Quantcast
Channel: Project inVictus
Viewing all 1309 articles
Browse latest View live

Dieta mediterranea: che cos’è e come si fa?

$
0
0

la dieta mediterranea

La dieta mediterranea non è solo una dieta: è stile di vita, cultura e tradizione. Cos’è e come funziona infatti non è possibile dirlo solo in base agli alimenti su cui è basata, ma bisogna includere anche tutto ciò che sta intorno ai cibi: il mangiare lento, la scelta di prodotti locali, la freschezza, lo stile di vita attivo, le porzioni piccole e la sostenibilità.

Nel grande mondo delle diete è quella per ora più studiata e che ha più letteratura scientifica a supporto, sicuramente aspetto da considerare.

La dieta mediterranea più che far dimagrire o prendere massa (in combinazione ad allenamento in palestra) è una dieta che fa stare bene.

Che cos’è la dieta mediterranea? Definizione

Dieta mediterranea palestra bodybuilding

La dieta mediterranea più che una dieta dimagrante rappresenta un modello alimentare nato dall’evoluzione culturale e biologica, che ha reso disponibili, prevalentemente nelle aree che si affacciano sul Mediterraneo, un insieme unico e particolare di fonti alimentari, rendendo tali aree tra quelle con maggiore biodiversità nel mondo.

La validità della dieta mediterranea è dimostrata per la maggior parte dai risultati del famosissimo “Studio cooperativo internazionale di epidemiologia della cardiopatia coronarica” meglio noto come “Studio dei sette Paesi” (Seven Countries Study). Questo è un ampissimo studio epidemiologico iniziato negli anni Cinquanta da Ancel Benjamin Keys che ha coinvolto sette nazioni di quattro regioni della Terra ed ha esaminato i rapporti tra stile di vita, dieta ed eventi cardiovascolari.

In questo ed in altri studi vengono individuati nutrienti che sono alla base della dieta mediterranea, quali gli acidi grassi insaturi e polinsaturi, le fibre alimentari e numerosi composti con attività antiossidante, in gran parte di origine vegetale. Questi sembrano essere il motivo per cui una dieta del genere risulta efficace per la prevenzione di numerose patologie ed in particolare per le dislipidemie e le malattie cardiache.

Oggi, la dieta mediterranea è considerata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.

Come funziona? In che cosa consiste?

La dieta mediterranea è ispirata al tradizionale regime alimentare tipico dei Paesi che affacciano sul Mar Mediterraneo, come l’Italia, la Grecia, la Spagna e il Marocco.

Il termine dieta deriva dal greco e significa “stile di vita”; nella sua concezione generale la dieta mediterranea ricalca pienamente tale definizione in quanto non rappresenta (o non dovrebbe) soltanto un insieme di indicazioni sul regime alimentare da seguire, ma racchiude in sé un vero e proprio stile di vita adottato da quelle popolazioni studiate da Keys, che si compone anche e soprattutto di una quotidianità attiva, periodi, talvolta frequenti, di digiuno (fondamentalmente per motivazioni religiose e culturali, vedi la storia del digiuno intermittente) e un consumo di cibo, tradotto in calorie assunte, decisamente contenuto ed equilibrato.

E proprio quest’ultima parola è importante: la dieta mediterranea è, innanzitutto, una dieta equilibrata.

Nella sua accezione più pura e antica, la dieta mediterranea consiste in un’alimentazione composta essenzialmente da prodotti freschi, locali e di stagione, dallo svolgimento di una moderata ma regolare e costante attività fisica, ed una varietà assoluta dal punto di vista della scelta degli alimenti (fondamentalmente proprio per il rispetto del territorio e per la biodiversità che assicurano in generale i Paesi del Mediterraneo, almeno in passato) e il rispetto di tradizioni che la rendono unica nel suo genere.

Poiché i vari Paesi che affacciano sul mediterraneo hanno culture, religioni e biodiversità anche molto differenti tra loro, possiamo affermare che non esiste un’unica dieta mediterranea, piuttosto tante “diete mediterranee”, che seppur diverse tra loro, sono accomunate dalla presenza di una serie di caratteristiche comuni.

Benefici e vantaggi della dieta mediterranea

La dieta mediterranea fa bene alla salute: chi le è molto aderente e per lunghi periodi di tempo (potenzialmente tutta la vita) ha un minor rischio di mortalità e a malattie croniche. Le possibilità di andare incontro a queste patologie sono ridotte:

  • malattie cardiovascolari,
  • malattie coronariche,
  • infarto del miocardio,
  • cancro,
  • malattie neurodegenerative (Alzheimer, demenza, declino cognitivo),
  • diabete.

Per quanto riguarda i marker infiammatori ridotti grazie alla mediterranea sono necessari ancora ulteriori evidenze a supporto.

Tutti vantaggi che sono sia dovuti alla scelta degli alimenti per quantità e qualità, ma anche correlati all’attività fisica che è alla base della piramide.

Più o meno tutti hanno un’idea di cosa voglia dire “mangiare bene” per stare bene, anche se poi nei fatti non sempre questa consapevolezza viene rispecchiata. I principi della dieta mediterranea a cui si devono i suoi benefici sono proprio questi, “che si sanno” ma che poi, per un motivo o per un altro, non sempre vengono seguiti:

  • esercizio fisico moderato e costante (idealmente tutti i giorni)
  • > 50% carboidrati, ma prodotti locali, integrali e con un gran quantitativo di frutta e verdura
  • alimentazione varia in base alla stagionalità
  • sì ad alimenti naturali e no ad alimenti industriali ed eccessivamente lavorati
  • periodi di digiuno o semi-digiuno
  • buon quantitativo di lipidi ma tanti insaturi e pochi saturi

La piramide della dieta mediterranea: cosa mangiare?

Piramide alimentare dieta mediterranea

La piramide alimentare è un grafico ideato dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (United States Department of AgricoltureUSDA) agli inizi degli anni Novanta, per comunicare in modo efficace i consigli alimentari alla popolazione. Nella versione iniziale, gli alimenti erano classificati nei seguenti gruppi:

  • cereali e derivati (alla base);
  • verdura;
  • frutta fresca;
  • carne, pesce, uova e legumi secchi;
  • zuccheri e grassi (in cima).

Alla base della piramide alimentare sono elencati i cibi o le categorie di alimenti più importanti e che pertanto devono essere utilizzati in modo abituale, in cima, invece, ci sono quegli alimenti che devono essere limitati o fortemente ridotti e che dovrebbero rientrare nella dieta solo raramente. Questo grafico è stato successivamente rivalutato nel 2005, con modifiche importanti.

Nella nuova piramide alimentare, alla base, vengono posti i cereali integrali ricchi di fibra. La distinzione tra gli alimenti ricchi di glucidi, perciò, non si basa più sulla classificazione in glucidi semplici e complessi, ma essenzialmente sul contenuto in fibre.

Anche la disposizione di lipidi si ritrova modificata: mentre nella versione precedente della piramide tutti i lipidi venivano collocati verso l’apice, nella nuova solo i grassi saturi mantengono questa posizione, mentre quelli di origine vegetale sono collocati alla base, in previsione di un consumo quotidiano.

Il grafico del 2005 è sostanzialmente un buon modello base da cui partire per pianificare la propria alimentazione: i cereali raffinati, gli alimenti industriali in genere e le carni rosse sono quei cibi che, fondamentalmente, dovremmo evitare nella dieta di tutti i giorni e limitare solo ad occasioni sporadiche o in quantità moderate, ad esempio durante un giorno di festa.

Alla base, invece, troviamo gli alimenti che consumeremo quotidianamente e che costituiranno le fonti maggiormente utilizzate. Per quanto riguarda il pesce, il pollame, le uova e “gli alimenti ricchi in calcio” che fondamentalmente sono i prodotti caseari, anche se in quantità controllate e moderate, comunque rappresenteranno la nostra dieta.

Importante notare che la dieta mediterranea rappresenta uno stile di vita tuttavia generale e flessibile, poiché pensata per essere seguita dall’intera popolazione mondiale: donne, uomini, bambini, adulti, anziani. Non indica, pertanto, né le quantità precise di una singola porzione e nemmeno una rigida quantità del numero di porzioni. Ad esempio, stando proprio al grafico elaborato nel 2005 dalla Linda University, di uova se ne possono consumare da 0 a 2 al giorno, questo significa che, fondamentalmente, ci possono essere popolazioni o singoli individui che possono scegliere di consumarne 2 in tutta la settimana (fondamentalmente anche nessuna), 4, 6, come anche 14 (ricordiamo che le porzioni che vediamo nel grafico sono “al giorno”).

La stessa cosa vale per il pollo o il pesce: non è vero che la dieta mediterranea debba essere per forza una dieta vegetariana o limitare pesantemente il consumo di alimenti proteici di origine animale (vedi proteine animali), come non è nemmeno vero che debba essere ipolipidica (tanto è vero che in media le popolazioni del mediterraneo studiate assumevano il 25-30% delle calorie introdotte proprio dai grassi alimentari). Essenzialmente cerca semplicemente di mantenere un rapporto equilibrato tra i nutrienti riducendo il consumo di alimenti industrialidi zuccheri aggiunti e di grassi saturi. Infatti, il gelato, i biscotti, i dolci, sono tutti cibi “non consentiti” o “da consumare con moderazione”, così come la carne rossa, con particolar riferimento alle carni trasformate (salumi e via dicendo).

Nel 2011 la Mediterranean Diet Foundation, in associazione con il Forum on Mediterranean Food Cultures, ha presentato una nuova piramide alimentare nel corso dell’VIII International Congress on the Mediterranean Diet, tenutosi a Barcellona. Questa nuova ed aggiornata piramide si basa sui risultati dei più recenti studi epidemiologici, concernenti il ruolo di prevenzione della dieta mediterranea nei confronti di diversi tipi di malattie croniche, e di indagini scientifiche volte a esaminare gli effetti salutari del regime alimentare mediterraneo.

Anche questa nuova piramide è stata concepita come un modello alimentare piuttosto generale con al suo interno categorie di cibi e non alimenti precisi; inoltre, come nei precedenti grafici, viene solo consigliato il numero delle porzioni e non la quantità della singola porzione. Vi sintetizzo le regole dietetiche, in modo quanto più schematico e allo stesso tempo esauriente possibile:

  1. Alla base della piramide sono indicati tutti quei cibi che dovrebbero (o potrebbero) essere consumati in ogni pasto principale (idealmente pranzo e cena e, per chi la fa, anche la colazione): vale a dire che va benissimo consumare 1 porzione di cereali integraliverdure, frutta e, nel caso si necessiti di condimento, olio extravergine di oliva.
    Oltre a questo, è importante considerare la varietà dei cibi, la stagionalità e la provenienza: sarebbe meglio consumare prodotti locali, poco raffinati, e frutta e verdura di stagione. Ancora prima (non a caso l’ho messo all’inizio dell’elenco puntato) c’è però l’esercizio fisico regolare che deve essere fatto, idealmente, tutti i giorni in maniera moderata.
  2. Al centro della piramide ci sono quegli alimenti che possono essere consumati ogni giorno: troviamo le erbe e le spezie come condimento, da sostituire in parte al sale, la frutta secca e i latticini, possibilmente magri per evitare un eccessivo apporto di grassi saturi.
  3. Al vertice della piramide troviamo invece gli alimenti che devono essere consumati su base settimanale (la base indica “pasto principale”, il centro “ogni giorno”, il vertice “settimanalmente”): ecco perché troviamo legumiil pesce, le carni bianche e le uova, così come le patate, allo stesso livello della carne rossa, delle carni lavorate e dei dolciumi. Cambiano, ovviamente, le porzioni settimanali consigliate.

Dieta mediterranea cos'è come funziona

Ancora una volta,  a primo impatto potrebbe sembrare una dieta che limita pesantemente il consumo di prodotti di origine animale. Invece non è proprio così. Considerando anche la flessibilità delle porzioni consigliate, idealmente potresti consumare i prodotti di origine animale, variando tra le fonti, tutti i giorni tranquillamente:

  • Latticini anche ogni giorno.
  • Carni che nel complesso puoi consumare anche per 3 giorni a settimana.
  • Pesce che può essere limitato a 3 porzioni settimanali ma puoi arrivare anche a 5 o 6.
  • Uova in numero di 2-4 a settimana; ecco, questa è un’indicazione che fondamentalmente non condivido in parte, ma da un certo punto di vista la comprendo: bisogna sempre ragionare in ottica di consigli generali per la popolazione media. Anche se non vi è un limite definito di uova giornaliere, consumarne in numero eccessivo non è la scelta ideale, dal punto di vista della varietà alimentare. È utile non esagerare con le quantità di un singolo alimento, così da permettere il consumo bilanciato ed equilibrato delle altre fonti di cibo. Se ci pensiamo, è lo stesso discorso che viene fatto anche per i legumi o le patate: le patate non fanno male, ma se già prevedi frutta, verdura e un alimento amidaceo nei pasti principali, i legumi in porzioni e quantità variabili, quanto bisogno c’è di “consigliare” un consumo di patate ogni giorno?
Carni bianche 2
Carni rosse <2
Carni lavorate 0-1
Pesci / Frutti di mare >2
Uova 2-4
Legumi >2
Cereali integrali >4
Patate <4
Dolci <2

Tabella Linee guida 2011 – Porzioni settimanali di alcune categorie di alimenti nella Dieta Mediterranea.

Vediamo invece sulle carni rosse, quelle lavorate e sui dolciumi, delle indicazioni simili alle Linee Guida attuali. Limitarle drasticamente ma non per forza eliminarle totalmente, seguendo il principio del “una volta ogni tanto non fa niente”. Idealmente, soprattutto se parliamo del concetto di dieta mediterranea, quei prodotti possono essere consumati nei giorni di festa, con un del vino.

Dieta mediterranea cosa mangiare?

dieta mediterranea dimagrante

Chi segue una dieta mediterranea deve avere generalmente un’assunzione di circa il 55% delle kcal derivanti da carboidrati, che però devono essere consumati preferendo prodotti locali, grani interi (prodotti integrali) ed un gran quantitativo di frutta e verdura (generalmente si parla di porzioni di frutta e verdura anche ad ogni pasto).

Il numero di pasti giornalieri non è rigido, anche se nella visione comune, una dieta mediterranea presuppone almeno l’osservazione dei 3 pasti considerati principali: colazione, pranzo e cena.

La dieta mediterranea spinge molto sul consumo di alimenti naturali, da preferire agli alimenti industriali ed eccessivamente lavorati o con conservanti aggiunti. Anche per questo motivo l’alimentazione deve imprescindibilmente variare in base alla stagione.

La dieta mediterranea è fondata poi su un’alimentazione abbastanza ricca di grassi, tanto che si consiglia l’assunzione del 25-30% delle calorie totali, anche in virtù degli ultimi studi scientifici che hanno dimostrato che una dieta ipolipidica non è certo il miglior modo per controllare il rischio cardiovascolare, il peso forma e in generale lo stato di salute. Bisogna invece considerare molto anche la tipologia di grassi da assumere: in particolare possiamo semplificare dicendo di preferire grassi insaturi rispetto ai grassi saturi. I primi si trovano principalmente nella frutta secca e negli oli vegetali, mentre i secondi negli alimenti di origine animale, anche se vi sono eccezioni come l’olio di palma (approfondisci con l’articolo: l’olio di palma fa male) o l’olio di cocco che contengono una quantità elevatissima di grassi saturi, paragonabile o talvolta superiore, al burro o alla carne rossa.

La dieta Mediterranea è fondata principalmente sul consumo di olio extravergine di oliva, che è una fonte ricca di acidi grassi monoinsaturi, il cui rappresentante principale è l’acido oleico, oltre che di importanti composti fitochimici che la ricerca scientifica dimostra sempre più importanti per il mantenimento della salute: tocoferoli (vitamina E) ed altri composti con potente attività anti-ossidante, che hanno effetti benefici sul controllo dell’invecchiamento, sulla prevenzione delle malattie croniche e degenerative.

Esempio di menù della dieta mediterranea bilanciata

Il miglior modo per iniziare la dieta mediterranea è passare, anche gradualmente, da un’alimentazione tipica occidentale, cioè composta per lo più da alimenti industriali ricchi di zuccheri, grassi saturi e trans, ad un’alimentazione che privilegi l’assunzione di frutta e verdura, possibilmente locale e di stagione (o quanto meno che se ne conosca la provenienza).

Fatto questo passo, seguire una dieta mediterranea non è affatto difficile perché il resto viene in automatico: la maggior assunzione di frutta e verdura e la riduzione parziale o completa dei prodotti eccessivamente lavorati fa sì che, automaticamente, l’assunzione totale energetica e calorica diminuisce; inoltre i prodotti vegetali sono quelli maggiormente ricchi di fibre e alcuni micronutrienti molto importanti per il nostro stato di salute e l’osservazione scientifica ci suggerisce che solo implementando la maggior assunzione di verdure si migliora lo stato nutrizionale complessivo.

Un buono schema iniziale è imparare ad accompagnare, in tutti i pasti, gli altri cibi con una porzione abbondante di verdure, variando il più possibile la scelta dei cibi, e utilizzare principalmente frutta fresca e secca come spuntini spezza-fame.

Colazione

Tradizionalmente una dieta mediterranea prevede la colazione. Sebbene questa sia un pasto esattamente come tutti gli altri e non esistono motivi dal punto di vista endocrino e metabolico che suggeriscano che faccia bene farla o male abolirla, nella dieta mediterranea è uno dei pasti principali.

Una credenza comune è che la colazione debba essere per forza dolce, e tipicamente assume i connotati di un pasto iperglucidico, troppo spesso ricca di zuccheri e povera di proteine e grassi insaturi. Ecco perché nasce lo stereotipo della colazione composta da cornetto e cappuccino, fette biscottate con marmellate industriali oppure latte e cereali ricoperti di cioccolata.

È bene sapere, invece, che è possibile seguire diete anche salate, o maggiormente proteiche, e questo, sebbene non richiami esattamente la dieta mediterranea, di certo non la rinnega. Colazioni con latte, uova, yogurt, frutta fresca e secca, sono colazioni assolutamente salutari e che garantiscono un buon apporto di nutrienti.

In alternativa, è bene ricordare che la dieta mediterranea ha avuto successo in passato perché prevedeva l’assunzione di alimenti locali e poco lavorati, per cui va benissimo la colazione dolce, ma almeno cerchiamo di utilizzare marmellate di qualità, succhi di frutta senza zuccheri aggiunti e via dicendo.

Colazione dolce

  • Porridge di avena
  • Yogurt magro senza zuccheri aggiunti
  • Frutta secca
  • 1-2 frutti

Colazione proteica

  • Uova
  • Yogurt greco
  • Frutta secca
  • 1-2 frutti

Pranzo

  • Fonte di cereali (riso, pasta, pane, quinoa, farro e via dicendo)
  • Carne/pesce/legumi
  • 1 porzione di verdure
  • Olio evo come condimento a crudo

Cena

In una dieta mediterranea che si rispetti non c’è alcuna regola rigida sul cosa mangiare a cena. In genere, poiché sia la colazione che il pranzo sono pasti ad alto contenuto di carboidrati, si opta per un pasto completo composto, in linea generale, da una fonte proteica (anche animale) come carne, pesce, latticini o uova, un contenuto lipidico soddisfatto dal condimento con olio evo oppure con alti grassi di origine vegetale come i semi e la frutta secca, e una porzione di verdure.

Nessuno ti vieta, ad ogni modo, di inserire anche una fonte glucidica, che può essere rappresentata o dai cereali tradizionali, oppure da alte fonti alternative di alta qualità, come patate o legumi.

  • Patate
  • Carne/pesce/uova/latticini
  • 1 porzione di verdure
  • Olio evo come condimento

Le quantità non sono specificate innanzitutto perché devi adattare la dieta ai tuoi fabbisogni energetici e nutritivi, e poi perché una dieta mediterranea che si rispetti è abbastanza flessibile e si basa sulla scelta delle porzioni secondo il buon senso di ognuno di noi (questo è uno dei motivi per cui molte persone asseriscono che la dieta mediterranea non funziona oppure non è una buona alimentazione; tipicamente queste persone hanno una cattiva scelta delle fonti alimentari e non hanno un buon controllo del loro comportamento alimentare).

Dieta mediterranea ipocalorica

Dieta mediterranea cos'è e come funziona

Il motivo per cui molti sportivi e molte persone che hanno come obiettivo una perdita di peso non vedono di buon occhio la dieta mediterranea è che questa non nasce e non ha mai avuto le caratteristiche di una classica dieta dimagrante. In secondo luogo, purtroppo, molte persone confondono la vera dieta mediterranea con un’alimentazione totalmente sbilanciata a favore dei carboidrati, una scelta alimentare che tiene poco conto della qualità e della provenienza dei cibi, e quindi un’elevata assunzione di cereali raffinati e prodotti industriali.

Bene, la dieta mediterranea non è questa, e non basta mangiare pasta, pane e pizza per seguire una mediterranea, anzi, molto spesso queste diete sono insalubri e favoriscono l’aumento di peso, ma semplicemente chi segue alimentazioni del genere non sta seguendo alcuna dieta mediterranea.

La dieta mediterranea per dimagrire esiste, ed è quella che semplicemente tiene conto di una riduzione delle quantità totali dei cibi più densi energeticamente a favore di frutta e verdura. Questa caratteristica, peraltro, è condizione necessaria per qualsiasi dieta dimagrante, poiché instaurare il deficit energetico è indispensabile se vuoi perdere peso (e grasso).

Quanti chili si perdono con la dieta mediterranea

Come avrai capito, non basta seguire una dieta piuttosto che un’altra con la speranza di perdere peso automaticamente: è spesso l’idea alla base di chi vuole dimagrire ma senza mangiare di meno. Infatti, passare da una dieta all’altra senza risultati tangibili non è fantascienza.

Anche se segui una dieta per un mese ed effettivamente qualche chilo lo perdi, ma poi torni alle tue abitudini e al tuo peso pre-dieta, puoi davvero dire che abbia funzionato? È auspicabile che la perdita di peso venga mantenuta, se no c’è il rischio, in realtà sempre più frequente, di continuare ad accumulare.

Perdere chili quindi dipende da te, non dalla dieta: concetto valido anche per la mediterranea. Per un dimagrimento fisiologico è consigliato perdere lo 0.5-1% del tuo peso corporeo a settimana. Hai letto bene, a settimana! Rispolveri le tue abilità matematiche delle medie e risolvendo l’equazione saprai quanti grammi/chili è meglio perdere: 0.5 (o un numero fino a 1) : 100 = x : tuo peso.

In pratica, per perdere davvero 5 kg in una settimana in modo fisiologico c’è un solo modo: devi avere un peso di partenza di 500-1000 kg.

Dieta mediterranea, palestra e bodybuilding

Per gli sportivi, più che per i sedentari, avere energia è importante: c’è la richiesta energetica richiesta dall’allenamento da soddisfare. A prescindere dall’obbiettivo (dimagrire, mettere massa, alzare di più), il presupposto è stare bene: quanto pensi sia davvero efficace una seduta allenante se entri in palestra privo di forze? Sicuramente meno di se fossi stato pieno di energie.

Che uno sportivo debba seguire una dieta equilibrata e bilanciata è consigliabile: ha bisogno di tutti e tre, anzi quattro, i macronutrienti dai carboidrati, alle proteine, ai grassi, all’acqua. Come sempre, è bene valutare di caso in caso quale sia l’approccio migliore, a seconda della persona: se il soggetto ha come fine lo stare in salute mangiando e allenandosi bene senza chissà quale fine prestativo, una dieta mediterranea può andare bene in quanto gli fornisce una buona quota di carboidrati su cui contare per l’energia.

Se, invece, il soggetto ha determinati obbiettivi estetici o di prestazione, allora serve un’occhio di riguardo in più sul fabbisogno energetico e di macronutrienti. Basta anche solo pensare alle modifiche nutrizionali di un bodybuilder, in cui ci sono più fasi, ciascuna con i suoi range di nutrienti: ad esempio, la più alta quota proteica in fase di definizione per supportare il mantenimento della massa magra.

Conclusioni sulla dieta mediterranea

La dieta mediterranea instaura tutta una serie di abitudini, alimentari e non, non troppo difficili da seguire ed equilibrate, che sicuramente portano ad un principale vantaggio non da poco: la salute.

Il consiglio è quello di essere aderenti, il più possibile e senza dimenticare lo stile di vita attivo, che resta una parte fondamentale se vuoi davvero avvalerti del titolo di “vero mediterraneo”.

 

Bibliografia

Dinu et al. (2017). “Mediterranean diet and multiple health outcomes: an umbrella review of meta-analyses of observational studies and randomised trials”. European Journal of Clinical Nutrition.

Estruch et al. (2013). “Primary Prevention of Cardiovascular Disease with a Mediterranean Diet”. The New England Journal of Medicine.

Shai et al. (2008). “Weight Loss with a Low-Carbohydrate, Mediterranean or Low-Fat Diet”. The New England Journal of Medicine.

Sofi et al. (2008). “Adherence to Mediterranean diet and health status: meta-analysis”. BMJ.

Sofi et al. (2010). “Accruing evidence about benefits of adherence to the Mediterranean diet on health: an updated systematic review and meta-analysis”. Am J Clin Nutr.

Trichopolou et al. (1995). “Diet and overall survival in elderly people”. BMJ.

Trichopolou et al. (2003). “Adherence to a Mediterranean Diet and Survival in a Greek Population”. The New England Journal of Medicine.

L'articolo Dieta mediterranea: che cos’è e come si fa? proviene da Project inVictus.


Periartrite alla spalla: cause, sintomi e rimedi efficaci

$
0
0

Periartrite scapolo omerale è un termine generico utilizzato per indicare l’infiammazione delle strutture della spalla, riferendosi più nello specifico a patologie di natura degenerativa, come per esempio le tendinopatie della cuffia dei rotatori, le lesioni della cuffia dei rotatori, la sindrome da dolore subacromiale o la borsite. Quadri di questo tipo sono molto frequenti in coloro che si allenano in palestra, i quali si trovano spesso costretti a sospendere o ad evitare del tutto diversi esercizi a causa del dolore.

Il dolore alla spalla provocato dalle patologie appena menzionate è estremamente frequente e molto variabile: può presentarsi sia in sportivi che in sedentari, in alcuni casi può passare in pochi giorni, mentre in altri può manifestarsi per periodi di durata ben più lunga, o ritornare periodicamente. In queste situazioni i sintomi possono essere molto fastidiosi, con difficoltà nel muovere il braccio, a volte anche con movimenti semplici.

Quali sono le possibili cause che portano alla periartrite scapolo-omerale? Quali i sintomi e i rimedi più efficaci? Scopriamolo!

Periartrite spalla: che cos’è?

La periartrite è un disturbo che affligge la spalla e che, secondo la teoria da cui nasce questa etichetta diagnostica, troverebbe la propria causa in un’infiammazione acuta o cronica dei tessuti di questo distretto (tendini e borse). Ma cosa significa esattamente “periartrite scapolo omerale”?

Con questo termine ci si riferisce a quadri patologici che nella pratica clinica odierna vengono indicati come “tendinopatie della cuffia dei rotatori”, “sindrome da dolore subacromiale” (termine proposto da alcuni autori in sostituzione dell’oramai obsoleta etichetta di “impingement/conflitto subacromiale”) e/o “borsite”. Analizzando l’etimologia del termine, si può tradurre come un’infiammazione (ite) di strutture intorno all’articolazione (peri-articolari) localizzate a livello della spalla (articolazione scapolo-omerale). Come vedremo in seguito, grazie alle recenti evidenze scientifiche sappiamo oggi che in realtà la natura di queste patologie non è infiammatoria, bensì degenerativa, e che il termine “periartrite” risulta pertanto oramai obsoleto e poco fondato.

Tendine

Il quadro patologico che più di frequente viene inteso in questi casi è la tendinopatia dei muscoli della cuffia dei rotatori. Di cosa si tratta?

Le tendinopatie sono processi patologici degenerativi intrinseci del tendine, caratterizzate da alterazioni strutturali e funzionali a carico di quest’ultimo. Le tendinopatie della cuffia dei rotatori, in particolare dei muscoli sovraspinato e infraspinato, e del capo lungo del bicipite brachiale (che si inserisce nel margine superiore della fossa glenoidea, attraversando l’articolazione gleno-omerale e stringendo intimi rapporti con la cuffia dei rotatori) rappresentano il quadro patologico che più di frequente è responsabile del dolore di spalla (la letteratura parla di circa l’80% dei casi).

Muscoli spalla
Da sinistra verso destra i muscoli infraspinato, sovraspinato e capo lungo del bicipite brachiale

Studi recenti hanno evidenziato come processi degenerativi tendinei di grado più o meno avanzato siano presenti praticamente in chiunque, tanto da essere spesso considerati un fisiologico “segno d’invecchiamento” allo stesso modo dei capelli bianchi e le rughe sulla pelle.

In diversi casi le alterazioni tendinee sono asintomatiche e non è presente dolore (a conferma dell’estrema complessità e multifattorialità dei processi di elaborazione del dolore, e di quanto sia indispensabile correlare sempre gli esami strumentali ai quadri clinici attraverso un adeguato ragionamento clinico). Tuttavia, in molte altre situazioni le tendinopatie possono causare dolore e impotenza funzionale, la cui intensità può variare in base a diversi fattori tra cui il grado di irritabilità tissutale, il carico ricevuto, fattori genetici, fattori psicosociali ecc…

Tendinopatie
A sinistra un tendine sano, a destra un tendine patologico

Periartrite scapolo-omerale: cause principali

Nel caso di tendinopatie la causa più importante e provocativa sembra essere l’aumento di carico sul tendine troppo poco graduale: in tutti i quadri di tendinopatia, infatti, se si indaga la storia del soggetto che ne soffre si può identificare quasi sempre un’attività “non ordinaria” che ha sottoposto il tendine ad un carico per il quale non è stato abituato, e che spesso può innescare un processo tendinopatico.

Nelle tendinopatie il riposo totale (ad eccezione di fasi molto acute e con alta irritabilità) è deleterio quanto il sovraccarico, in quanto non si fornisce in questo modo alcuno stimolo di adattamento positivo al tendine, che tornerà così a provocare dolore quando verrà sottoposto nuovamente al carico. I principi riabilitativi prevedono un sovraccarico progressivo, fornendo alla spalla via via stimoli sempre maggiori per riabituarla e rieducarla al movimento e al carico.

A livello strutturale una delle caratteristiche che inevitabilmente predispone i tendini allo sviluppo di processi tendinopatici è la ridotta affluenza di sangue: i tendini, infatti, sono scarsamente vascolarizzati, e ciò implica che anche i processi metabolici legati alla salute e alla guarigione dei tessuti tendinei siano fisiologicamente più compromessi rispetto ad altre tipologie di tessuti.

Sovraccarichi eccessivi, ripetitivi, non graduali e senza un adeguato periodo di riposo tra uno stimolo e il successivo possono portare nel tempo alla formazione di microlesioni tendinee, alle quali segue un processo di guarigione fallimentare.

A livello cellulare, sono stati evidenziati la perdita di organizzazione del collagene, il passaggio di alcune fibre collagene da “tipo 1” (una tipologia di fibre efficiente nella trasmissione di forze) a “tipo 3” (una tipologia di fibre collagene scarsamente efficiente nella trasmissione di forze), l’aumento del numero di  proteoglicani e la formazione di nuovi vasi sanguigni (neo-vascolarizzazione).

Tendinopatia

Da un punto di vista anatomo-funzionale, in maniera molto generale possiamo dire che il dolore si presenta nel momento in cui le capacità di carico dei tessuti non sono abbastanza elevate da sopportare gli stress esterni. In parole povere i nostri muscoli, tendini, ossa e legamenti non sono abbastanza forti per sopportare gli stress che provengono dall’esterno. Per “stress” esterni intendiamo una moltitudine di fattori: quelli meccanici (come traumi violenti, cadute, movimenti bruschi, allenamenti eccessivi), il mantenimento prolungato di posture, ma anche altre componenti come la predisposizione genetica, l’età, la professione, lo stile di vita e fattori “psicosociali” come stress a lavoro, stress familiare, traumi emotivi importanti, paura, ansia e catastrofizzazione.

Più specificatamente, le principali cause che in questo contesto possono portare allo sviluppo del dolore alla spalla possono essere suddivise in cause di natura intrinseca e cause di natura estrinseca. Alcune di queste possono avere una correlazione diretta con il dolore, mentre altre rappresentano solo dei fattori contribuenti, non imputabili quindi come causa diretta del dolore di spalla, ma aventi un ruolo parziale nell’intensità della sintomatologia. Fra le cause abbiamo:

  • Invecchiamento e degenerazione tendinea, con possibile correlazione all’età (comuni dopo i 40 anni), a una predisposizione genetica o a una scarsa vascolarizzazione dei tendini. Questi cambiamenti indeboliscono i tendini che risultano pertanto meno resistenti ai carichi e più suscettibili a lesioni. Anche la presenza di particolari predisposizioni genetiche e di un’associata presenza di ulteriori patologie concomitanti (come il diabete e l’ipercolesterolemia) può peggiorare la prognosi del dolore di spalla.

  • Eccessivo sovraccarico funzionale, il quale determina un’alterazione della matrice tendinea. Negli allenamenti sarà fondamentale impostare una progressione dei carichi di lavoro razionale e rispettare i tempi di recupero e ricondizionamento tendineo, evitando di eccedere con il carico funzionale sulla spalla. Anche tecniche esecutive approssimate e non ottimali possono contribuire ad aumentare il rischio di infortuni e dolore alla spalla.
  • Rigidità gleno-omerale con conseguenti alterazioni nell’allineamento e nella biomeccanica della testa omerale durante i movimenti della spalla. Di comune riscontro in chi si allena in palestra è la rigidità della capsula posteriore.

capsula spalla

  • Morfologia dell’acromion “a uncino” , che porterebbe ad un aumento delle forze compressive a carico dei tendini del muscolo sovraspinato. L’influenza di questa caratteristica morfologica sui processi tendinopatici è ancora oggi dubbia e molto discussa in letteratura.

Tipi di acromion

  • Instabilità gleno-omerale provocata da una scarsa performance dei muscoli della cuffia dei rotatori (debolezza o scarsa resistenza e controllo motorio) e degli stabilizzatori scapolari, sfociante in uno scarso controllo della testa dell’omero durante il movimento di spalla, con eccessiva migrazione superiore dell’omero in abduzione. Questa condizione è tipica nei soggetti molto lassi o nei soggetti che hanno subito operazioni chirurgiche alla spalla.
  • Alterazione del normale allineamento statico e della normale dinamica scapolare durante il movimento della spalla.

scapola

  • Combinazione di alcuni movimenti come l’abduzione e l’intrarotazione, e l’abduzione e il tilt anteriore scapolare, che aumentano per loro natura gli stress compressivi a carico dei tessuti molli sotto-acromiali. Tali movimenti non vanno visti come “dannosi” in qualsiasi situazione, ma come combinazioni di movimenti il cui fattore di rischio è superiore rispetto ad altri.

alzate laterali

  • Alterazioni posturali come l’ipercifosi toracica e le spalle anteposte. Anche qui è importante ricordare e sottolineare come la letteratura affermi che queste alterazioni non rappresentano la causa diretta delle tendinopatie e/o del dolore di spalla, ma possono rappresentare talvolta dei fattori contribuenti al quadro generale.

ipercifosi

  • In ultimo, la recente letteratura scientifica ha riscontrato un’elevata influenza dei fattori “psicosociali” riguardo al dolore di spalla e all’intensità dolorosa percepita. In questa categoria rientrano fattori come ansia, catastrofizzazione, depressione, credenze errate, kinesiofobia (paura del movimento), preoccupazioni eccessive e vissuto della persona. Tali fattori sono alla base del processo di “shift” da dolore “fisiologico” a dolore “persistente” con associata sensibilizzazione del sistema nervoso centrale.

