfici articolari, rapporto che durante i movimenti prevede fisiologicamente e in qualsiasi individuo uno “schiacciamento” dei tendini e della borsa.
Nonostante ciò, la differenza è che in condizioni di salute articolare e di efficiente funzionalità gli stress vengono dosati in maniera ideale, mantenendo la pressione su questi tessuti a livelli fisiologici e ben compensati, mentre i problemi a questo livello nascono a seguito di alterazioni strutturali tendinee o ossee ed alterazioni funzionali, che possono portare ad un aumento delle forze compressive tra omero e acromion, favorendo l’insorgenza di lesioni (tendinopatie). Nella genesi di questo processo sono stati identificati fattori intrinseci ed estrinseci. L’ appropriatezza di questa diagnosi e dei modelli su cui si basa è stata screditata da diversi studi, che hanno trovato delle falle nel modello pato-anatomico proposto.
Per tale ragione, in letteratura ancora oggi sono presenti dubbi riguardo alla relazione di causa-effetto tra l’impingement e le tendinopatie della cuffia. Poichè i recenti studi propendono per una scarsa influenza dell’intrappolamento tra omero e acromion sulla genesi del dolore di spalla, e tale compressione è considerata solo un possibile fattore contribuente, e non la causa principale delle lesioni, è stato più volte proposto di abbandonare l’oramai obsoleto termine “impingement/conflitto” sostituendolo con termini più generici e omnicomprensivi come “dolore sub-acromiale”.
Ad oggi è impossibile definire con certezza assoluta chi sia la causa e chi la conseguenza tra impingement e tendinopatie; ciò che tuttavia possiamo sicuramente asserire è che le tendinopatie della cuffia dei rotatori e il dolore che ne consegue durante il movimento sono problematiche dovute sicuramente ad un mix di fattori intrinseci ed estrinseci. Il trattamento primario per questi quadri patologici è conservativo, e dovrà essere basato principalmente sull’esercizio con sovraccarichi graduale e progressivo.
Nelle considerazioni appena fatte ci siamo riferiti al vecchio “impingement sub-acromiale”, ma va detto che sono riportate in letteratura altre due tipologie di impingement: l’impingement interno e l’impingement coracoideo. L’impingement coracoideo, meno comune del precedente, avviene quando il tubercolo minore dell’omero invade il processo coracoideo della scapola, determinando uno stress sul tendine del muscolo sottoscapolare (avviene spesso nei nuotatori, tennisti e weightlifters).
Per impingement interno invece si intende una compressione della porzione posteriore della cuffia dei rotatori e della porzione superiore del cercine contro la parte postero-superiore della glena, che avviene durante movimenti combinati di abduzione a 90° e rotazione esterna, tipici degli sport di lancio e nelle attività “overhead”. In questo caso alcuni autori sufgferiscono tra le cause un’instabilità della spalla, con eccessiva rotazione esterna e lassità capsulare antero-inferiore.
Borsiti spalla
Le borsiti della spalla sono infiammazioni delle borse sierose che contraddistinguono questa come altre articolazioni. Le borse nella spalla servono a lubrificare l’articolazione e a diminuire gli attriti interni in punti critici, fungendo così da “cuscinetti ammortizzatori”. Se una o più borse si infiammano, la produzione di liquido infiammatorio può aumentare la grandezza della borsa e ridurre la funzionalità e il movimento della spalla.
Poichè le borse sono riccamente innervate, questo processo infiammatorio può essere accompagnato da quadri di dolore alla spalla. Normalmente una borsite alla spalla viene causata da un eccessivo sovraccarico che può essere tipico di molti sport come il tennis, il nuoto, il baseball o il bodybuilding. Rigidità articolari o allineamenti posturali non ottimali possono essere fattori contribuenti all’insorgenza di borsiti nel tempo. Spesso borsiti e tendinopatie vanno “a braccetto”, venendo riscontrati simultaneamente in quadri di spalla dolorosa. La borsa più colpita da infiammazione nella spalla è quella sub-acromiale.
Discinesie scapolari
Un’alterazione del posizionamento scapolare statico, o del movimento scapolare dinamico è chiamata “discinesia scapolare”. Sono state classificate diverse tipologie di discinesie scapolari, ma in letteratura è ancora in corso un acceso dibattito sul possibile ruolo che queste possono avere nei quadri di spalla dolorosa. Alcuni autori sostengono che la scapola e le sue eventuali alterazioni in contesti statici e/o dinamici ricoprano un ruolo di primaria importanza nella patogenesi e nel dolore della spalla (e che il trattamento debba quindi rivolgersi in primis a questa), mentre altri sostengono che tale ruolo sia stato ampiamente sovrastimato, e che il ruolo della scapola in tale senso sia ben poco rilevante.
A sostegno della tesi di questi ultimi sarebbero presenti il fatto che discinesie scapolari sono state riscontrate in moltissimi soggetti asintomatici (senza alcun dolore di spalla), e che in quadri di spalla dolorosa e associata discinesia scapolare, tale discinesia sia ancora presente anche una volta svanito il dolore. Altri autori ancora sostengono che eventuali discinesie scapolari vadano considerate solo in contesti sportivi, o comunque di elevate richieste funzionali.
In conclusione, ad oggi non vi sono ancora risposte certe riguardo al ruolo della scapola nei quadri del dolore alla spalla, ma è certamente opportuno conoscere le possibili alterazioni che questa può presentare, così da poter essere in grado di valutare adeguatamente ogni singolo caso.
Lussazione della spalla
Come abbiamo visto la spalla è un’articolazione tanto mobile quanto instabile. Per questo non sono rari i casi di lussazione traumatica di spalla. La lussazione è da definizione la perdita permanente del rapporto anatomico tra le due superfici articolari, in questo caso omero e scapola. È il classico caso del “mi è uscita la spalla!”.
Scapola e testa dell’omero perdono completamente contatto e può essere necessaria una manovra (a carico del personale sanitario riconosciuto) per la “riduzione” della lussazione e il ripristino della normalità articolare. Essenzialmente una spalla può lussarsi in conseguenza di un trauma diretto (di solito durante sport di contatto quando abbiamo il braccio sollevato e riceviamo un colpo verso l’indietro), oppure per via di un suo uso ripetuto, o ancora per un quadro di lassità dei legamenti. Tutti questi fattori a modo loro possono portare a un quadro di instabilità e quindi a un aumentato rischio lussazione.
In assoluto la lussazione di spalla anteriore è la più frequente ed è spesso riscontrata da sola talvolta in seguito a un trauma, mentre quella posteriore la meno frequente. Tendenzialmente soggetti giovani tra i 15 e i 25 anni impegnati in sport da contatto sono fortemente a rischio per future recidive e spesso in questi casi si consiglia l’intervento chirurgico. Viceversa, soggetti meno giovani tra i 25 e i 40 anni o sopra i 40 anni, specie se non sono impegnati in attività sportive a rischio, hanno una possibilità di recidiva enormemente più bassa, e per questo la terapia conservativa basata sulla fisioterapia e sugli esercizi è generalmente quella d’elezione.
La fase riabilitativa seguente al trauma e all’eventuale intervento inizia con un periodo di alcune settimane di immobilizzazione della spalla, condizione utile a favorire la guarigione dei tessuti peri-articolari. Successivamente il trattamento fisioterapico si baserà sul ripristino della normale funzionalità della spalla in termini di mobilità, forza e stabilità.
Lesioni del labbro glenoideo
Il labbro (o “cercine”) glenoideo è una struttura fondamentale per la salute della spalla, in grado di garantire un’ottimale congruenza delle superfici articolari e di contribuire alla stabilità passiva dell’articolazione gleno-omerale. Lesioni in questa struttura possono quindi portare alla perdita di una parte della forza comprensiva che stabilizza la testa omerale, predisponendo a quadri di instabilità.
Diverse tipologie di SLAP lesion
Le cause delle lesioni del cercine possono essere traumatiche o dovute a stress ripetuti nel tempo (frequenti in sport di lancio e nelle attività che prevedono gesti sopra la testa, detti “overhead”) e/o a fattori degenerativi. La “SLAP lesion” è la lesione del cercine più famosa e conosciuta, classificata in 4 tipi in base alla gravità. In base alla gravità della lesione, alle caratteristiche e alle richieste funzionali del soggetto il trattamento potrà essere conservativo o chirurgico.
Patologie dell’articolazione acromion-clavicolare
L’articolazione acromioclaveare riveste un importante ruolo nella funzionalità del complesso articolare della spalla, e può essere soggetta a quadri patologici accompagnati da dolore nella zona della spalla. Le alterazioni che possono colpire questa importante articolazione possono essere di natura degenerativa (artrosi), traumatica (lussazioni), secondaria a stress ripetuti nel tempo (bodybuilding, nuoto, rugby…) o infiammatoria (artrite reumatoide e altre patologie di natura infiammatoria).
La morfologia di questa articolazione la rende particolarmente soggetta a lussazioni secondarie a traumi frequenti in sport “da contatto” come il rugby. In letteratura esistono sette tipi diversi si lussazione; alcuni necessitano di una correzione chirurgica, altri no. Un’articolazione acromioclaveare lussata sarà più soggetta a processi artrosici in futuro.
I soggetti che si allenano in palestra, in particolar modo coloro che maneggiano frequentemente carichi molto elevati in esercizi come la Panca Piana e il Lento Avanti, che per loro natura sottopongono a stress importanti l’articolazione acromio-claveare (N.B questo non vuole assolutamente dire che siano da evitare), possono andare incontro ad una condizione patologica chiamata osteolisi acromioclaveare, una degenerazione dell’articolazione con riassorbimento delle estremità delle ossa che la costituiscono.
Capsulite adesiva
La capsulite adesiva della spalla, chiamata anche spalla congelata (“frozen shoulder”), è una patologia di natura infiammatoria a carico della capsula articolare, che causa una importante perdita di mobilità dell’articolazione gleno-omerale. Tipicamente i sintomi si presentano in maniera lieve e peggiorano gradualmente nel tempo, e i tempi di guarigione sono molto lunghi. In alcune fasi l’importante perdita di mobilità è accompagnata da un forte dolore, che tende a peggiorare nelle ore notturne (inficiando notevolmente sulla qualità del sonno) e può rendere impossibili anche i gesti più semplici.
La capsulite adesiva è più frequente nel sesso femminile, in un’età compresa fra i 35 e i 50 anni e si associa spesso a patologie metaboliche (diabete o iper/ipotiroidismo); e a problemi autoimmuni. Questa patologia si manifesta solitamente in maniera progressiva, in varie fasi:
Nella prima fase, i movimenti della spalla sono accompagnati da forte dolore, ma sono possibili, mentre il ROM inizia a ridursi nel tempo
La seconda fase è caratterizzata da una lieve riduzione del dolore, accompagnata tuttavia da una notevole diminuzione del ROM articolare della spalla.
La fase successiva, detta di “scongelamento”, prevede un ampliamento delle possibilità di movimento dell’articolazione, fino al recupero, che può essere totale o solo parziale.
Tuttavia, riguardo alla precisione di queste “fasi temporali” e ai possibili tempi di recupero, non è stato ancora raggiunto un accordo comune in letteratura, e sono ancora presenti dibattiti e incongruenze a riguardo. Il trattamento può essere conservativo (fisioterapia, infiltrazioni articolari…) o chirurgico.
Rigidità capsula posteriore
La rigidità della capsula posteriore non rappresenta una vera e propria patologia a sè stante, ma vale la pena nominare questa condizione poichè molto frequente in coloro che si allenano in palestra. La rigidità di questa porzione della capsula articolare (identificata con un deficit di intrarotazione omerale) può alterare la corretta artro-cinematica della spalla, influenzando negativamente il movimento della testa omerale nella fossa glenoidea, e determinando una traslazione anteriore e/o superiore dell’omero, predisponendo spesso a stress aggiuntivi a carico dei tessuti molli limitrofi.
Un trattamento adeguato mirato a risolvere il dolore di spalla dovrà tenere conto anche di questa frequente alterazione.
Patologie del rachide cervicale e toracico
Va infine riconosciuto che un dolore di spalla può essere secondario a un problema a carico della colonna vertebrale (“rachide) cervicale e/o toracica. Alcune strutture di questi distretti, infatti, possono provocare un dolore che diffonde nella zona della spalla, simulando un problema locale della spalla, e portando spesso a diagnosi errate. Casi di questo tipo sono molto più rari di quelli precedentemente citati, ma una corretta valutazione dovrà tenere conto di queste possibilità, investigando anche il possibile contributo della cervicale e del torace al dolore di spalla.
Dolore alla spalla insopportabile: quali possibili cause?
Tutte le patologie di spalla citate finora possono essere la causa del dolore di spalla, la cui manifestazione può variare molto sia in termini di intensità che di qualità e frequenza dei sintomi. Nella maggioranza dei casi l’intensità del dolore di spalla si presenta in un range tale da permettere comunque di svolgere le normali attività quotidiane a bassa richiesta funzionale, seppur in presenza di lievi fastidi. In alcune situazioni, tuttavia, l’intensità del dolore può presentarsi in maniera molto elevata, fino a portare alla completa impotenza funzionale della spalla colpita, e impattando in maniera molto importante sul sonno e sulla qualità di vita di chi ne soffre.