Terminologia: infiammazione o degenerazione?

Diversi anni fa era credenza comune il fatto che l’infiammazione avesse un ruolo cruciale nello sviluppo delle tendinopatie. Grazie alle recenti scoperte messe in luce dalla letteratura scientifica, tuttavia, è stato abbandonato il vecchio modello secondo cui si pensava che i disturbi dei tendini fossero dovuti a meccanismi di natura infiammatoria (da qui il termine “periartrite” e/o “tendinite”, ormai abbandonato in quanto ritenuto erroneo ed obsoleto, poichè il suffisso “-ite” sottintende un quadro di natura infiammatoria) e il cui trattamento era basato prevalentemente sull’utilizzo esclusivo di farmaci e di riposo prolungato dall’attività.

Infiammazione

Ad oggi sappiamo invece che il quadro patologico è di tipo “degenerativo” (con alterazioni patologiche dell’architettura tendinea e delle proprietà intrinseche del tendine stesso), e non infiammatorio (alcuni brevi picchi infiammatori possono essere presenti nelle fasi più acute, ma non in quelle che seguono), e il termine più consono per rappresentare tale situazione risulta pertanto essere “tendinopatia”, abbandonando quindi l’etichetta “periartrite” , considerata ormai poco sensata e troppo generale. In questo senso il problema è legato a una degenerazione del tessuto o a una mancata guarigione dello stesso, priva (o quasi) di meccanismi infiammatori.

Altri due fattori che hanno un ruolo rilevante nella genesi tendinopatica sono le forze tensive e quelle compressive, a carico dei tendini. La tensione (generata dall’attività muscolare) è infatti un meccanismo dominante nelle tendinopatie, e di frequente si verifica anche una compressione (per esempio nel caso tipico in cui il tendine viene compresso contro un osso). La combinazione di forze compressive e tensive a carico dei tendini può generare notevoli forze di taglio e stress importanti, con possibile sintomatologia dolorosa nei casi in cui i tessuti tendinei non siano abbastanza complianti da sopportarli.

Quadri di natura più infiammatoria sono invece presenti in altre patologie come le “tenosinoviti” e nelle “borsiti”, così nei traumi acuti.

Tendinopatia

Periartrite spalle: sintomi

I sintomi più comuni nella periartrite scapolo-omerale sono il dolore e l’impotenza funzionale, la cui intensità può essere molto variabile. Il dolore ha tipicamente un esordio lento e in assenza di un vero e proprio trauma che lo possa giustificare, inizia spesso senza un apparente motivo e va via via peggiorando (fase acuta) per poi eventualmente stabilizzarsi (fase cronica).

È generalmente profondo, molto localizzato, più tipicamente anteriormente, posteriormente o lateralmente sulla spalla (nell’area dei quattro tendini della cuffia dei rotatori), in un’area ristretta che non irradia mai oltre l’inserzione del deltoide. È un dolore acuto, sordo, descritto come uno  “spillo” o qualcosa “che punge nella spalla”, o ancora come un dolore “a fitta” come una pugnalata, e intermittente, evocato e riprodotto ogniqualvolta si esegue un determinato movimento o esercizio.

Dolore di spalla

I movimenti che tipicamente possono evocare questo tipo di dolore sono l’abduzione e/o la flessione (in particolare nel range tra i 60° e i 120° di flessione e/o abduzione), ma talvolta anche l’intrarotazione o l’extrarotazione di spalla. Oltre al dolore, può esserci crescente debolezza, riduzione del ROM e (raramente) lieve gonfiore locale. In alcuni casi, specialmente nelle fasi più acute e irritative, anche le attività di vita quotidiana e il sonno sul lato interessato possono causare dolore ed essere limitate.

Se alla base della periartrite c’è una tendinopatia della cuffia dei rotatori si può assistere di frequente al fenomeno del “Warm up effect (effetto riscaldamento)”, che prevede che nei casi di tendinopatia il dolore vada diminuendo man mano che si svolge una certa attività sportiva/allenante, fino anche a scomparire, per poi tuttavia ripresentarsi qualche ora dopo o la mattina seguente, con intensità spesso più elevate.

Nelle fasi più acute e irritative il dolore può presentarsi anche durante banali attività di vita quotidiana, riducendo di molto le capacità funzionali di tutto l’arto superiore.

Dolore spalla

Rimedi e cure efficaci per la periartrite della spalla: cosa fare?

Quali sono i possibili rimedi per una corretta gestione di questa patologia? Partiamo col dire che un corretto trattamento dovrà necessariamente essere contestualizzato in base ai meccanismi patologici che stanno alla base dei sintomi alla spalla, e in base alle caratteristiche e alla storia del soggetto, oltre che alle sue attuali capacità funzionali.

Esercizi spalla

In letteratura è oramai pienamente concorde nell’affermare che un trattamento attivo basato sull’esercizio terapeutico graduale e progressivo è la strategia più efficace nella gestione della spalla dolorosa e della periartrite scapolo-omerale. Qualsiasi trattamento quindi dovrà basarsi principalmente sull’esercizio attivo, riadattando in questo modo le capacità di carico delle strutture del complesso articolare della spalla.

Spesso, in questi casi, ci si rivolge con troppa fretta e fiducia esclusivamente alle cure farmaceutiche prima e chirurgiche poi (chiedendosi quale antinfiammatorio usare per la periartrite o quando operare) sottovalutando le enormi potenzialità di un trattamento conservativo basato sul movimento e sull’esercizio.

Terapie e trattamenti per la periartrite alla spalla

Quali altri tipologie di trattamento, oltre all’esercizio, vengono proposte per la periartrite scapolo-omerale? Cosa dice la letteratura a riguardo?

Per quanto riguarda le terapie fisiche, il loro utilizzo nel trattamento riabilitativo per le tendinopatie non è consigliato dalla letteratura. Queste, infatti, non sono in alcun modo in grado di modificare la capacità di carico del tendine, e attualmente esistono poche evidenze di qualità che ne dimostrino e consiglino l’utilizzo.

Anche parlando di intervento farmacologico il discorso è analogo. Nella maggior parte dei casi infatti i farmaci proposti in caso di tendinopatie sono finalizzati alla diminuzione dei sintomi piuttosto che sulla causa di questi ultimi. Il loro eventuale utilizzo andrebbe quindi ben ragionato e contestualizzato.

L’applicazione di ghiaccio può essere utilizzata a scopo antalgico nelle fasi più acute e dolorose, con applicazioni da 15-20 minuti. La sua reale efficacia è stata tuttavia messa in forte discussione da diversi studi.

Per ciò che concerne la terapia manuale, alcuni studi hanno evidenziato come il trattamento manuale della spalla e del torace sia in grado di ridurre il dolore e migliorare la funzionalità nel breve termine. I miglioramenti associati alla terapia manuale non sono tuttavia riconducibili ad un effetto biomeccanico, ma ad effetti neurofisiologici e psicologici. In breve, quindi, la terapia manuale può rappresentare un valido aiuto nel piano riabilitativo, ma il focus principale dovrà sempre essere sull’esercizio e sul ricondizionamento tendineo al carico.

fisioterapia scapola

Per quanto riguarda il riposo, è ormai verità inconfutabile che il riposo e/o l’immobilizzazione nelle tendinopatie non sia efficace e che risulti, al contrario, deleterio. Questo perchè un tendine immobilizzato non avrà alcuno stimolo che generi conseguenti adattamenti positivi come l’aumento della capacità di carico, la riorganizzazione cellulare e la sintesi di collagene.

Alcuni studi hanno dimostrato che dopo due settimane di immobilizzazione la sintesi di collagene nei tendini viene ridotta notevolmente, e che la disposizione delle fibre collagene diventa casuale e disorganizzata, peggiorando la capacità funzionale del tendine (è infatti il carico che permette alle fibre di disporsi in maniera ordinata). L’immobilizzazione, per di più, aumenta la produzione di alcuni enzimi responsabili della degradazione del collagene.

Quindi in caso di tendinopatia non bisogna mai e per nessuna ragione restare a riposo?

Non proprio. In situazioni molto acute accompagnate da dolore molto elevato e presente anche nel quotidiano, può essere necessario un breve periodo di riposo, ma in un contesto in cui il soggetto resti comunque attivo e apporti possibilmente un minimo di carico sulla struttura, rispettando il dolore e la sintomatologia affinchè resti tollerabile. È poi importante sottolineare che dopo un periodo di inattività sarà fondamentale evitare aumenti improvvisi del carico (che potrebbero portare a processi tendinopatici), la cui progressione dovrà essere graduale.

E per quanto riguarda la chirurgia? In caso di tendinopatie della cuffia dei rotatori non esistono ad oggi prove a favore della superiorità dell’intervento chirurgico rispetto alle terapie basate sull’esercizio. I risultati dei trattamenti basati sugli esercizi appaiono infatti efficaci al pari di quelli ottenuti mediante chirurgia.

Sulla base di questi dati gli autori sostengono che gli interventi chirurgici nelle tendinopatie doverevvero essere considerarti solo dopo l’eventuale fallimento del programma di esercizi basato sul carico, proseguito per un tempo di almeno 12 mesi, o nei casi in cui il soggetto con dolore non sia stato in grado di tollerare in alcun modo il carico progressivo degli esercizi.

Anche le infiltrazioni non si sono rivelate migliori della fisioterapia a medio termine; anzi, i corticosteroidi sembrano avere effetti deleteri sui tendini nel lungo termine.

Parlando di impingement (o più correttamente, di “sindrome da dolore subacromiale”), un’intervento che negli ultimi decenni è stato fra i più diffusi è il cosiddetto intervento di “decompressione subacromiale” eseguito in artroscopia. L’efficacia di questo intervento è stata messa in prova da diversi studi, alcuni dei quali anche molto recenti, ed è emerso che tale procedura porta nel medio-lungo termine a risultati comparabili a quelli ottenuti tramite il solo trattamento con esercizi (in questo caso senza i rischi e i costi della chirurgia).

Oltre a ciò, tale intervento è stato confrontato con lo stesso intervento svolto in modalità “finta” (in sostanza veniva ricostruito lo stesso tipo di intervento ma nel concreto non veniva effettuato alcun intervento reale) riscontrando in entrambi i casi risultati comparabili, e portando gli autori ad attribuire i benefici di tale intervento legati principalmente all’effetto placebo e/o alla riabilitazione post-operatoria con esercizi. Per tali ragioni la letteratura sconsiglia ad oggi l’intervento di decompressione subacromiale.

Come dormire con la periartrite alle spalle?

Spesso in casi di dolore alla spalla, specialmente in fasi acute, è presente dolore nello stare distesi sul fianco della spalla interessata, peggiorando così la qualità del sonno. Fra le cause di questo fattore abbiamo sicuramente la scarsa vascolarizzazione tendinea (accentuata dalla fisiologica riduzione del flusso circolatorio durante il sonno) unita alla compressione esercitata sui tessuti della spalla dovuta al peso del corpo quando ci posizioniamo distesi sul fianco.

In condizioni di normalità i tessuti di una spalla sana sarebbero perfettamente in grado di gestire questi “stress”, ma in casi di dolore acuto questo può non accadere. In questi casi è consigliabile evitare temporaneamente (fino alla diminuzione/risoluzione dei sintomi) evitare di dormire sul lato interessato, così come in posizioni particolarmente stressanti/provocanti per la spalla (dormire con le braccia sopra la testa, dormire proni con le braccia sopra il cuscino ecc…).

Sarà invece consigliabile dormire in posizione supina o distesi sul fianco non interessato, utilizzando in entrambi i casi dei cuscini come supporto per posizionare la spalla in posizioni neutre, evitando eccessive rotazioni o flessioni/abduzioni.

Qual è il decorso e la durata della periartrite alle spalle?

In letteratura è affermato che mediamente sia necessario un periodo di 12 settimane per risolvere la sintomatologia tipica dovuta alla periartrite (a condizione che vengano rimossi gli stimoli dannosi e che vengano al contrario inseriti input che promuovano il recupero). Va tuttavia chiarito che questo intervallo temporale è variabile e influenzabile da una moltitudine di fattori (per esempio in caso di recidiva o di presenza di patologie concomitanti si parla di un’aumento temporale fino anche a 24 settimane) e che una percentuale di pazienti, seppur piccola, potrà andare incontro ad una cronicizzazione del dolore.

Il grado di irritazione tissutale, gli stimoli a carico dei tendini e le caratteristiche genetiche e psico-sociali possono influenzare enormemente il tempo necessario alla guarigione, e in molti casi la sintomatologia dolorosa tende a svanire anche prima delle suddette 12 settimane.

Tempo

Periartrite spalla, bodybuilding e palestra

Le tendinopatie della cuffia dei rotatori e del capo lungo del bicipite, principali rappresentanti della periartrite scapolo omerale, rappresentano l’infortunio alla spalla più comune anche in coloro che si allenano in palestra. Anche qui i dolori vengono spesso descritti come “dolori a spillo all’interno della spalla”, che possono influenzare negativamente l’esecuzione degli esercizi o renderla impossibile a causa dell’intensità del dolore, spesso accompagnata dalla paura di danneggiare l’articolazione e i muscoli.

La panca piana con bilanciere è uno degli esercizi che più mette a dura prova il complesso articolare della spalla, e di conseguenza sono davvero numerosi i soggetti che sviluppano dolore alla spalla facendo questo esercizio.

Il dolore alla spalla avvertito durante la panca piana e negli esercizi affini (panca inclinata, croci, push-up ecc…) si presenta di solito con le caratteristiche descritte nei paragrafi precedenti, e il tipico arco doloroso corrisponde ai primi gradi di movimento, all’inizio della fase concentrica, quando il bilanciere o i manubri vengono spinti dal petto. Il dolore tende di solito a svanire una volta superata questa escursione di movimento, per poi ripresentarsi allo stesso modo nella ripetizione successiva.

Lento avanti

Un’altra categoria di esercizi che molto di frequente è coinvolta in quadri di dolore alla spalla è quella che riguarda i cosiddetti esercizi “overhead”, come il Lento Avanti o Military Press, proposti allo scopo di stimolare muscoli come il deltoide e il trapezio superiore, e di allenare il movimento di spinta verso l’alto.

Anche in questo caso il dolore si presenta spesso intermittente e fortemente riproducibile, descritto come “uno spillo” o una fitta anteriormente, posteriormente o lateralmente sulla spalla. L’arco di movimento doloroso in questo caso è tendenzialmente riportato all’incirca tra i 60° e i 120° di abduzione o quando le braccia sono completamente distese sopra la testa, con il dolore riprodotto sempre allo stesso modo ad ogni ripetizione. La restante parte del movimento è invece libera dal dolore.

Per quanto riguarda il dolore alla spalla durante gli allenamenti, alcune strategie utili, sia in ottica preventiva che riabilitativa, sono le seguenti:

  • Rispetto delle corrette esecuzioni degli esercizi, specie negli esercizi più soggetti al dolore di spalla come la Panca Piana, il Lento Avanti e le Alzate Laterali. Dovranno essere preferite varianti con il più basso fattore di rischio possibile, e sarà fondamentale il costante mantenimento di un corretto assetto scapolare durante gli esercizi.
  • Evitamento/limitazione di linee di movimento dolorose, ricercando temporaneamente piani di movimento e ROM non dolorosi, per poi tornare gradualmente agli schemi motori originali quando il dolore sarà svanito.

  • Evitamento/limitazione di serie a cedimento e/o tecniche ad alta intensità
  • Rispetto della gradualità nella programmazione e nella progressione dei parametri allenanti, evitando (in casi di dolore) lavori a cedimento e serie lunghe e forzate, prediligendo invece lavori con un discreto buffer.
  • Inserimento di esercizi specifici finalizzati alla correzione delle eventuali disfunzioni articolari e muscolari riscontrate con un’apposita valutazione. Rientrano in questa categoria esercizi di rinforzo/resistenza/performance muscolare (spesso necessari per i muscoli della cuffia dei rotatori e per alcuni muscoli periscapolari come il trapezio medio e inferiore o il gran dentato), esercizi di allungamento muscolare e/o capsulare, esercizi di mobilità ed esercizi di propriocezione.

Conclusioni sulla periartrite alle spalle

In conclusione possiamo dire che il termine “periartrite scapolo omerale” , oramai obsoleto e troppo generico, andrebbe abbandonato, identificando invece le patologie più specifiche alla base dei sintomi, o parlando piuttosto di “dolore aspecifico di spalla”. Una volta identificate le possibili cause del dolore di spalla, nella maggioranza dei casi sarà possibile ottenere una risoluzione completa della sintomatologia attraverso un trattamento multimodale basato principalmente sul movimento attivo.

L'articolo Periartrite alla spalla: cause, sintomi e rimedi efficaci proviene da Project inVictus.

Dieta detox: funziona veramente?

$
0
0

dieta detox

La dieta detox è comunemente utilizzata, soprattutto dopo i periodi di sovralimentazione, poiché c’è la convinzione che ci sia bisogno di seguire periodi di dieta disintossicante per purificare l’organismo dalle tossine accumulate in precedenza. C’è la convinzione che la maggior parte degli alimenti, soprattutto quelli industriali, siano ricchi di agenti tossici che se accumulati in eccesso possono portare a varie patologie e malesseri.

Ha veramente una base scientifica tutto questo? Cos’è e come funziona? Serve anche a chi è in salute? Ha effetti collaterali per tutti gli sportivi, chi va in palestra o fa bodybuilding?

Che cos’è la dieta detox? In cosa consiste?

La dieta detox è in genere una dieta ipocalorica particolarmente restrittiva, sia nelle quantità che nella scelta degli alimenti. È basata sul largo consumo di frutta e verdure, con l’obiettivo di assumere una quantità importante di fibre alimentari, cereali a basso indice glicemico e frutta secca, semi oleosi e legumi nel resto della giornata.

Gli alimenti da eliminare sono tutti quelli di origine industriale e che contengono elevate quantità di proteine, soprattutto animali, grassi saturi, grassi trans, e zuccheri.

Vi sono anche altre pratiche non sempre idonee per la salute, come ad esempio il digiuno prolungato per più giorni, l’assunzione di numerose tisane drenanti, e le modifiche della consistenza della dieta utilizzando centrifugati a base di frutta e verdura

Benefici e vantaggi della dieta detox

Quanto c’è di vero nella pratica detossificante? È necessario fare una dieta detox per purificare l’organismo? Ci sono davvero questi benefici per la salute?

La risposta è sicuramente e assolutamente NO.

Ci sono 2 punti da comprendere assolutamente:

  1. gli organi sono ogni giorno impegnati nello smaltimento delle sostanze nocive e degli agenti tossici eventualmente inclusi negli alimenti. Tale compito è svolto prevalentemente dal fegato, che ha tra le proprie funzioni metaboliche anche l’attivazione di processi di detossificazione ed eliminazione dei rifiuti tossici presenti nell’organismo.
  2. NON esiste alcun alimento o integratore intrinsecamente purificante o detossificante.

Anzi, vi sono alcune sostanze che pur non essendo “purificanti”, potrebbero, in effetti, supportare il fegato nella sua funzione detossificante, cioè quei nutrienti utilizzati dall’organo epatico in tali processi: tra queste vi sono anche le proteine, in particolare determinati aminoacidi (glutammina, taurinaglicina, cisteina), di cui la dieta detox tradizionale, quella divulgata e pubblicizzata in lungo e in largo, è assolutamente carente.

  • Il miglior modo per mantenere il fegato in salute, “depurarsi dalle tossine” e prevenire la maggior parte delle patologie infiammatorie, metaboliche ed endocrine, è mangiare in quantità moderate, riducendo il contenuto di grassi saturi e zuccheri semplici ed evitando di protrarre a lungo periodi di abbondanza (vedi l’articolo sull’infiammazione intestinale).

Quanto si perde nella dieta detox?

Forse ti chiedi se una dieta detox possa farti perdere peso. La risposta è assolutamente !
Il motivo è semplicissimo e risiede nel ridotto potere calorico di questa dieta, essendo composta per lo più da alimenti poco densi energeticamente (frutta, verdura) e ricca di fibre ed agenti chelanti, che riducono in parte l’assorbimento dei nutrienti (uno dei motivi per cui la tale dieta può essere dannosa e controproducente).

Tipicamente una dieta detox fa perdere anche 4 kg in una settimana. Ricordiamo che per quanto riguarda i fattori che intervengono nel dimagrimento, alla base della piramide vi è il bilancio energetico. Una dieta, per poter essere dimagrante, deve essere necessariamente ipocalorica!

Tuttavia, qualsiasi corretto programma di dimagrimento necessita di una certa programmazione che tenga in conto il raggiungimento di determinati obiettivi, quali:

  • consapevolezza di ciò che mangi e del ruolo dell’alimentazione nello stile di vita;
  • perdita di peso non eccessiva e che rifletta con una perdita di massa grassa e non di massa muscolare;
  • apprendimento di nuove abitudini alimentari sane, nuovi alimenti, nuovi abbinamenti, nuove cotture.

La dieta detox così come è vista dalla maggior parte delle persone, soprattutto delle donne, non rispetta nessuno di questi imprescindibili parametri.

Nel caso in cui vorresti “rimediare” ad un paio di giorni in cui hai mangiato eccessivamente, vuoi per aver partecipato a delle feste, vuoi per esserti concesso uno “sgarro alimentare”, basta un solo giorno di maggior controllo nel consumo di cibo. Non c’è bisogno di una vera e propria “dieta disintossicante”, ma solamente di un giorno con maggior restrizione alimentare consumando, semmai, alimenti più facilmente digeribili con cotture meno “impegnative”, come può essere la frittura.

Anzi, molto spesso la dieta detox, così come è conosciuta, incentivando un quantitativo di fibre molto elevato, peraltro introdotto senza alcun processo graduale, porta ad ulteriori gonfiori e mal di pancia (perché l’organismo, in questo caso l’apparato digerente, ha bisogno di un minimo di tempo per adattarsi) e questo viene interpretato dalla maggior parte delle persone come un effetto negativo da attribuire al giorno di sgarro e non alle troppe fibre; questo meccanismo viene quindi ulteriormente alimentato portando le persone a pensare che ci sia bisogno di periodi più lunghi di restrizione e quindi a prolungare la pratica detossificante. Spesso queste diete non superano le 600-800 kcal e apportano pochissimi nutrienti essenziali aminoacidi essenziali.

Come si fa la dieta detox?

dieta detox menu

La dieta detox può essere seguita per qualche giorno (seguiranno alcuni esempi di protocolli) e prevede l’attenersi a delle regole alimentari che escludono o preferiscono determinati cibi.

Eliminando di per sé una buona parte degli alimenti di origine animale, come latticini, uova e carni grasse, la dieta detox è spesso associata alla dieta vegana.

Il principio fondamentale della dieta detox vegana è quello di poter essere seguita solo per un periodo limitatissimo di tempo, ancora più della dieta disintossicante tradizionale, ed il motivo è che oltre all’eliminazione di tutti i prodotti di origine animale e dei suoi derivati, vi è un divieto anche di moltissimi alimenti che solitamente rappresentano la base nutritiva dei vegani, come buona parte dei cereali.

Solitamente si parla di 3 giorni di dieta detox in cui ci si alimenterà solamente di verdure e frutta di stagione con il fine di depurare l’organismo in brevissimo tempo.

Cosa eliminare nella dieta detox? Cibi da evitare?

  • Latticini e tutti i prodotti caseari, compreso il burro e lo yogurt
  • Uova
  • Tutti i cibi contenenti glutine
  • Soia
  • Dolcificanti artificiali
  • Zucchero
  • Caffè e alimenti e bevande contenenti caffeina
  • Prodotti di origine animale, in genere soprattutto gli alimenti grassi
  • Condimenti industriali come ketchup, maionese, margarina
  • Alimenti ad alto contenuto di grassi in generale
  • Bevande analcoliche e alcoliche

Cosa mangiare nella dieta detox?

Dieta detox cos'è come funziona

Innanzitutto, elimina alcuni alimenti e bevande prima di iniziare la dieta per evitare eventuali reazioni di “astinenza”: principalmente zucchero, caffè e altre bevande e alimenti che contengono caffeina, come il tè, la coca cola, il cioccolato.

Frutta e verdura

  • Frutta fresca in grandi quantità;
  • centrifugati o frullati di frutta con succo naturale e senza zucchero aggiunto;
  • frutta secca come mirtilliuvetta, ma in piccole quantità per via del loro contenuto di fruttosio e calorie.

Frullati

Una dieta detox è molto spesso una dieta liquida o semi-liquida; l’acqua è sicuramente la bevanda più consumata ma non è raro osservare un utilizzo, anche importante, di tisane drenanti e tè verde, nella convinzione che questo possa servire a dimagrire o a ridurre la ritenzione idrica e la cellulite. Purtroppo, però, queste pratiche sono più inutili che altro, anzi, l’eccesso di diuretici, anche naturali, può essere controproducente.

Sono poi consigliati tutti i succhi di frutta, a patto che non siano con zucchero aggiunto.

In ultimo, è famoso il consiglio di assumere acqua e limone, rigorosamente di prima mattina, nel tentativo di agire positivamente sull’equilibrio acido-base e sul pH. Peccato che anche questa pratica non è utile allo scopo e la ricerca scientifica non ha mai fornito evidenze, neppure fragili, che tale imposizione dietetica possa avere un qualunque tipo di vantaggio sulla salute.
I latti vegetali sono ammessi, al contrario del latte di origine animale.

Verdure e ortaggi

In particolare, vanno bene tutte le verdure ricche di fibre e povere di zucchero, in particolare quelle che vengono considerate drenanti naturali, come il finocchio, i cavolfiori, gli asparagi e le verdure a foglia verde.

Carboidrati a basso indice glicemico

In particolar modo fai riferimento agli alimenti amidacei e quindi prevalentemente ai cereali e ai suoi derivati. È preferibile che tali alimenti siano cereali integrali, pseudo-cereali e cereali meno conosciuti come la quinoa, l’avena o il miglio, in particolar modo perché tra le sostanze abolite nelle diete depurative vi è il glutine.

Importante ricordare che questi alimenti vanno consumati comunque in quantità generalmente limitate e solo nella prima parte della giornata, quanto meno nelle diete detox tradizionali.

Legumi

I legumi rappresentano una buona categoria di alimenti anche per chi vuole seguire una dieta detox in quanto sono generalmente alimenti a basso indice glicemico, una buona fonte di proteine vegetali (ricordiamo che le proteine animali sono difficilmente ammesse in diete del genere ed è importante scongiurare una carenza proteica), soprattutto in virtù del consumo anche di cereali, un ottimo potere saziante ed un buon quantitativo di fibre e micronutrienti.

Proteine animali

Vi sono alcune diete detox che ammettono anche il consumo di proteine animali, da fonti magre come il petto di pollo ed il tacchino e da pesci di acqua fredda.

Esempio di menù della dieta detox

Colazione

  • Fiocchi di avena e latte di mandorla
  • Una tazza di latte di avena
  • Succo di pera senza zuccheri aggiunti
  • Frullato di frutta e uno yogurt magro
  • Una ciotola di macedonia

Pranzo

  • Quinoa e piselli, un’arancia
  • Finocchi e petto di pollo
  • Pasta integrale e lenticchie
  • Miglio e verdure al vapore
  • Filetto di sogliola e patate al vapore

Cena

  • Riso integrale con verdure
  • Asparagi e tonno alla griglia
  • Insalatona con pomodori e frutta secca
  • Passata di verdure verdi e fagioli
  • Minestra di patate e carote

Dieta detox: effetti negativi

Fondamentalmente gli effetti negativi delle diete detox sono sintetizzabili con l’eventuale eccessiva restrizione energetica, che talvolta può portare a carenze nutrizionali. Circa 50 anni fa ci sono stati anche decessi in seguito alla somministrazione di una dieta liquida depurativa che era, evidentemente, carente in nutrienti ed in energia.

Ad ogni modo stiamo estremizzando, al giorno d’oggi è praticamente impossibile che una dieta del genere porti a conseguenze così gravi, se non altro perché non è osservata per periodi abbastanza lunghi ma solo per 3 giorni, 5 giorni o una settimana. Resta il fatto che tali tipi di diete rappresentano una prescrizione dietetica assolutamente inutile e inefficace in qualsiasi caso.

La continua ricerca, da parte del soggetto, all’alimento sano, “pulito”, “detossificante”, che il più delle volte si traduce in un qualche tipo di verdura, bollita o cruda, porta nel tempo ad eliminare una gran quantità di cibi o ad osservare diete squilibrate sia qualitativamente che, soprattutto, quantitativamente.

Infine, la dieta detox non è accettata dalla comunità scientifica, non solo perché non ha mai dimostrato di apportare benefici particolari, ma soprattutto per la possibilità intrinseca di causare potenziali danni all’organismo tramite l’induzione di carenze nutritive e l’eventuale aumento del rischio di sviluppo di disturbi del comportamento alimentare, soprattutto nelle ragazze adolescenti.

Quanti giorni deve durare?

fruttali dieta detox

Una dieta detox seguita per 3 giorni è particolarmente restrittiva e in genere è utilizzata come dieta depurativa dopo le feste, abbinandola ad un regime vegano, oppure è rappresentata dal consumo elevato di frullati e centrifugati: una dieta semi-liquida o di una dieta frullata; l’unico motivo per cui non è pericolosa per la salute è che viene osservata per un periodo veramente limitato.

Dieta detox 3 giorni: menù d’esempio

Primo giorno:
·         Colazione: macedonia di frutta e frutta secca
·         Pranzo: riso integrale e verdure cotte
·         Cena: insalata di verdure fresche
Secondo giorno:
·         Colazione: fiocchi d’avena integrali, frutta fresca
·         Pranzo: insalatona di verdure crude e legumi
·         Spuntino: macedonia di frutta fresca
·         Cena: riso integrale e patate cotte
Terzo giorno:
·         Colazione: centrifugato di frutta e verdura
·         Pranzo: quinoa e legumi
·         Spuntino: macedonia di frutta fresca
·         Cena: insalatona di verdure e frutta secca

Questo è un tradizionale esempio di dieta disintossicante osservata per 3 giorni. Nello specifico, questo menù è osservabile anche dai vegani, essendo priva totalmente di alimenti di origine animale.

In questo tipo di diete, osservate per così poco tempo, il peso perduto è rappresentato principalmente da liquidi e non da grasso corporeo, per cui non possiamo parlare di vero e proprio dimagrimento.

Dieta detox 7 giorni: menù d’esempio

Lunedì
·         Colazione: yogurt magro e una banana
·         Pranzo: insalatona di verdure e tonno
·         Spuntino: 100 grammi di frutti di bosco
·         Cena: pesce al vapore con verdure
Martedì
·         Colazione: una tazza di latte di mandorla e un frutto
·         Pranzo: 50g di riso integrale e legumi
·         Cena: 100g di petto di pollo sgrassato e insalatona di verdure
Mercoledì
·         Colazione: una macedonia di frutta, yogurt greco e 30 grammi di frutta secca
·         Pranzo: 100 grammi di pesce al vapore e 50 gr di quinoa
·         Cena: insalatona mista e patate
Giovedì
·         Colazione: fiocchi d’avena e una manciata di noci
·         Pranzo: 100 grammi di tacchino sgrassato e verdure cotte al vapore
·         Cena: 80g di pasta integrale con salsa di pomodoro e basilico fresco.
Venerdì
·         Colazione: un bicchiere di macedonia
·         Pranzo: 80 grammi di pasta integrale e salsa di pomodoro
·         Spuntino: 30 grammi di frutta secca
·         Cena: passato di verdure e 1 frutto
Sabato
·         Colazione: yogurt magro e un frutto
·         Pranzo: insalatona di verdure miste e legumi
·         Spuntino: un bicchiere di macedonia
·         Cena: 100g di salmone al forno e patate
Domenica
·         Colazione: fiocchi d’avena ed un frutto di stagione
·         Pranzo: 100 grammi di carne magra e verdure grigliate
·         Cena: 80 grammi di pasta integrale e legumi

Dieta detox, palestra e bodybuilding

Uno degli obbiettivi di una dieta e che la detox trascura è il garantire il dimagrimento scongiurando il più possibile la perdita di massa muscolare. Ma bisogna contestualizzare: come hai letto, il periodo di disintossicazione dura solo qualche giorno, un tempo in cui la perdita del peso è dovuta sostanzialmente alla perdita di liquidi. Per chi non vuole perdere le sue amate fibre muscolari costruite con tanta pazienza in palestra, il consiglio è quello di non prolungare questo periodo o di non farlo spesso: se ad ogni weekend di sgarro ricorri con 3-4 giorni di dieta detox, alla fine metà mese sarai in forte e sbilanciata ipocalorica. Situazione sicuramente non benefica sia per il tessuto muscolare.

Lo stesso concetto vale per il fabbisogno proteico: anche se per qualche giorno devi rinunciare ad alimenti ricchi di proteine ad elevato valore biologico (cibi animali), non c’è questo grande impatto sul mantenimento della massa muscolare. Se invece i tempi detox sono prolungati e ripetuti sì.

Dieta detox e sport

Che lo sportivo abbia bisogno di energie, dei nutrienti giusti, di essere nella miglior condizione in vista dell’allenamento non sono delle novità. E la dieta detox, soprattutto nei periodi di allenamento più intensi, non risponde a queste esigenze.

Da una parte c’è il fabbisogno energetico: 600-800 kcal sia per una donna che ancor di più per un uomo sono veramente poche e quasi sicuramente anche al di sotto del metabolismo basale. Certo, per qualche giorno non succede nulla (dopotutto, ci sono anche i protocolli di digiuno in cui non mangi nulla anche pe 24 ore), ma certamente provenire da qualche giorno a questi livelli energetici non farà dare il massimo nell’allenamento.

Dalla carenza energetica deriva anche una naturale carenza di nutrienti, se non delle fibre che nella dieta disintossicante sono ben presenti: un eccesso di fibra può essere “fastidiosa” sia per il tratto gastro-intestinale che per la prestazione sportiva. I cibi fibrosi stanno molto tempo ad essere smaltiti, motivo per il quale sarebbe meglio evitarli nei pasti precedenti l’allenamento. Inoltre, a seconda dell’esercizio fisico, una carenza energetica di carboidrati può essere più o meno influente: una mezza maratona, una partita di baseball o una di scacchi hanno sicuramente un bisogno energetico differente.