Quadri patologici che possono portare a sintomi dolorosi molto elevati possono essere:
Tendinopatie della cuffia in fase reattiva
Capsulite adesiva ( o “frozen shoulder”), specie nella “fase dolorosa”
Tendinopatia calcifica del sovraspinato, specie in fase di “riassorbimento”
Traumi (fratture, lesioni traumatiche della cuffia dei rotatori)
Dolore da alterazioni dell’elaborazione degli stimoli dolorosi (sensibilizzazione centrale)
Artrosi molto avanzata (tipica dei soggetti molto anziani)
Sintomi del dolore alla spalla
Come già detto in precedenza, i possibili sintomi presenti in caso di spalla dolorosa possono presentarsi in modi differenti in base alle cause e alle caratteristiche del soggetto.
Tuttavia, i sintomi più comuni nei quadri di spalla dolorosa sono dolore e impotenza funzionale, la cui intensità può essere molto variabile. Il dolore ha nella maggioranza dei casi un esordio lento e in assenza di un vero e proprio trauma che lo possa giustificare, inizia spesso senza un apparente motivo e va via via peggiorando (fase acuta) per poi in alcuni casi stabilizzarsi nel tempo (fase cronica).
È generalmente profondo, molto localizzato, più tipicamente anteriormente, posteriormente o lateralmente sulla spalla, in un’area ristretta che raramente irradia oltre l’inserzione del deltoide. È un dolore acuto, sordo, descritto come uno “spillo” o qualcosa “che punge nella spalla”, o ancora come un dolore “a fitta” come una pugnalata, e intermittente, evocato e riprodotto ogniqualvolta si esegue un determinato movimento o esercizio.
I movimenti che tipicamente possono evocare questo tipo di dolore sono l’abduzione e/o la flessione, ma talvolta anche l’intrarotazione o l’extrarotazione di spalla. Oltre al dolore, può esserci crescente debolezza, riduzione del ROM e (raramente) lieve gonfiore locale. In alcuni casi, specialmente nelle fasi più acute e irritative, anche le attività di vita quotidiana e il sonno sul lato interessato possono causare dolore ed essere limitate.
Rimedi per la spalla dolorosa: cosa fare?
Una volta analizzate le possibili cause di spalla dolorosa, quali sono i possibili rimedi per una corretta gestione? Partiamo col dire che un corretto trattamento dovrà necessariamente essere contestualizzato in base ai meccanismi patologici che stanno alla base del dolore di spalla, e in base alle caratteristiche e alla storia del soggetto, oltre che alle sue attuali capacità funzionali.
In letteratura è oramai pienamente concorde nell’affermare che un trattamento attivo basato sull’esercizio terapeutico graduale e progressivo è la strategia più efficace nella gestione della spalla dolorosa. Qualsiasi trattamento quindi dovrà basarsi principalmente sull’esercizio attivo, riadattando in questo modo le capacità di carico delle strutture del complesso articolare della spalla.
Esercizi per la spalla dolorosa
Una volta stabilito che l’esercizio è lo strumento più efficace per il trattamento della spalla dolorosa, viene spontaneo domandarsi: “Quale esercizi prediligere? Con quale dosaggio?
Diversi studi in letteratura hanno analizzato tale questione, ed è emerso che attualmente non è stato riscontrato nessun esercizio in particolare che sia più efficace di altri, così come nessun dosaggio in particolare. Basandoci dunque sul ragionamento clinico, ecco alcune proposte di esercizi utili in un trattamento riabilitativo per le tendinopatie dolorose della spalla:
Esercizi rinforzo e incremento performance muscolare
Esercizi di rinforzo della cuffia dei rotatori
Molto spesso nei casi di spalla dolorosa sono presenti quadri di debolezza e/o scarsa performance muscolare dei muscoli della cuffia dei rotatori. Gli esercizi di rinforzo per la cuffia dei rotatori risulteranno in questo senso fondamentali. Questi si dividono essenzialmente in due categorie: una mirata al rinforzo dei muscoli extrarotatori sovraspinato, infraspinato e piccolo rotondo, e una mirata al rinforzo del muscolo sottoscapolare (intrarotatore).
Fra i principali esercizi per gli extrarotatori troviamo le extrarotazioni sul fianco, le extrarotazioni da posizione prona o seduta a 90° di abduzione e/o flessione omerale e le extrarotazioni eseguite in piedi con una resistenza elastica e l’omero a diversi gradi di abduzione.
Tutti questi esercizi possono essere eseguiti senza sovraccarico o con un sovraccarico generato da manubri o da elastici. In base al quadro di irritabilità e al livello funzionale si può optare per contrazioni isometriche (nei casi di elevata irritabilità e basso livello funzionale) o per contrazioni concentriche ed eccentriche (nei casi di irritabilità tissutale intermedia o bassa e discreto livello funzionale). Potranno essere inseriti in questo contesto anche esercizi con elastici in vari pattern di movimento come le diagonali con elastico, le varianti di wall slide con elastico per favorire l’attivazione degli extrarotatori, e molti altri ancora.
Esercizi di rinforzo dei muscoli periscapolari
Nei quadri di spalla dolorosa un altro gruppo muscolare che spesso va incontro a debolezza e alterazioni è quello dei muscoli periscapolari, detti anche “stabilizzatori della scapola”. Rientrano in questo complesso il muscolo trapezio (con i suoi fasci superiori, intermedi e inferiori), i muscoli romboidi e il gran dentato (o dentato anteriore).
Esercizi efficaci per allenare questi muscoli sono gli Shrug (per il rinforzo del trapezio superiore), le alzate laterali da prono (nelle varie propedeutiche e progressioni) con enfasi sul trapezio medio e romboidi o sul trapezio inferiore in base alla variante scelta; esercizi di tirata orizzontale (o “remata”) con cavi o elastici, esercizi di tirata con elastici poste a varie altezze per creare più enfasi sul trapezio medio e romboidi o sul trapezio inferiore.
Anche esercizi come il wall slide e gli esercizi di depressione scapolare (come il Press-up o gli Scapular-pull up) saranno efficaci per il rinforzo del muscolo trapezio inferiore. Il gran dentato invece potrà essere rinforzato grazie ad esercizi come il Plank plus, Push-up Plus, Dynamic Hug, diagonali con manubrio e Landmine Press.
Esercizi di rinforzo dei muscoli deltoide, gran pettorale e gran dorsale
Una adeguata funzionalità e performance dei muscoli deltoide, gran pettorale e gran dorsale è di grande importanza ai fini della salute della spalla. Va inoltre considerato che anche i muscoli della cuffia dei rotatori e i muscoli periscapolari sono molto attivi (sia per stabilizzare che per ottimizzare il movimento della spalla) nella quasi totalità degli esercizi con focus su deltoide, pettorale e dorsale.
Fra i principali esercizi per questi distretti muscolari troviamo le alzate laterali (con manubri, cavi o elastici), adduzioni con elastici (con lieve flessione di spalla associata per un focus sul gran pettorale, o lieve estensione associata per un focus sul gran dorsale), estensioni di spalla, rematori, trazioni per il gran dorsale, push-up, spinte orizzontali e croci (ai cavi, con elastici o con manubri) per il gran pettorale.
Esercizi per la spalla con coinvolgimento della catena cinetica
Di recente la letteratura ha investigato il ruolo della catena cinetica (in questo caso intesa come la muscolatura del tronco e dell’arto inferiore controlaterale alla spalla dolente) negli esercizi terapeutici per la spalla dolorosa, concludendo che un suo inserimento negli esercizi è in grado di favorire una maggior attivazione dei muscoli target come infraspinato, trapezio inferiore e gran dentato.
Alcuni esempi di esercizi per la spalla che coinvolgono la catena cinetica sono le elevazioni di spalla eseguite con un simultaneo passo in avanti dell’arto inferiore opposto alla spalla dolente, o eseguite simultaneamente a uno squat o ad un affondo. Inserire anche una resistenza elastica fra i dorsi delle mani permetterà un’ulteriore attivazione dei muscoli extrarotatori.
Esercizi per aumento della stabilità di spalla
Nei casi di instabilità di spalla, con debolezza muscolare e/o alterazioni nella coordinazione e nel controllo motorio fra i vari distretti muscolari della spalla, sarà importante inserire esercizi mirati all’incremento della performance muscolare, del controllo motorio e in particolare dell’azione stabilizzatrice di alcuni muscoli (in primis i muscoli della cuffia dei rotatori e gli stabilizzatori della scapola).
A tal riguardo esistono numerosissimi esercizi: alcuni esempi sono gli esercizi a “catena cinetica chiusa” come il plank e le sue varianti (in particolare il plank eseguito in appoggio sulle mani, su una mano sola o su una superficie instabile) o i “wall ball slide” ; esercizi con contrazioni pliometriche ripetute a bassa intensità, push-up pliometrici (eseguiti in ordine crescente di difficoltà al muro, su un rialzo inclinato a 45° o sul pavimento) ed esercizi specifici di rinforzo per la cuffia dei rotatori a vari ROM.
Esercizi di stretching (allungamento) e mobilità
Oltre agli esercizi di rinforzo, in un piano riabilitativo completo è spesso necessario inserire anche esercizi di allungamento per le strutture o i movimenti riscontrate rigide/i in fase di valutazione (tali esercizi risultano spesso fondamentali anche nei casi post-operatori).
In questo senso potranno essere utili esercizi di recupero della mobilità in intrarotazione come il Cross Body Stretch, lo Sleeper Stretch e l’intrarotazione assistita con asciugamano o bastone (eseguita con le mani dietro la schiena); esercizi di recupero della mobilità in extrarotazione, estensione ed intrarotazione mediante l’assistenza di un bastone; esercizi di recupero della mobilità in flessione come l’ Open Book Stretch, l’automobilizzazione in flessione con elastico (per favore il movimento accessorio della testa omerale) e l’automobilizzazione in flessione in ginocchio con il supporto di un rialzo o una panca.
Tramite l’assistenza di foam roller, di un muro o di una spalliera, potranno essere eseguiti esercizi di stretching dei muscoli grande rotondo, grande e piccolo pettorale, romboidi, deltoide, trapezio superiore ed elevatore della scapola.
L’esercizio sleeper stretching per lo stretching della capsula posteriore della spalla
Esercizi di propriocezione scapolare
Nei quadri di spalla dolorosa, specie quando il dolore è presente da molto tempo, sono spesso presenti alterazioni nella propriocezione scapolare, in particolare dei movimenti di retrazione e/o rotazione craniale della scapola. Esercizi di recupero della propriocezione scapolare in questi movimenti con l’utilizzo di un bastone o una fitball potranno risultare molto efficaci.
Esercizi sport specifici
Nei casi di dolore di spalla in atleti amatoriali o agonistici, dove l’obbiettivo principale non è solo la risoluzione della sintomatologia dolorosa, ma il ritorno allo sport, è fondamentale inserire (nelle fasi finali del percorso riabilitativo, una volta che il dolore sarà diminuito e la funzionalità sarà aumentata) esercizi “sport-specifici”, che vadano a mimare quanto più possibile il gesto specifico che verrà poi riprodotto numerose volte durante l’attività sportiva. Questo permetterà alle struttture muscoloscheltriche di adattarsi gradualmente agli elevati stress imposti da tali gesti sportivi. Alcuni esempi sono i seguenti:
Nei nuotatori si può parzialmente riprodurre la posizione sport-specifica attraverso degli esercizi di rinforzo (per esempio extrarotazioni o abduzioni con manubri) eseguiti in posizione prona sopra una fitball, aumentando la richiesta di stabilità del tronco e mimando la posizione del nuotatore in acqua.
Nei lanciatori si potrà riprodurre il gesto del lancio utilizzando una resistenza esterna fornita da un elastico o dai cavi, in modo da poter regolare l’intensità della resistenza esercitata in opposizione al gesto del lancio riprodotto. In tale modo si potrà scegliere e regolare se allenare il gesto del lancio con ROM parziali o completi, modificando a propria scelta anche la velocità del gesto in funzione degli obbiettivi e del livello funzionale attuale.
Il medesimo discorso vale anche per altri sport come la pallavolo, il tennis, la pallamano ecc…Nelle varie fasi riabilitative si potrà progredire modificando le variabili di questi esercizi, con l’obbiettivo di renderli nel tempo sempre più simili ai gesti motori che saranno riprodotti nelle attività sportive.
Terapie e trattamenti per il dolore di spalla
Quali altri tipologie di trattamento, oltre all’esercizio, vengono proposte per la spalla dolorosa? Cosa dice la letteratura a riguardo?
Per ciò che concerne la terapia manuale, alcuni studi hanno evidenziato come il trattamento manuale della spalla e del torace sia in grado di ridurre il dolore e migliorare la funzionalità nel breve termine. I miglioramenti associati alla terapia manuale non sono tuttavia riconducibili ad un effetto biomeccanico, ma ad effettineurofisiologici e psicologici. In breve, quindi, la terapia manuale può rappresentare un valido aiuto nel piano riabilitativo, ma il focus principale dovrà sempre essere sull’esercizio terapeutico.
E il riposo?
È ormai verità inconfutabile che il riposo e/o l’immobilizzazione nelle tendinopatie (così come nella sindrome da dolore subacromiale) non sia efficace, e che sia deleterio. Questo perchè un tendine immobilizzato non avrà alcuno stimolo che generi conseguenti adattamenti positivi come l’aumento della capacità di carico, la riorganizzazione cellulare e la sintesi di collagene.