Dieta detox juice plus

dieta detox dimagrante

La dieta detox juice plus è una specifica dieta a scopo disintossicante basata sull’assunzione di molti integratori alimentari. È divenuta molto famosa negli ultimi anni in seguito alle opere di divulgazione tramite i social network.

Juice Plus è infatti proprio una linea di integratori alimentari americana che propone delle pillole e dei pasti in polvere sostitutivi. In generale questi integratori contengono sostanze presenti nella frutta e nella verdura, come vitamine, minerali, fibre sazianti (prevalentemente glucomannano) e fitonutrienti.

L’azienda, nata nel 1993, ha semplicemente messo in piedi un attento ed efficace sistema di marketing, convincendo le persone che una dieta a base di integratori, venduti a caro costo, possa essere benefica della salute e sostituire i pasti tradizionali. In realtà si potrebbe raggiungere lo stesso identico risultato consumando la frutta fresca e le verdure che vengono utilizzate proprio per produrre tali integratori, spendendo molto meno e, soprattutto, evitando di negarsi il piacere di mangiare. Ricordiamo che l’atto alimentare non ha solo funzione nutritiva ma anche un significato edonistico.

Non ha alcuna valenza scientifica acquistare a caro prezzo integratori che contengono esattamente le stesse sostanze presenti nella frutta e nella verdura che possiamo trovare al mercato.

Conclusioni sulla dieta detox

La dieta detox non è altro che una dieta ipocalorica, spesso particolarmente restrittiva, che è seguita per brevi periodi dopo i periodi di abbondanza di cibo (ad esempio ricorrenze, vacanze) con lo scopo di depurare l’organismo dalle sostanze tossiche accumulate nei giorni precedenti. È convinzione comune che ci sia bisogno di pasti liquidi o frullati, tisane drenanti ed alimenti alcalini (frutta e verdura in genere) per poter disintossicare il nostro organismo. Tuttavia, non vi è alcuna evidenza scientifica che simile pratica abbia un qualche tipo di effetto positivo sulla salute.

Il corpo non ha bisogno di alimenti o integratori detossificanti che, per inciso, non esistono realmente. Ogni giorno, continuamente, i nostri organi, in particolare il fegato, contribuiscono ad eliminare le scorie metaboliche e le sostanze tossiche assunte, rendendo del tutto inutili le pratiche detossificanti alimentari.

Sicuramente un mini-periodo di maggiore restrizione energetica, dopo un periodo in cui ti sei concesso qualcosa in più dal punto di vista alimentare, soprattutto se stai tentando di dimagrire o di mantenere la forma fisica, può essere una buona soluzione. Ma non c’è alcun motivo di eliminare totalmente alcuni alimenti o seguire pratiche estreme come il digiuno prolungato o consumare numerose tisane drenanti, che possono fare più male che bene.

Articolo del Dott. Daniele Esposito, autore di Project Diet.

L'articolo Dieta detox: funziona veramente? proviene da Project inVictus.

Intermittent fasting: come farlo in pratica?

$
0
0

Ci sono diete che ti dicono cosa mangiare, altre che ti impongono cosa non mangiare e poi c’è lui: l’intermittent fasting, che (forse) non ti fa mangiare.

Cos’è e come funziona? In pratica, questa strategia alimentare struttura le giornate in periodi in cui puoi mangiare e altri in cui digiunare. Come ogni altra proposta, ha i suoi pro e i suoi contro, per quanto riguarda l’aderenza, l’efficacia, l’effetto sulla massa muscolare – argomento sicuramente caro se sei sportivo, ti alleni in palestra o fai bodybuilding.

Che cos’è l’intermittent fasting? Che cosa significa?

L’intermittent fasting (IF), o digiuno intermittente, è una delle diete più discusse negli ultimi anni soprattutto nell’ambiente del fitness. Da una parte i sostenitori ne decantano i benefici riguardo il dimagrimento, gli effetti positivi sui rischi cardiovascolari e l’allungamento della vita, dall’altra, invece, i detrattori la considerano una semplice moda destinata a finire nel dimenticatoio nel giro di breve tempo come tante altre diete.

Negli ultimi decenni è infatti cresciuto esponenzialmente il numero delle cosiddette Fad Diet, termine che può essere tradotto in italiano con “diete alla moda” o “diete del momento”. Le Fad Diet sono delle diete che godono di un successo temporaneo e che promettono risultati eclatanti in poco tempo, come la perdita di peso (vedi dimagrire velocemente), l’aumento della massa muscolare e il miglioramento della qualità della vita in generale. Promesse che però quasi mai vengono mantenute, quantomeno nel lungo termine.

Data la forte diffusione di tali diete spesso ci si domanda se anche l’intermittent fasting possa essere considerato solo una moda passeggera o se ha davvero dei reali riscontri benefici sulla salute. Domande che negli ultimi anni si sono poste anche numerosi ricercatori che hanno intensificato i propri studi su tale metodica alimentare.

Come funziona l’intermittent fasting?

Sebbene esistano differenti versioni di digiuno intermittente nella letteratura scientifica sono 3 le principali forme studiate che sono quelle che prenderemo in considerazione in questo articolo ovvero: ADFWDFTRF. Questa suddivisione viene fatta semplicemente per la differente finestra temporale di digiuno.

Esempio di protocollo di intermittent fasting

1 Digiuno intermittente: l’Alternative-day fasting

L’ADF è la modalità di intermittent fasting maggiormente studiata in letteratura e consiste nell’alternare giorni di completo digiuno, o al massimo del consumo di un solo pasto da 400-500 kcal, a giorni di libera assunzione di cibo (ad libitum).

Le calorie non introdotte nei giorni di digiuno difficilmente vengono recuperate nei giorni ad libitum venendosi a creare cosi un deficit calorico che è responsabile della perdita di peso. Alcuni studi hanno evidenziato che questa modalità di digiuno permette di ridurre il colesterolo totale, il colesterolo LDL e i trigliceridi. Alcuni studi hanno evidenziato anche una maggiore efficacia nel mantenere la massa muscolare rispetto alla semplice restrizione calorica anche se gli strumenti usati per rilevare i dati raccolti, come la BIA, non sono del tutto attendibili.

2 Digiuno intermittente: Whole-day fasting

Il WDF è una tipologia di digiuno che prevede uno o due giorni di completo digiuno nel corso della settimana e una dieta normocalorica nei rimanenti giorni in modo tale da raggiungere un deficit calorico settimanale. La reale efficacia di tale strategia non è ancora ben chiara in letteratura in quanto alcuni studi hanno evidenziato una maggior perdita di massa grassa rispetto alla classica restrizione calorica altri invece non hanno mostrato alcun vantaggio. Ciò è dato dal fatto che spesso gli studi vengono condotti con una diversa finestra temporale di digiuno.

3 Digiuno intermittente: Time-restricted feeding

Il protocollo TRF prevede invece l’alternarsi di fasi di digiuno a fasi di nutrimento nel corso delle 24 ore. Sebbene il modello più studiato in letteratura sia il Ramadan, il modello più utilizzato rimane il 16/8 Leangains che prevede l’alternarsi di 16 ore di digiuno a 8 ore di alimentazione. Un altro modello molto noto del tipo TRF è la Warrior Diet resa famosa dal libro omonimo di Ori Hofmekler in cui la finestra di alimentazione è ridotta a solo 4 ore serali.

Cosa mangiare nell’intermittent fasting

intermittent fasting o digiuno intermittente

L’intermettent fasting è definito più come una strategia alimentare che una dieta proprio perché non dà riferimenti sul cosa mangiare, cosa no, a che macronutriente dare più spazio, cosa limitare, ecc. Dà solamente un riferimento temporale, delle finestre più o meno ampie a seconda del protocollo scelto in cui digiunare e altre in cui consumare il/i pasto/i.

Da questo deriva che sostanzialmente puoi mangiare cosa vuoi, considerando sempre che una dieta sana e bilanciata è da percorrere. Un punto su cui si può prestare più attenzione è il caso in cui le ore in cui mangiare siano riservate al tardo pomeriggio/sera, prima di andare a dormire: in questo caso, per un sonno più tranquillo, è bene lasciare trascorrere almeno 2-3 ore (a seconda dell’abbondanza del pasto) prima di coricarsi. Così, viene lasciato il tempo che occorre per la digestione.

Per una sana ed equilibrata alimentazione, anche con la strategia del digiuno, sarà da prestare attenzione alla quantità e alla qualità degli alimenti: così come è possibile dimagrire con l’intermittent fasting, allo stesso modo puoi anche ingrassare se in quel lasso temporale mangi troppo rispetto a quello che ti serve!

Intermittent fasting in palestra e nel bodybuilding

Se la preoccupazione principale di approcciarti per la prima volta al digiuno intermittente è la perdita di massa muscolare – soprattutto tra gli atleti – puoi stare tranquillo: l’intermittent fasting è efficace anche nel mantenere il tessuto muscolare in condizioni di deficit calorico. Uno studio di Varady addirittura ha dimostrato una maggior capacità dell’ADF di trattenere una quantità maggiore di massa muscolare rispetto alla restrizione calorica continua anche se gli strumenti utilizzati (BIA) non sono del tutto attendibili.

Una delle più grandi review sulla frequenza dei pasti condotta dai ricercatori Aragon e Schoenfeld nel 2015 ha dimostrato che questa non incide sulla composizione corporea. Non fa quasi alcuna differenza quindi se decidi di consumare 2, 3 o 6 pasti al giorno. È il totale delle calorie assunte nel corso delle settimane e dei mesi a far la differenza; questo vale quantomeno nei soggetti sedentari.

La letteratura scientifica è però purtroppo priva di ricerche che correlano il digiuno intermittente, in tutte le sue modalità, con la crescita di massa muscolare. Sono anche quasi del tutto assenti gli studi che includono programmi di allenamento coi pesi durante il digiuno.

Uno dei pochi studi è stato condotto di recente (2016) da un gruppo di ricerca italiano capeggiato da Antonio Paoli e Grant Tinsley. Nella ricerca, condotta per 8 settimane, è stato notato un leggero incremento della massa muscolare sia nel gruppo che aveva seguito il digiuno intermittente sia nel gruppo che aveva seguito una classica dieta normocalorica.

Esistono comunque delle teorie, anche se non del tutto confermate in ambito scientifico, che affermano che sarebbe meglio consumare circa 3-4 pasti al giorno distanziati di circa 5-6 ore per massimizzare i guadagni ipertrofici (la durata media dell’effetto anabolico di un pasto). In base a queste teorie il digiuno non sarebbe quindi ideale per ottimizzare la crescita muscolare anche se ciò non significa che non si possano ottenere comunque miglioramenti della massa muscolare.

  • Il consiglio è quindi di utilizzare l’intermittent fasting nei periodi di mantenimento e/o perdita di peso e preferire una suddivisione dei pasti nel corso della giornata nei periodi in cui si vuole ottenere un incremento di massa muscolare.

Quanto si perde con l’intermittent fasting?

Intermittent fasting cos'è come funziona

Spesso i promotori del digiuno intermittente fanno riferimento ai cambiamenti ormonali in acuto per dimostrare l’efficacia del digiuno nel favorire la perdita di peso.

Durante il digiuno c’è infatti ad un aumento di concentrazione di catecolamineglucagoneormone della crescita, un abbassamento dei livelli di insulina e una maggiore lipolisi. Questi cambiamenti ormonali non hanno nulla a che vedere però con la perdita di peso nel lungo termine.

Il motivo per cui il digiuno intermittente può essere d’aiuto nella perdita di peso è tramite semplicemente la riduzione del consumo calorico favorito dalla ridotta finestra temporale in cui sarebbe concesso consumare il cibo. Il fatto che il digiuno intermittente non dia alcun vantaggio aggiuntivo sulla perdita di massa grassa rispetto a tante altre diete che prevedono una restrizione calorica è ampiamente dimostrato in letteratura.

Ad esempio, nel 2015 Seimon e colleghi pubblicano un’ampia review che raccoglie circa 40 studi sulla correlazione tra digiuno intermittente e dimagrimento. Tra questi 40 studi, 12 in particolare confrontano direttamente il digiuno intermittente con la restrizione calorica continua. I ricercatori non hanno trovato alcuna differenza nella perdita di tessuto adiposo tra le due diete.

Inoltre, il digiuno non risulta superiore nel migliorare il controllo glicemico e la sensibilità all’insulina, né tanto meno nel migliorare il quadro ormonale tra cui i livelli di cortisoloormoni tiroidei od ormoni sessuali (anzi in questo caso sembrerebbe ci sia un abbassamento maggiore di testosterone). È stato comunque notato un effetto maggiore nel controllo della fame probabilmente per una maggior produzioni di chetoni.

Il digiuno intermittente, inoltre, non sembra avere alcuna efficacia nel contrastare gli adattamenti metabolici che tendono ad instaurarsi durante il dimagrimento rispetto a diete con decifit calorico continuo. Questi risultati sono poi stati confermati da un’altra meta-analisi pubblicata l’anno seguente, nel 2016, da Headland e colleghi.

Anche se l’intermittent fasting, in tutte le sue varianti, non è mai risultato superiore alla classica restrizione calorica risulta comunque una strategia efficace per la perdita peso, soprattutto quando può essere d’aiuto nel mantenere la compliance dietetica e il deficit calorico nel corso delle settimane.

Digiuno intermittente per le donne

Intermittent fasting palestra come funziona

Anche gli studi sull’intermittent fasting condotti sulle donne non hanno dimostrato alcuna superiorità nel dimagrimento sebbene si sia dimostrato comunque una strategia alternativa efficace.

La fisiologia però dice che uomo e donna rispondono in maniera differente alla restrizione calorica per via della differente concentrazione di ormoni sessuali. Le donne, in condizione di deficit calorico continuo, possono sviluppare condizioni patologiche come amenorrea (assenza di ciclo mestruale) o dismenorrea (disturbo del ciclo mestruale) soprattutto quando il deficit è molto marcato.

La soglia minima di calorie consigliata per evitare alterazioni del ciclo mestruale è pari a 30 kcal/Kg/LBM ovvero poco meno di 1500 kcal per una donna di 60 kg circa (in realtà sono tantissime le ragazze che con queste calorie non dimagriscono).

Un consumo calorico al di sotto di tale soglia può comportare la comparsa di disturbi mestruali come alterazione della fase luteinica, oligomenorrea (17%) e amenorrea (22%). Queste alterazioni si presentano soprattutto quando la restrizione calorica viene mantenuta per lungo tempo.

L’utilizzo del digiuno intermittente, soprattutto nella modalità ADF, che alterna giorni di completo digiuno a giorni di assunzione calorica ad libitum potrebbe essere una buona strategia per evitare alterazioni ormonali di vario tipo sebbene per quanto ne sappia non esistono studi che possano confermarlo. A questo scopo, soprattutto per le donne che praticano attività fisica in palestra, è stato ideato da Lyle Mcdonald un protocollo di digiuno noto come EOD Refeed (Every other day refeed) che consiste nell’alternare giorni in cui si assumono solo proteine (mimando una sorta di digiuno) nei giorni di riposo a giorni in cui si segue una dieta normocalorica o leggermente ipercalorica nelle giornate di allenamento.

In questo modo non solo viene mantenuto un deficit settimanale più o meno evidente ma è possibile evitare le alterazioni ormonali e ottenere un effetto di ricomposizione corporea quando le calorie nei giorni di refeed sono abbastanza elevate

L’intermittent fasting effetti negativi: può essere la causa di disturbi alimentari?

Tra gli effetti negativi del digiuno viene spesso fatto riferimento alla possibile comparsa di disturbi alimentari.

Nel 2004 ad esempio la Canadian Pediatric Society in riferimento alle diete negli adolescenti definiva le diete croniche, le fad diet, il digiuno e il salto dei pasti come delle strategie alimentari poco salutari. Anche il DSM-IV, ovvero il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, inserisce il digiuno tra le “ricorrenti ed inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso”.

L’intermittent fasting, visto che si tratta di una forma alternativa di digiuno, può realmente condurre a disturbi alimentari?

È la domanda che si sono posti i ricercatori del dipartimento di kinesiologia e nutrizione dell’università dell’Illinois a Chicago. Il gruppo, capitanato da Kristin Hoddy, ha voluto esaminare se l’Alternative-day fasting (ADF) potesse contribuire ad alterare la percezione dell’immagine corporea e nel manifestare sintomi di disturbi alimentari.

Lo studio è stato condotto per 8 settimane su 59 soggetti obesi a cui è stato chiesto di consumare il 25% del proprio fabbisogno calorico giornaliero nei giorni di “digiuno” e mangiare ad libitum nei restanti giorni. Si tratta dello studio più importante – tra l’altro anche l’unico – che ha valutato la sicurezza del digiuno intermittente nei riguardi dei disturbi alimentari.

Dai risultati della ricerca è emerso che il digiuno intermittente nella forma ADF non incrementa i casi di depressione, binge eating, sgarri alimentari e fame nervosa la paura di ingrassare o di consumare cibi considerati poco salutari ma migliora anche la percezione della propria immagine corporea.

Occorre però attenzione nell’estendere questi risultati anche in altre tipologie di soggetti. «I disturbi alimentari sono comuni negli adolescenti. Occorre quindi molta cautela nel ritenere che i ragazzi possano avere gli stessi effetti positivi del digiuno intermittente come gli adulti» sostiene infatti Alan Aragon.

È ancora un’incognita se tali risultati possano riguardare anche altre modalità di digiuno come la 16/8 o la Warrior Diet e quali siano gli effetti del digiuno intermittente su persone che hanno sofferto già di disturbi del comportamento alimentare. In ogni caso, coi dati oggi a disposizione, non sono stati mai dimostrati effetti negativi dell’IF riguardo i DCA.

Conclusioni sull’intermittent fasting

L’intermittent fasting non è una dieta miracolosa come a volte tendono a far passare i media ma è semplicemente una dieta come tante altre. Rimane comunque una buona strategia da adottare per facilitare il raggiungimento del deficit calorico settimanale che è l’unico fattore che contribuisce realmente alla perdita di peso.

L'articolo Intermittent fasting: come farlo in pratica? proviene da Project inVictus.

Guida alla programmazione di allenamento

$
0
0

Ciao a tutti, mi presento per chi non mi conosce. Sono Fabrizio Liparoti e sono l’autore di project BB, preparatore e atleta PRO di natural BB
Mi occupo ormai da anni, insieme al mio team, di body recomp e preparazioni agonistiche e oggi sono qui a parlare di PROGRAMMAZIONE DI ALLENAMENTO.

Perchè parlerò di questo?
Perchè programmare è il tallone d’Achille di molti.

Senza una buona programmazione fallirete al 100% il raggiungimento del vostro obiettivo.

Ormai si parla sempre di dieta, approcci alimentari, variazione di timing e tanti piccoli miracoli che si tentano di applicare con la speranza di riuscire ad ottenere quel 2% in più, ma spesso si sottovaluta LA COSA  più importante per ottenere risultati.

L’ALLENAMENTO BEN PROGRAMMATO E CICLIZZATO.

Negli ultimi anni siamo andati tanto avanti sugli approcci alimentari, abbiamo capito che alla base non c’è  la dieta che funziona o quella che stanno cercando di vendere al momento ma qualcosa di più “profondo”. Infatti sono proprio i macronutrienti e le kcal che determineranno come il corpo reagirà allo stimolo introdotto e cosa gestire o modificare poi per arrivare agli obiettivi prefissati.
Sulla parte allenamento invece siamo rimasti alla seconda guerra mondiale, si vede tutto come un “contorno” invece non si capisce che tanti risultati non arrivano proprio per una mancanza di logica, precisione e lungimiranza nella programmazione di quest’ultimo.

Come per la dieta con i macros anche per la parte allenamento non esistono metodiche che portano a compiere miracoli, ma i principali fattori a cui pensare sono i PARAMETRI che devono essere usati e mixati nello giusto modo.

Il discorso che purtroppo si fa è sbagliato alla base, vogliamo che i muscoli aumentino di massa, che il grasso corporeo scenda e risultando stondati e tonici MA non ci occupiamo direttamente di quello che lavora in modo diretto il muscolo (l’allenamento) ma stiamo attenti a tanti altri “ripieghi” complicando la vita dei nostri clienti o di noi stessi limitando di conseguenza i risultati.

Ecco perchè dopo project BB che in cui è tutto riassunto in sole 480 pagine 🙂 sono qui a creare questa guida gratuita sulla programmazione.
Perchè penso che se con la mia esperienza e lavoro di divulgazione nel mio piccolo posso dare una mano a qualche mio collega o atleta che si autogestisce non può che farmi tanto piacere.

Dopo l’uscita di project bb ogni giorno ricevo decine di messaggi di ringraziamenti e feedback positivi, questo mi rende felice ed entusiasta perchè in un ambito cosi grande forse sono riuscito a dare qualcosa di MIO e magari descrivendo il mio modo di lavorare sono riuscito a dare nuovi spunti di lavoro a molti.

Detto questo passiamo a vedere nello specifico come programmare. Vediamo passo per passo nello specifico come creare da 0 un piano sensato e ciclizzato per trarre il massimo dei risultati perchè parliamoci chiaro, ci si fa il culo e tanto culo tutto l’anno per avere dei risultati perché allora non fare di tutto per attenere il massimo?

Ecco cosa fare:

STEP 1:

Capire il nostro livello di esperienza – Principiante, Intermedio e Avanzato

Ognuno di noi ha una propria base di partenza, per molti che si allenano anche da un po di mesi definirsi principianti è quasi un affronto ma servirà mettere da parte per un momento l’orgoglio per capire meglio come gestire la programmazione.

Non sono le ore o gli anni di palestra che determinano un principiante o un avanzato ma è il suo grado di allenarsi e spremersi sotto i pesi.

Ci sono persone che dopo anni di palestra non sanno eseguire bene gli esercizi, non sanno gestire bene i carichi, non si allenano con dei carichi allenanti “buoni” e non sanno esprimere intensità sotto i pesi.
Bene in questo caso anche se state rinnovando il nostro annuale per la 3 volta resterete comunque classificati come principianti perchè non è il “da quando tempo lo fate” ma il “come lo fate”.

Principiante caratteristiche:

  • Schemi motori ed esecuzione degli esercizi non stabili o idonei
  • Poco carico allenante
  • Poca capacità di attivarsi sotto carico
  • Poca capacità di spremersi ed esprimere intensità in una seria

Intermedio caratteristiche:

  • Schema motorio saldo e ottimo
  • Margine per aumentare l’intensità di carico
  • Buona capacità di attivarsi sotto carico
  • Buona capacità di spremersi

Avanzato:

  • Schema motorio perfetto anche sotto carico
  • Ottimo carico meccanico
  • Perfetta capacità di spremersi sotto carico
  • Ottima capacità di attivazione di tutti i gruppi muscolari

Capite a quale categoria appartenete e selezionatela

STEP 2:

Scelta della split settimanale
In base alla vostra possibilità di andare in palestra e al vostro grado d’esperienza scegliete una split che va bene tra queste opzioni:

Principiante:



Intermedio/Avanzato:

STEP 3:

Scegliere la split giornaliera più adatta e dividere gli stimoli in base alla frequenza settimanale del muscolo

Anche in questo caso secondo le priorità del soggetto e il parametro cardine a cui stiamo puntando come aumento della performance la scelta della divisione giornaliera del workout diventa essenziale

Perchè tutta questa importanza?

Immaginate che volete aumentare il vostro carico meccanico su un multi articolare

Se questo esercizio lo mettiamo dopo un lavoro di volume quanto efficienti e concentrati riusciremo ad essere?

Stesso esempio al contrario. Immaginate che vogliamo puntare sul parametro volume e inseriamo ad inizio seduta tutti esercizi multiarticolari con tanto” volume e intensità secondo voi quanto voluminosa ed efficiente potrebbe essere la nostra seduta?

Ecco che qui esce fuori limportanza anche di questo particolare, adesso però ritornando alla nostra classificazione di base (principiante, intermedio e avanzato) possiamo capire meglio quale sarebbe da scegliere

Analizzando i prerequisiti elencati sopra di ogni categoria possiamo selezionare le priorità di ogni soggetto

Avremo cosi i principianti:

  • Priorità 1: Intensità di carico e percepita
  • Priorità 2: Volume
  • Priorità 3: Densità/Volume

Intermedi e Avanzati invece:

  • Priorità 1: Volume
  • Priorità 2: Densità/Volume
  • Priorità 3: Lavoro sui punti carenti (divisione del volume localizzato)

Ma non è finita qua, sappiamo l’importanza di un alta frequenza di allenamento sul muscolo per un principiante, ESSENZIALE per impostare bene gli schemi motori negli esercizi e questa frequenza settimanale determina anche come ciclizzare gli stimoli sul gruppo muscolare.
Più un muscolo lo alleniamo frequentemente e più i diversi stimoli e progressioni dei parametri possono essere divisi nelle varie sedute per non sovrapporsi troppo tra loro.

Da tutto questo ecco le scelte da selezionare in questo step:

PRINCIPIANTI:



Abbiamo un principiante che con una frequenza su un gruppo muscolare di 3 volte a settimana gli stimoli possono essere divisi per i 3 giorni tra lavoro meccanico, lavoro di volume e lavoro sul pump

Al contrario se invece  il muscolo viene allenato 2 volte a settimana la divisione può essere nel

giorno 1  un inizio con del lavoro neurale per scaricare la massima intensità di carico e poi un po’ di pump finale mentre il secondo giorno lavoro sul volume mantendendo comunque alta l’intensità di carico.

INTERMEDI/AVANZATI:

In questo caso tutti gli stimoli che servono li troviamo in un unica seduta perchè su una falsa multifrequenza si ragiona stile ‘’Hatfield ‘’ -o monofrequenza- ovvero stimolare il muscolo su tutti i punti e parametri in un unica seduta.

Se invece ci troviamo in una multi con stimolo sul muscolo per 2 volte a settimane gli stimoli possono essere divisi in:
Volume e pump nel primo allenamento e gioco sulle tecniche e massima intensità percepita tenendo sotto controllo il volume nella seduta 2.

STEP 4:

Selezionate gli esercizi giusti in base allo stimolo che vogliamo creare.

La scelta degli esercizi è di fondamentale importanza per avere uno stimolo idoneo in base al parametro selezionato.

Una scelta non precisa limiterà la vostra riuscita del piano, perciò non prestate la vostra attenzione solo verso ciò che vi piace/ non vi piace fare.

Ad esempio se selezioniamo un esercizio d’isolamento per un gruppo muscolare e puntiamo sull’aumento dell’intensità di carico avremo:

  • Poco carico meccanico per via del coinvolgimento dei pochi muscoli
  • Più rischio di sbagliare l’esercizio e non lavorare in modo localizzato sul muscolo target

Quindi stimolo nullo o comunque poco efficiente.

Stesso esempio al contrario, se scegliessimo un esercizio multiarticolare per un lavoro di stress metabolico, ad esempio la panca piana per il petto, avremo:
I muscoli tricipiti e deltoidi che si esauriranno prima del muscolo pettorale e limiteranno il lavoro prolungato non rispettando nel tempo il tipo di stimolo e lavoro che volevamo creare per questo muscolo

Ecco perchè se non selezionate gli esercizi giusti il vostro piano comunque non funzionerà

Quindi cosa fare?

Stimolo meccanico = Esercizi multi
Stimolo metabolico = Esercizi isolamento

Stimolo volume (mix stimolo meccanico e metabolico): mix tra i iso e multi

STEP 5:

Creare delle progressioni in base al tipo di stimolo che stiamo dando.

Adesso finalmente siamo arrivati alle progressioni, LA CHIAVE per i veri risultati.

Nelle precedenti righe avete trovare TUTTO quello che serve per programmare e rendere un piano super efficiente e funzionale nel presente.
Questo step invece è la chiave per i veri risultati perchè consiste nel trovare la giusta strategia pensando al futuro e sappiamo bene tutti che visto che gli aumenti muscolari non avvengono in una settimana e neanche in un mese sarà quello che porterà ai VERI RISULTATI.

Anche in questo caso non si passa alla pratica senza un buon esempio che ho già riportato su project BB quando parlo di programmazione ma che riporto cosi vi è chiaro il concetto perchè è importante che il messaggio passi bene in testa e che gli si dia la giusta importanza

Immaginate che sono un sedentario e oggi decido che in un mio futuro vorrei arrivare a correre 30km. Se sono un matto esco per strada e inizio a correre più che posso per capire da dove parto.
ERRORE
Salvo infortuni lo stesso giorno, quello successivo probabilmente  non mi muovo dai dolori per una settimana.

Se dopo una settimana provo dinuovo tutto questo sono di nuovo al punto di partenza, quindi entro in un circolo vizioso dove probabilmente l’unica cosa che farò in futuro sarà infortunarmi e non correre mai questi 30km.

Allora se si è una persona LUNGIMIRANTE si chiama un trainer e ci si affida a lui.
Qui entriamo in gioco noi. E cosa facciamo??
Ci mettiamo a tavolino, raccogliamo i suoi dati, capiamo il suo punto di partenza e nel tempo creiamo un progetto futuro da rispettare con le giuste progressioni.

Quindi magari partiamo da 3km poi 4 poi 5 poi 7 poi scarichiamo e ripartiamo da 5 poi 9 poi 11 e cosi via…

Alla luce di quanto detto mi viene da farvi una domanda. Siccome in ogni tipo di sport viene seguita una programmazione logica e costante nel tempo al fine di arrivare al miglioramento della perfomance, perché ciò in palestra non avviene e vediamo piani senza senso con numeri buttati li a caso come se stessimo giocando ad un Superenalotto??

Inizialmente non ci va di fare i calcoli ma poi ci va di stare qui a lamentarci perchè i risultati non arrivano?

Quello che mi auguro e che leggendo questa guida riuscirai a toglierti tutti questi dubbi.

Vediamo insieme tutte le progressioni e come inserire in un programma

In realtà proprio tutte non posso mostrartele in quanto necessiterebbe troppo tempo. In questo caso ti consiglio di leggere ‘’Project BB’’ dove sono tutte esplicate e contestualizzate con anche esempi pratici in ben 480 pagine.

In ogni caso, con questa breve guida avrai un infarinatura tale da renderti capace di programmare con coscienza.

Progressioni intensità di carico

Tra le più efficienti e funzionali troviamo queste tre tecniche: piramidale, buffer carico fisso, Ramping

PIRAMIDALE:

Ne esistono di vario tipo.
Il classico piramidale lineare dove le rip man mano si abbassano e il peso sale
Ad esempio 8-6-4-2

Il piramidale inverso dove ad inizio si parte con più carico e poi man mano si diminuisce aumentando le rip
Ad esempio 2-4-6-8

Quale funziona meglio? Come sempre non c’è una strada sicura ma bisogna contestualizzare
Sicuramente il piramidale inverso consente più carico perchè partendo subito con le basse rip e alto carico non si è affaticati dalle serie precedenti con il conseguente vantaggio di avere più carico meccanico iniziale.
Al contrario il lineare permette una buona attivazione e arrivo al carico sub-massimale dopo un buon riscaldamento, di conseguenza ci si arriva sicuramente attivi e riscaldati diminuendo anche il rischio di infortuni. Quindi quale scegliere?
Tutti e due, ciclizzandoli tra loro. Vediamone un esempio:

Siamo partiti con un piramidale lineare, nel corso delle settimana il  volume di abbassa dando sempre più spazio al carico, arrivati al picco minimo si scarica e allo step successivo in una eventuale fase si passa a quello inverso.
Anche in questo caso si parte con una range di rip medio alto cosi si ha il tempo di abituarsi e poi si scende fino al picco della settimana 4 con le 3 ripetizioni.

BUFFER A CARICO FISSO:

Metodica molto usata nel powerlifting.
Il vantaggio di questa tecniche è che lavorando in buffer ci si permette comunque un buon aumento del carico meccanico limitando al minimo gli infortuni e sopratutto facendo curare al massimo la tecnica di esecuzione.

Nel primo mesociclo siamo partiti con un 12 rm per un 5×6 come possiamo notare almeno i primi
 3 set saranno molto blandi poi il gioco si fa più duro
Nel corso delle settimane gli RM diminuiscono andando al picco d’intensità nella settimana 4 come un 6RM.
Nel secondo mesociclo si prova il massimale e si rifanno i calcoli su esso e visto che sicuramente saranno più alti e si arriva al picco alto alla settimana 4 con il 5RM.

RAMPING

La tecnica ramping è una tecnica con dei set di avvicinamento al set target.
Ad esempio se ipoteticamente pensiamo a un ‘’ramping 8’’ faremo 3/4 serie di avvicinamento al carico e una volta che sappiamo con sicurezza che quel carico sia il nostro 8RM faremo una serie a limite (questo potrebbe essere contornato successivamente anche da un mix di tecniche come il backoff.)

Ecco un esempio di progressioni:

Settimana 1 avremo il picco sul nostro 10RM, nella settimana due lasciamo la stessa progressione  ma cercando un aumento del carico meccanico a parità di rip sulla serie target, nella settimana 3 il nostro RM si abbassa a 8 e si prova un nuovo record con più intensità.

Progressioni volume

Anche in questo caso ne troveremo tantissime ma queste sono le più semplici e funzionali

Vediamo gli esempi su come progredire

AUMENTO DEI SET

La più semplice di tutte, ogni settimana nei vari esercizi aumenteremo un set, e quando i set diventano troppi per non annoiarci inseriamo un esercizio diverso e cosi diventano 2 e cosi via..

AUMENTO DELLE RIP

Anche questa a prova di bambino ogni settimana cercando di lasciare più o meno lo stesso carico aumentiamo 1/2 rip (sicuramente non sarà possibile farlo) ma ci si spreme e ci si prova se nel primo set non si riesce si cala e si va avanti con il volume nei range stabiliti nella programmazione.

AUMENTO DELLE RIP A PARITA DI CARICO

Questa è una tecnica molto intensa perché di base vediamo aumentare solo il parametro volume mentre nel corso nelle settimana anche l’intensità resta alta e densità aumenta

Ecco un esempio di progressione:

Come vediamo nella settimana 1 abbiamo un RM fisso da tenere per un numero target di rip da raggiungere.
Quindi in questo caso abbiamo un 8 RM e lo scopo sarà quello d’impiegare meno tempo possibile per eseguire in rest pausa 40 rip tenendo sempre il carico fisso.
La settimana sempre con lo stesso carico si fa lo stesso (cercando di aumentare il nostro record) ma con 45 rip e cosi via nel corso delle settimana dopo .

Nel secondo mesociclo invece si passa al 10rm (quindi meno intensità di carico) ma più volume infatti partiamo da 50 rip e chiudiamo a 65 rip visto che le ripetizioni si aumentano sempre 5 a settimana


Progressioni stress metabolico

Anche in questo caso partiamo dalle progressioni più semplici. Quelle progressioni che molte volte si snobbano ma che ci permettono di rendere i nostri programmi semplici, alla portata di tutti e molte volte essere più funzionali di tante variazioni inutili che molti inseriscono.