Alcuni studi hanno dimostrato che dopo due settimane di immobilizzazione la sintesi di collagene nei tendini viene ridotta notevolmente, e che la disposizione delle fibre collagene diventa casuale e disorganizzata, peggiorando la capacità funzionale del tendine (è infatti il carico che permette alle fibre di disporsi in maniera ordinata). L’immobilizzazione, per di più, aumenta la produzione di alcuni enzimi responsabili della degradazione del collagene.
In altri casi invece, come nel periodo successivo ad alcuni traumi o ad un intervento chirurgico, un periodo di riposo sarà sicuramente necessario, prima di iniziare la riabilitazione.
Anche in situazioni molto acute accompagnate da dolore molto elevato e presente anche nel quotidiano, può essere necessario un breve periodo di riposo, ma in un contesto in cui il soggetto resti comunque attivo e apporti possibilmente un minimo di carico sulla struttura, rispettando il dolore e la sintomatologia affinchè resti tollerabile. È poi importante sottolineare che dopo un periodo di inattività sarà fondamentale evitare aumenti improvvisi del carico (che potrebbero portare a processi tendinopatici), la cui progressione dovrà essere graduale.E per quanto riguarda la chirurgia?
Parlando di tendinopatie della cuffia dei rotatori non esistono ad oggi prove a favore della superiorità dell’intervento chirurgico rispetto alle terapie basate sull’esercizio. I risultati dei trattamenti basati sugli esercizi appaiono infatti efficaci al pari di quelli ottenuti mediante chirurgia.
Sulla base di questi dati gli autori sostengono che gli interventi chirurgici nelle tendinopatie doverevvero essere considerarti solo dopo l’eventuale fallimento del programma di esercizi basato sul carico, proseguito per un tempo di almeno 12 mesi, o nei casi in cui il soggetto con dolore non sia stato in grado di tollerare in alcun modo il carico progressivo degli esercizi.
Anche le infiltrazioni non si sono rivelate migliori della fisioterapia a medio termine; anzi, i corticosteroidi sembrano avere effetti deleteri sui tendini nel lungo termine.
Parlando di impingement (o più correttamente, di “sindrome da dolore subacromiale”), un’intervento che negli ultimi decenni è stato fra i più diffusi è il cosiddetto intervento di “decompressione subacromiale” eseguito in artroscopia. L’efficacia di questo intervento è stata messa in prova da diversi studi, alcuni dei quali anche molto recenti, ed è emerso che tale procedura porta nel medio-lungo termine a risultati comparabili a quelli ottenuti tramite il solo trattamento con esercizi (in questo caso senza i rischi e i costi della chirurgia).
Oltre a ciò, tale intervento è stato confrontato con lo stesso intervento svolto in modalità “finta” (in sostanza veniva ricostruito lo stesso tipo di intervento ma nel concreto non veniva effettuato alcun intervento reale) riscontrando in entrambi i casi risultati comparabili, e portando gli autori ad attribuire i benefici di tale intervento legati principalmente all’effetto placebo e/o alla riabilitazione post-operatoria con esercizi. Per tali ragioni la letteratura sconsiglia ad oggi l’intervento di decompressione subacromiale.
L’intervento chirurgico è invece consigliato in altre situazioni, come nel caso di traumi importanti (fratture scomposte, lesioni traumatiche della cuffia dei rotatori, lussazioni in pazienti giovani e attivi), in alcuni casi di frozen shoulder, e in quadri di artrosi molto avanzata con associata impotenza funzionale. In altre situazioni l’approccio chirurgico andrebbe considerato solo dopo un eventuale fallimento del trattamento conservativo.
Dolore alla spalla in palestra e nel bodybuilding
Il dolore alla spalla in palestra è una condizione molto frequente negli appassionati di Fitness Bodybuilding. L’articolazione della spalla è infatti la più soggetta ad infortuni nei frequentatori di palestra e negli appassionati di allenamento con i pesi. Anche qui i dolori vengono spesso descritti come “dolori a spillo all’interno della spalla”, che possono influenzare negativamente l’esecuzione degli esercizi o renderla impossibile a causa dell’intensità del dolore, spesso accompagnata dalla paura di danneggiare l’articolazione e i muscoli.
La panca piana con bilanciere è uno degli esercizi che più mette a dura prova il complesso articolare della spalla, e di conseguenza sono davvero numerosi i soggetti che sviluppano dolore alla spalla facendo questo esercizio.
Il dolore alla spalla avvertito durante la panca piana e negli esercizi affini (panca inclinata, croci, push-up ecc…) si presenta di solito con le caratteristiche descritte nei paragrafi precedenti, e il tipico arco doloroso corrisponde ai primi gradi di movimento, all’inizio della fase concentrica, quando il bilanciere o i manubri vengono spinti dal petto. Il dolore tende di solito a svanire una volta superata questa escursione di movimento, per poi ripresentarsi allo stesso modo nella ripetizione successiva.
Un’altra categoria di esercizi che molto di frequente è coinvolta in quadri di dolore alla spalla è quella che riguarda i cosiddetti esercizi “overhead”, come il Lento Avanti o Military Press, proposti allo scopo di stimolare muscoli come il deltoide e il trapezio superiore, e di allenare il movimento di spinta verso l’alto.
Anche in questo caso il dolore si presenta spesso intermittente e fortemente riproducibile, descritto come “uno spillo” o una fitta anteriormente, posteriormente o lateralmente sulla spalla. L’arco di movimento doloroso in questo caso è tendenzialmente riportato all’incirca tra i 60° e i 120° di abduzione o quando le braccia sono completamente distese sopra la testa, con il dolore riprodotto sempre allo stesso modo ad ogni ripetizione. La restante parte del movimento è invece libera dal dolore.
Per quanto riguarda il dolore alla spalla durante gli allenamenti, alcune strategie utili, sia in ottica preventiva che riabilitativa, sono le seguenti:
Rispetto delle corrette esecuzioni degli esercizi, specie negli esercizi più soggetti al dolore di spalla come la Panca Piana, il Lento Avanti e le Alzate Laterali. Dovranno essere preferite varianti con il più basso fattore di rischio possibile, e sarà fondamentale il costante mantenimento di un corretto assetto scapolare durante gli esercizi.
Evitamento/limitazione di linee di movimento dolorose, ricercando temporaneamente piani di movimento e ROM non dolorosi, per poi tornare gradualmente agli schemi motori originali quando il dolore sarà svanito.
Evitamento/limitazione di serie a cedimento e/o tecniche ad alta intensità
Rispetto della gradualità nella programmazione e nella progressione dei parametri allenanti, evitando (in casi di dolore) lavori a cedimento e serie lunghe e forzate, prediligendo invece lavori con un discreto buffer.
Inserimento di esercizi specifici finalizzati alla correzione delle eventuali disfunzioni articolari e muscolari riscontrate con un’apposita valutazione. Rientrano in questa categoria esercizi di rinforzo/resistenza/performance muscolare (spesso necessari per i muscoli della cuffia dei rotatori e per alcuni muscoli periscapolari come il trapezio medio e inferiore o il gran dentato), esercizi di allungamento muscolare e/o capsulare, esercizi di mobilità ed esercizi di propriocezione.
Gran parte delle persone che praticano o che vogliono praticare CrossFit® (marchio registrato), arrivano al box con una domanda in mente:
il CrossFit fa dimagrire?
La risposta è sì; tra i tanti vantaggi del CrossFit, la perdita di peso è uno di questi. Scopriamo qualcosa in più su questa disciplina in questo articolo.
Quanto tempo ci vuole per dimagrire con il CrossFit?
La prima cosa da capire è che questo sport comprende esercizi ad alta intensità che aiutano molto il dimagrimento. Combina allenamenti di forza, attività aerobiche e anaerobiche in un WOD (Workout of the day), che è l’allenamento della giornata.
Questo porterà ad una grande combustione di nutrienti (carboidrati ed in parte minore grassi) durante gli esercizi. Il fatto che bruci principalmente zuccheri e non grassi potrebbe essere visto come un difetto, ma in realtà è l’opposto. Più è intensa l’attività, più brucia zuccheri e più miglioriamo il nostro assetto metabolico. Si alza la sensibilità insulinica e miglioriamo la flessibilità metabolica, ovvero la capacità di bruciare carboidrati quando facciamo sforzi intensi e grassi a riposo. In più il crossfit può essere tarato sulle capacità della persona e per questo può essere praticato da chiunque, come hanno spiegato i ragazzi di CrossMag specificando i benefici del CrossFit®.
Dimagrire con il CrossFit: cosa dice la scienza
Secondo uno studio pubblicato nella rivista americana The Journal of Strenght and Conditioning Research, il CrossFit è un modo molto efficace per perdere peso e si riscontra una perdita netta negli atleti di questa disciplina.
Un’altra pubblicazione nordamericana, la rivista Applied Physiology, Nutrition and Metabolism, ha scoperto che la combustione calorica raggiunge circa 2.700 calorie a settimana, se il praticante esegue un totale di 5 ore e 15 minuti di allenamento settimanale.
Praticare CrossFit 3 volte a settimana fa perdere peso?
Poiché gli esercizi sono piuttosto intensi, il consiglio per i neofiti è di iniziare con 2 allenamenti a settimana e aumentare gradualmente dalla terza settimana in poi. Per quelli più esperti gli allenamenti possono arrivare fino a 5 volte a settimana. Raggiungere le 3 volte permette di avere una base sia per il dispendio calorico sia per una miglior capacità metabolica.
Altri vantaggi del CrossFit
Il Crossfit può indurre oltre alla perdita di peso tutta un’altra serie di vantaggi come:
più resistenza cardiovascolare;
maggiore forza e resistenza fisica;
più definizione muscolare;
riduce lo stress;
metabolismo più attivo.
Crossfit e dieta
Attenzione che tutti gli sforzi fatti nell’allenamento se non vengono supportati dalla dieta non sortiranno i migliori effetti, se il vostro obiettivo è dimagrire!
Lo stile di vita che il CrossFit comprende anche una miglior attenzione all’alimentazione. Se non c’è un adeguato piano nutrizionale, anche se la persona nota un piccolo cambiamento nel grasso corporeo, il risultato per il dimagrimento può essere inferiore al previsto.
Se l’atleta vuole prendersi cura di questo aspetto, il consiglio nutrizionale che viene indicato sul sito ufficiale è un piano nutrizionale noto come 40-30-30 (40% carboidrati, 30% grassi, 30% proteine) stile dieta a Zona. Tuttavia le linee alimentari sportive consigliano eventualmente anche di alzare la quota glucidica e/o proteica a sfavore dei grassi, ma quelle sono scelte da tarare sulla persona. Raccomandiamo sempre, tuttavia, di cercare un nutrizionista affidabile per elaborare una dieta se si fa CrossFit e si vuole perdere peso.
Per dimagrire bisognerà instaurare un deficit calorico che comprenda il fabbisogno nutrizionale giornaliero (compreso il dispendio dell’allenamento) e da questo creare un deficit medio intorno alle 500-350kcal (uomo-donna). In questo modo la perdita di peso sarà graduale, non inficerà eccessivamente con la prestazione nel box e non avrà blocchi metabolici dati da tagli troppo drastici.
È anche interessante spiegare che il rilevamento del peso sulla bilancia spesso può essere enigmatico; ti alleni tanto sembra che il tuo peso non diminuisca? La spiegazione può essere questa: il muscolo è più denso del grasso. Questo significa che si sta perdendo grasso, e allo stesso tempo costruendo i muscoli (ricomposizione corporea nei neofiti)!
Un dettaglio importante è che dopo un allenamento ad alta intensità, il corpo continua a bruciare grassi e ci sarà una ricostruzione muscolare che può durare tra le 12 e le 24 ore, chiamata afterburning. Ecco perché il riposo è così importante, per fare in modo che questo evento succeda!
NOTE SULL’AUTRICE
Barbara Bier
Classe 88, si è laureata in marketing Digitale in Brasile, paese della sua provenienza.
Le piace definirsi uno spirito libero, una donna determinata e ambiziosa ma con i piedi per terra.
Lavora come copywriter e possiede un blog, Wanderlust in Travel, dove racconta le sue avventure per il mondo.
Da due anni è Responsabile dei Social e curatrice dei contenuti del magazine CrossMAG, la rivista per gli appassionati di CrossFit e Fitness più famosa d’Italia!
La cuffia dei rotatori è un complesso anatomico composto da quattro muscoli distinti, i quali, all’interno di un’articolazione molto più mobile che stabile, svolgono un ruolo fondamentale nel garantire compattezza tra le superfici articolari e funzionalità al movimento. Vista la sua localizzazione è spesso protagonista di infortuni, dolori e lesioni dei tendini. In questo articolo sintetico facciamo una panoramica sulla cuffia dei rotatori, approfondendone gli aspetti anatomo-biomeccanici, quelli funzionali, e fornendo indicazioni sul suo ruolo in palestra e sul come allenarla nel modo più ottimale.
Che cos’è la cuffia dei rotatori?
Partiamo chiarendo i protagonisti in questione: da quali muscoli è composta la cuffia dei rotatori?