AUMENTO DEL TEMPO SOTTO TENSIONE:

Ne esistono di vari tipi ma eccone alcuni:
Picco di contrazione
Tecniche una rip e mezza
Super slow
Tecniche tripla contrazione

Progredire è molto semplice, scegliamo la tecnica che vogliamo utilizzare, calcoliamo il tempo sotto tensione per ogni rip e lo aumentiamo o integriamo con altre tecniche in modo tale che nel tempo aumenta .
Ad esempio prima settimana

Ogni rip con la tecnica picco di contrazione a 2 sec
Seconda settimana a 3 sec
Settimana 3 sappiamo con la scorsa settimana abbiamo impiegato 5 sec a rip inseriamo invece la tecnica una rip e mezza facendo in modo da la rip totale sia almeno 6/7 sec e cosi via…

PROGRESSIONE TECNICHE DI DENSITA’

Anche in questo caso creiamo progressioni sul ridurre il tempo di recupero tra il totale degli esercizi del gruppo muscolare

Ad esempio
Settimana 1 tutto in super set
Settimana 2 si accorpano meglio gli esercizi e si passa in triset
Settimana 3 si passa in un giant set da 4 esercizi
Settimana 4 tutto a circuito con 5/6 esercizi e cosi via …

Nel corso delle settimane quindi avremo un lavoro localizzato sempre molto alto, nello stesso tempo il parametro densità prenderà sempre più piede e la soluzione di non segnare in scheda un solo esercizio da 50 rip è molto utile a livello mentale per molti perché cambiando sempre esercizi (magari ogni 10 rip) caricheranno di più e si spremeranno meglio.

DIMINUZIONE DEL TEMPO DI RECUPERO

Penso che non ci sia tanto da spiegare, semplicemente riducete il tempo di recupero più o meno di 20 sec a step man mano che volete progredire.

Ad esempio:

  • Settimana 1: 1’
  • Settimana 2: 40”
  • Settimana 3: 20″

Insomma divertitevi a variare CERCANDO di tenere i carichi e il volume sempre e comunque uguale a quello della settimana precedente.

Non sono pazzo a dire questo lo so che non è sempre possibile farlo ma voi provateci, uscite dalla vostra zona confort e date il massimo e anche se non riusciste almeno avrete provato e vi assicuro che in caso contrario il risultato allo specchio ripagherà.

Bene qui finisce tutto, dopo averlo letto per la prima volta, magari guardate anche tutti i miei 4 video messi a disposizione sul canale YouTube prendete carta e penna e iniziate a buttare giù il piano.

Iniziate e non fermatevi mai di farlo, siate costanti, mangiate quello che vi serve, programmate come da guida e PROGREDITE poi dopo un anno o anche un anno e mezzo guardatevi allo specchio, prendete una vostra foto e confrontatelo con quella di adesso prima di iniziare a programmare bene e ne resterete stupiti non perchè questo sarà un miracolo della natura o perchè avere usato la pozione magica di obelix ma perchè avete fatto il vostro lavoro in modo efficiente tutti i giorni e come la goccia scava la roccia voi avere scavato il vostro corpo e lo avete costruito nel tempo.

Spero vi sia piaciuto e che possa darvi una mano a migliorare, come atleti e come trainer.
Metodi per programmare ne abbiamo tantissimi ma ne ho voluto spiegare una versione semplificata per renderla accessibile a tutti.

Se volete ulteriori approfondimenti vi ricordo il mio libro project BB e inoltre vi lascio i miei canali dove potete seguirmi, guardare i post per prendere spunti o vedere insieme e nuovi progetti magari condividendone qualcuno insieme.

Note dell’autore

Sito internet: www.bodyrecomp.it

Facebook: Fabrizio Liparoti

Instagram: fabrizio_liparoti

Mail: fabrizioliparotipt@gmail.com

Praticamente basta che scrivete Fabrizio Liparoti ed esco fuori ovunque ahahaha 🙂

Buona Body Recomp Fabrizio Liparoti

L'articolo Guida alla programmazione di allenamento proviene da Project inVictus.

Paleo dieta: vantaggi e svantaggi

$
0
0

paleo dieta

Per andare avanti a volte bisogna guardarsi indietro, è forse questo il messaggio alla base della paleo dieta? La dieta paleontologica ha o può avere oggi una sua utilità? E per chi? Per chi fa la spesa al supermercato e non rinuncia al prodotto ultraprocessato confezionato? Per lo sportivo? Per chi va in palestra? Per chi ha precisi obbiettivi estetici e fa bodybuilding? Per chi vive di merendine ai distributori automatici?

Per saperlo, non resta che scoprire cos’è e in cosa consiste questo stile alimentare: alla fine potrai farti un’idea e decidere se diventare un fervente paleo o se ritenere l’abbandono della dieta paleo grazie ai secoli di evoluzione un passo avanti per l’umanità.

Che cos’è la paleo dieta? In cosa consiste? Significato

La paleo dieta nasce con la proposta di un ritorno alle abitudini alimentari che avevano le popolazioni prima della scoperta dell’agricoltura, quindi circa 10.000 anni fa e nel periodo storico definito “paleolitico” da cui prende il nome.

È chiaro che tra l’uomo del paleolitico e quello moderno esistono differenze abissali, perciò questo approccio è più valido da un punto di vista teorico che pratico: l’evoluzione ha avuto il suo corso. Evoluzione che, però, ha anche comportato ai giorni nostri la tendenza a consumare cibi di basso valore nutrizionale, ricchi di grassi saturi e trans, di zuccheri e molto calorici – cibi che dal punto di vista della dieta paleo sono definiti “infiammatori”.

Da qui nasce la dieta paleo: un ritorno a cibi più “naturali” e meno lavorati potrebbe essere un aiuto per l’uomo moderno per evitare certe patologie (come ad esempio l’aumento del colesterolo, l’obesità e ciò che consegue) legate ad un’alimentazione ricca di cibi infiammatori.

La dieta paleontologica non ha una percentuale fissa di macronutrienti, anche se c’è chi ha inventato la paleozona. Questa dieta propone di mangiare solo cibi che erano presenti nel paleolitico, senza limiti di quantità se non contando sulla sazietà: carne, pesce, frutta e verdura sono i protagonisti. Che questi prodotti non siano dipendenti dalla lavorazione umana e che possano anche essere mangiati crudi non sono elementi da trascurare per essere un vero paleo.

Benefici e vantaggi della dieta paleo: funziona?

Se una volta l’uomo preistorico si muoveva molto e mangiava alimenti a bassa densità energetica, oggi in città l’uomo sta fermo e mangia cibi, di solito, molto calorici. Se l’uomo preistorico ora correva per procacciarsi il cibo, oggi tu, forse, stai leggendo questo articolo sgranocchiando qualche snack sul divano o aspettando (sempre seduto) la pizza per cena.

La dieta paleo è in generale un buon modo per mangiare, dato che c’è un occhio di riguardo per la qualità dei cibi. Se l’obbiettivo per seguire la dieta paleo è la salute, puoi prendere come parametri:

  • Essere magri e non avere grandi masse di grasso in eccesso (causa di patologie)
  • Avere gli esami ematici perfetti
  • Avere una buona massa cellulare (BCM)
  • Essere idratati (buon rapporto ECW/ICW)
  • Non essere soggetti frequentemente a influenze e raffreddori

Se tutti e 5 questi punti sono rispettati, sei in salute! La dieta paleo, se seguita, può contribuire grazie alle sue proposte alimentari, a raggiungerli – così come potrebbe fare una qualsiasi altra dieta finalizzata a questi obbiettivi: un aspetto che può sembrare scontato ma che è sempre importante precisare e ricordare.

Paleo dieta per dimagrire: quanto si dimagrisce con la dieta paleo? Quanti kg puoi perdere?

effetti alimentazione moderna

La dieta paleo per dimagrire è la paleo ipocalorica: è vero che non sono previsti limiti di quantità, ma se mangi di più di quanto ti serve sicuramente non dimagrirai. In generale, però, la dieta paleo può essere una buona opzione per uno stile alimentare dimagrante, in quanto prevede il consumo di cibi proteici e frutta e verdura che sono alimenti acquosi e ricchi di fibre: entrambi elementi che favoriscono la sazietà e, quindi, potenzialmente, il successo di una perdita di peso.

Seguire la dieta paleo alla lettera non fa intrinsecamente dimagrire: tutte le diete possono far calare il peso così come tutte lo possono far mantenere o aumentare. Il bilancio calorico fa sempre da padrone, anche con la paleo. Quello che può fare la differenza è l’approccio: una dieta che permette di mangiare a sazietà e che include cibi grassi e zuccherosi farà sicuramente dimagrire con più difficoltà rispetto ad un’altra che li elimina – e, per caso, esistono solo diete che vietano gli alimenti più calorici.

Per questo, la dieta paleontologica che prevede il consumo di proteine e fibra vietando alimenti industriali (quasi sempre molto densamente energetici) ha il suo perché per perdere peso – molte diete si basano su questo stesso principio anche se fondano la scelta di alimenti concessi e vietati su altre motivazioni.

Il numero di chili persi dipenderà dal deficit calorico instaurato: più sarà marcato e più rapidamente li perderai. Ma una discesa non drastica è sempre la più adatta per perseguire obbiettivi a lungo termine e per poi mantenerli.

Controindicazioni della paleo dieta: è pericolosa?

La dieta paleo non ha particolari controindicazioni per chi è “in fisiologia” e sta bene. Essendo fondamentalmente una dieta iperproteica, è da prestare attenzione nel caso in cui il soggetto soffra di patologie renali.

Dato che bisogna sempre contestualizzare, bisogna però considerare come, alla fine dei conti, i carboidrati siano molto limitati, se non per quelli (pochi) che ci sono nelle verdure e nella frutta fresca: per uno sportivo che necessita di più energie è consigliato l’inserire almeno in un pasto una fonte di manioca, batata, radici amare, yucca, rape,… in modo da sia rispettare la dieta paleo e che avere un po’ di ricarica glucidica per l’allenamento.

Cosa mangiare nella dieta paleo? Quali alimenti?

Se hai un dubbio, se ti chiedi se puoi mangiare un alimento o meno, basta rispondere alla domanda: per mangiarlo non c’è bisogno della lavorazione dell’uomo? Lo puoi mangiare crudo?
Se la risposta è sì è paleo!

In realtà, diversi alimenti aumentano la loro biodisponibilità quando li cuoci, quindi non fare l’errore di cadere nel crudismo, che è una pratica alimentare non più adatta all’uomo moderno. Il nostro apparato digerente non è più come quello dell’uomo preistorico prima della scoperta del fuoco.

Gli alimenti che fanno parte della dieta paleo sono:

  • Carne, specialmente selvaggina
  • Pollame
  • Pesce
  • Frutta
  • Frutta secca oleosa
  • Verdure
  • Miele

Tutti gli altri, invece, sono proibiti: niente cereali, legumi, sale, oli vegetali raffinati, zucchero e prodotti con zucchero, prodotti caseari, caffè, alcol.

Esempio di menù della dieta paleo

alimenti paleo

A seconda di che alimentazione paleo vuoi seguire, puoi scegliere alimenti più o meno elaborati: c’è anche chi fa la pasta o la pizza con la farina di castagne che è “paleo”, chi fa lo yogurt di cocco, … Insomma, molti cercano di replicare l’alimentazione moderna con ingredienti paleolitici. Per altri fruitori della dieta, invece, gli alimenti vanno mangiati semplici, senza alterare il gusto ma tornando ad apprezzare il sapore originale e semplice del cibo.

Puoi mangiare a volontà, non condire (almeno eccessivamente) il cibo e gli unici alimenti da limitare sono la frutta secca – che, guarda caso, è la più calorica.

Colazione paleo

  • 2 frutti
  • Uova
  • Frutta secca

Alcuni aggiungono del kefir o dello yogurt greco, anche se non sono realmente paleo, ma a seconda di quanto la dieta vuole essere estrema, in alcune varianti sono ammesse.

Spuntini paleo

Pranzo e cena paleo

  • Patate americane o altri tuberi senza solanina (manioca per esempio)
  • Carne
  • Pesce
  • Frattaglie
  • Verdure a volontà

Conclusioni sulla dieta paleo: critiche e benefici

paleo dieta aborigeni

La paleo dieta è un approccio interessante all’alimentazione perchè ricorda che “Naturalia non sunt turpia”.

La paleodieta può (!) portare un miglioramento della propria composizione corporea e dei propri esami ematici, senza soffrire la fame. L’approccio dev’essere scientifico e non fanatico.

Un punto, tuttavia, è doveroso sottolineare: la paleodieta (ed il dott Cordain) aggiunge al vecchio concetto di “calorie” e “nutrienti” quello di “qualità” del cibo che mangi: non si tiene conto solo di quante calorie e quanti carboidrati un alimento contiene, ma pone l’attenzione anche su quali e quanti “micronutrienti” (vitamine e minerali) ne sono contenuti.

Ti trovi bene con questo approccio alimentare ed i parametri salutistici sopra elencati migliorano? Continua con la paleodieta.
Non rinunceresti mai alla pasta, al latte ed ai legumi? Puoi vivere benissimo più di 100 anni, in salute e mangiandoli.

L'articolo Paleo dieta: vantaggi e svantaggi proviene da Project inVictus.

Dieta alcalina per ridurre l’acidità

$
0
0

dieta alcalina osteoporosi

Non può mancare nella lista delle diete anche quella che permette di cambiare l’acidità dell’organismo: la dieta alcalina nasce proprio per questo. Ci sono solo alcune domande: serve? Fa perdere peso? Funziona su tutti, dal più convinto non frequentatore della palestra e dell’attività sportiva al più determinato atleta che fa bodybuilding?

Scopri i meccanismi di regolazione dell’acidità e se l’alimentazione (quella alcalina) può davvero migliorare questo parametro.

Che cos’è la dieta alcalina? In cosa consiste?

La dieta alcalina (o alcalinizzante) è sempre più popolare: sembrerebbe che gli alimenti, a seconda della loro acidità o basicità possano influenzare la salute del corpo, in primis il metabolismo dell’osso, causando o prevenendo l’osteoporosi, che indebolisce la struttura ossea. “Sembrerebbe” a parte, nessuno studio con forte valenza scientifica ha mai dimostrato che questa dieta abbia effettivi benefici grazie al controllo dell’acidità.

Infatti, non ci sono modi tramite l’alimentazione per farla variare: la più o meno marcata acidità così come la temperatura corporea o la glicemia è un meccanismo regolato in modo automatico dall’organismo. Se in acuto e in fisiologia l’acidità corporea subisce una (minima) alterazione, il corpo è programmato per ripristinare i livelli ottimali in modo da non inficiare sulla sua funzionalità, dato che questo sistema è altamente regolato: è difficile uscire dai range fisiologici.

Questa dieta, ad ogni modo, suggerisce di consumare cibi alcalini (non acidi) in modo da non acidificare l’organismo, in particolar modo le cellule, le urine o il sangue. In realtà, la condizione di acidosi avviene solo in contesti patologici, ad esempio negli stadi più avanzati del diabete.

Come funziona e a cosa serve la dieta alcalina?

Non si può parlare di dieta alcalina senza parlare di pH, anche se non è scopo di questo articolo spiegare l’equilibrio acido base perché è davvero un argomento molto articolato. Il pH è il parametro con cui viene misurata la più o meno acidità: ad un pH basso corrisponde una maggior acidità, mentre ad un pH alto corrisponde una maggior alcalinità (o basicità).

Una dieta alcalina NON cambia il pH sistemico, se non minimamente; anzi, così minimamente che il cambiamento è più piccolo dell’errore di misurazione possibile. Una dieta alcalina, altera semplicemente il pH urinario – il che è normale, anzi, banale, visto che ciò significa semplicemente che il rene compie il suo lavoro.

Nei soggetti sani, infatti, ci sono dei sistemi tampone che hanno la funzione di ristabilire sempre il pH ottimale per l’organismo: anche cambiamenti molto minimi potrebbero rivelarsi deleteri per la funzionalità cellulare.

Benefici e vantaggi della dieta alcalina: fa dimagrire?

La dieta alcalina propone di portare benefici alla salute, di prevenire gravi patologie e di curare il cancro. Forse anche dimagrire? Per quanto riguarda il perdere peso, non può mancare neanche per la dieta alcalina il deficit calorico: no deficit no chili persi – anche se non è il motto di nessuna dieta, è il principio “nascosto” alla base di tutte le proposte di strategie dimagranti.

La dieta alcalinizzante non nasce come dieta dimagrante, ma comunque è possibile perdere peso con questo approccio perché gli alimenti che comprende sono in generale poco densamente calorici e sazianti in quanto ricchi di acqua e di fibra alimentare (es. frutta e verdura).

Per riuscire a dimagrire anche con la dieta alcalina, è essenziale che sia ipocalorica: in questo articolo trovi delle informazioni in più a riguardo!

Controindicazioni

La controindicazione della dieta alcalina è la stessa di molte altre diete che eliminano determinate categorie di alimenti: il rischio di carenze nutrizionali. Togliere certi alimenti dalla dieta da una parte può essere una strategia utile (ad esempio per mangiare di meno quando vuoi perdere peso), ma dall’altra non ti fa assumere tutti i nutrienti come invece una dieta varia e completa.

In questo caso, con sostanzialmente l’esclusione degli alimenti di origine animale, vengono meno le proteine ad alto valore biologico e la vitamina B12. Con un po’ di attenzione è comunque possibile trovare un’alternativa alle proteine animali, ad esempio incrementando la quota proteica che verrà ricavata solo dai vegetali.

Il vero rischio della dieta alcalina è la dieta in sé: è proposta come metodo che funziona per guarire da alcune patologie (come l’osteoporosi o il cancro) grazie all’influenza sul pH, quando in realtà non è così per quanto affermato precedentemente.

Inoltre, così come a livello patologico esiste l’acidosi, c’è anche il suo opposto: l’alcalosi. Anche per quest’ultima valgono gli stessi principi, perciò una dieta ricca di alimenti alcalini non è in grado di portare ad alcalosi.

Cibi consentiti da mangiare nella dieta alcalina

latte dieta alcalina osteoporosi

La dieta alcalina propone il consumo di cibi alcalinizzanti come verdure, frutta, legumi, frutta secca. Sono esclusi quelli che hanno un pH più basso (quindi più acidi) come carne, pesce, latticini.

Sostanzialmente per molti aspetti si riconduce ad un’alimentazione di tipo vegetariano anche se con un motivo di fondo differente: è una dieta povera di proteine animali e ricca di fonti vegetali.

Cibi consentiti Cibi da evitare
Verdure Carne
Frutta fresca Pesce
Legumi Latte e latticini
Frutta secca Alcolici, bevande gassate

Esempio di dieta alcalina

Per capire meglio cosa puoi inserire nella tua alimentazione una volta deciso di aderire alla dieta alcalina, qui trovi alcuni esempi. Non sono indicate le quantità, perché ognuno ha esigenze diverse e sarebbe fuorviante fornire delle dosi uguali per tutti.

Colazione

  • Frutta fresca
  • Centrifugato di verdure
  • Una manciata di frutta secca
  • Tè con miele
  • Spremuta

Pranzo e cena

frutta e verdura

  • Insalatona di verdure miste
  • Miglio con zucchine e contorno di verdure crude
  • Minestra di legumi
  • Quinoa con ceci e verdure
  • Passata di patate e carote

Dieta alcalina, palestra e bodybuilding

L’allenamento può acidificare l’organismo! Detto così sembra qualcosa di allarmante, ma forse le parole “acido lattico” ti fanno tornare tranquillo. L’acido lattico, come dice il nome e senza grandi deduzioni, è acido: questa sostanza viene prodotta durante sforzi muscolari anaerobici lattacidi che sfruttano il metabolismo del glucosio in assenza di ossigeno.

È chiaro che la sua presenza abbassa il pH, ma l’organismo è pronto grazie ai suoi sistemi tampone a ripristinare le condizioni ottimali: l’acido lattico in poco tempo viene smaltito e rimosso dal torrente ematico! Perciò anche nell’ambito della palestra la dieta alcalina non riesce a trovare una sua utilità correlata al ripristino dell’acidità dato che i processi fisiologici agiscono in modo automatico e gli alimenti non contribuiscono in nessun modo.

Dal punto di vista nutrizionale, la dieta alcalina risulta povera di proteine animali. Per chi ci tiene alla sua massa muscolare, da aumentare o mantenere, è indispensabile un intake proteico adeguato e completo di tutti gli amminoacidi, soprattutto quelli essenziali che derivano esclusivamente dalla dieta.

È vero che le proteine animali sono più complete e con uno spettro amminoacidico migliore rispetto a quelle vegetali, ma è ugualmente vero che con una dieta varia e con una quota maggiore di proteine (sempre vegetali) nella propria alimentazione sopperiscono a questa mancanza.

Dieta alcalina e osteoporosi

cibi acidi osteoporosi

Affermare che la dieta abbia un ruolo importante in tutti gli aspetti della vita dell’individuo è scontato e il metabolismo dell’osso non fa eccezione. Sfortunatamente è sempre più facile imbattersi, più o meno ovunque, in informazioni non del tutto corrette. Considera, inoltre, che nell’ambiente del fitness e dell’alimentazione la componente “marketing” è piuttosto pervasiva e non sempre ricavata da evidenza scientifiche di buona qualità

Una dieta iperproteica “cura” l’osteoporosi? In realtà, sebbene vi siano sono studi epidemiologici che individuerebbero una certa correlazione positiva tra massa ossea e intake proteico, questo aspetto va contestualizzato (ricorda: correlation doesn’t imply causation!).

L’osteoporosi primaria (quindi postemenopausale-senile) è una malattia tendenzialmente dell’anziano. Tale popolazione è esposta, ad esempio, ad un elevato rischio di sarcopenia e malnutrizione (interessante è, a questo proposito, la cosiddetta “obesità sarcopenica”).

Una dieta con un buon contenuto proteico è un fattore protettivo nei confronti di tale problematica e tendenzialmente si accompagna anche ad un decente apporto calorico. Prevenire la sarcopenia permette di mantenere dei migliori livelli di funzionalità muscloscheletrica che a loro volta sono protettivi nei confronti dell’osso, così come un introito calorico adeguato. Va da sé che il nesso causa-effetto non è così automatico, come spesso accade in medicina.

Conclusioni sulla dieta alcalina: critiche e benefici

In conclusione, seguire la dieta alcalina non fa male alla salute e può essere paragonata ad una dieta vegetariana, a patto che venga posta attenzione sia alla quantità che alla qualità degli alimenti scelti in modo da non andare incontro ad eventuali carenze.

L’importante, se scegli di seguirla, è essere consapevole che non ha nessuna influenza sul modificare l’acidità dell’organismo o sul prevenire le patologie. Il corpo viene mantenuto sempre (a meno che di patologia) nei range ottimali per funzionare, valori di pH inclusi.

Bibliografia

  • Heaney RP, Rafferty K. Carbonated beverages and urinary calcium excretion. Am J Clin Nutr. 2001 Sep;74(3):343–7.
  • Principi di biochimica di Lehninger, Nelson & Cox.
  • Spence LA, Lipscomb ER, Cadogan J, Martin B, Wastney ME, Peacock M, et al. The effect of soy protein and soy isoflavones on calcium metabolism in postmenopausal women: a randomized crossover study. Am J Clin Nutr. 2005 Apr;81(4):916–22.
  • Tang BMP, Eslick GD, Nowson C, Smith C, Bensoussan A. Use of calcium or calcium in combination with vitamin D supplementation to prevent fractures and bone loss in people aged 50 years and older: a meta-analysis. Lancet Lond Engl. 2007 Aug 25;370(9588):657–66.
  • Buclin T, Cosma M, Appenzeller M, Jacquet AF, Décosterd LA, Biollaz J, et al. Diet acids and alkalis influence calcium retention in bone. Osteoporos Int J Establ Result Coop Eur Found Osteoporos Natl Osteoporos Found USA. 2001;12(6):493–9.
  • Linee guida SIOMMS 2012 http://www.siommms.it/index.php?option=com_content&view=article&id=93&Itemid=71
  • Allen LH, Oddoye EA, Margen S. Protein-induced hypercalciuria: a longer term study. Am J Clin Nutr. 1979;32(4):741–9. Epub 1979/04/01.
  • Cao JJ, Johnson LK, Hunt JR. A diet high in meat protein and potential renal acid load increases fractional calcium absorption and urinary calcium excretion without affecting markers of bone resorption or formation in postmenopausal women. J Nutr. 2011;141 (3):391–7. Epub 2011/01/21.
  • Fenton TR, Tough SC, Lyon AW, Eliasziw M, Hanley DA. Causal assessment of dietary acid load and bone disease: a systematic review & meta-analysis applying Hill’s epidemiologic criteria for causality. Nutr J. 2011;10:41. Epub 2011/05/03
  • Promislow JH, Goodman-Gruen D, Slymen DJ, Barrett-Connor E. Protein consumption and bone mineral density in the elderly: the Rancho Bernardo Study. Am J Epidemiol. 2002;155(7):636– Epub 2002/03/27.
  • Bredella MA, Torriani M, Ghomi RH, Thomas BJ, Brick DJ, Gerweck AV, et al. Determinants of bone mineral density in obese premenopausal women. Bone. 2011;48(4):748– Epub 2011/01/05.
  • Caporaso F, Frisch F, Sumida KD. Compromised bone health in non-obese, older women with low caloric intake. J Community Health. 2011;36(4):559– Epub 2010/11/26.

Co-autore: dott. Angelo Fassio.
Lavora presso il reparto di reumatologia a Verona. Centro studi e punto di riferimento per l’osteoporosi.

L'articolo Dieta alcalina per ridurre l’acidità proviene da Project inVictus.

Lesione cuffia dei rotatori: cause, sintomi ed esercizi

$
0
0

La lesione della cuffia dei rotatori è una delle problematiche più frequenti che colpiscono l’articolazione della spalla. Tale evento può colpire sia sedentari che sportivi, e può manifestarsi con spettri di gravità differenti e in seguito a cause di varia natura. In questo articolo impariamo a conoscere meglio questa condizione patologica così comune, ponendo solide basi teoriche per comprendere a fondo quali possano essere le strategie di trattamento in vista della guarigione.

Cos’è la lesione della cuffia dei rotatori?

Per comprendere cosa sia una lesione della cuffia dei rotatori è bene aver chiarito in primis cosa si intende per “cuffia dei rotatori”. La cuffia dei rotatori è un complesso anatomico composto da quattro muscoli distinti, i quali, all’interno di un’articolazione molto più mobile che stabile, svolgono un ruolo fondamentale nel garantire compattezza tra le superfici articolari e funzionalità al movimento.

Secondo la letteratura la cuffia dei rotatori è un insieme di quattro muscoli:

  • Sovraspinato, un abduttore ed extrarotatore secondario dell’omero, (statisticamente il tendine della cuffia dei rotatori in assoluto più lesionato)
  • Infraspinato (o Sottospinato), un extrarotatore dell’omero
  • Piccolo rotondo, un extrarotatore dell’omero
  • Sottoscapolare, un intrarotatore dell’omero
Cuffia dei rotatori
Da sinistra verso destra: muscoli sottoscapolare, piccolo rotondo, infraspinato, sovraspinato

Un ulteriore muscolo può di diritto essere considerato appartenente a questo complesso anatomico se ne analizziamo decorso e funzionalità. Stiamo parlando del capo lungo del bicipite che, originando dalla fossa sovraglenoidea della scapola e passando all’interno del solco intratubercolare, abbraccia letteralmente la testa dell’omero, contribuendo a stabilizzarla nella glena della scapola attraverso la sua contrazione nei movimenti articolari.

Bicipite brachiale
Muscolo bicipite brachiale (capo breve a sinistra, capo lungo a destra)

I tendini dei muscoli appena citati, a seguito di traumi o ripetuti stress esterni che superano le attuali capacità di carico tendinee, possono andare in contro a lesioni tissutali. Tutti i tendini dei muscoli della spalla facenti parte della cuffia dei rotatori possono andare incontro a lesione in risposta a stress lesivi sia nel breve che nel lungo periodo, ma tra tutti il sovraspinato è il muscolo in assoluto più colpito.

Muscolo sovraspinato

In letteratura sono state proposte diverse classificazioni riguardo alle lesioni della cuffia dei rotatori, che ne suddividono le tipologie in base al meccanismo lesivo (con trauma o in assenza di trauma), al numero di tendini coinvolti, o alle dimensioni del danno tissutale.

Comunemente queste sono classificate prendendo in considerazione la vastità della lesione stessa. Questa infatti può essere:

  • Parziale, quando solo una parte di un tendine va incontro a un danno e la sua continuità anatomica viene preservata.
  • Massiva (detta anche “totale” o “a tutto spessore”), quando vi è la perdita di continuità di uno o più tendini.

Alcune classificazioni considerano una lesione massiva di cuffia come un danno tissutale di almeno 5 cm sia sul piano antero-posteriore che su quello medio-laterale, mentre altre propongono una classificazione basata sul numero di tendini coinvolti, identificando 5 pattern lesionali (dal tipo A al tipo E) e suggerendo che sia necessaria una lesione completa del sottoscapolare o di almeno tre muscoli della cuffia per causare un marcato deficit funzionale della spalla.

Col passare del tempo, lesioni di piccole dimensioni possono ingrandirsi e determinare un aumento della sintomatologia e una diminuzione della funzionalità dell’arto.

La lesione della cuffia dei rotatori può inoltre essere di tipo traumatico, quando associata un evento preciso, che può essere il sollevamento di un sovraccarico eccessivo o un incidente con associate problematiche come la lussazione di spalla o di clavicola, oppure di tipo degenerativo (più frequente), quando il tendine va incontro a lesione in conseguenza di un periodo più o meno prolungato di alterata funzionalità tendinea dovuta spesso a carichi mal dosati che portano i tessuti tendinei a degenerarsi, indebolirsi e inevitabilmente a lesionarsi. Ad oggi non esiste tuttavia un consenso su quale sistema di classificazione sia più adeguato.

Lesioni cuffia dei rotatori: quanto sono diffuse?

Le lesioni della cuffia rappresentano una delle principali cause di disabilità a livello della spalla, la cui prevalenza aumenta col progredire dell’età, superando il 50% dopo i 60 anni, e l’80% dopo gli 80 anni (in quest’ultimo caso, inoltre, nella metà dei casi parliamo di lesioni massive).

Negli anziani circa il 70% dei dolori di spalla è dovuto a problematiche di cuffia mentre l’incidenza è relativamente bassa prima dei 40 anni, infatti anche importanti traumi di spalla in soggetti giovani e in salute sembrano produrre maggiormente lesioni legamentose e fratture piuttosto che lesioni di cuffia.

Sintomi lesione cuffia dei rotatori

La sintomatologia provocata dalle queste lesioni è molto variabile: alcuni individui riferiscono solo un lieve dolore senza alcun tipo di deficit funzionale, altri provano forte dolore, debolezza e disabilità importante.

Nei casi più gravi di lesione della cuffia dei rotatori abbiamo perdita di forza e limitazione cospicua delle attività di vita quotidiana svolte con l’arto superiore. In letteratura non è ancora chiaro se vi sia una correlazione tra le dimensioni della lesione e la presenza e intensità dei sintomi, in quando sono emersi risultati contrastanti in diversi studi.

Dolore di spalla

Generalmente il dolore in questi casi è sordo e ben localizzato anteriormente o posteriormente alla spalla, e associato al movimento. Tra i movimenti che più spesso generano dolore abbiamo l’abduzione e la flessione, con l’omero portato sopra la testa, l’estensione (mentre per esempio si indossa un cappotto), o l’adduzione orizzontale.

Esiste tuttavia un’alta percentuale di soggetti che, nonostante presentino lesioni tendinee visibili alla RM, risultano asintomatici, a conferma dell’elevata capacità di adattamento delle strutture della spalla.

Cause della lesione alla cuffia dei rotatori

L’origine delle lesioni tendinee della cuffia dei rotatori può essere acuta o cronica/degenerativa.

Cause traumatiche

Il quadro acuto rappresenta spesso la diretta conseguenza di un meccanismo traumatico, è più frequente nei giovani e porta spesso ad una perdita di funzionalità immediata. Traumi dei questo tipo possono essere rappresentati, per esempio, da una lussazione di spalla, nella quale la fuoriuscita della testa dell’omero dalla glena della scapola può comportare una lacerazione dei tendini posti nelle vicinanze delle superfici articolari. Inoltre, anche il sollevamento di un carico eccessivo senza un adeguato riscaldamento e in assenza di strutture anatomiche preparate può comportare una lesione della cuffia dei rotatori.

Cause degenerative

Insorgenze croniche degenerative, tendono ad affliggere maggiormente gli anziani o soggetti con storia di ripetute attività overhead. In questo caso la sintomatologia insorge gradualmente, è più blanda ed insidiosa e la perdita di funzione è meno marcata.

La degenerazione della cuffia è spesso secondaria a un sovraccarico tendineo, dove i tendini vengono sottoposti ripetutamente a stress più elevati rispetto alle proprie capacità di carico (dovuti per esempio a lavori pesanti o allenamenti mal programmati) andando incontro a processi degenerativi tissutali basati su uno stato degenerativo cronico che alla lunga indebolisce ed altera la matrice tendinea, rendendola più soggetta a lesioni.

Tendinopatie

Altro fattore molto importante in questo contesto è il fisiologico processo di invecchiamento (con l’avanzare dell’età, infatti, i tessuti tendinei diventano più deboli e suscettibili agli stress esterni). In alcuni casi le lesioni possono essere la conseguenza di processi tendinopatici in fase avanzata.

Un deficit cronico della cuffia dei rotatori può essere inoltre associato ad infiltrazione di tessuto adiposo nel tessuto, atrofia dei muscoli coinvolti ed instabilità gleno-omerale dovuta a migrazione superiore della testa dell’omero. La patogenesi nelle rotture degenerative è quindi multifattoriale e l’invecchiamento è probabilmente il fattore più importante; sono stati tuttavia identificati diversi  altri fattori di rischio tra cui:

  • Fumo
  • Ipercolesterolemia,
  • Ipovascolarizzazione tendinea
  • Fattori alimentari
  • Fattori anatomici (morfologia articolare)
  • Fattori genetici

In uno studio è stato riportato che più del 70% delle lesioni si verificano in persone sedentarie che non svolgono lavori pesanti. La maggior parte di queste lesioni non guarisce totalmente a livello tissutale, ma nonostante ciò i sintomi tendono spesso a regredire dopo qualche mese, e nella maggioranza dei casi è possibile raggiungere (attraverso un adeguato trattamento) una buona funzionalità della spalla in assenza di sintomi, o con sintomatologia lieve.

Diagnosi e test per le lesioni della cuffia dei rotatori

Le indagini strumentali come l’ecografia la risonanza magnetica e le radiografie possono servire a confermare il sospetto clinico di lesione della cuffia dei rotatori e ad escludere altre cause di sintomatologia alla spalla.