Secondo la letteratura la cuffia dei rotatori è un insieme di quattro muscoli:
Sovraspinato, un abduttore ed extrarotatore secondario dell’omero, (statisticamente il tendine della cuffia dei rotatori in assoluto più lesionato)
Da sinistra verso destra: muscoli sottoscapolare, piccolo rotondo, infraspinato, sovraspinato
Un ulteriore muscolo può di diritto essere considerato appartenente a questo complesso anatomico se ne analizziamo decorso e funzionalità. Stiamo parlando del capo lungo del bicipite che, originando dalla fossa sovraglenoidea della scapola e passando all’interno del solco intratubercolare, abbraccia letteralmente la testa dell’omero, contribuendo a stabilizzarla nella glena della scapola attraverso la sua contrazione nei movimenti articolari.
Vediamo quindi origine, inserzione di questi muscoli, per poi capire la funzionalità integrata di questo importante complesso funzionale.
Anatomia cuffia dei rotatori: origine e inserzione
Anatomia e funzioni del muscolo sovraspinato
Origine
Fossa sovraspinata della scapola
Inserzione
Tubercolo maggiore omerale
Azione
Abduce l’omero, assiste la rotazione esterna omerale con i suoi fasci posteriori
Muscolo sovraspinato
Anatomia e funzioni del muscolo
infraspinato
Origine
Fossa sottospinata della scapola.
Inserzione
Tubercolo maggiore omerale
Azione
Extraruota l’omero
Muscolo infraspinato
Anatomia e funzioni del muscolo piccolo rotondo
Origine
Margine posteriore della scapola
Inserzione
Tubercolo maggiore omerale
Azione
Extraruota l’omero
Muscolo piccolo rotondo
Anatomia e funzioni del muscolo sottoscapolare
Origine
Fossa sottoscapolare
Inserzione
Tubercolo minore omerale
Azione
Intraruota l’omero
Muscolo sottoscapolare
Come abbiamo detto poco fa, un quinto muscolo può essere considerato (in virtù della sua localizzazione e funzione) un muscolo accessorio della cuffia dei rotatori: il capo lungo del bicipite brachiale.
Anatomia e funzioni del capo lungo del bicipite brachiale
Origine
Tubercolo sovraglenoideo della scapola
Inserzione
Tuberosità radiale e fascia dell’avambraccio dal lato ulnare
Azione
Flette e abduce la spalla (capo lungo), flette il gomito e supina l’avambraccio
Da sinistra verso destra: muscolo bicipite brachiale, capo breve, capo lungo
Azione e funzione della cuffia dei rotatori: come funziona?
Una volta analizzate le funzioni selettive dei singoli muscoli della cuffia dei rotatori, parliamo adesso della funzionalità integrata di questo complesso muscolare. L’articolazione della spalla, considerata la morfologia delle proprie superfici articolari, è caratterizzata da grande mobilità, ma di conseguenza anche da grande instabilità. Tale instabilità è ostacolata sia da fattori passivi (come i legamenti, il cercine glenoideo e la capsula articolare) ma anche da stabilizzatori attivi.
Capsula articolare e legamenti della spalla
Tra questi stabilizzatori attivi troviamo come protagonisti i muscoli della cuffia dei rotatori: tutti i tendini della cuffia, infatti, “abbracciano” la testa omerale da ogni direzione. Questo abbraccio, tramite contrazione muscolare, determina la stabilizzazione tra la testa dell’omero e la glena della scapola, evitandone lussazioni. Di conseguenza, la prima importante funzione integrata del complesso della cuffia dei rotatori è la stabilizzazione attiva di un’articolazione che di per se è molto instabile.
La seconda funzione integrata fondamentale avviene durante i movimenti: la testa dell’omero ha una superficie articolare molto più estesa della scapola (con un rapporto di grandezza di quasi 4:1), ed è questo uno dei fattori che contribuisce a rendere l’articolazione della spalla instabile. Durante i movimenti è fondamentale che la testa dell’omero rimanga sempre bene a contatto con la glena della scapola, nonostante questa sia molto meno estesa. Come è possibile tutto ciò?
La risposta è nei cosiddetti “movimenti accessori”: quando l’omero si solleva “rotola” sulla glena della scapola, ma in contemporanea a questo rotolamento avvengono anche dei movimenti di “scivolamento” finalizzati per l’appunto al mantenere centrata la testa dell’omero all’interno della glena. Questi movimenti di scivolamento della testa omerale sono effettuati e garantiti dalla contrazione della cuffia dei rotatori.
Nell’’abduzione di spalla, per esempio, mentre l’omero sale (rotola superiormente) deve anche scivolare verso il basso, per non andare a cozzare contro le tuberosità ossee della scapola. Per tale ragione, sollevando l’omero in abduzione è necessario uno scivolamento inferiore garantito dalla cuffia, grazie alla propria localizzazione. Senza questo scivolamento la funzionalità della spalla sarebbe del tutto compromessa.
Questi movimenti di scivolamento inferiore, infatti, favoriscono il mantenimento del corretto allineamento articolare, supportano la congruenza tra omero e scapola e, in ultimo ma non di minore importanza, contribuiscono a neutralizzare le forze di scivolamento superiore del muscolo deltoide (muscolo protagonista nel sollevamento del braccio), prevenendo possibili disfunzioni e lesioni ai tessuti interposti tra testa omerale e acromion.
Muscoli della cuffia dei rotatori
Cuffia dei rotatori in palestra e nel bodybuilding: come allenarla
Come allenare i muscoli della cuffia dei rotatori in palestra? Considerando le caratteristiche dei muscoli della cuffia di cui abbiamo appena parlato, è importante partire considerando che tali muscoli sono attivati durante la quasi totalità degli esercizi della parte superiore del corpo, con la funzione principale di stabilizzare la testa omerale durante i vari movimenti.
In particolare, gli extrarotatori omerali (infraspinato, piccolo rotondo, fasci posteriori del sovraspinato) sono fortemente attivi nel garantire funzionalità alla spalla durante i sollevamenti dell’omero (per esempio nelle Alzate Laterali), ma anche nello stabilizzare posteriormente la testa dell’omero anche durante movimenti di spinta come i Push Up, la Panca Piana, le Alzate Frontali e il Lento Avanti.
Il sottoscapolare invece, è ugualmente attivo nel garantire gli importanti movimenti di scivolamento inferiore durante l’abduzione omerale, e viene coinvolto inoltre durante i movimenti di estensione di spalla, nello stabilizzare anteriormente la testa dell’omero. Tradotto nella pratica in palestra, parliamo in questo caso di esercizi di tirata come la Lat Machine, le Trazioni, il Rematore, il Pull Down e il Pulley.