Fondamentale sarà inoltre la valutazione e diagnosi clinica basata sulla storia e anamnesi del soggetto, e su diversi “test ortopedici”. Nonostante l’affidabilità di tali test sia stata messa in forte discussione dalla recente letteratura, un loro utilizzo razionale e contestualizzato può rappresentare un’importanza strumento diagnostico. Alcuni dei test che possono essere utili in questo senso sono i seguenti:

  • Segno dello Shrug
  • Lateral jobe
  • External Rotation Lag Sign
  • Belly press
  • Bear Hug
  • Drop Arm Sign

test cuffia

Se sono presenti questi 4 fattori simultaneamente, inoltre, vi è una probabilità superiore al 90% di avere una lesione massiva della cuffia dei rotatori.

  • Avere più di 60 anni di età
  • Dolore e/o debolezza alla rotazione esterna di spalla contro resistenza
  • Presenza di arco doloroso (tra i 60°/70° e i 120° di abduzione di spalla)
  • Drop Arm Sign positivo

Riguardo agli esami strumentali diagnostici è fondamentale sottolineare come la letteratura riporti tendenzialmente una scarsa correlazione tra l’intensità del dolore e la patologia tendinea.

In parole semplici, questo significa che non sempre un “brutto” quadro ecografico con tendini molto degenerati può essere correlato ad un dolore severo e che, viceversa, talvolta un quadro tendineo buono o privo di alterazioni importanti può comportare comunque un dolore maggiore.

Inoltre, come per altre regioni anatomiche, anche qui vi è un’alta presenza di alterazioni tendinee nei soggetti privi di dolore. Lesioni atraumatiche (assenza di trauma) dei muscoli della cuffia sono pertanto riscontri molto frequenti negli esami diagnostici, e vengono spesso malinterpretati, generando ansia e preoccupazioni prive di fondamento.

Chi legge di avere una rottura del sovraspinato, infatti, tende spesso ad immaginare questa rottura come una “corda sfilacciata”, pensando così che tale muscolo risulti ormai inutilizzabile e che il dolore rimarrà finché sarà presente questa rottura.

Grazie alla letteratura sappiamo però che (come abbiamo visto in precedenza) le strutture muscolo-tendinee della cuffia dei rotatori sono organizzate in modo da riuscire a “bypassare” lesioni dei muscoli che la compongono nella maggioranza dei casi, garantendo una ottima funzionalità della spalla anche in presenza di queste nella maggior parte dei casi. 

Lesioni cuffia

A conferma di ciò vi è il fatto che lesioni del sovraspinato e di altri muscoli della cuffia sono frequenti in individui che non presentano alcun dolore di spalla (anche in individui che praticano sport ad alti livelli). Per rendere meglio l’idea, quindi, piuttosto che immaginare una lesione del sovraspinato come una corda sfilacciata, parrebbe più sensato immaginarla come una coperta con un piccolo “foro”, che non inficia quindi sulla sua funzionalità.

Le lesioni o degenerazioni tendinee della cuffia in alcuni casi (specialmente in caso di lesioni degenerative di dimensioni ridotte) vanno considerati “segni del fisiologico invecchiamento” esattamente come il capelli bianchi o le rughe sulla pelle.

Cura e terapia per le lesioni della cuffia dei rotatori: cosa fare?

Il trattamento più opportuno per le lesioni della cuffia dei rotatori dipenderà inevitabilmente da fattori quali l’età del soggetto, il meccanismo lesivo, l’entità della lesione, il quadro funzionale, le richieste funzionali, la concomitante presenza di altre patologie ecc…

Ad oggi questa condizione può essere trattata mediante vari approcci, e il trattamento solitamente proposto è di tipo “conservativo” o “chirurgico”. Nel secondo troviamo un intervento di riparazione tendinea, mentre l’approccio conservativo è basato sull’esercizio terapeutico volto in primis al recupero funzionale dei muscoli della cuffia dei rotatori, dei muscoli periscapolari e del deltoide (così da stabilizzare l’articolazione gleno-omerale e ottimizzare la funzionalità della spalla), includendo al bisogno modifiche delle attività quotidiane finalizzate a minimizzare rischi di futuri infortuni ed eventualmente ad esercizi di stretching capsulare e mobilità attiva.

Normalmente il percorso riabilitativo si divide in tre fasi: una prima fase con enfasi sul recupero della mobilità della spalla, una seconda fase con enfasi sul rinforzo muscolare ed infine una terza finalizzata al recupero funzionale specifico della spalla.

Quale è dunque il trattamento più appropriato nella gestione delle lesioni tendinee della cuffia dei rotatori? Parliamo di un argomento molto dibattuto in letteratura. Partiamo premettendo che risultati positivi sono stati riportati sia per l’approccio conservativo che per quello chirurgico.

Negli ultimi anni si è statisticamente evidenziato un incremento di casi di pazienti sottoposti a intervento chirurgico di riparazione tendinea. Nonostante ciò, numerosi studi hanno mostrato (pur evidenziando la necessità di ulteriore letteratura a riguardo), che l’efficacia dei due approcci si può considerare pressochè sovrapponibile nella maggior parte dei casi.

Nel valutare il miglior percorso terapeutico vanno tenuti in considerazione, da un lato, i rischi intra e post-operatori connessi all’intervento chirurgico e la possibilità di fallimento dello stesso con ri-lesione del tendine suturato, e dall’altro l’eventualità di progressione della lesione in seguito al trattamento conservativo (è stato mostrato come esista una non trascurabile tendenza di alcune lesioni, in particolare di origine degenerativa, ad ingrandirsi e progredire naturalmente).

Il trattamento chirurgico ha invece mostrato risultati migliori rispetto al conservativo nei casi di lesioni traumatiche della cuffia, specialmente in soggetti giovani e attivi.

Fattori importanti da considerare riguardo alla più corretta scelta terapeutica sono anche il fatto che sembra che lesioni di dimensioni maggiori siano più soggette a fenomeni degenerativi e che questi siano correlati ad outcome post-operatori peggiori e a maggior rischio di fallimento dell’intervento chirurgico.

Inoltre, la percentuale media di ri-rottura tendinea nei 3 anni successivi all’intervento è stimata tra il 20-80%. Fattori come l’infiltrazione intramuscolare di tessuto adiposo, presente spesso in lesioni di vecchia data, rappresentano fattori prognostici negativi per la buona riuscita dell’intervento chirurgico.

Risulta dunque di fondamentale importanza identificare i fattori di rischio che predispongono al fallimento dei vari trattamenti e quantificare gli eventi avversi connessi ad entrambi gli approcci. Vista la possibilità di degenerazione della lesione e i migliori risultati della chirurgia in lesioni di tipo traumatico, la letteratura suggerisce di prendere precocemente in considerazione l’intervento chirurgico nei soggetti giovani, sintomatici, con lesioni traumatiche a tutto spessore e con alte richieste funzionali.

In tutti gli altri casi, data la apparente sovrapposizione di efficacia del trattamento conservativo e chirurgico, è consigliabile intraprendere in un primo momento l’approccio conservativo (purchè questo sia attivo e basato sul movimento e sull’esercizio progressivo) e considerare quello chirurgico solamente in un secondo momento in caso di progressione della lesione con acutizzazione della sintomatologia algica e/o importanti deficit funzionali.

Esercizi efficaci per rinforzare la cuffia dei rotatori

Abbiamo parlato di trattamento conservativo basato sull’esercizio. Analizziamo dunque alcuni esercizi che potranno essere utili in questo contesto. La premessa importante è che il grado di difficoltà ed intensità di questi esercizi deve necessariamente essere stabilito e regolato in base alle caratteristiche del soggetto e alle sue attuali capacità funzionali.

Partiamo col dire che i muscoli della cuffia dei rotatori sono attivati durante la quasi totalità degli esercizi della parte superiore del corpo, con la funzione principale di stabilizzare la testa omerale durante i vari movimenti.

In particolare, gli extrarotatori omerali (infraspinato, piccolo rotondo, fasci posteriori del sovraspinato) sono fortemente attivi nel garantire funzionalità alla spalla durante i sollevamenti dell’omero (per esempio nelle Alzate Laterali), ma anche nello stabilizzare posteriormente la testa dell’omero anche durante movimenti di spinta come i Push Up, la Panca Piana, le Alzate Frontali e il Lento Avanti.

Panca piana con manubri

Il sottoscapolare invece, è ugualmente attivo nel garantire gli importanti movimenti di scivolamento inferiore durante l’abduzione omerale, e viene coinvolto inoltre durante i movimenti di estensione di spalla, nello stabilizzare anteriormente la testa dell’omero. Tradotto nella pratica in palestra, parliamo in questo caso di esercizi di tirata come la Lat Machine, le Trazioni, il Rematore, il Pull Down e il Pulley.

Trazioni alla sbarra

Gli esercizi citati saranno quindi allenanti per la cuffia, poichè questi muscoli saranno attivi per dare stabilità e congruenza alla spalla. In questo contesto sarà importante variare il ROM e i piani di movimento al fine di allenarla al meglio e in diversi angoli. Abbiamo tuttavia la possibilità di attivare selettivamente questi muscoli attraverso esercizi più specifici.

Come allenare dunque la cuffia dei rotatori in modo selettivo? I classici esercizi specifici per la cuffia dei rotatori si dividono essenzialmente in due categorie: una mirata al rinforzo dei muscoli extrarotatori sovraspinato, infraspinato e piccolo rotondo, e una mirata al rinforzo del muscolo sottoscapolare (intrarotatore). 

Questi esercizi possono essere eseguiti senza sovraccarico o con un sovraccarico generato da manubri o da elastici. In base al livello funzionale e agli obbiettivi si potrà optare per contrazioni isometriche o per contrazioni concentriche ed eccentriche.

Esercizi per gli extrarotatori

Per quanto riguarda gli esercizi per i muscoli extrarotatori, i più famosi sono quelli che prevedono un movimento di rotazione esterna contro gravità, nei quali richiediamo un movimento di rotazione esterna dell’omero, mantenuto in asse, priva di compensi, senza quindi spostare il gomito anteriormente o posteriormente. Si potrà eseguire questi esercizi da seduto con il gomito appoggiato su un rialzo, o da prono, sempre con il gomito appoggiato. Importante sarà mantenere un movimento controllato, assicurandosi che il movimento sia una rotazione esterna pura dell’omero in assenza di compensi.

Anche mediante l’utilizzo di un elastico è possibile eseguire delle extrarotazioni contro resistenza, con l’omero posizionato in diverse posizioni. L’esecuzione più classica e conosciuta è quella eseguita con il braccio mantenuto lungo il fianco. In questo caso il consiglio è quello di stabilizzare correttamente la scapola, e di eseguire un movimento di rotazione pura, con il gomito che non si deve spostare. Per aiutarci ad evitare compensi, è possibile posizionare un asciugamano tra il busto e il gomito. Oltre a neutralizzare i compensi, sembra che tale accorgimento aumenti l’attivazione dei muscoli extrarotatori.

Sempre con l’utilizzo di un elastico, il consiglio è di variare anche l’angolo di lavoro, ossia spostarci per esempio lungo il piano frontale, posizionando il gomito sollevato in appoggio su un rialzo posto di fronte a noi, oppure di fianco a noi (seguendo in questo caso il piano sagittale). In questo modo potremmo fornire stimoli su più direzioni e piani di movimento.

Altri esercizi con elastico possono essere

  • La “camminata al muro” , che associa un movimento di flessione omerale sempre maggiore ad un mantenimento isometrico della rotazione esterna

  • Movimento di spinta unilaterale sopra la testa con associata resistenza elastica per l’attivazione degli extrarotatori. In questo caso il movimento di spinta verticale verrà associato al movimento di centraggio della testa dell’omero, eseguito dai muscoli della cuffia dei rotatori.

Esercizi per gli intrarotatori

Come rinforzare in modo selettivo i muscoli intrarotatori, ed in particolare il sottoscapolare? La letteratura scientifica ci riporta che il sottoscapolare ha un braccio di leva più favorevole (e la sua attivazione è quindi più enfatizzata) quando eseguiamo dei movimenti rotazione interna omerale, con l’omero sollevato (abdotto) di almeno 30°, per cui o sebbene anche le intrarotazioni eseguite con l’elastico col braccio lungo il fianco attivino il sottoscapolare, non sono sicuramente la variante di esercizio migliore per rinforzare il sottoscapolare.

Ci dovremmo concentrare invece su una serie di esercizi che prevedono il movimento di intrarotazione quando il gomito è sollevato, e quindi quando la spalla è abdotta. Abbiamo differenti possibilità:

  • Possiamo eseguire delle intrarotazioni con manubrio dalla posizione supina con l’omero posto a 90° di abduzione, concentrandosi sul mantenere una rotazione pura omerale, senza sollevare il gomito dal suo appoggio.

  • Un’altra variante possibile sono le intrarotazioni eseguite dalla posizione prona.

Ci sono poi degli esercizi con elastico, che possono essere eseguiti alla spalliera con il supporto di una palla per appoggiare il gomito. Dovremo in questo caso posizionarci alle spalle o di fianco a una spalliera, in modo tale che l’elastico ci porti il braccio in rotazione esterna. Da qui saremo chiamati a vincere la resistenza portando in rotazione interna la spalla, attivando così il muscolo sottoscapolare.

Per fornire stimoli differenti e ricondizionare al meglio la matrice tendinea e muscolare del sottoscapolare, il consiglio è anche in questo caso di eseguire questi esercizi in maniera alternata, variando i piani di movimento.

Un’ultima possibile variante per allenare il sottoscapolare è quella isometrica, il cosiddetto “belly press”. In piedi, con una palla posizionata sulla pancia e il gomito mantenuto all’esterno. Da qui andremo a spingere la mano contro la palla, “sprofondando” dentro di essa. In questo modo, se manteniamo il gomito fermo, avremo un movimento di rotazione interna isometrica a carico principalmente del sottoscapolare.

Lesioni della cuffia dei rotatori e palestra: cosa fare e cosa non fare?

La prima premessa da fare è che le lesioni della cuffia dei rotatori atraumatiche non rappresentano di per sé una una controindicazione assoluta all’allenamento con sovraccarichi. A tal proposito è opportuno ricordare che è stato mostrato come in soggetti sani e asintomatici siano presenti lesioni dei muscoli della cuffia dei rotatori nel 20%-50% dei soggetti, in base all’età.

In caso di lesioni della cuffia attualmente asintomatiche non c’è motivo di evitare gli allenamenti in palestra (rispettando il principio della gradualità), mentre in presenza di dolore e/o limitazione funzionale, gli allenamenti e gli esercizi dovranno essere gestiti in modo razionale e adattato al singolo caso. Alcune strategie utili in questo senso, sia in ottica preventiva che riabilitativa, sono le seguenti:

  • Rispetto delle corrette esecuzioni degli esercizi, specie negli esercizi più soggetti al dolore di spalla come la Panca Piana, il Lento Avanti e le Alzate Laterali. Dovranno essere preferite varianti con il più basso fattore di rischio possibile, e sarà fondamentale il costante mantenimento di un corretto assetto scapolare durante gli esercizi.
  • Evitamento/limitazione di linee di movimento dolorose, ricercando temporaneamente piani di movimento e ROM non dolorosi, per poi tornare gradualmente agli schemi motori originali quando il dolore sarà svanito.
  • Evitamento/limitazione di serie a cedimento e/o tecniche ad alta intensità.
  • Rispetto della gradualità nella programmazione e nella progressione dei parametri allenanti, evitando (in casi di dolore) lavori a cedimento e serie lunghe e forzate, prediligendo invece lavori con un discreto buffer.
  • Inserimento di esercizi specifici finalizzati alla correzione delle eventuali disfunzioni articolari e muscolari riscontrate con un’apposita valutazione. Rientrano in questa categoria esercizi di rinforzo/resistenza/performance muscolare (spesso necessari per i muscoli della cuffia dei rotatori e per alcuni muscoli periscapolari come il trapezio medio e inferiore o il gran dentato), esercizi di allungamento muscolare e/o capsulare, esercizi di mobilità ed esercizi di propriocezione.

Un ulteriore consiglio da seguire in questi casi sarà quello di evitare esecuzioni di esercizi che per loro natura hanno un fattore di rischio elevato per le strutture della spalla (come le alzate laterali eseguite in intrarotazione di omero, le tirate al mento eseguite superando la linea del petto e le dip o la panca piana eseguite/a senza stabilizzare le scapole) e che di conseguenza pongono stress potenzialmente lesivi a carico di quest’ultima.

Ciò non vuol dire che tali esercizi debbano essere evitati del tutto, ma solo che bisognerà curare al massimo le esecuzioni, minimizzando i fattori di rischio di infortunio. Rispettando il principio della gradualità dello stimolo allenante e eseguendo gli esercizi in maniera corretta si potranno fornire al complesso muscolare e articolare della spalla stimoli di adattamento positivi ( anche in presenza di “alterazioni strutturali”) così da rinforzarle, aumentarne la resistenza e funzionalità e diminuire la possibilità di recidive future.

L'articolo Lesione cuffia dei rotatori: cause, sintomi ed esercizi proviene da Project inVictus.


Muscolo Sartorio: anatomia, funzione ed esercizi

$
0
0

Sartorio

Sconosciuto a molti, il muscolo sartorio è il muscolo più lungo del corpo umano e prende il nome dalla tipica posizione dei sarti con le gambe accavallate, movimento che appunto richiede la sua funzione. Partendo dall’anatomia andremo a conoscere a quali azioni è deputato e in quali esercizi è coinvolto in palestra.

Anatomia del sartorio

Sartorio anatomia

Origine Inserzione Azione
Spina iliaca antero superiore Parte mediale del ginocchio, condilo della tibia Flette, abduce ed extraruota il femore
Flette ed intraruota il ginocchio (quando è flesso)

Il sartorio presenta una forma stretta e allungata, si trova nella parte anteriore della coscia e ha origine dalla spina iliaca antero-superiore e decorre obliquamente dall’alto al basso e dall’esterno all’interno della coscia fino alla parte mediale del ginocchio, dove trova la sua inserzione nel condilo mediale della tibia, con un tendine in comune con quello del muscolo gracile e del semitendinoso, il quale per la sua forma prende il nome di “zampa d’oca”.

Coinvolgendo sia l’articolazione coxo-femorale sia quella del ginocchio, ed agendo su entrambe, viene considerato un muscolo biarticolare.

Funzioni anatomiche del sartorio

Le funzioni del sartorio possono dividersi in due categorie in base all’articolazione coinvolta:

  • Movimenti dell’articolazione dell’anca: flessione, abduzione ed extrarotazione
  • Movimenti dell’articolazione del ginocchio: flessione ed intrarotazione (che può avvenire solo ed esclusivamente a ginocchio flesso)

Esercizi e muscolo sartorio

Muscolo sartorio

Date le numerose funzioni cui adibisce (oltre a quelle elencate in precedenza funge da muscolo stabilizzatore soprattutto in esercizi monopodalici), è coinvolto in gran parte degli esercizi multi articolari per gli arti inferiori come: squat, affondi, stacchi sumo.

Difficilmente è un muscolo alla quale si pone attenzione in palestra e al quale gli si vuole dedicare esercizi appositi, inoltre lavora in sinergia con altri muscoli e isolarlo e “sentirlo” lavorare nello specifico risulta improbabile. Tuttavia ci sono alcuni esercizi in cui le sue funzioni sono esplicate più “specificamente”e di conseguenza il muscolo sarà allenato pur se non “sentito”. Alcuni di questi esercizi sono:

  • Abduzioni d’anca, è possibile effettuarli all’apposito macchinario (abductor machine) o da terra con l’utilizzo di un elastico o una cavigliera con pesi come resistenza
  • Abduzione ed extrarorazione d’anca, da sdraiato su un fianco con ginocchia e anca semiflesse con l’utilizzo di un elastico come resistenza, quest’esercizio coinvolge in modo particolare il medio gluteo
  • Crunch inverso, in tutte le sue varianti (alla sbarra, su panca); esercizio svolto principalmente per i muscoli addominali, dove comunque vi è il coinvolgimento del sartorio poiché l’esercizio prevede una flessione d’anca
  • Leg curl, svolto principalmente per gli ischiocrurali, ma come abbiamo visto la flessione di gamba è anche compito del sartorio perciò lavorerà anch’esso

Conclusioni 

Il sartorio è un muscolo deputato a vari movimenti comprendenti due articolazioni (anca e ginocchio), e viene infatti spesso coinvolto in palestra pur se non consapevolmente.

Note sull’autore

Davide Ventura.

Studente di Scienze motorie. Da sempre appassionato di resistance training e all’approccio scientifico inerente all’allenamento e tutto ciò che lo riguarda.

L'articolo Muscolo Sartorio: anatomia, funzione ed esercizi proviene da Project inVictus.

Gambe gonfie e microcircolo, cosa fare?

$
0
0

Gambe gonfie e microcircolo

Se stai leggendo questa pagina è perché purtroppo ti è capitato o ti capita costantemente di avere quel fastidioso senso di pesantezza e gonfiore alle gambe alla fine della giornata.
Le hai provate tutte: creme, beveroni, diete solo ananas e aria, ma quel maledetto gonfiore non se ne vuole andare.

Molto probabilmente, se non hai patologie, quello che sperimenti è ritenzione idrica, un processo fisiologico che accompagna ogni donna nel corso della giornata e della vita e deriva da vari fattori tra cui un’alterazione della microcircolazione a livello degli arti inferiori. Come detto prima, il gonfiore fa parte di un processo fisiologico naturale: se confronti le tue gambe del mattino a quelle della  sera vedrai sicuramente una differenza.
Tuttavia il gonfiore si può attenuare e migliorare tramite diversi accorgimenti.

Vediamo in che modo.

Che cos’è il microcircolo?

Microcircolo

Per microcircolo si intendela circolazione sanguigna e linfatica che favorisce gli scambi di sostanze (sangue, ossigeno, anidride carbonica, sostanze nutritive e tossine) tra la sezione arteriosa e quella venosa.
Il microcircolo comprende quindi i piccoli vasi tra cui arteriole, metarteriole, capillari, venule e capillari linfatici. Escludendo i casi patologici, anche nella normalità è possibile che il microcircolo sia limitato o comunque ostacolato.

Stare molte ore in piedi o seduta, la sedentarietà, l’alimentazione disequilibrata, il sovrappeso, le variazioni ormonali e i farmaci possono ostacolare la circolazione negli arti inferiori, determinando anche ritenzione di liquidi.
In particolare, per ritenzione idrica si intende l’accumulo di liquidi negli spazi interstiziali, ovvero gli spazi tra le cellule. Per saperne di più leggi anche questo articolo sulla ritenzione idrica.

Microcircolo gambe e cellulite

Gambe gonfie e cellulite

Come sappiamo la cellulite, detta anche PEFS (Panniculopatia Edemato Fibro Sclerotica) è un processo degenerativo del pannicolo adiposo sottocutaneo che interessa l’ 80 –90% delle donne nella fascia d’età post puberale.

Sappiamo che la cellulite ha diverse cause ambientali modificabili (stile di vita, alimentazione scorretta, inattività, sovrappeso) e altre non modificabili (genetiche, ormonali). Uno dei motivi per cui il quadro cellulitico si manifesta e allo stesso tempo peggiora, è l’alterazione della microcircolazione a livello degli arti inferiori, ed è per questo che spesso e volentieri ritenzione idrica e PEFS sono associate, sebbene siano due fenomeni diversi.

Sotto il derma prende spazio l’ipoderma. In questa fascia si incasellano gli adipociti all’interno dei setti di tessuto connettivo. Normalmente questa zona è molto vascolarizzata e ricca di vasi linfatici che ne garantiscono il nutrimento e il funzionamento. Tuttavia, nel momento in cui uno stile di vita poco dinamico si associa ad un’alimentazione scorretta, può venir meno il funzionamento del sistema, determinando un peggioramento della microcircolazione e quindi della cellulite.  Basti pensare che con il sovrappeso e l’obesità, gli adipociti presenti nell’ipoderma aumentano il loro volume, si espandono e questo porta a due conseguenze:

  • Deformazione dei setti in cui sono incasellati gli adipociti con formazione della superficie a “materasso”
  • Gli adipociti, aumentando di volume, allontanano e tolgono spazio ai capillari, impedendo una buona circolazione e favorendo la ritenzione dei liquidi.

Perchè ho le gambe gonfie e pesanti?

Come appena spiegato, uno stile di vita scorretto può peggiorare il microcircolo degli arti inferiori, ma sicuramente non è l’unica ragione. Ci sono casi in cui l’edema e il gonfiore sono di origine patologica, ma in questi casi è fondamentale rivolgersi a uno specialista, perché l’alterato microcircolo è semplicemente una manifestazione di un problema sistemico più grande e in alcuni casi più grave (problemi renali, cardiovascolari, PCOS, problemi alla tiroide, diabete,etc.).

Potrebbe essere che al momento non ti ritrovi in nessuna di queste categorie perché sei sana, attiva e normopeso, eppure a fine giornata le tue gambe sono gonfie e pesanti. Perché questo? Ci sono diverse ragioni che possono condurti a questa condizione, ma parti dal presupposto che avere ritenzione idrica durante la giornata e nella vita è fisiologico e normale. In ogni caso, le possibili motivazioni che possono incentivare questo processo sono le seguenti:

  • Fai un lavoro in cui stai molte ore in piedi o seduta.
  • Geneticamente sei più predisposta a soffrire di cattiva microcircolazione (biotipo ginoide cioè fisico a pera).
  • Credi di mangiare correttamente, ma in realtà non è così.
  • Variazioni nel profilo ormonale.
  • Allenamento (che vedremo nel paragrafo successivo)

Proviamo a vedere questi punti in modo più approfondito:

  • Mantenere posizioni statiche a lungo sia da seduta che in piedi determina un ridotto funzionamento delle pompe muscolari che troviamo nelle gambe e nei piedi (triangolo della volta e soletta del Lejars). Inoltre il sistema linfatico e quello venoso necessitano della contrazione muscolare degli arti inferiori per attivarsi e spingere il sangue dalla periferia verso il centro. Se mantieni per lungo tempo posizioni statiche viene meno questo meccanismo di pompa limitando la circolazione dei fluidi.
  • Se hai un fisico a pera, non solo tendi ad accumulare tessuto adiposo sui fianchi e sui glutei, ma sei anche più predisposta ad avere PEFS e ad infiammarti a livello degli arti inferiori. Ecco perché in palestra devi allenare le gambe in un modo che sia adeguato alla tua fisicità.
  • Mangiare correttamente non significa solo limitare i cibi fritti, i fast food e i dolci. Mangiare bene vuol dire seguire una dieta in cui i macros siano in equilibrio tra loro e in cui le quantità siano adeguate al tuo fabbisogno giornaliero. Se sei normopeso e segui a lungo diete ipocaloriche o povere di nutrienti (come le proteine), puoi peggiorare la ritenzione di liquidi, perché sottoponi il corpo a uno stress inutile.
  • Il profilo ormonale influenza molto la ritenzione di liquidi nell’organismo. In particolare, gli ormoni che hanno un peso in questo senso sono quelli sessuali (estrogeni, progesterone), il cortisolo, l’insulina, l’aldosterone, l’antidiuretico e il Peptide Natriuretico Atriale. Lo stress cronico (ipercortisolemia), l’insulino-resistenza, variazioni degli ormoni sessuali (sindrome premestruale, gravidanza, menopausa) incentivano la ritenzione di liquidi causando edema. Stessa cosa vale per il malfunzionamento dell’aldosterone, che si attua nel momento in cui si ha una dieta ricca di sodio, povera di acqua o quando si è insulino-resistenti.

Gambe gonfie post allenamento e ritenzione idrica

Gambe pesanti

L’allenamento è una variabile che può determinare il senso di gonfiore degli arti inferiori? Sì! Questo ti deve allontanare dalla sala pesi? No!

L’allenamento è una variabile che può aumentare in modo temporaneo il senso di gonfiore agli arti inferiori per diverse ragioni:

  • Richiamo di sangue e liquidi nei distretti in cui sono richiesti nutrienti ed ossigeno. E’ ovvio che se alleni le gambe, subito dopo sperimenterai un gonfiore delle stesse, ma è assolutamente normale.
  • Durante l’allenamento aumenta l’attività del sistema linfatico, che ha il compito di drenare gli scarti e i liquidi dai tessuti verso il torrente ematico, in modo da evitare il ristagno degli stessi. Durante attività fisica la produzione di linfa aumenta, e questo è uno dei motivi per cui nel post allenamento possiamo sentirci più gonfie.
  • L’allenamento, per poter essere efficace, deve agire su tensione meccanica, danno muscolare e stress metabolico. Queste variabili possono determinare rottura delle fibre muscolari e un conseguente processo di riparazione che richiama liquidi e sostanze infiammatorie con l’obiettivo di adattare il muscolo, per renderlo più forte, tonico e funzionale in vista di un altro stimolo simile. Ecco un altro motivo per cui potresti sperimentare gonfiore post allenamento.

Quindi ti starai chiedendo perché continuare ad allenarti nonostante questi aspetti apparentemente negativi. La prima ragione è che il gonfiore che sperimenti è temporaneo e secondo perché l’ allenamento, abbinato a una dieta equilibrata in termini di proporzione tra i macros e quantità adeguate al tuo fabbisogno, determina il miglioramento della tua composizione corporea. Se quest’ultima non è buona (prevalenza del tessuto adiposo rispetto a quello magro) si presentano gli aspetti negativi detti in precedenza (maggior tessuto adiposo = ipertrofia adipociti = limitazione della vascolarizzazione = peggioramento inestetismi).

Ovviamente, come in tutte le cose c’è anche l’altra faccia della medaglia, nel senso che l’allenamento può far bene, ma può anche cronicizzare il gonfiore agli arti inferiori se non è studiato sulla tua fisicità. Ecco perché se,  per varie ragioni, hai un microcircolo molto sofferente, è meglio allenarsi con i pesi in buffer e con metodiche che prevedano l’alternanza di esercizi che coinvolgono distretti corporei lontani tra loro (PHA, Peripherial Heart Action oppure AAS, Anaerobic Aerobic System).

Dopo la corsa ho le gambe gonfie

Corsa e Gambe gonfie

Per le ragioni dette in precedenza (richiamo di sangue ai muscoli che lavorano) può essere che dopo una corsa si possa presentare in modo temporaneo ritenzione di liquidi. Questo effetto collaterale è assolutamente normale. Il problema può peggiorare però nel momento in cui esageri con l’attività aerobica, perché può determinare ipercortisolemia. Il cortisolo è l’ormone della risposta allo stress. In condizioni normali viene prodotto in acuto in seguito all’allenamento e consente di reagire positivamente agli stimoli a cui abbiamo sottoposto il nostro corpo.

Se però eccediamo con questi stressor, la quantità di cortisolo potrebbe rimanere alta in modo costante nell’organismo determinando, tra le varie conseguenze, un aumento della ritenzione dei liquidi. Se quindi esageri con l’attività cardiovascolare perché vuoi dimagrire e abbini questo approccio con una dieta ipocalorica fai da te, è molto probabile che peggiorerai lo stato di ritenzione idrica.

Stessa cosa vale per gli allenamenti HIIT. Sebbene la ricerca scientifica dimostri gli innumerevoli benefici che questa metodologia di allenamento ha sul nostro organismo, gli HIIT sono molto gravosi per il nostro corpo. Ecco perché è bene inserirli con parsimonia nella programmazione se sei già stressata di tuo o se hai spesso le gambe gonfie.

Quindi, se vuoi migliorare il microcircolo e ti piace il lavoro aerobico, è consigliabile fare attività che stimolino le strutture che si trovano nel piede (triangolo della volta e soletta del Lejars). Per esempio, le camminate a intensità medio-bassa, magari in leggera pendenza sono indicate a questo scopo. Sono da limitare invece attività cardiovascolari molto impattanti a livello del piede (come i salti), perché sono traumatiche a livello delle strutture che lo costituiscono.

Gli squat mi gonfiano le gambe

Squat e Gambe gonfie

Stesso discorso fatto prima, la ritenzione post allenamento fa parte della normalità, ma se l’allenamento che fai è adatto a te, questo effetto è temporaneo. Se hai una fisicità ginoide dedica la maggior parte degli esercizi per le gambe alla catena cinetica posteriore, quindi focalizzati su femorali e glutei. Questo non vuol dire che devi dimenticare gli esercizi quadricipiti-dominanti come lo squat, ma tieni in proporzione un 70% del lavoro sulla catena posteriore e un 30% su quella anteriore.

Come linea guida da seguire direi che se ti alleni con i pesi, prediligi il lavoro in buffer (ovvero tieni un margine tra il numero di ripetizioni che esegui e quelle che effettivamente potresti eseguire),  e un’intensità alta (70-80 % 1RM). Per la crescita muscolare è necessario anche lavorare sullo stress metabolico e sul lavoro lattacido ma, se la tua circolazione è sofferente, limita questo tipo di stimolo perché potrebbe peggiorare la situazione.

Esercizi per riattivare il microcircolo delle gambe

Gambe gonfie e pressione plantare

Non esistono degli esercizi specifici per riattivare il microcircolo. Sicuramente lavorare sulla propriocezione del piede, sulla flessione plantare e sulla catena cinetica posteriore (femorali e glutei) aiuta e favorisce la circolazione agli arti inferiori. Via libera quindi a camminate all’aperto a medio-bassa intensità anche in leggera pendenza, esercizi per i femorali e i glutei (stacchi, hip thrust, good morning, etc) anche a piedi scalzi, in modo da lavorare anche sulla propriocezione a livello plantare. In ogni caso, comunque, il miglior modo che hai per contrastare o comunque gestire una circolazione sofferente è il movimento.

Sfrutta quindi ogni momento della tua giornata per muoverti. Prendi le scale anziché l’ascensore, se hai un breve tragitto da fare non usare l’auto o ancora non cercare di parcheggiare direttamente dentro la tua scrivania in ufficio per non fare quei 100 metri in più.

Rimedi efficaci per migliorare la microcircolazione:

Al di là degli accorgimenti che si possono tenere in considerazione durante l’allenamento, quali altri modi ci sono per migliorare il microcircolo? Sicuramente l’industria farmaceutica e cosmetica propone una grandissima varietà di prodotti fitoterapici, creme e integratori, ma quali sono effettivamente efficaci? Oltre a questi prodotti, quali altri accorgimenti si possono seguire? Vediamolo nello specifico.

Rimedi naturali

Diversi studi, fatti principalmente su donne in gravidanza, hanno evidenziato che due metodi efficaci per ridurre temporaneamente il senso di gonfiore e pesantezza alle gambe sono le immersioni in acqua e l’elevazione delle gambe. A questi metodi si aggiunge anche l’utilizzo delle calze compressive, che in molti casi fanno parte della terapia di chi soffre di linfedema o CVD (Chronic Venous Disease).

Calze e gambe gonfie

Studi dimostrano che immergere le gambe fino al ginocchio per almeno 20 minuti consente di ridurre il senso di gonfiore alle gambe. Stesso effetto positivo si otterrebbe applicando un getto di acqua molto fredda a livello dei piedi per qualche secondo (10 secondi circa), oppure alternando acqua molto fredda e molto calda. Altri studi invece provano che sollevare le gambe ad un’altezza superiore a quella del cuore per 20 minuti 3/4 volte al giorno riduce significativamente la ritenzione alle gambe se la forma di edema che presenti è lieve o moderata.

Altri due modi efficaci per migliorare il microcircolo nel breve termine sono il massaggio linfodrenante e la pressoterapia.  Il senso del massaggio è quello di spingere i liquidi verso i “pit stop” deputati all’eliminazione delle scorie e cioè i linfonodi. La stimolazione del sistema linfatico consente di rinnovare il liquido interstiziale, riattivare il microcircolo e ossigenare le cellule. La pressoterapia ha un funzionamento analogo a quello del massaggio, ma la differenza sostanziale è data dal fatto che ad effettuare il massaggio è una macchina.

Ci sono integratori efficaci?

Integratori per le gambe

Per quanto riguarda gli integratori si può affermare che al momento la ricerca scientifica ha evidenziato che esistono delle sostanze che possono dare benefici a livello del microcircolo, ma questo non porta direttamente a una risoluzione definitiva della ritenzione di liquidi perché, come detto prima, è un fenomeno fisiologico normale che interessa tutte. Al momento comunque, gli integratori più comuni che si trovano in commercio sono la Centella Asiatica, l’Ippocastano e il Ginkgo Biloba.

  • Centella Asiatica: dà benefici in caso di dermatosi, lesioni della pelle, eczema, ed è provato scientificamente che migliora la microcircolazione, l’insufficienza venosa cronica, promuove l’angiogenesi e la sintesi del collagene. A questo si aggiunge un potere antinfiammatorio e antiossidante.
  • Ippocastano: diverse ricerche scientifiche provano che l’utilizzo di questa pianta, in particolare i semi, dia benefici in termini di edema e gonfiore a livello degli arti inferiori in caso di insufficienza venosa cronica perché ha un effetto protettivo sui vasi che interessano la microcircolazione.
  • Ginkgo Biloba: sembrerebbe avere proprietà antinfiammatorie, antiedemiche, antiossidanti oltre che avere effetti positivi sul microcircolo.

Purtroppo le ricerche scientifiche al momento non sono abbastanza forti per affermare che queste sostanze sicuramente porteranno benefici al microcircolo. Possono essere un aiuto, ma debole, se il tuo problema è dato da uno squilibrio ormonale o da uno stile di vita errato. A fare la differenza sono l’alimentazione, l’ allenamento e in generale la tua quotidianità.

Conclusioni

Tutte sperimentiamo durante la giornata e la vita degli episodi di pesantezza e gonfiore agli arti inferiori. Le motivazioni sono varie (genetica, ormoni, stile di vita), e possiamo agire direttamente solo su alcuni di questi aspetti. Sicuramente se sei una donna ginoide sarai più predisposta a manifestare questo problema e per questo devi porre maggiore attenzione al tuo piano di allenamento in palestra e alla tua alimentazione. Sono, infatti, questi due aspetti a fare la differenza nel momento in cui vuoi migliorare il microcircolo e a gestire la ritenzione idrica che accompagna ogni donna nel corso della vita.

Bibliografia

  1. McDonald L, Helms E. The women’s book: Vol 1, A Guide to Nutrition, FatLoss, and Muscle Gain. Lyle McDonald Publishing. 2017.
  2. Saadi JS Aljadir. Fluid retention syndrome in women. Endocrinol MetabInt J. 2017;4(5):124-127.
  3. GargL et al. Aldosterone Production and Insulin Resistance in Healthy Adults. J Clin Endocrinol Metab. 2010;95(4):1986-90.
  4. Draelos ZD. The disease of cellulite. Journal of Cosmetic Dermatology. 2005;4:221-222.
  5. Paoli A, Neri M. Cellulite, come combatterla con il fitness. Editrice Elika. Forlì. 2003.
  6. Amsler F, Blatter W. Compression Therapy for occupational leg symptoms and chronic venous disorders – a meta-analysis of randomised controller trials. Eur J Vasc Endovasc Surg. 2008;35:366-72
  7. BayrakciTunay V et al. Effects of mechanical massage, manual lymphatic drainage and connective tissue manipulation techniques on fat mass in women with cellulite. JEADV. 2010;24:138-42.
  8. Stout N et al. Chronic edema of the lower extremities: International consensus recommendations for compression therapy clinical research trials. Int Angiol. 2012;31(4):316-29.
  9. Contreras B, Cordoza G, Glute Lab, The Art and Science of Strenght and Phisyque Training, Victory Belt Publishing Inc, Canada
  10. Liparoti F. Project Bodybuilding, il manuale sulla ricomposizione corporea. IGB Group S.r.l., Brescia, 2018
  11. Bylka W, Znajdek-Awizen P, Studzinska-Sroka E et al. Centella asiatica in cosmetology. Postep Derm Alergol. 2013;XXX,1:46-49.
  12. Bylka W, Znajdek-Awizen P, Studzinska-Sroka E. Centella Asiatica in Dermatology: an Overwiew. Phytother Res. 2014;28:1117-24.
  13. Diamond BJ, Shiflett SC, Feiwel N et al. Ginkgo Biloba Extract: Mechanism and Clinical Indications. Arch Phys Med Rehabil. 2000;81:668-78.
  14. Galeone C, Turati F, Guercio V. Cosmetic products for cellulite: is their efficacy proved? Household and Personal Care Today. 2015;10(1):30-36.
  15. Pittler MH, Ernst E. Horse chestnut seed extract for chronic venous insufficiency (review). Cochrane Database of Systematic Reviews. 2012;11.

L'articolo Gambe gonfie e microcircolo, cosa fare? proviene da Project inVictus.

Macronutrienti: cosa sono e in quali alimenti si trovano?

$
0
0

i macronutrienti

I macronutrienti sono uno dei concetti alla base della nutrizione: sapere cosa sono e a cosa servono può ottimizzare la salute e il raggiungimento dei tuoi obbiettivi in un percorso per dimagrire, in fase di definizione, per aumentare di peso, per essere energico in palestra negli allenamenti!

Macronutrienti: cosa sono e quali sono?

Tutte le macromolecole organiche alla base dell’alimentazione e che forniscono energia sono definite macronutriente. Questi sono divisi, a seconda delle loro caratteristiche, in:

  • Carboidrati (o glucidi o zuccheri), che apportano in media 4 kcal/g;
  • Grassi (o lipidi), con le loro 9 kcal/g;
  • Proteine (o protidi), che contengono 4 kcal/g come i carboidrati.

Oltre a questi tre principali, non sono da dimenticare:

  • Acqua: non apporta energie ma è fondamentale per il sostentamento del metabolismo;
  • Alcol: molecola tossica per l’organismo e che apporta 7 kcal/g.

Alla base della piramide della nutrizione subito dopo il fabbisogno calorico (di quante calorie hai bisogno) c’è proprio il giusto rapporto e la ripartizione tra i macronutrienti: quanto devi mangiare di ogni macronutriente? Quale preferire e perché? Proseguendo con la lettura troverai queste informazioni.

A cosa servono e dove si trovano i macronutrienti?

Un macronutriente non vale l’altro, non solo per il differente numero di calorie, ma piuttosto perché ognuno di essi assolve una particolare azione nell’organismo:

  • Carboidrati: sono la principale fonte di energia utilizzata dagli organismi;
  • Grassi: sono una riserva di energia, hanno funzione strutturale, regolatrice (es. ormoni) e protettiva;
  • Proteine: hanno funzione strutturale, enzimatica, regolatrice, di trasporto, recettoriale, energetica, di difesa e protezione, di movimento e sostegno.

A seconda di quale macronutriente è più presente in un cibo, gli alimenti possono essere suddivisi in categorie e definiti come una “buona fonte” per ricavare quel nutriente.

I glucidi li trovi soprattutto in:

  • Cereali: riso, mais, patate, farro, segale, orzo, triticale, frumento e derivati (pasta, pane, cracker, gallette,…)
  • Frutta e verdura, anche se in minor quantità rispetto ai precedenti a parità di peso data la presenza di acqua
  • Legumi

I lipidi, invece, sono presenti sia come grassi animali in carne e pesci grassi, ma anche in uova (tuorlo), latte e derivati (formaggi, burro) sia come grassi vegetali in frutta secca e oli.

Infine, le proteine le trovi sostanzialmente in tutti i prodotti animali ma anche nei vegetali, soprattutto legumi e frutta secca.

Nella quasi totalità dei casi, questi nutrienti sono compresenti all’interno di uno stesso alimento, oltre anche ad altre sostanze che normalmente trovi nei cibi come la fibra alimentare, le vitamine, i minerali. Ad esempio, 100 g di pasta non corrispondono a 100 g di carboidrati, ma a circa 73 g di carboidrati, 13 g di proteine, 10 g di acqua, 2 g di fibra e tracce (i pochi restanti grammi: 2 g) di grassi.

Tabella dei macronutrienti

macronutrienti grassi alimentari

I carboidrati a seconda della loro complessità strutturale possono essere:

  • Monosaccaridi: zuccheri semplici formati da una molecola, come il glucosio o fruttosio, galattosio
  • Disaccaridi: zuccheri semplici formati da due molecole, come il lattosio, saccarosio, maltosio
  • Polisaccaridi: zuccheri complessi formati da molte molecole, come l’amido, il glicogeno o la cellulosa
Monosaccaridi Disaccaridi Polisaccaridi
Glucosio, fruttosio da cucina Zucchero da cucina, latticini, alcuni prodotti da forno, miele, barbabietola da zucchero Pane, pasta, biscotti, riso e tutti i cereali e derivati

I grassi, invece, possono essere:

  • Saturi: derivanti principalmente dalle fonti animali come la carne, da limitare
  • Monoinsaturi: derivanti principalmente dai vegetali come l’olio d’oliva ma anche dall’uovo della gallina
  • Polinsaturi: derivanti sia da vegetali come gli olii vegetali, sia da pesce e animali che mangiano erba o alghe
  • Trans: ottenuti principalmente chimicamente come nella lavorazione delle margarine
Grassi saturi Grassi monoinsaturi Grassi polinsaturi
Carne bianca, carne rossa, strutto, lardo, salumi, formaggi, panna, latte intero Olio d’oliva, uova, avocado, olive, noce di macadamia, mandorle, nocciole Olio di lino, olio di soia, semi di zucca, semi di girasole, salmone, sardine, arachidi, noci

Alimenti e macronutrienti in una dieta

macronutrienti carboidrati definizione

In una dieta proprio in virtù delle loro diverse caratteristiche e funzioni è bene inserire tutti e tre i macronutrienti. Un’alimentazione sana dovrebbe avere:

  1. Un buon quantitativo di carboidrati: superiore a 2-2,5 g/kg di peso corporeo (50-60% del fabbisogno calorico giornaliero)
  2. Una giusta quantità di grassi: tra 0,5-1,5 g/kg
  3. Un giusto quantitativo di proteine: 0,8-2,5 g/kg
  4. Tutti i micronutrienti di cui abbiamo bisogno
  5. La giusta idratazione: 1-1,5 litri/1000 kcal che mangi

In questi range ci possono stare quasi tutte le diete ed i relativi pasti, escludendo quelle più estreme che tolgono un macronutriente – solitamente i glucidi per dare più spazio ai protidi.

Per raggiungere la quota calorica e quella dei rispettivi nutrienti, è preferibile avere un’alimentazione varia e ricavare così tutto quello di cui hai bisogno da fonti sempre diverse: ogni alimento ha le proprie peculiarità nutrizionali.

Alla fine, il primo fattore per essere in salute è rimanere nel peso ideale (quindi magri), mangiare alimenti poco lavorati, non industriali e stagionali. È inutile la diatriba se sia meglio la dieta mediterranea, quella chetogenica o la vegana: il corpo non riconosce gli alimenti ma i nutrienti che gli diamo.

Quanti macronutrienti assumere per dimagrire? Quanti grammi al giorno?

Per dimagrire la prima cosa da fare è impostare un deficit calorico, altrimenti anche se stabilisci la miglior ripartizione dei macronutrienti ma continui a stare in normocalorica (o, peggio, ipercalorica) non perderai neanche un grammo. La dieta che fa perdere peso è quella ipocalorica.

In pratica cosa vuol dire? Mangiare un po’ di meno e/o muoverti un po’ di più, anche solo camminando.

Dopo aver stabilito a quante calorie giornaliere in media arrivare, è il turno dei macronutrienti: devono essere presenti tutti e tre anche se in proporzioni diverse a seconda di più fattori. Il primo e il più importante da impostare sono le proteine: contrastano il senso di fame e preservano il tessuto magro – che è fondamentale per dimagrire. I grammi al giorno di proteine sono circa 1.5-2 g/kg peso corporeo.

La persona normale che introduce un buon quantitativo proteico mediamente è più sazia, aumenta il trofismo muscolare, soffre meno di osteoporosi ed ha un sistema immunitario migliore.

Dopo queste, è il turno di glucidi e lipidi: la loro quantità è di importanza secondaria rispetto a quella proteica, per questo si possono preferire i primi oppure i secondi in una quantità variabile e comunque riuscire a perdere peso.

Solitamente, più un soggetto è sedentario o ha una cattiva affinità con i carboidrati (resistenza-insulinica), anche se le due cose spesso e volentieri vanno di pari passo, è preferibile prediligere i grassi (buoni) rispetto ai glucidi – sempre rispettando il deficit calorico.

Infatti, l’azione dei glucidi dipende essenzialmente dal contesto calorico e dall’attività fisica che svolgi:

  • se sei attivo, fai sport, sei in ipocalorica > promuovi la sensibilità insulinica
  • se sei sedentario, sei in ipercalorica > promuovi la resistenza insulinica

La prima preoccupazione dovrebbe essere quella di tornare al peso ideale, perchè una persona con grasso addominale avrà sempre livelli d’infiammazione silente elevati ed avrà un rischio d’incorrere in alcune malattie (come quelle metaboliche) superiore agli altri.

Il calcolatore Project in base al tuo obbiettivo può aiutarti a stimare il fabbisogno calorico e di macronutrienti (= da verificare in pratica su te stesso se eventualmente c’è qualcosa da modificare).

Macronutrienti in palestra e nel bodybuilding

macronutrienti le proteine

La distribuzione dei macronutrienti può fare la differenza per chi vuole ottenere determinati obbiettivi ed è il secondo step da impostare dopo quello calorico. I “macro” vengono impostati in grammi in relazione al peso corporeo – sarebbe più accurato in relazione alla massa magra, ma la prima opzione è più pratica dato che basta una normale bilancia pesa-persone.

Carboidrati e grassi vengono utilizzati a scopo energetico, mentre le proteine contribuiscono solo in piccola parte all’energia (< 10%): tutte quelle non ossidate (la maggior parte) vanno a costruire e riparare i tessuti. Durante una dieta ipocalorica, però, la quota di proteine che viene bruciata a scopo energetico è molto maggiore, dato che il corpo si trova in una situazione di restrizione energetica.

È questo il “perché” alla base di una quota proteica più alta nella fase di definizione e soprattutto nei soggetti che hanno meno grasso corporeo (=meno deposito energetico).

Per non inficiare sull’allenamento, è meglio non abbassare troppo i carboidrati – specialmente nelle giornate di allenamento e nei pasti più vicini (prima/dopo) alla tua ora e mezza di palestra.

Macronutrienti in massa

In fase di massa il bilancio energetico è positivo e quindi vengono innescate le vie metaboliche dell’anabolismo (di costruzione).

Proteine Grassi Carboidrati
1.6-2.2 g/kg 20-30% del totale calorico giornaliero (minimo 0.5 g/kg) Le restanti calorie, minimo 1g/kg

Lo step critico di questa fase è il riuscire a non accumulare eccessivamente a grasso mandando all’aria i risultati (forse) ottenuti con la precedente fase di cut. Questo può essere anche evitato introducendo un diverso aumento calorico a seconda del livello del soggetto: più il soggetto è avanzato e più dovrà accontentarsi di un leggerissimo incremento.

Un beginner può aumentare di 200-300 kcal al giorno, mentre uno avanzato di al massimo 100. Il soggetto intermedio può considerare le 100-200 kcal/die.

Macronutrienti in definizione

In definizione, invece, il bilancio energetico è negativo e al fine di preservare la massa magra è meglio incrementare la quota proteica: quando c’è restrizione energetica una quota maggiore di proteine viene impiegata per dare energia, cosa che avviene in misura minore quando il contesto è normo/ipercalorico.

Proteine Grassi Carboidrati
2.2-2.6 g/kg 15-25% del totale calorico giornaliero (minimo 0.5 g/kg) Le restanti calorie, minimo 1g/kg

I grassi non dovrebbero essere più bassi di 0.5 g/kg peso corporeo e i carboidrati sotto 1g/kg. Se con il taglio calorico ti risulta difficile rispettare questi valori, può essere utile ridurre il deficit: ad esempio se hai prefissato una perdita di peso dell’1% del peso corporeo a settimana, passa allo 0.5%. Il dimagrimento richiederà più tempo ma il risultato ci sarà ugualmente: chi va piano va definito e lontano.

Differenza tra macronutrienti e micronutrienti

macronutrienti micronutrienti

Si chiamano micro-nutrienti non perché siano meno importanti ma perché le quantità richieste sono molto minori rispetto ai macro-nutrienti. Si dividono in vitamine e minerali ed entrambi si trovano soprattutto in frutta e verdura. Inoltre, i micro non forniscono energia.

Se poi con i macronutrienti è piuttosto facile eccedere, con i micronutrienti è difficile che ci sia un sovra-dosaggio; è più probabile che ci sia una carenza, soprattutto quando l’alimentazione non è variegata e c’è esclusione/limitazione di certi gruppi alimentari. Ad esempio, la vitamina B12 (acido folico) è presente solamente nei prodotti di origine animale.

Le vitamine comprendono vitamine idrosolubili (vitamina C, folati, biotina, niacina, vitamina B6 e B12, riboflavina) e liposolubili (A, D, E, K) – le liposolubili a differenze delle altre possono essere depositate, in piccola quantità, nell’organismo.

Tra i minerali ci sono: ferro, zinco, rame, magnesio, manganese, potassio, sodio, calcio,…

Anche i micronutrienti rivestono un ruolo essenziale e interagiscono con la salute e la composizione corporea: la maggior parte dei processi biochimici ha bisogno di micronutrienti per potersi avviare.

Conclusioni sui macronutrienti

Sapere a cosa servono e dove si trovano sono le conoscenze indispensabili per riuscire a “costruire” la propria alimentazione. La loro quantità deve essere riferita all’apporto calorico totale da raggiungere nel giorno o nella settimana, ma anche la qualità è importante: una molecola di glucosio di una mela è uguale ad una molecola di glucosio di una patatina fritta col ketchup, ma decisamente sono alimenti con un valore nutrizionale differente!

 

Bibliografia

Helms, Valdez, Morgan (2018). The Muscle & Strength Pyramid – Nutrition.

Medeiros & Wildman (2019). Advanced Human Nutrition. Jones & Bartlett Learning.

L'articolo Macronutrienti: cosa sono e in quali alimenti si trovano? proviene da Project inVictus.

Mal di schiena: cause, sintomi e rimedi efficaci

$
0
0

Il mal di schiena è un disturbo estremamente frequente e molto variabile: può presentarsi sia in sportivi che in sedentari, in alcuni casi può passare in pochi giorni, mentre in altri può manifestarsi per periodi di durata ben più lunga, o ritornare periodicamente, con differenti spettri di gravità e cause multifattoriali.

Allo stesso modo, anche in ambito fitness, il dolore lombare è una problematica riscontrata con grande frequenza, che costringe spesso a sospendere o evitare del tutto diversi esercizi a causa del dolore.

Ma quali sono le possibili cause di mal di schiena? Quanto sono diffuse queste tipologie di dolori? Quali i sintomi e i rimedi più efficaci? Scopriamolo!

Cos’è il mal di schiena?

Il mal di schiena (chiamato anche “lombalgia”) è una problematica tanto frequente quanto complessa, definita come un dolore localizzato tra il margine costale e la piega glutea con possibile (ma non sempre presente) coinvolgimento dell’arto inferiore.

Il dolore lombare viene suddiviso in letteratura in due principali categorie: il “dolore lombare aspecifico” e il “dolore lombare specifico”. Il dolore lombare aspecifico rappresenta il 90% dei casi di dolore alla schiena e consiste in una lombalgia nella quale non è possibile determinare con precisione e certezza una causa ben definita. Nel dolore lombare specifico invece, che rappresenta il 10% dei casi circa, la causa del dolore è nota, e può essere una irritazione/compressione/infiammazione delle strutture nervose (8% dei casi) o una patologia più seria come fratture, tumori e infezioni (1% dei casi).

 

Mal di schiena: quanto è diffuso?

Il dolore lombare è il disturbo muscoloscheletrico più comune al mondo. Secondo i dati attuali, circa l’80% della popolazione mondiale avrà almeno un episodio di lombalgia nel corso della propria vita, ed oltre il 75% di questi presenterà delle recidive.

Il mal di schiena rappresenta inoltre la principale causa di disabilità e assenza sul posto di lavoro, e la sua diffusione sembra addirittura aumentare nel tempo. In buona parte questo è probabilmente legato ai cambiamenti dei nostri stili di vita, improntati sempre di più sulla sedentarietà, i quali non forniscono alle strutture della colonna il giusto movimento e il giusto carico per mantenere la propria ottimale funzionalità.

Mal di schiena: cause principali

Spesso quando si parla di cause del mal di schiena si è soliti ricercare le possibili strutture anatomiche che hanno subito un danno, una lesione o un’alterazione. Il voler collegare il dolore a un “danno biologico” è prassi del tutto normale e fisiologica nei nostri metodi di ragionamento.

Come abbiamo visto in precedenza, tuttavia, nel 90% dei casi non è possibile identificare con sicurezza quale sia la precisa struttura alla base del dolore lombare, e solo nel 10% dei casi il dolore deriva da una causa nota che può richiedere un approfondimento immediato.

Fatta questa premessa, va detto che qualsiasi struttura innervata contenuta nella zona lombare (e non solo) può essere una potenziale sorgente di dolore lombare. Possono quindi causare dolore le articolazioni fra le vertebre, i dischi intervertebrali, i muscoli della schiena, i nervi, i vasi, le radici nervose, le ossa, i legamenti e gli organi interni. Risulta quindi difficile, se non impossibile, trovare un colpevole, soprattutto considerando  il fatto che il dolore può presentarsi anche in aree molto distanti dalla struttura responsabile.

Sommariamente possiamo dire che un dolore alla schiena si presenta nel momento in cui le capacità di carico dei nostri tessuti non sono abbastanza elevate da sopportare gli stress esterni. In parole povere i nostri muscoli, le articolazioni, il sistema nervoso, le ossa e i legamenti non sono abbastanza forti per sopportare gli stress che provengono dall’esterno.

Per “stress” esterni intendiamo una moltitudine di fattori: fattori prettamente meccanici come traumi violenti, cadute, movimenti bruschi, il mantenimento prolungato di posture, strutture poco resistenti ed allenate, sedentarietà…ma anche altre componenti come la presenza di patologie, predisposizioni genetiche,  fattori “psicosociali” come stress lavorativo/familiare, paura, catastrofizzazione, scarsa qualità del sonno, ansia, credenze errate e interpretazioni errate del proprio dolore.

Tutto questo può influire sul dolore e sui vari sintomi lombari che percepiamo. Dalla recente letteratura scientifica è infatti emerso che, sebbene per molto tempo si fosse pensato che il mal di schiena sia sempre legato ad un danno tissutale, in realtà questa problematica così diffusa è associata ad un’ampia e complessa combinazione di fattori, tra cui fattori anatomici, fisiologici, sociali, neurofisiologici, stili di vita, psicologici e genetici, che ne possono determinare la presenza anche in situazioni dove non sia presente al momento alcun danno tissutale effettivo.

Ad oggi, inoltre, non esistono evidenze in grado di correlare sempre e direttamente alcune “degenerazioni anatomiche” lombari con il dolore o i sintomi del mal di schiena: la presenza di artrosi o protrusioni o ernie discali lombari quindi può anche non essere la causa del dolore lombare.

Grazie alla letteratura sappiamo poi che esistono dei fattori di rischio che sembrano predisporre maggiormente al dolore lombare, fra cui:

  • Avere dai 30 ai 65 anni di età,
  • Avere un basso livello di istruzione,
  • Alti livelli di stress, ansia e depressione, stress e insoddisfazioni lavorative.
  • Fumo di sigaretta
  • Obesità

È stato inoltre notato come i cosiddetti “fattori psicosociali” come ansia, stress, catastrofizzazione, traumi emotivi e preoccupazione, possano influire molto sul decorso e sull’intensità del dolore, giocando un ruolo pesante nel passaggio da “mal di schiena di fisiologica durata” (2-6 settimane) a “mal di schiena cronico” ( mesi o anni).

In sintesi possiamo quindi dire che il mal di schiena, soprattuto quando è cronico, non deve quindi essere considerato come un problema legato a una o più alterazioni anatomiche, bensì come una condizione che è influenzata da una combinazione di fattori biologici (eventuale lesione sintomatica), cognitivi/comportamentali (paura, pessimismo, catastrofismo), emotivi (stress, ansia) e motori (paura del movimento ed evitamento delle attività ritenute “pericolose” per la schiena).

Questo spiegherebbe come mai soggetti con alterazioni anatomiche spesso non presentano dolore e ancora perchè anche una volta scomparso il dolore le alterazioni anatomiche spesso permangano.

Mal di schiena: sempre colpa di ernie e protrusioni?

Molte persone, specialmente se sono state sottoposte ad esami diagnostici come radiografie e risonanze, ritengono che la causa del loro dolore sia un’ernia (spesso del disco L4-L5 o L5-S1), una protrusione o l’artrosi delle vertebre lombari. Anche se in alcuni casi (la minoranza, circa l’8%) tutto ciò è possibile, sappiamo che in realtà molto spesso questi riscontri sono frequenti anche in persone che non hanno alcun dolore, e che quindi possono non essere la causa principale dei sintomi.

Numerosi studi riportano infatti un’elevata presenza di alterazioni come artrosi, ernie e protrusioni in soggetti privi di dolore alla schiena, e ciò sembra essere direttamente proporzionale all’età. Più il soggetto è avanti con gli anni, più quindi le anomalie della colonna sono presenti e sono da considerarsi come segni dell’invecchiamento e dell’usura strutturale (un po’ come le rughe sulla pelle).

Si stima che in oltre il 90% dei soggetti con più di 60 anni siano riscontrabili protrusioni, artrosi delle faccette articolari e osteofiti in assenza di dolore o storia clinica passata di dolore. Per di più altri studi dimostrano che solo la metà dei soggetti che nella vita sperimentano dolore lombare riporta effettivamente alterazioni durante le indagini diagnostiche (lastre, risonanze ecc..).  Per questo ad oggi risulta irrealistico pensare di identificare con certezza la causa biologica del dolore alla schiena, anche con la strumentazione diagnostica più affidabile, nei casi di lombalgia aspecifica.

Inoltre pare che sia dannoso eseguire indagini diagnostiche non necessarie in assenza di condizioni gravi: sogggetti di questo tipo, infatti, entrano spesso in circoli viziosi contorniati da ansia, paure infondate e kinesiofobia (paura ed evitamento del movimento poichè ritenuto pericoloso per la schiena), riportando di conseguenza una prognosi peggiore e una guarigione più lenta.

Mal di schiena: colpa delle “contratture”?

Le cosiddette “contratture” muscolari vengono spesso additate come possibile causa di mal di schiena. Se analizziamo la letteratura scientifica più affidabile, troviamo che se è pur vero che il tessuto muscolare contrattile può essere effettivamente una causa di dolore alla schiena e alla natica, è altrettanto vero che gli studi non hanno trovato correlazione fra possibili danni/alterazioni muscolari e il grado/tipologia di dolore lombare.

Per cui anche il classico modello dello “spasmo” muscolare che crea dolore (“hai mal di schiena a causa di una bella contrattura!”) non trova fondamento nelle attuali evidenze, e anzi sembrerebbe da abbandonare a favore del modello opposto, ossia quello della scarsa performance muscolare. Diversi studi, infatti, riportano atrofia, scarsa attivazione e precoce affaticamento dei muscoli erettori spinali e multifidi nelle persone che soffrono di mal di schiena.

multifido

 

Questa condizione funzionale sarebbe causa (o fattore contribuente) indiretta del dolore, diminuendo la stabilità della colonna ed esponendo i tessuti non contrattili come i dischi e le articolazioni a maggiori stress. Il concetto di “contrattura che crea dolore” è quindi tendenzialmente da abbandonare, se il dolore è fuori dalla fase acuta iniziale o è in una fase oramai cronica.

La contrattura e lo spasmo sono invece realmente presenti in fase acuta, ma in questa fase sono alleati e sicuramente non nemici da combattere (si parla infatti in questo caso di un meccanismo protettivo transitorio della fase infiammatoria utile a ridurre il movimento e stabilizzare l’area lesa). Nel dolore lombare non si ha quindi bisogno di “sciogliere” contratture, ma anzi piuttosto di riacquisire funzionalità dei muscoli profondi attraverso un loro rinforzo.

Sintomi del mal di schiena

Il mal di schiena può presentarsi tipicamente in modo rapido e improvviso, oppure insorgere lentamente e in modo meno intenso. Nel primo caso ci riferiamo ad un dolore lombare acuto (conosciuto con il classico termine popolare “colpo della strega”), spesso innescato da un movimento improvviso che nella maggior parte dei casi consiste in una lieve flessione lombare (piegare la schiena in avanti), o in un movimento/esercizio/attività troppo stressante per le capacità dei nostri tessuti. Immediatamente dopo tale evento, o il mattino del giorno dopo, segue spesso un periodo in cui ogni movimento del corpo risulta doloroso, con una forte sensazione di rigidità associata (mediamente questo periodo perdura tra 1 e 7 giorni).

Nel mal di schiena cronico invece il dolore può essere molto elevato, percepito non solo in zona lombare ma anche in altre zone limitrofe del corpo, e talvolta innescato da stimoli di natura “non nocicettiva” (come il semplice sfioramento tattile della zona lombare) o da stimoli che normalmente sarebbero poco dolorosi, e che vengono invece percepiti con intensità dolorosa elevata.

I sintomi tipici del mal di schiena sono dolore e sensazione di rigidità locale. Questo è dovuto al fatto che il nostro sistema nervoso (come accennato poco fa) spesso risponde al dolore riducendo la mobilità lombare (che si ripercuote poi sulla mobilità di tutto il corpo) attraverso un’incrementata attivazione di alcuni gruppi muscolari limitrofi, nel tentativo di proteggere la zona da ulteriori danni e favorirne la guarigione.

Il dolore lombare può inoltre causare modifiche dell’attività muscolare, aumentando l’attività di alcuni muscoli e riducendo la forza di altri (spesso i muscoli stabilizzatori profondi) provocando alterazioni della coordinazione fra i vari distretti muscolari, risultando quindi in una ridotta mobilità e sensazione di rigidità nella zona lombare. Spesso la sensazione di rigidità tende ad essere più marcata al mattino, specialmente se il giorno prima vi è stato un particolare stress a carico dei dischi, e tende a migliorare durante la giornata, quando ci si muove.

In alcuni casi i disturbi alla schiena possono provocare sintomi e dolori anche lungo tutto l’arto inferiore, arrivando talvolta fino al piede. Essenzialmente, i sintomi e il dolore alla gamba causati da un disturbo lombare si suddividono in due categorie: le “lombalgie aspecifiche con dolore riferito all’arto inferiore”, dove una struttura “sofferente” non identificabile con sicurezza proietta un dolore all’arto inferiore; e le “radicolopatie”, patologie specifiche dove le strutture che causano il dolore sono le radici dei nervi che dalla lombare si dirigono verso l’arto inferiore (si parla in questi casi di “dolore radicolare” o “dolore da radicolopatia” o “lombosciatalgia”).

Le radicolopatie possono essere causate da una compressione meccanica e/o da processi infiammatori, provocati da un’ernia discale o a causa di processi degenerativi delle strutture attorno alla radice stessa. Quando è presente una radicolopatia, spesso il dolore non è l’unico sintomo a presentarsi lungo la gamba, ma è accompagnato da sintomi caratteristici come formicolii, sensazione di bruciore o calore, alterazione o perdita della sensibilità e in alcuni casi perdita di forza in una o più zone dell’arto inferiore.

Quanto può durare il mal di schiena?

Il dolore lombare aspecifico di solito si risolve spontaneamente entro 2-6 settimane, con una completa risoluzione dei sintomi. Tuttavia in alcuni casi (si stima dal 2 al 7%, ma questi dati sono in continuo aumento) questo periodo può perdurare per molto più tempo (mal di schiena cronico), fino a durare anche per mesi o anni.

Il dolore riporta statisticamente un crollo spontaneo nel 90% dei casi nel primo mese, qualsiasi cosa si faccia in questo lasso di tempo. Secondo i dati, circa il 65% delle persone con dolore svilupperanno poi almeno una recidiva nell’arco dell’anno successivo.

Tempo

Rimedi per il mal di schiena: cosa fare?

Parlando del trattamento e della gestione ottimale del mal di schiena, è importante diversificare quest’ultimo riferendoci ad un mal di schiena di tipo acuto o ad un mal di schiena cronico.

Per quanto riguarda il mal di schiena acuto, abbiamo riferito come immediatamente dopo tale evento, (o il mattino del giorno dopo), segue spesso un periodo in cui ogni movimento del corpo risulta doloroso, con una forte sensazione di rigidità associata (che mediamente perdura tra 1 e 7 giorni).

Essenzialmente il “colpo della strega” avviene quando la nostra schiena non è pronta a compiere e stabilizzare il determinato movimento che l’ha causato (spesso a causa di una scarsa capacità di carico delle strutture lombari, in presenza o meno di altre cause di diversa natura multifattoriale). A questo tipo di stress il corpo risponde con dolore locale, infiammazione e contratture muscolari, strategie utili a proteggere la zona e darle il tempo di recuperare, e che andranno pertanto promosse, e non combattute.

Il dolore, infatti, è in questa fase un indicatore determinante che ci sta dicendo che qualcosa non va; è funzionale a impedirci di muovere la zona lesa favorendo così la sua protezione e il decorso dell’infiammazione, così come la contrattura locale della muscolatura è una strategia fisiologica che circoscrive l’aria e contribuisce la sua immobilizzazione e protezione.

La prima indicazione da dare a riguardo è che appare quindi poco utile adoperarsi in questa fase per contrastare a tutti i costi il dolore e le contratture: stretching, massaggi e mobilizzazioni intense risultano pertanto strumenti terapeutici poco sensati in questi contesti (i farmaci antinfiammatori possono essere utilizzati al bisogno, nei casi dove il dolore risulta poco sopportabile).

In questa fase sarà invece consigliabile aspettare, armandosi di una buona dose di pazienza, consapevoli di queste dinamiche, e del fatto che la durata di questa fase infiammatoria, se ben gestita, non supererà i sette giorni nella maggior parte dei casi. In questo lasso di tempo sarà importante non cadere in preda all’ansia e al panico, accettando il fatto che un breve periodo di riposo sarà necessario, e che il dolore (qualsiasi cosa si faccia) tenderà a permanere per questo breve lasso di tempo, per poi regredire progressivamente.