Gli esercizi citati saranno quindi allenanti per la cuffia, poichè questi muscoli saranno attivi per dare stabilità e congruenza alla spalla. In questo contesto sarà importante variare il ROM e i piani di movimento al fine di allenarla al meglio e in diversi angoli. Abbiamo tuttavia la possibilità di attivare selettivamente questi muscoli attraverso esercizi più specifici. Analizziamo quali.
Esercizi per rinforzare la cuffia dei rotatori
Come allenare la cuffia dei rotatori in modo selettivo? I classici esercizi specifici per la cuffia dei rotatori si dividono essenzialmente in due categorie: una mirata al rinforzo dei muscoli extrarotatori sovraspinato, infraspinato e piccolo rotondo, e una mirata al rinforzo del muscolo sottoscapolare (intrarotatore).
Questi esercizi possono essere eseguiti senza sovraccarico o con un sovraccarico generato da manubri o da elastici. In base al livello funzionale e agli obbiettivi si potrà optare per contrazioni isometriche o per contrazioni concentriche ed eccentriche.
Esercizi per gli extrarotatori
Per quanto riguarda gli esercizi per i muscoli extrarotatori, i più famosi sono quelli che prevedono un movimento di rotazione esterna contro gravità, nei quali richiediamo un movimento di rotazione esterna dell’omero, mantenuto in asse, priva di compensi, senza quindi spostare il gomito anteriormente o posteriormente. Si potrà eseguire questi esercizi da seduto con il gomito appoggiato su un rialzo, o da prono, sempre con il gomito appoggiato. Importante sarà mantenere un movimento controllato, assicurandosi che il movimento sia una rotazione esterna pura dell’omero in assenza di compensi.
Anche mediante l’utilizzo di un elastico è possibile eseguire delle extrarotazioni contro resistenza, con l’omero posizionato in diverse posizioni. L’esecuzione più classica e conosciuta è quella eseguita con il braccio mantenuto lungo il fianco. In questo caso il consiglio è quello di stabilizzare correttamente la scapola, e di eseguire un movimento di rotazione pura, con il gomito che non si deve spostare. Per aiutarci ad evitare compensi, è possibile posizionare un asciugamano tra il busto e il gomito. Oltre a neutralizzare i compensi, sembra che tale accorgimento aumenti l’attivazione dei muscoli extrarotatori.
Sempre con l’utilizzo di un elastico, il consiglio è di variare anche l’angolo di lavoro, ossia spostarci per esempio lungo il piano frontale, posizionando il gomito sollevato in appoggio su un rialzo posto di fronte a noi, oppure di fianco a noi (seguendo in questo caso il piano sagittale). In questo modo potremmo fornire stimoli su più direzioni e piani di movimento.
Altri esercizi con elastico possono essere
La “camminata al muro” , che associa un movimento di flessione omerale sempre maggiore ad un mantenimento isometrico della rotazione esterna
Movimento di spinta unilaterale sopra la testa con associata resistenza elastica per l’attivazione degli extrarotatori. In questo caso il movimento di spinta verticale verrà associato al movimento di centraggio della testa dell’omero, eseguito dai muscoli della cuffia dei rotatori.
Esercizi per gli intrarotatori
Come rinforzare in modo selettivo i muscoli intrarotatori, ed in particolare il sottoscapolare? La letteratura scientifica ci riporta che il sottoscapolare ha un braccio di leva più favorevole (e la sua attivazione è quindi più enfatizzata) quando eseguiamo dei movimenti rotazione interna omerale, con l’omero sollevato (abdotto) di almeno 30°, per cui o sebbene anche le intrarotazioni eseguite con l’elastico col braccio lungo il fianco attivino il sottoscapolare, non sono sicuramente la variante di esercizio migliore per rinforzare il sottoscapolare.
Ci dovremmo concentrare invece su una serie di esercizi che prevedono il movimento di intrarotazione quando il gomito è sollevato, e quindi quando la spalla è abdotta. Abbiamo differenti possibilità:
Possiamo eseguire delle intrarotazioni con manubrio dalla posizione supina con l’omero posto a 90° di abduzione, concentrandosi sul mantenere una rotazione pura omerale, senza sollevare il gomito dal suo appoggio.
Un’altra variante possibile sono le intrarotazioni eseguite dalla posizione prona.
Ci sono poi degli esercizi con elastico, che possono essere eseguiti alla spalliera con il supporto di una palla per appoggiare il gomito. Dovremo in questo caso posizionarci alle spalle o di fianco a una spalliera, in modo tale che l’elastico ci porti il braccio in rotazione esterna. Da qui saremo chiamati a vincere la resistenza portando in rotazione interna la spalla, attivando così il muscolo sottoscapolare.
Per fornire stimoli differenti e ricondizionare al meglio la matrice tendinea e muscolare del sottoscapolare, il consiglio è anche in questo caso di eseguire questi esercizi in maniera alternata, variando i piani di movimento.
Un’ultima possibile variante per allenare il sottoscapolare è quella isometrica, il cosiddetto “belly press”. In piedi, con una palla posizionata sulla pancia e il gomito mantenuto all’esterno. Da qui andremo a spingere la mano contro la palla, “sprofondando” dentro di essa. In questo modo, se manteniamo il gomito fermo, avremo un movimento di rotazione interna isometrica a carico principalmente del sottoscapolare.
Quali sono gli errori da non commettere durante l’esecuzione?
In generale due sono gli accorgimenti fondamentali da ricordare per evitare errori comuni durante gli esercizi di rinforzo: mantenere sempre un ottimale allineamento dell’omero, evitando di associare altri movimenti alla rotazione pura richiesta (per esempio staccare il gomito dal fianco nell’esecuzione in piedi con elastico), ed evitare i classici compensi nei quali possiamo notare un eccessivo movimento scapolare e un’anteposizione dell’omero durante l’esecuzione. Il movimento corretto deve prevedere una rotazione pura dell’omero attorno al suo asse, rotazione che se così eseguita garantirà un’attivazione ottimale dei muscoli della cuffia dei rotatori, favorendone il rinforzo ricercato.
In alto, esecuzione corretta delle extrarotazioni per il rinforzo di alcuni muscoli della cuffia dei rotatori. La scapola rimane fissa e il movimento avviene solo a livello dell’omero. In basso, esecuzione scorretta con la scapola che si avvicina alla colonna facendo perdere di efficacia all’esercizio.
Conclusioni sulla cuffia dei rotatori
In conclusione possiamo dire che la cuffia dei rotatori è un complesso muscolare fondamentale per la salute e la corretta funzionalità della spalla e di tutto l’arto superiore. Una volta conosciuta la biomeccanica e i meccanismi attraverso cui la cuffia svolge il suo ruolo, sarà possibile modificare i propri allenamenti e gli esercizi mirati in funzione di massimizzarne la funzionalità, incrementando da un lato le performance fisiche, e diminuendo dall’altro il rischio di infortunio.