Durante questo lasso temporale è consigliabile favorire un posizionamento neutro della colonna seduti o sdraiati, (ossia con la colonna lombare non troppo estesa né troppo flessa), ed eventualmente eseguire semplici movimenti in posizioni di “scarico” (come le oscillazioni in posizione quadrupedica).

Superata questa fase si entrerà in una “fase di cicatrizzazione” della durata della durata media di 1-3 settimane. È questo il momento nel quale il dolore andrà naturalmente a scemare con gradualità e la funzionalità verrà gradualmente riacquisita (camminare, alzarsi, piccoli sollevamenti…). In questa fase sarà quindi fondamentale  il ritorno graduale all’attività di vita quotidiana, rispettando il dolore senza temerlo.

Sarà quindi opportuno tornare al lavoro, in palestra, a camminare o a correre, compatibilmente con il residuo dei sintomi, ma consapevoli che quelle attività si potranno gradualmente tornare a svolgere senza paura. In questa seconda fase, con i tessuti in fase di cicatrizzazione, il movimento più sensato da proporre in termini di esercizi è quello che pone un iniziale carico sulla colonna e sulla muscolatura, ricercando stabilità (i tessuti hanno infatti bisogno di ricominciare a lavorare in carico).

Superata questa fase, col dolore che va sparendo e la funzionalità che va verso la completa ripresa, giungiamo all’ultima fase, quella “di rimodellamento” (che può durare fino a diversi mesi) nella quale torniamo gradualmente alla totalità delle nostre attività normali, sottoponendo la colonna a forze via via sempre più intense. Questa fase di riorganizzazione dei tessuti rigenerati, proseguendo con il lavoro fin qui effettuato, avrà tre principali obbiettivi:

  • Aumento della tolleranza al carico dell’area colpita e ritorno progressivo all’attività, esercizio, movimento che ha scatenato il dolore inizialmente.
  • Mobilizzazione della lombare e del bacino con prevenzione delle rigidità ed eliminazione di possibili fattori contribuenti e al dolore.
  • Distruzione di eventuali credenze catastrofiste e della paura del movimento.

Diverso è il caso del dolore cronico, caratterizzato dal persistere dei sintomi per mesi o anni. Questo può nascere da un primo episodio di dolore acuto non gestito in maniera corretta, oppure da uno stile di vita povero di movimento, caratterizzato da posizioni mantenute per tempi prolungati e da stiamoli motori poco variegati. Le attuali evidenze, riguardo al trattamento del mal di schiena cronico, propongono due capisaldi nell’affrontare questa condizione:

  • Una corretta educazione al dolore, alle sue cause e al suo comportamento.
  • L’esercizio terapeutico, intenso come terapia attiva e autoresponsabilizzazione del soggetto in prima persona.

L’intervento educazionale avrà l’obbiettivo di aumentare la consapevolezza e la conoscenza del dolore, premesse fondamentali per costruire aspettative e credenze positive che garantiranno una prognosi migliore. In primo luogo, quando si parla di dolore lombare cronico, è fondamentale aver chiaro che siamo in una condizione nella quale il dolore non è più associato a un reale danno strutturale, e nemmeno ad alterazioni riportate con lastre e risonanze (se non in una ridotta percentuale dei casi), ma bensì da un quadro di ipersensibilizzazione dell’area colpita e del sistema nervoso.

Questo processo altera la capacità del sistema nervoso di elaborare gli stimoli provenienti dalla schiena, amplificandone gli effetti rispetto alla normalità. È come se un antifurto invece di suonare solo quando entra un ladro in casa suonasse alla prima mosca che entra in casa. La rielaborazione e la processazione del dolore sono strettamente influenzati dal significato che attribuiamo al dolore stesso. La letteratura riporta stress, paura di non guarire, sensazioni di fragilità, paura del movimento, depressione e catastrofismo come i reali fattori che rallentano e ostacolano la guarigione in casi cronici.

Le nostre convinzioni sono quindi in grado di influenzare la percezione del nostro dolore a livello centrale. Soprattutto da un punto di vista motorio poi, tali credenze rendono psicologicamente più fragili, limitano le attività e il movimento, creando un circolo vizioso che comporterà rigidità, scarsa performance muscolare e alterata propriocezione.

Tutti questi fattori contrastano con quella che è a oggi l’unica vera raccomandazione per chi soffre di dolore alla schiena: il movimento. Mantenersi attivi, ridurre l’inattività e il risposo a letto, ritornare velocemente alle attività quotidiane con un’intensità razionale e soprattuto gradualmente progressiva, costituiscono le tre indicazioni che possono realmente fare la differenza per guarire definitivamente ed essere padroni del proprio corpo, evitando la medicalizzazione e terapie passive dall’impatto terapeutico molto meno significativo.

La storia naturale dei sintomi è un altro fattore importantissimo da conoscere: è tendenza comune, infatti, quella di attendersi dall’inizio delle terapie un percorso lineare con un miglioramento della condizione costante nel tempo (in pratica ci si aspetta di stare ogni giorno sempre meglio). La realtà però, riportata dalla letteratura, è che questo scenario non è quasi mai presente in una storia di lombalgia.

Il dolore infatti, tenderà ad avere qualsiasi cosa facciamo un andamento altalenante, con momenti di miglioramento lineare alternati a momenti di peggioramento improvviso. Bisognerà quindi valutare sempre la propria condizione in relazione alle settimane/mesi precedenti rispetto alla quantità di attività svolte senza dolore (o con dolore gestibile) e all’intensità dello stesso durante la settimana. Il trend dovrà essere valutato sempre in quest’ottica con questa consapevolezza, consapevoli di un percorso di crescita che potrà tranquillamente avere anche dei momenti di peggioramento.

Il secondo caposaldo è costituito dall’esercizio terapeutico e dalla promozione di uno stile di vita attivo. Evidenze consolidate riportano esercizio fisico (anche contro resistenze) come la terapia d’elezione per questo tipo di condizione, a patto che essa segua alcuni principi cardine fondamentali:

  • Gradualità dello stimolo: fornendo alla colonna stimoli via via più intensi in modo graduale in termini di volume e carico sostenuto.
  • Principio della modifica dell’aspettativa: in caso di mal di schiena cronico l’esercizio migliore prevede l’esecuzione del movimento di cui il soggetto a paura. Se infatti ho paura di piegarmi in avanti, esecuzione di questo movimento (inserita con gradualità e buon senso) determinerà la distruzione dell’aspettativa negativa (“mi spezzerò la schiena se lo faccio”) e la creazione di una nuova (“sono in grado di farlo senza spezzarmi la schiena”).

  • Principio del miglioramento motorio: un bagaglio motorio povero, con scarsa consapevolezza corporea e stimoli stereotipati facilita l’instaurarsi del dolore cronico. La ricostruzione di una corteccia motoria “organizzata” sarà requisito fondamentale di un programma di esercizi terapeutici mirati riprendere il controllo del proprio corpo sperimentando movimenti e posizioni nuove che garantiranno indirettamente mobilizzazione e stimolo attivo sui tessuti. Tutto ciò amplierà il bagaglio motorio migliorando la funzionalità della colonna e la sua capacità di gestire gli stimoli funzionali nel quotidiano.
  • Principio del corretto stile di vita. Un passo determinante per consolidare una guarigione e prevenire recidive è rappresentato dalla promozione di uno stile di vita attivo che spezzi la sedentarietà. Per esempio anche consigliare un aumento di passi giornalieri via via sempre maggiore fa parte del trattamento, così come incentivare un’attività fisica costante e variegata negli stimoli che si mantenga distante dagli accessi. Sarà inoltre molto importante curare la qualità dell’alimentazione e del sonno, la gestione dello stress, e l’inserimento costante di attività cardiovascolare. Questi fattori hanno un ruolo fondamentale nella gestione dei dolori cronici, oltre che per la qualità della vita di chiunque, in generale.

Mal di schiena: ruolo di riposo, terapia manuale e chirurgia

Per ciò che concerne la terapia manuale, alcuni studi hanno evidenziato come il trattamento manuale sia in grado di modificare temporaneamente il ROM del livello trattato, l’attivazione muscolare e la forza locale, e diminuire temporaneamente il dolore sia dell’area trattata che nei segmenti limitrofi. I miglioramenti associati alla terapia manuale non sono tuttavia riconducibili ad un effetto biomeccanico, ma ad effetti neurofisiologici e psicologici. In breve, quindi, la terapia manuale può rappresentare un valido aiuto nel piano riabilitativo, ma il focus principale dovrà sempre essere sul movimento attivo.

E il riposo? Stare a riposo significa attendere che il dolore passi da solo, ma significa creare un ambiente funzionale impreparato alla vita successiva al dolore, aumentando a dismisura il rischio di recidive a causa di una struttura più debole e per nulla sotto controllo. Il vero obbiettivo è invece quello di fare in modo di muoversi anche con il dolore, supportando la guarigione e preparando invece il corpo fisicamente e psicologicamente per impedire l’insorgenza di recidive. L’unica situazione in cui sarà invece necessario riposare per qualche giorno è la fase acuta del mal di schiena, come riferito in precedenza.

Altro fattore da analizzare è l’intervento chirurgico. “Ho un’ernia: mi dovranno operare?” Questo è un dubbio che spesso tormenta chi soffre di dolore radicolare causato da un’ernia. La letteratura afferma che il trattamento chirurgico di “decompressione spinale” per i pazienti con sciatalgia deve essere considerato solamente nei casi in cui si verifichino queste tre condizioni:

  • Gli interventi conservativi non abbiano fornito alcun risultato positivo per un periodo di almeno due mesi;
  • I risultati degli esami strumentali siano compatibili con i sintomi della sciatalgia;
  • Siano presenti sintomi ingravescenti e invalidanti come perdita di forza importante della muscolatura dei piedi e/o delle gambe.

I casi in questione sono molto rari, e rappresentano una percentuale molto ridotta tra chi soffre di sciatalgia. Un trattamento riabilitativo basato sugli esercizi terapeutici protratto nel tempo dovrebbe sempre avere la precedenza prima di prendere in considerazione qualsiasi tipo di approccio chirurgico (non ci riferiamo in questo caso a patologie più gravi e specifiche come la “sindrome della cauda equina”, fratture ecc…che possono richiedere invece un intervento immediato).

Mal di schiena in palestra e nel bodybuilding

Partiamo con una premessa: il mal di schiena di per sé non rappresenta una controindicazione all’attività fisica e all’allenamento con sovraccarichi (anche in presenza di artrosi, ernie o protrusioni). Alla luce di ciò, non c’è motivo per cui chi soffre di mal di schiena debba smettere di allenarsi a priori. La colonna vertebrale è fatta per sostenere il carico corporeo, ed è proprio il carico stesso che, se applicato in maniera graduale e progressiva, permette a questa di migliorare.

Al contrario, uno stile di vita sedentario, e il non applicare alcun carico alla colonna, porterà ad adattamenti in negativo, con una colonna che inevitabilmente perderà la propria capacità di carico diventando più debole, vulnerabile, meno resistente e più suscettibile a futuri episodi di recidive. Il movimento, anche con sovraccarichi, è quindi fondamentale per la salute dei nostri tessuti, schiena inclusa. La condizione che va però rispettata affinché ciò sia possibile è che venga rispettato il principio della gradualità dello stimolo durante gli allenamenti, con dei programmi allenanti opportunamente strutturati che prevedano una gestione della progressione dei carichi, del volume e della frequenza degli allenamenti che si basino sulle proprie attuali capacità.

In linea generale un segnale indicativo che può farci da guida per capire se il carico che stiamo esercitando sui nostri tessuti è ottimale o eccessivo per le loro attuali capacità è il dolore durante e dopo l’attività (per “dopo” si intendono le 24h post-esercizio). Se in questo intervallo temporale il dolore non diminuisce, o va aumentando, sappiamo che probabilmente dobbiamo fare un passo indietro, diminuendo uno o più parametri allenanti.

Se è presente un mal di schiena in fase acuta (meno di 7 giorni dall’esordio), o in qualsiasi altro caso dove sia presente un elevato grado di infiammazione e irritabilità, è consigliabile evitare di allenarsi per evitare di sovraccaricare ulteriormente una struttura infiammata che ha bisogno di un fisiologico tempo per guarire. Una volta terminata questa fase, tuttavia, sarà possibile e consigliato riprendere le attività allenanti in maniera graduale e progressiva.

Nei casi di mal di schiena cronico, invece, è consigliabile iniziare gradualmente l’attività in qualsiasi momento, poiché in tali situazioni il dolore percepito non è dovuto all’infiammazione, ma a una sensibilizzazione del sistema nervoso.

Concludiamo e riassumiamo questo tema con tre punti fondamentali:

  • Non esistono esercizi controindicati in modo assoluto, ma solo esercizi che non si è ancora preparati ad eseguire. Questo vale anche per esercizi come lo Squat e lo Stacco, che potranno essere ottimi esercizi per caricare la colonna, migliorare la tolleranza al carico dei tessuti, e distruggere le credenze catastrofiste.
  • La presenza di discopatie non costituisce una controindicazione all’attività con i pesi, anzi, riabituare la schiena al carico e potenziarne la funzionalità aiuterà a contrastare le paure e a sentirsi meno fragili.
  • Tecnica corretta e sovraccarico progressivo sono i due principi cardine con cui lavorare nell’esecuzione degli esercizi (in particolare di esercizi come Squat e Stacco).

Bibliografia: Fitness Posturale, Volume 2 (Andrea Roncari)

L'articolo Mal di schiena: cause, sintomi e rimedi efficaci proviene da Project inVictus.

Cheat day e cheat meal: cos’è e come funziona

$
0
0

Cheat day

Per una volta puoi mangiare quello che vuoi: è arrivato il cheat meal (e per qualcuno il cheat day). Forse hai già un’idea di che cos’è e come funziona, ma il “pasto libero” aiuta soltanto in termini psicologici o ha un’utilità anche da un punto di vista metabolico e fisiologico? In questo articolo scoprirai perché sono utili nel bodybuilding e nell’allenamento in palestra e (forse) come impostarli.

Per non creare troppa suspense, l’inserimento di questi picchi calorici e glucidici ha un senso, anzi: è quasi un qualcosa di imprescindibile all’interno di un periodo di ipo-alimentazione.

Cos’è il cheat day? Cosa vuol dire? Significato e traduzione

Il cheat day è il giorno libero in cui puoi fare uno “sgarro: ti permette di appagare il tuo palato per soddisfare sia un tuo bisogno personale di mangiare qualcosa che ti piace per un’intera giornata sia un momento sociale di condivisione con gli amici (aperitivi, pizzate, etc.).

È una deroga alla dieta o, meglio, di giorni in cui hai maggiori quantità di cibo da poter consumare con vincoli più o meno penetranti. Potrai infatti avere:

  • una maggior varietà di scelta,
  • la possibilità di non calcolare la grammatura di cibi,
  • semplicemente un giorno con i macro pre-impostati più alti.

Cos’è il cheat meal? Significato e traduzione

Il cheat meal è un unico pasto libero vero e proprio: al soggetto viene lasciato un pasto in cui non ha vincoli di scelta (in termini quantitativi e qualitativi) degli alimenti da consumare. In questo caso lo scopo è prettamente psicologico e di motivazione a perseguire la dieta.

Quello che ne consegue a livello metabolico che sia tanto di guadagnato o perso poco importa: il beneficio psicologico supera di gran lunga ogni male in questi casi. Va detto che questo si presta anche come un’arma a doppio taglio in quanto rappresenta il passo più breve per cadere in fenomeni di binge eating (abbuffate frequenti e incontrollate) e disturbi alimentari veri e propri, che hanno alla base un motivo psicologico e non nutrizionale. Vivere in funzione di quell’unico pasto libero che starà nei nostri pensieri per tutta la settimana.

A cosa servono il cheat day e il cheat meal? Benefici

eat day cheat meal cos'è come funziona

Il metabolismo si adatta a ciò che riceve, ad esempio quando inizi un periodo di ipocalorica l’organismo percepisce che sta ricevendo meno energia rispetto a quella a cui era abituato e induce in risposta degli adattamenti per adeguarsi alla nuova situazione a livello ormonale ed enzimatico.

Periodi molto protratti di ipocalorica ipoglucidica portano ad un abbassamento del metabolismo ed è a questo punto che interviene il cheat day/meal: il picco calorico ha un “effetto paracadute” nei confronti della discesa del metabolismo.

Questo rialzo energetico favorisce non solo un maggior mantenimento della massa magra, ma anche un ulteriore stimolo nella perdita di adipe: doppio beneficio e utilità ai fini del dimagrimento nel lungo periodo.

In particolare, il cheat day (inteso come 24 ore di ricarica) ha più effetto rispetto al cheat meal per quanto riguarda l’inibizione temporanea dei processi catabolici e la normalizzazione di molti ormoni coinvolti nella regolazione metabolica (leptina, cortisolo, ormoni tiroidei, insulina).

Cheat day e cheat meal fanno ingrassare?

È probabile che in seguito ad un giorno con un apporto energetico più alto del solito e a prevalenza glucidica, il peso corporeo sia un po’ aumentato. Non è grasso: le scorte di glicogeno sono state riempite dal glucosio assunto e anche l’acqua gioca la sua parte.

Ogni grammo di glicogeno immagazzinato richiama 3 grammi di acqua, che si traduce in un incremento considerevole di peso. Dall’altra parte, se il pasto è anche salato, il sodio tenderà a trattenere i liquidi: altro fattore di aumento del peso.

In ogni caso, è una situazione temporanea e in un paio di giorni a seconda del soggetto viene ripristinato il peso pre-pasto libero. Alcuni, se il pasto non è particolarmente sporco o ricco di sale, non riferiscono nemmeno l’incremento ponderale.

Come fare il cheat day e il cheat meal? Come impostarli?

Oltre alla preferenza di uno o dell’altro macronutriente, come appena visto, per fare il cheat day o il cheat meal il consiglio è quello di scegliere fonti facilmente digeribili.

Il pasto libero sarà infatti quasi sicuramente molto abbondante e c’è da ricordare che anche il tratto gastro-intestinale si adatta alla restrizione: a quantità ridotte (come in ipocalorica) corrisponde una diminuzione del lume del tratto digerente (es. stomaco meno voluminoso e quindi più facilmente riempibile).

Quindi, questo cambiamento morfologico si traduce nella percezione precoce del senso di sazietà, perché lo stomaco si riempie facilmente e con quantità non troppo grandi: gli ormoni anoressizzanti potrebbero essere i responsabili del non riuscire a completare il tuo cheat day/meal a causa della pienezza o del senso di nausea se comunque mangi grandi quantità a cui non sei più abituato.

Ad esempio, non è raro che degli atleti superino gli 800-1000 g di carboidrati in ricarica, che potrebbero causare disturbi gastrointestinali e difficoltà di digestione se le fonti scelte non sono adeguate, come ad esempio i cereali integrali.

Quindi, è meglio scegliere fonti digeribili, non fibrose e non troppo voluminose per non sovraccaricare eccessivamente il sistema digerente. Se invece sai di essere un pozzo senza fondo e di digerire bene, non c’è da dare troppo peso a queste considerazioni.

Quante calorie assumere nel cheat day e nel cheat meal?

Non c’è un numero prestabilito di calorie da assumere, ma sicuramente più del solito. Se vuoi essere sicuro di non mandare all’aria i giorni di ipocalorica, puoi gestire anche lo “sgarro”, assicurandoti che rientri nell’introito calorico settimanale.

In questo modo, sarai sicuro di non recuperare le calorie risparmiate in quell’unico pasto o giornata libera – anche se programmata non sarà più davvero un vero e proprio cheat. Puoi comunque non impostare i macronutrienti e solo stare circa su quell’introito calorico previsto. Un buon compromesso. Altrimenti nessun conteggio e goditi il cheat.

Cosa mangiare nel cheat day e nel cheat meal?

cheat day cosa mangiare palestra

Bisogna ricordarsi che il “pasto libero” non è un “via libera”: va bene mangiare di più, ma non per questo per forza eccedere e mangiare il più possibile fino alla nausea. Un po’ di buon senso e autocontrollo, anche se l’uso della parola “cheat” (imbrogliare) sicuramente non aiuta.

Dopo questa piccola nota sulla quantità, la qualità consigliata prevede un alto apporto glucidico, moderato protidico e basso lipidico. Riuscire a trovare il pasto che ti piace e che soddisfa anche queste caratteristiche sarà il pasto ideale.

Pizza

Consideriamo una pizza margherita come il risultato di 180 g farina + 200 g mozzarella + 250 g passata di pomodoro e 10 g olio. In totale ci sono circa 1300 kcal, 150 g di carboidrati, 45 g di grassi, 75 g di proteine e 20 g di fibra alimentare.

Ogni aggiunta va a sommarsi a questi valori e capiamo perché la pizza è un cibo molto calorico: può praticamente soddisfare un fabbisogno calorico giornaliero o buona parte di esso, dato che non è così difficile trovare chi vive con 1300 kcal/die in normocalorica.

Pasta

100 g di pasta di semola contengono, come tante altre fonti di cereali, 73 g di carboidrati, 14 g di proteine e tracce di lipidi e fibre (fonte CREA). La maggior parte dei glucidi è costituita da amido (amilosio + amilopectina) e i protidi non sono ad alto valore biologico.

Un cheat da vero patriota italiano.

Dolci

I dolci non sono troppo indicati per un cheat, dato che oltre ai carboidrati ci sono molti grassi, ma nessuno vieta di mangiarli, altrimenti che pasto libero sarebbe.

Quante volte fare il cheat day e il cheat meal? Una volta a settimana?

Per quanto riguarda la frequenza del cheat meal: dipende. Per quanto invece riguarda il cheat day: dipende. Andiamo per gradi, anzitutto bisogna ragionare in termini di discesa metabolica.

Più alto è il GAP calorico, maggiore la velocità di discesa del metabolismo, maggiore il tasso di deplezione delle scorte energetiche, più frequentemente dovrai inserire una ricarica. Viceversa, minore è il deficit calorico, più è lenta la discesa metabolica, minore il tasso di deplezione del glicogeno e meno frequente la necessità di una ricarica.

Grande deficit calorico Modesto deficit calorico
Abbassamento metabolico Veloce Lento
Deplezione scorte energetiche Veloce Lenta
Necessità ricarica Frequente Meno frequente

Puoi quindi trovarti ad avere una ricarica ogni 4 giorni come anche una volta ogni 7-10 giorni. Il concetto sta nello stabilire una quota settimanale e ciclizzarla come risulta più conveniente. Sia chiaro che bisogna tener conto anche e soprattutto dell’allenamento: un maggior volume d’allenamento comporta un aumentato dispendio energetico e, a parità di calorie assunte, un maggior GAP calorico a cui consegue una ricarica più frequente.

In conclusione, 1 o massimo 2 pasti liberi a settimana (meglio se non in giorni consecutivi) sono la frequenza consigliata, proprio per termini pratici: se fossero 3 o più significherebbe stare solo la metà della settimana in restrizione energetica e non è una buona premessa per ottenere risultati.

Quando fare il cheat day e il cheat meal?

In relazione all’allenamento, conviene coordinare la giornata di ricarica con lo stesso, facendola combaciare con i giorni di allenamento di un gruppo muscolare carente. Viceversa, conviene allenare i gruppi muscolari che “stanno avanti” nei giorni in cui l’ipoalimentazione è protratta da più tempo – praticamente prima della ricarica. In questo modo i gruppi carenti traggono beneficio non solo dal miglioramento della performance ma anche dall’aumento del metabolismo e del tasso di proteosintesi.

Se invece la variabile allenamento non c’è, conviene associare il pasto libero ad esempio il weekend, quando un invito a pranzo o a cena potrebbe essere inevitabile: in questo caso non ci sono particolari momenti più opportuni di altri, se non riuscire a coadivuare dieta ipocalorica e vita sociale.

Cheat meal dopo l’allenamento (post workout)

Fare il cheat meal dopo l’allenamento è una buona soluzione. Perchè? Alla fine dei conti, workout o non workout, I  nutrienti e le calorie che mangi sono sempre quelle: cosa cambia?

Cambia il tuo assetto metabolico: a scorte energetiche esaurite o quasi il corpo si trova in una situazione in cui ha “fame” di ripristinarle. Perciò, per re-implementare le scorte, le cellule muscolari espongono sulla propria superficie cellulare i recettori GLUT-4 che captano il glucosio circolante.

Così, un pasto libero con una buona componente glucidica viene indirizzato preferenzialmente alla fibra muscolare e in misura minore al grasso, rispetto a quanto avverrebbe se lo stesso pasto venisse assunto non dopo allenamento.

Su questo concetto si fonda l’inserire una fonte glucidica nel pasto successivo (cheat o meno) al workout per ripristinare al meglio le scorte energetiche.

Cheat day e cheat meal in bodybuilding e palestra

In ipocalorica, tutti i processi del corpo rallentano per cercare di conservare l’energia e risparmiare il più possibile. Questo si traduce prevalentemente in un down di diversi ormonileptina, ormoni tiroidei, testosterone etc.. C’è inoltre una deplezione delle scorte epatiche e muscolari di glicogeno che interferisce in maniera negativa sulla performance.

Infatti, ha bisogno di substrati energetici, ma è logico che il gioco non può andare avanti all’infinito. Il corpo ragiona così: punta alla sopravvivenza, il GAP calorico mette a rischio la sopravvivenza e quindi deve farvi fronte. Come? Abbassa il metabolismo.

Ha quindi un senso fare il cheat meal/day in fase di bulk e/o di cut?

Cheat day e cheat meal in massa

cheat meal bodybulding cos'è

Ha senso parlare di cheat day e cheat meal in contesti di iper-alimentazione? Ha davvero senso inserirlo? Di fatto sì e ci sono almeno 3 buoni motivi:

  • Impostare picchi glucidici permette di gestire meglio le asimmetrie muscolari dando un vantaggio metabolico ai gruppi muscolari carenti.
  • Limitare i picchi glucidici all’interno della settimana dà un grande vantaggio in termini di sensibilità insulinica, e questo vale anche per la distribuzione dei macronutrienti nell’arco della giornata.
  • Avere dei giorni nei quali l’apporto glucidico non permette il ripristino completo delle scorte di glicogeno e dei giorni in cui si va a sovracompensare allena il muscolo ad aumentare la sua capacità di immagazzinamento – che si traduce in un miglioramento della performance anche sul lungo termine.

Questa strategia non è altro che una forma di carb cycling, che permette di limitare (non scongiurare) l’accumulo di massa grassa.

Abbiamo già visto uno dei motivi per cui si ingrassa, ovvero la contestuale assunzione di lipidi e glucidi: ecco, in questo modo, puoi dividere i giorni di picco glucidico dai giorni in cui tendi ad assumere un quantitativo maggiore di lipidi, in modo da tenerne una buona quota settimanale e non veder crollare i valori ormonali (cosa comunque difficile in contesti di iper-alimentazione).

Esempio protocollo in ipercalorica

Target Glucidico settimanale: 3550gr

Target calorico settimanale: 21’900 kcal

Gruppi muscolari carenti: Gambe, spalle

Gruppi muscolari forti: Dorso

Push-Day (enfasi petto) 500gr chos – 3100kcal
Pull-Day + Cardio 500gr chos – 3100kcal
Legs + Cardio 800gr chos – 4300kcal
Push-Day (enfasi spalle) 500gr chos – 3100kcal
Pull-Day + Cardio 500gr chos – 3100kcal
Legs 500gr chos – 3100kcal
Cardio 250gr chos – 2100kcal

Cheat day e cheat meal in definizione

La ricarica calorica deve essere composta principalmente da glucidi: da unaparte i glucidi sono i macronutrienti che hanno un impatto maggiore sul profilo ormonale, dall’altrasono anche quelli che meglio si prestano al ripristino delle scorte muscolari ed epatiche di glicogeno.

Piccola partentesi: contesti di ipo-alimentazione sono un ottimo momento per puntare anche sul fruttosio, in minima parte e non contestualmente al pasto di picco glucidico.

É vero che il glucosio e i suoi polimeri, in particolare l’amilosio, influenzano in modo particolare gli assi neuroendocrini, ma il fatto che il fruttosio venga metabolizzato nel fegato risulta vantaggioso in quanto i depositi di glicogeno epatico sono il principale indice per l’avvio dei processi di glicogenosintesi a carico della massa muscolare.

Esempio protocollo in ipocalorica

Target Glucidico settimanale: 2400gr

Target calorico settimanale: 17’900 kcal

Gruppi muscolari carenti: Gambe, spalle

Gruppi muscolari forti: Dorso

Push-Day (enfasi petto) 300gr chos – 2400kcal
Pull-Day + Cardio 300gr chos – 2400kcal
Legs + Cardio 700gr chos – 4000kcal
Push-Day (enfasi spalle) 300gr chos – 2400kcal
Pull-Day + Cardio 300gr chos – 2400kcal
Legs 300gr chos – 2400kcal
Cardio 200gr chos – 1900kcal

Cheat day: sì o no

Il pasto libero o il cheat day è un qualcosa di molto complesso da gestire e da inserire all’interno del protocollo, considerando che bisogna ragionare anche e soprattutto in termini di sostenibilità e che puoi fissare dei vincoli più o meno penetranti.

Così, per esempio, limitarti ad un pasto libero di soli glucidi e proteine ad libitum, evitando grassi, può risultare una strategia che appaga mente e corpo.

Se ti interessa l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, scarica la nostra guida gratuita per cominciare:

Guida di base alla nutrizione

Guida di base alla nutrizione

Come mangiare correttamente per dimagrire

 
Co-autore: Ludovico Lemme
Personal Trainer certificato ISSA e studente SaNIS (scuola di nutrizione e integrazione sportiva). Segue diversi atleti, sia dal vivo che online nel campo del Bodybuilding e del fitness in generale. Nel 2015 avvia il progetto Rhinocoaching con il quale si propone di creare una piattaforma di riferimento per i suoi atleti e per gli appassionati in generale.
Contatti: rhinocoachingofficial@gmail.com
Sito Web: www.rhinocoaching.it

L'articolo Cheat day e cheat meal: cos’è e come funziona proviene da Project inVictus.

Pulley basso: tutorial ed esecuzione corretta

$
0
0

pulley basso

L’esercizio Pulley Basso è senza dubbio uno dei più celebri nel panorama del bodybuilding di ieri e di oggi, vero e proprio punto fermo per l’allenamento della schiena. Nonostante sia un esercizio all’apparenza semplice, qualche insidia viene spesso coperta da un’esecuzione di base motoriamente poco convincente.

Vediamo nel dettaglio come costruire un’esecuzione scientifica, con consapevolezza dei muscoli coinvolti e dirimendo le principali questioni che lo investono quotidianamente in palestra.

Che cos’è il pulley basso? A cosa serve?

Il pulley è classificabile come esercizio di tirata sul piano orizzontale e nella sua esecuzione classica a presa stretta prevede un’adduzione completa della scapola e un’estensione pura dell’omero lungo un piano sagittale puro, con un’escursione di movimento dimezzata da un allungamento incompleto con la spalla che parte da 90° circa di flessione fino a un accorciamento completo con i gomiti che spingono fin dietro il tronco.

Visto il massimo accorciamento al quale sono portati gli adduttori delle scapole durante un movimento fino a fine corsa di estensione di spalla, la sensazione di lavoro muscolare è percepita molto a livello del cosiddetto “centro schiena” ragion per cui viene spesso classificato come esercizio per lo “spessore”. Nonostante ciò rimane comunque un ottimo esercizio per il gran dorsale.

Come si esegue il pulley basso? Come si fa?

L’esecuzione corretta del pulley machine prevede una partenza da seduti ma con le gambe in avanti, i piedi appoggiati ai supporti e il tronco perpendicolare al terreno. Il consiglio generale, per la stragrande maggioranza dei soggetti in ambito fitness, è quello di mantenere la lordosi in posizione neutra durante l’esercizio, evitando di inclinare il tronco in avanti come spesso veniva insegnato in passato.

Ciò garantisce una buona stabilità vertebrale e la concomitante co-contrazione di muscoli fondamentali come trasverso dell’addome e multifido, muscoli spesso deboli nei sedentari e in chi soffre di dolori alla schiena ricorrenti. Ricordiamo inoltre che, mantenendo la lordosi lombare in leggera estensione, il gran dorsale raggiungerà il massimo accorciamento alla fine della concentrica (il gran dorsale è anche un’estensore della colonna oltre che un estensore di spalla).

Se opti per un’esecuzione in de-lordosi, questo impedisce al gran dorsale di arrivare al massimo accorciamento e il muscolo concluderà l’esecuzione in accorciamento incompleto variando leggermente lo stimolo proposto – ad ogni modo viene sconsigliata questa variante esecutiva nei soggetti sedentari e con storia clinica di dolore alla schiena.

Se sei alla presenza di persone con muscoli ischiocrurali retratti, potrebbero nascere dei problemi nel posizionamento iniziale al pulley al cavo basso: con anche flesse e ginocchia completamente estese c’è bisogno di un’ottima mobilità di questi muscoli per impedire la retroversione del bacino e l’inversione della lordosi fisiologica.

In caso di retrazione si consiglia quindi di flettere maggiormente le ginocchia e di farlo a gradi sufficienti da permettere di antivertere il bacino e preservare la lordosi durante l’esercizio (lombare in posizione neutra).

Una volta posizionati correttamente, parti con le braccia sempre completamente distese e spingi i gomiti indietro portando il triangolo all’incirca alla pancia ed enfatizzando l’adduzione delle scapole.

È fondamentale in questo senso che l’input del movimento nasca a livello dei gomiti, i quali saranno impegnati nello spingere indietro per coinvolgere il più possibile gli estensori dell’omero e il meno possibile i flessori di gomito e i muscoli dell’avambraccio – per questo è altresì consigliata una impugnatura al pulley basso incompleta sul supporto.

Per quanto riguarda il movimento scapolare puoi optare per due varianti differenti:

  • Mantieni le scapole fisse in adduzione, con una contrazione isometrica degli adduttori delle scapole;
  • “Sblocca” le scapole e completa la contrazione isotonica con i medesimi muscoli.

Per un’oggettiva maggiore enfasi di contrazione è meglio la seconda variante, rimanendo consapevoli che per essere ben eseguita, senza perdere la lordosi fisiologica, necessita di un’ottima consapevolezza dei movimenti corporei (maggiore supervisione per soggetti neofiti).

Respirazione corretta nel pulley basso

Durante l’esecuzione del pulley, la corretta respirazione prevede di inspirare durante la fase eccentrica o di allungamento, ed espirare durante la fase concentrica o di accorciamento muscolare.

Muscoli coinvolti nel pulley basso

In virtù della biomeccanica dell’esercizio, i muscoli stimolati maggiormente sono:

  • gli adduttori delle scapole (romboidi e trapezio medio),
  • il gran dorsale,
  • il grande rotondo (estensori dell’omero).

Errori comuni nell’esecuzione del pulley basso

esecuzione pulley basso scapole

Seppur didatticamente risulta un esercizio alla portata della stragrande maggioranza delle persone, è comune assistere a diversi errori durante il suo svolgimento:

1. Avere eccessivi compensi nel corso dell’esercizio

In taluni casi puoi osservare movimenti del rachide in eccessiva flessione durante la fase di allungamento ed eccessiva estensione durante la fase di tirata. Questo modus operandi non porterà altro che un lavoro dispersivo a livello muscolare, creando più fatica del necessario ed alzando esponenzialmente il rischio infortunio.

2. Avere uno scorretto assetto scapolare in partenza, con le scapole eccessivamente elevate

Tale atteggiamento porta le spalle a sobbarcarsi più stress articolare del dovuto e a cambiare anche l’attivazione muscolare selettiva.
O parti e mantieni le scapole fisse in adduzione con una contrazione isometrica degli adduttori delle scapole oppure parti con le scapole in abduzione ma non in elevazione.

3. L’input iniziale nasce dai polsi e non dai gomiti

Concentrati sui gomiti prima e durante la fase di tirata, pensando di spingerli all’indietro e mantenerli bassi. Un corretto movimento di tirata favorisce maggiormente l’attivazione dei muscoli estensori dell’omero, in primis il gran dorsale.

4. Esecuzione troppo frettolosa dell’esercizio

Porta ad un insufficiente tempo sotto tensione dei muscoli interessati. E’ importante eseguire una fase di tirata di almeno 2-3’’ ed una fase di allungamento della medesima durata, non essere frettoloso e scegli una resistenza che ti consenta di mantenere un tempo sotto tensione del genere, lavorando mediamente in un range di ripetizioni tra le 8 e le 12.

Quante ripetizioni, serie e kg: carichi e progressioni

esecuzione del-pulley e allenamento schiena

Sicuramente il pulley risulta un esercizio che ben si presta a lavori a range di ripetizioni medio-alti, il cosiddetto “range ipertrofico” sulle 8-15 ripetizioni. Una volta affinata la tecnica e l’esecuzione ti renderai ben presto conto che arrivato ad un certo carico il margine di progredire non sarà cosi ampio.

Conviene quindi lavorare piuttosto sull’aumentare il numero totale di ripetizioni a parità di carico all’interno delle serie allenanti oppure inserire qualche tecnica come i “rest pause” o gli “stripping” per macinare più volume.

E’ un esercizio che sicuramente crea meno stress sistemico rispetto ad altri esercizi di tirata orizzontale come il rematore con bilanciere e il t-bar, perciò anche raggiungere spesso e volentieri il cedimento (o addirittura oltrepassarlo) non disturberà in maniera così rilevante il sistema nervoso centrale e le capacità di recupero.

Consiglio di inserire 3-5 serie allenanti di pulley basso a settimana, progredendo in un primo momento sul carico, nel rispetto delle tecnica di esecuzione, per poi virare l’attenzione sul volume. Ecco un possibile esempio di progressione sull’esercizio pulley basso:

  • Sett.1 → 3x 12-12-12
  • Sett.2 → 3x 10-10-10 (+ carico – volume)
  • Sett.3 → 3x 8-8-8 (+ carico – volume)
  • Sett.4 → 4x 8-8-8-8 (stesso carico + volume)
  • Sett.5 → 4x 10-10-10-10 (- carico, + volume)
  • Sett.6 → 4x 12-12-12-12 (- carico + volume)
  • Sett.7 → 4x 12-12-12-12 con rest pause (stesso carico + volume)
  • Sett.8 (scarico attivo) → 2x 12-12 (stesso carico – volume)

Impugnatura e presa pulley basso

Pulley

Esistono diverse varianti del classico pulley basso con triangolo analizzato fino ad ora.

Presa larga prona

Al posto del triangolo viene solitamente utilizzata una sbarra dritta o a T come per la lat machine. Anche per questa variante valgono i medesimi principi sopra esposti, la sola differenza è inerente al piano di lavoro, poiché allargando la presa passeremo da una estensione di spalla sul piano sagitale, ad una abduzione sul piano trasversale.

Non ci sono rilevanti differenze in termini di attivazione muscolare, se non che in questa variante a presa larga, il muscolo deltoide posteriore sarà maggiormente stimolato e i fasci più bassi del gran dorsale meno.

Presa trazy con la trazy-bar

E’ una variante che prevede l’utilizzo del trazy-bar e che pone particolare attenzione al lavoro scapolare e alla flessione ed estensione toracica (non sempre cosi indicata sotto carico). Non si cercherà di far toccare la trazy-bar al tronco, ciò implicherebbe una perdita del lavoro sui muscoli scapolari e sul gran dorsale, si eleveranno i gomiti e di conseguenza la linea di trazione, spostando il lavoro sempre di piu’ sui deltoidi posteriori e il trapezio.

A presa larga dall’alto

Altra possibile presa alto prevede il cambio dell’impugnatura e l’allargamento della presa: più la presa è larga e più il lavoro muscolare si sposterà principalmente sui deltoidi posteriori, sul trapezio (fasci superiori e medi) e sui romboidi; più si stringe e più migrerà dai deltoidi posteriori al gran dorsale.

E’ una variante che come quella con il triangolo dall’alto, forza la scapole a lavorare con contrazioni isotoniche, in abduzione e successiva adduzione.

Varianti esecutive del pulley basso

Ci sono diverse varianti di questo esercizio, oltre a qualche esempio trovi anche questo articolo di approfondimento su una variante interessante del pulley.

Pulley con maniglie

Ad una maniglia, prevede un lavoro unilaterale ed evita qualsiasi tipo di asimmetria di contrazione. In corso di esecuzione c’è una prono-supinazione dell’avambraccio, movimento che favorisce la salute articolare del gomito. Questa variante è la piu’ indicata per chi soffre di dolore al gomito o ha già avuto problematiche in passato, come per esempio l’epitrocleite.

Dal punto di vista dello stimolo muscolare, valgono tutte le considerazioni fatte per la versione classica del pulley, aggiungendo che la variante con maniglia è un buon esercizio per reclutare i muscoli del core, questo per via del fatto che avremo un momento della gravità rotatorio al tronco, che viene vinto attraverso una contrazione dei muscoli trasverso e obliqui dell’addome.

Con il triangolo in alto

In questa variante il triangolo sarà posizionato in alto e non dritto verso di noi. La versione dall’alto pone particolare enfasi sull’allungamento del gran dorsale, e nella fase di tirata, come per la versione classica, sarà importante pensare di tirare dai gomiti e non dai polsi.

Dal punto di vista dell’attivazione muscolare non ci sono differenze significative, in questa variante le scapole sono maggiormente forzate ad abdursi durante la fase di allungamento, con conseguente adduzione durante quella di accorciamento, lavorando quindi necessariamente con contrazioni isotoniche.

Con elastico

L’ultima variante che inseriamo all’interno di questo articolo è quella con elastico, molto gettonata ultimamente dato il periodo.

La pecca principale è dettata dal limite della banda elastica, che genera una assenza di tensione muscolare nella fase di allungamento. Sarà quindi una versione del pulley con la sola fase concentrica, chiaramente inferiore alla canonica con la carrucola dal punto di vista dello stimolo muscolare.

Pulley basso o rematore?

Sono entrambi due esercizi di tirata sul piano orizzontale, i muscoli interessati sono grosso modo i medesimi, tranne per il fatto che nel rematore, tolta la variante con il manubrio o con i manubri in appoggio su panca, i muscoli paravertebrali e del core sono maggiormente attivati per via della richiesta di stabilizzazione superiore.

Il rematore, rispetto al pulley, si presta meglio a lavori incentrati sulla tensione meccanica, anche se puntualmente si notano esecuzioni terribili proprio per il fatto di voler caricare resistenze eccessive. Molti soggetti riscontrano migliori feedback muscolari ed una migliore connessione mente-muscolo con il pulley, specie lavorando con i giusti tempi sotto tensione.

In assenza di problematiche che impediscono lo svolgimento di uno dei due esercizi, può essere suggerito l’inserimento di entrambi, sfruttando idealmente i rematori per lavori a carichi più pesanti, ed il pulley per lavori di sfinimento muscolare a sfondo più metabolico.

Pulley ed alterazioni posturali

Non ci sono controindicazioni assolute nello svolgimento del pulley in presenza di alterazioni posturali del rachide, risulta però opportuno analizzare il singolo caso ed eventualmente aggiustare l’esecuzione dell’esercizio, nel rispetto delle problematiche in essere.

In caso di una scoliosi, se non si tratta di una scoliosi patologica ma bensi di un atteggiamento scoliotico come nel 99% delle volte, il pulley può essere eseguito senza alcuna controindicazione, assicurandosi sempre di rispettare la corretta esecuzione dell’esercizio sopra esposta ed un corretto dosaggio dei carichi di lavoro.

In caso di una forte cifotizzazione del tratto toracico, il pulley potrebbe fungere da esercizio propedeutico al ripristino di un corretto ritmo scapolare, tramite in primis ad un rinforzo dei muscoli adduttori delle scapole.

Per l’iperlordosi a livello lombare, un accorgimento utile sarà quello di forzare il bacino maggiromente in retroversione durante lo svolgimento dell’esercizio, aiutandosi grazie ad una leggera contrazione dei glutei e dei muscoli del core; a tal proposito la variante al cavo con maniglia potrebbe essere piu’ indicata.

Nel caso il soggetto abbia una alterazione a livello cervicale, sarà importante concentrarsi sul mantenere quest’ultima in neutralità durante ogni ripetizione delle varie serie svolte.

Conclusioni sul pulley

Vale la pena inserire il pulley nella propria routine di allenamento, salvo particolari controindicazioni. E’ un esercizio che gode di un buon rapporto in termini di stimolo e fatica accumulata, oltre che essere motoriamente semplice e alla portata della stragrande maggioranza degli utenti che frequentano la sala pesi. Anche nel campo del bodybuilding è largamente utilizzato da sempre, proprio per le considerazioni precedentemente esternate.

L'articolo Pulley basso: tutorial ed esecuzione corretta proviene da Project inVictus.

Dentato anteriore: anatomia, funzioni ed esercizi

$
0
0

Il dentato anteriore (o gran dentato) è un muscolo di fondamentale importanza per quanto riguarda la salute ed il funzionamento ottimale di tutto il cingolo scapolo-omerale. Agendo in modo sinergico con altri muscoli come il trapezio, la cuffia dei rotatori ed il deltoide, è infatti in grado di garantire stabilità e mobilità alla spalla durante i movimenti a carico degli arti superiori.

Andiamo dunque ad analizzare l’anatomia e le funzioni di questo muscolo così importante, per riportarla poi nella pratica, evidenziando gli esercizi più efficaci per allenarlo in palestra.

Che cos’è il dentato anteriore (o gran dentato)?

Il dentato anteriore è un muscolo appartenente al complesso della muscolatura scapolo-toracica. Originando con 9-10 digitazioni dalla prima fino alla nona costa, decorre anteriormente alla scapola, fino ad inserirsi lungo tutto il margine mediale della scapola stessa, dall’angolo superiore fino a quello inferiore.

Vista l’estensione del ventre muscolare di cui è composto, possiamo suddividere il gran dentato in tre porzioni distinte che, in base all’orientamento delle proprie fibre, possiedono funzioni anatomiche differenti. Nello specifico:

  • Le fibre che dalla prima e seconda costa si inseriscono sull’angolo superiore della scapola compongono la porzione superiore.
  • Le fibre che dalla seconda e terza costa giungono sul margine mediale puro formano la parte intermedia.
  • Le fibre che dalla quarta alla nona costa decorrono fino dall’angolo inferiore compongono la parte inferiore (che rappresenta la parte più forte e prominente di tutto il muscolo).
Muscolo dentato anteriore: visione anteriore, laterale e posteriore

Anatomia muscolo dentato anteriore: origine e inserzione, dove si trova?

Anatomia e funzioni del muscolo dentato anteriore
Origine Dalla prima alla nona costa
Inserzione  Margine mediale della scapola, dall’angolo superiore fino a quello inferiore
Azione Protrazione (tutte e tre le porzioni del muscolo), rotazione craniale e tilt posteriore della scapola (porzione inferiore). Adesione della scapola sul torace (tutte e tre le porzioni)

Azione e funzione del gran dentato: come funziona e cosa fa?

In virtù della sua localizzazione anatomica e della direzione delle fibre che lo compongono, possiamo asserire con certezza che il muscolo dentato, innervato dal nervo toracico lungo, ha la funzione di far aderire la scapola al torace. Tale funzione è svolta in sinergia con i muscoli romboidi e trapezio. Il gran dentato, inoltre, possiede importanti funzioni a livello scapolare:

  • Con la sua porzione superiore protrae la scapola;
  • Con la porzione intermedia protrae, tilta posteriormente e ruota cranialmente la scapola (la glena ruota verso l’alto);
  • Con la porzione inferiore protrae, tilta posteriormente e ruota cranialmente la scapola.
abduzione scapola
Protrazione della scapola
rotazione craniale
Rotazione craniale della scapola

Il gran dentato è così un muscolo fondamentale durante la flessione e abduzione omerale (specialmente dai 90° in poi, quando è maggiormente attivo), nella quale è sinergico del muscolo trapezio superiore nel ruotare verso l’alto la glena e sinergico del trapezio inferiore nel tiltare posteriormente la scapola.

Entrambi questi movimenti, se correttamente eseguiti, garantiscono funzionalità e salute all’articolazione gleno-omerale durante il sollevamento del braccio, preservando sufficiente spazio sub-acromiale per un’ottimale biomeccanica.

Esercizi efficaci per il muscolo gran dentato

Una volta analizzate origine, inserzioni e funzioni anatomiche di questo muscolo, siamo ora pronti per scoprire gli esercizi più efficaci per attivarlo e rinforzarlo riportati in letteratura. Partiamo da un importante quesito: perchè è utile rinforzare il gran dentato?

Essenzialmente perchè, come abbiamo visto, il gran dentato è un muscolo determinante per la fisiologica  biomeccanica del movimento di sollevamento del braccio sopra la testa. Infatti, in virtù della sua funzione di rotazione della scapola, garantisce una normale funzionalità, prevenendo possibili infortuni e soprattutto garantendo una mobilità completa a questo livello.

Un rinforzo di questo muscolo può avere inoltre un ruolo chiave nell’aumento della forza in molti esercizi di spinta, oltre che da un punto di vista estetico in ottica bodybuilding. Analizziamo dunque quali sono gli esercizi più utili in questo contesto:

Viste le sue funzioni anatomiche possiamo asserire con certezza che il gran dentato è fortemente attivo in tutti i movimenti nei quali si richiede una flessione/abduzione della spalla contro gravità (dunque negli esercizi nei quali portiamo il braccio sopra la testa con un sovraccarico) e/0 in quegli esercizi dove si contrae come protrattore scapolare primario.

Un primo fondamentale esercizio è quindi il Lento avanti con bilanciere o manubri (o Military Press), nel quale il dentato anteriore si attiva come muscolo rotatore craniale contro gravità per garantire un’ottimale movimento sinergico di omero e scapola durante l’abduzione a 180° prevista. Un secondo esercizio che riprende questa funzione sono le alzate laterali, specialmente nella variante che prevede un’abduzione omerale che supera i 120°, eseguita in extrarotazione.

military press bilanciere in piedi

Riguardo alla funzione di protrazione scapolare: su tutti abbiamo l’esercizio Push Up: la posizione dei classici piegamenti sulle braccia, infatti, richiede di per sè un’ottimale attivazione del muscolo gran dentato come muscolo antagonista del momento adduttorio scapolare generato dalla gravità; motivo per cui questo esercizio può essere considerato un valido esercizio per il gran dentato.

esercizi dentato

Una variante degli stessi Push-up, il cosiddetto Push up-plus, può dare tuttavia maggiore enfasi sul gran dentato, richiedendo un ulteriore protrazione scapolare ad opera del gran dentato.

Un altro esercizio utile riportato in letteratura è la Diagonale con manubrio (detto anche “Uppercut”) nel quale andiamo ad eseguire un movimento di flessione di spalla concentrandoci durante il sollevamento dell’omero sul portare più in fuori possibile la scapola, enfatizzandone la protrazione.

Diagonale con manubrio o Uppercut

In ultimo, altri tre esercizi possono essere proposti, il primo nel quale ricerchiamo sempre una protrazione scapolare contro resistenza dell’elastico, il secondo nel quale solleviamo un bilanciere afferrandone l’estremità (Landmine press) e il terzo, chiamato Wall slide, nel quale solleviamo le braccia appoggiando gli avambracci sul muro, facendoli scorrere superiormente, mantenendo sempre una spinta contro il muro per enfatizzare la protrazione scapolare.  

Landmine press

Diversi studi hanno mostrato come l’attivazione del gran dentato aumenti man mano che aumenta l’angolo di elevazione della spalla. Comparando diversi esercizi è stato visto infatti come quelli che implicano una rotazione craniale della scapola (come Lento avanti, Landmine press e Diagonale con manubrio) portino ad un’attivazione maggiore del dentato anteriore rispetto agli esercizi focalizzati sulla sola protrazione scapolare (come i Push up o il Push up plus). Una combinazione di entrambe queste tipologie di esercizi può tuttavia essere una scelta ottimale per allenare in toto questo muscolo.

Allenare il muscolo dentato anteriore in palestra e nel bodybuilding

In virtù delle considerazioni appena fatte possiamo dire che nell’allenamento in palestra, se il nostro obbiettivo è rinforzare il muscolo gran dentato, dovremmo focalizzarci su esercizi come:

  • Lento Avanti con manubri e/o bilanciere.
  • Alzate Laterali sopra i 90°.
  • Push-up e Push up plus.
  • Ulteriori esercizi efficaci in quest’ottica (oltre a quelli nominati nel paragrafo precedente) saranno le Dip alle parallele e il Plank, nei quali il dentato anteriore è attivo principalmente come protrattore scapolare.

alzate laterali

Esercizi a corpo libero per il gran dentato

Per quanto riguarda l’allenamento a corpo libero il dentato anteriore risulta fondamentale e molto attivo in tutti gli esercizi di spinta, nei quali viene richiesta dalla gravità una forte protrazione scapolare e rotazione craniale. Ci riferiamo in questo caso a esercizi come:

  • Plank
  • Push up (e le numerose varianti)
  • Dip
  • V Push
  • Verticale
  • Piegamenti in verticale
  • Planche (e varianti)
  • Maltese

Dentato anteriore e scapole alate: che relazione c’è?

Una debolezza del gran dentato, oltre ad alterare la funzionalità della spalla, può determinare una famosa alterazione posturale definita con il termine “scapole alate”. La forza generata dal dentato è infatti il principale fattore che mantiene la scapola adesa al torace. Se questo muscolo viene meno a tale funzione, infatti, porterà la scapola verso l’intrarotazione (con possibile associazione di tilt anteriore e rotazione caudale), “staccandola” dal torace ed assumendo il tipico aspetto conosciuto come “scapola alata”.

Conclusioni sul gran dentato (o dentato anteriore)

In conclusione possiamo dire che il muscolo dentato anteriore svolge un ruolo chiave a livello del cingolo scapolo-omerale. La conoscenza delle sue caratteristiche e funzioni, e di conseguenza del come allenarlo al meglio, rappresenta un importante fattore sia da un punto di vista preventivo e riabilitativo che da un punto di vista funzionale ed estetico.

L'articolo Dentato anteriore: anatomia, funzioni ed esercizi proviene da Project inVictus.


IIFYM: che cos’è e come funziona?

$
0
0

iifym per dimagrire cos'è

If It Fits Your Macros! È il significato dell’acronimo IIFYM e il motto di questo schema alimentare, che letteralmente significa “se sono i nutrienti giusti per te”. Sembra una proposta invitante, lo è davvero o ci sono dei grandi svantaggi? La maggior parte delle diete fallisce, forse anche questa? Per saperlo, scopri cos’è e come funziona.

Che cos’è la dieta IIFYM? Che cosa significa?

La dieta IIFYM (If It Fits Your Macros) nasce nell’ambito del bodybuilding in contrapposizione alle diete molto rigide (riso, pollo e broccoli per dire dei grandi classici) che sembravano essere l’unico modo per raggiungere i propri risultati estetici. Hanno iniziato ad inserire anche altri cibi, inclusi quelli considerati “non sani”, e hanno visto comunque di ottenere risultati.

Da qui nasce la IIFYM, che più che una dieta è uno schema alimentare: non devi eliminare alcune categorie di alimenti, non devi mangiare in determinati orari, non impone precisi alimenti.

L’unica cosa che conta è rientrare nelle calorie e nei macronutrienti giornalieri e l’importante è raggiungere questa quota, indipendentemente dal cibo scelto: la qualità viene dopo la quantità.

In pratica, potresti vivere di pizza, dolci, sushi. È proprio questo che rende appetibile questa dieta: hai la possibilità di scegliere qualsiasi alimento tu voglia. Chi non aspettava altro che una dieta del genere?

È forse l’unica dieta a sostenere che le calorie contano: non è il fare o non fare colazione, non è il mangiare solo fonti proteiche vegetali, non è l’evitare categorie di alimenti che permette di raggiungere un risultato. Alla base c’è il bilancio energetico e, subito dopo, la ripartizione dei macronutrienti.

Alla base c’è il bilancio energetico, anche nelle diete che non le considerano: per caso (non troppo casuale), tutte gli schemi dietetici per dimagrire che permettono di mangiare a volontà dicono di evitare i cibi processati, grassi e di preferire verdura, frutta, cereali integrali, alimenti fibrosi. Senza saperlo, mangiando in questo modo molto probabilmente sei in ipocalorica e quindi dimagrisci.

La dieta per perdere peso che dice che le calorie non contano e che fa mangiare ad libitum i super appetibili cibi grassi e zuccherosi inclusi deve ancora nascere. Forse perché sarebbe un colossale fallimento?

Calcolo IIFYM

iifym come funziona calcolo

Per impostare una dieta IIFYM bisogno conoscere:

  1. Introito calorico attuale
  2. Obbiettivo: vuoi perdere (diminuire le calorie),mantenere o prendere peso (aumentarle)?
  3. Quanto spazio dare a ciascun macronutriente?

Come tutte le diete, la prima cosa da conoscere è il fabbisogno energetico: di quante calorie hai bisogno in media ogni giorno per mantenere il peso corporeo (normocalorica)? Per conoscerlo, puoi procedere in due modi:

  1. Per una settimana o più segni su un’app contacalorie tutto quello che mangi (e bevi) e ti pesi nelle stesse condizioni (es. appena svegliato, prima di fare colazione)
  2. Ti affidi a delle formule e dei calcolatori, come questo: calcolo fabbisogno calorico

Nel primo caso, se non cambi di peso hai trovato la tua normocalorica, nel secondo è comunque meglio verificare in pratica se è un valore attendibile, dato che spesso vengono forniti valori troppo alti. Nel prossimo capitolo trovi un esempio pratico che può essere più immediato per capire cosa fare.

In merito al taglio calorico e alla ripartizione dei macronutrienti la IIFYM non dà indicazioni: bisogna personalizzare.

Per un dimagrimento graduale senza tagli drastici togli, ad esempio, il 15-20% rispetto alla normocalorica oppure 350-500 kcal. Per aumentare di peso, al contrario, aggiungi.

Una volta impostata l’energia è il turno dei macronutrienti: quanti carboidrati, grassi e proteine? Le quantità sono da impostare in base alle esigenze e dipendono da molti fattori che non oggetto di questo articolo.

Per dare un parametro, le linee guida per la popolazione italiana adulta prevedono: 45-60% carboidrati, 20-35% grassi e 0.9 g/kg proteine (fonte LARN). Inoltre, ad esempio gli sportivi, soprattutto se con una buona massa muscolare e bassa massa magra e in ipocalorica, possono alzare la quota proteica.

Esempio dieta IIFYM

iifym cos'è come funziona

Vediamo un esempio pratico di cosa fare per impostare i nutrienti per un soggetto che pesa 100 kg e che, dopo aver registrato sulla sua app contacalorie per 2 settimane cosa mangia, deduce che l’apporto calorico medio è di 3000 kcal al giorno.

La prima cosa da fare è calcolare il 15-20% (per l’esempio di calcolo consideriamo il 20%) di 3000 con una proporzione: 20 : 100 = x : 3000, da cui si ottiene che la x equivale a 600. Le calorie che quindi andranno raggiunte ogni giorno nel regime ipocalorico sono 2400 kcal (3000-600).

Dopo l’energia, è il turno dei nutrienti: quanti carboidrati, grassi e proteine? Ad esempio sceglie di ricavare il 50% dai glucidi (1200 kcal), il 25% dai lipidi (600 kcal) e il restante 25% dai protidi (600 kcal).

A questo punto, per ottenere i grammi dei macronutrienti da raggiungere bisogna ricordare che 1 g di carboidrati e 1g di proteine corrispondono a 4 kcal, mentre 1 g di grassi a 9 kcal. Perciò, ricorrendo alla matematica delle elementari che non si dimentica mai, ci sono: 300 g carboidrati, 67 g di grassi e 150 g di proteine.

In relazione al peso (meglio valutare i g/kg piuttosto che le percentuali per stabilire i macronutrienti) sono 3 g/kg di glucidi, 0.67 g/kg di lipidi e 1.5 g/kg di protidi.

Benefici e vantaggi IIFYM

iifym vantaggi dieta

Primo tra tutti e per niente scontato è la maggior compliance (aderenza) alla dieta, al contrario dei regimi dietetici rigidi. Infatti, data l’assenza di restrizioni e la possibilità di scegliere i cibi in base a cosa preferisci è più improbabile abbandonare la dieta dopo poco tempo.

Questa aderenza fa sì che ci sia una maggior sostenibilità del piano alimentare, proprio perché è personalizzabile e permette di inserire cibi che ti appagano – perché oggi il cibo serve anche a questo oltre che come nutrimento.

Queste caratteristiche rendono la IIFYM possa essere seguita nel lungo periodo: aspetto alla base per il raggiungimento di un risultato, soprattutto quando si vuole raggiungere una forma fisica molto distante da quella iniziale.

Un altro vantaggio è che può essere seguita anche dai soggetti meno motivati: quanti sentendo dire “dieta” già partono con il piede sbagliato convincendosi che dovranno vivere il resto dei loro giorni a base di pollo bollito e insalata scondita?

Purtroppo, in tanti, dal momento che “dieta” comunemente non viene intesa come “stile di vita” (che è il suo reale significato) ma come dieta per perdere peso (quindi dieta ipocalorica) con tristi restrizioni alimentari. Con questa idea di privazione sicuramente i meno motivati non inizierebbero mai (o mollerebbero subito) una dieta inflessibile.

Con tutti questi presupposti, il vantaggio è anche la maggior probabilità di raggiungimento del risultato. Non un beneficio così banale se pensi a quante persone iniziano un regime alimentare rigido, raggiungono il risultato, iniziano a mangiare come prima e lo perdono anche ritrovandosi peggio di prima.

Anche se non tutti lo ammettono, in fondo è sapere comune che i risultati di un dimagrimento (ma anche di un ingrassamento) richiedono tempo e costanza: proprio perché c’è questa condizione (imprescindibile), il piano dietetico deve essere perseguibile e sostenibile.

Svantaggi IIFYM

iifym cos'è e quali cibi

A prima vista sembra che non ci siano molte critiche da fare: nessuna restrizione, nessun vincolo (se non stare nei macro), no orari stabiliti in cui non mangiare,… Il problema nasce quando vengono scelti solo cibi spazzatura “perché tanto rientra nei macro”.

Se stare bene non è una priorità può valere come giustificazione, altrimenti no: la salute non è determinata solo dalla quantità (vedi ipercalorica e obesità), ma anche dalla qualità.

Fritture, cibi con molti grassi saturi, trans e colesterolo e con molti zuccheri e sale, un basso apporto di pesce, frutta e verdura freschi, legumi sono causa di complicanze.

Per questo, seguire lo schema IIFYM richiede alcune capacità che non vengono costruite in un giorno:

  • Capacità di autogestione e autocontrollo,
  • Conoscenza di composizione degli alimenti.

Anche se puoi mangiare letteralmente quello che vuoi, è chiaro che riempire i macronutrienti con solo alimenti iperappetibili, poco salutari e molto calorici non ha senso: certo, ti può portare all’obbiettivo perché l’apporto calorico fa da grande determinante, ma una persona non è solo un numero sulla bilancia.

Inoltre, mangiando questi cibi avrai comunque fame durante la giornata essendo poco sazianti o ti sembrerà di “mangiare poco” (almeno visivamente) in quanto densamente energetici.

Ci deve essere quindi il famoso buon senso (altra capacità per gestire bene la IIFYM) nella scelta degli alimenti. Una proposta, a partire dalla spesa, è scegliere:

  • 80% alimenti “sani” e ricchi di nutrienti
  • 20% cibi che ti piacciono e considerati “non sani” che ti appagano

Infatti, per dare un occhio di riguardo alla salute bisogna limitare le “calorie vuote”, cioè quegli alimenti molto calorici ma con pochi nutrienti utili, come ad esempio gli alimenti ultraprocessati (UPFs) che hanno quantità eccessive di zuccheri, grassi saturi e trans, sale e molto ridotte di fibre, micronutrienti.

Non che di per sé i “cibi non sani” siano un problema quando occasionali (come il comprenderli nel 20%), ma se molto consumati facilmente fanno sforare dalle quantità consigliate: sia zuccheri che grassi saturi non dovrebbero superare il 10% dell’apporto calorico giornaliero, mentre i trans l’1%.

Il consumo di UPFs è correlato negativamente con la salute (obesità, patologie cardiovascolari, mortalità):

  • Un aumento del 10% del consumo di UPFs è associato ad un +4% di sindrome metabolica,
  • Il consumo di 4 porzioni/giorno di UPFs è associato ad una mortalità per qualsiasi causa del 62%, con un +18% per ogni porzione aggiuntiva,
  • Un aumento del 10% del consumo di UPFs comporta un incremento del 10% del rischio di cancro (rapporto 1:1), soprattutto al seno.

Bibliografia

Fiolet et al. (2018). Consumption of ultra-processed foods and cancer risk: results from NutriNet-Santè prospective cohort. BMJ.

Martinez-Steele et al. (2019). Dietary share of ultra-processed foods and metabolic syndrome in the US adult population. Prev Med.

Rico-Campà et al. (2019). Association between consumption of ultra-processed foods and all cause mortality: SUN prospective cohort study. BMJ.

Smith et al. (1999). Flexible vs rigid dieting strategies: relationship with adverse behavioral outcomes. Appetite.

Timko et al. (2006). Rigid and flexible control of eating behavior and their relationship to dieting status. Eat Weight Disorder.

Westenhoefer et al. (2012). Cognitive and weight-related correlates of flexible and rigid restrained eating behavior. Eating Behaviors.

L'articolo IIFYM: che cos’è e come funziona? proviene da Project inVictus.

Vertical row: come si esegue e a cosa serve?

$
0
0

Il vertical row è un macchinario presente generalmente in molte palestre per l’allenamento del dorso. Questo esercizio nelle sue varianti possibili è spesso presente in molte routine di allenamento nel bodybuilding finalizzate allo sviluppo di tale distretto.

Cos’è il vertical row? A cosa serve?

E’ tendenzialmente considerato un movimento per il “centro schiena” di tirata orizzontale (quindi che coinvolge principalmente adduttori scapolari e deltoide posteriore, ma vedremo che questo dipende).

Considerato dalla cultura “Bro” uno degli esercizi che si fa per il famoso “spessore” della schiena, in realtà questa visione è molto semplicistica e lontana dal mondo reale: la schiena è composta da differenti muscoli su cui puoi porre più o meno enfasi mediante i vari esercizi, ma tra di essi si avrà sempre una sinergia di lavoro più o meno marcata.

La sensazione di lavoro in una zona più centrale della schiena o più esterna/laterale nei vari esercizi o varianti degli stessi nasce dal piano di movimento su cui svolgi l’esercizio per via del maggior coinvolgimento di alcuni muscoli rispetto ad altri, ma è sempre una sinergia.

La suddivisione muscolo-centrica è una visione semplicistica che permette di suddividere e selezionare i vari esercizi, ma è un modello più mentale che reale, quindi meglio dire “alleno il dorso/back” e non spessore o ampiezza.

Muscoli coinvolti nel vertical row

Per capire a cosa serve bisogna conoscere quali articolazioni muoviamo principalmente durante questo esercizio:

È un movimento che, in base a vari accorgimenti e varianti possibili, lavora sui seguenti muscoli – ovviamente ve ne sono altri, per esempio i bicipiti, ma si elencano quelli target che tendenzialmente si vogliono andare a colpire principalmente:

  • Trapezio (particolarmente porzione mediale), che avvicina le scapole tra di loro (adduzione scapolare)
  • Romboidi, che avvicinano le scapole tra loro (adduzione), le portano verso l’alto (elevazione scapolare) facendole ruotare caudalmente (verso il basso)
  • Deltoidi posteriori, che portano il braccio posteriormente a voi (estensione d’omero) e lo ruotano all’esterno (extrarotazione omero)
  • Gran dorsale, che avvicina il braccio al corpo (adduzione omero), porta il braccio posteriormente a voi (estensione d’omero), ruota il braccio internamente (intra-rotazione omero)

Esecuzione vertical row: come si fa? Tutorial

L’esercizio è svolto in posizione seduta con il petto in appoggio al cuscino imbottito di supporto e prevede principalmente:

  • Partenza con l’omero in flessione di circa 90° (in base alla presa e variante eseguita), ovvero il braccio è disteso in avanti circa all’altezza della spalla e il centro schiena rilassato.
  • Adduzione delle scapole (si avvicinano tra loro) mantenendole ben posizionate nella tirata (senza elevarle, non dobbiamo portare le spalle verso le orecchie alzandole verso l’alto, ma aprire il petto mantenendo le spalle basse), può aiutare ad attivarsi meglio il fatto di inarcare leggermente la schiena a fine tirata rimanendo però con il petto in appoggio al supporto.
  • Estensione completa dell’omero (tirando portiamo verso dietro il braccio) e flessione a circa 90° dell’omero nella tirata (il braccio si piega, in base alla variante scelta).

Errori comuni nel vertical row

vertical row palestra bodybuilnding

Cosa non fare in linea generale per eseguire al meglio questo esercizio? Gli errori più frequenti sono:

  • Tirare senza muovere le scapole (mentre tiro non mi apro con il petto, ma rimango nella posizione di partenza, eseguendo molto lavoro con le braccia e poco con la schiena).
  • Tirare senza muovere le scapole e rimanere in chiusura (mentre tiro non mi apro con il petto, ma mi chiudo maggiormente rispetto alla posizione di partenza andando avanti con le spalle e tirando solo con le braccia).
  • Tirare correttamente e aprirsi bene con il petto avvicinando le scapole tra loro, ma compensando con uno slancio indietro staccando il petto dal supporto (tiro correttamente e quasi a fine movimento mi butto indietro, spesso fatto quando il carico sollevato va oltre le nostre capacità, ma vogliamo chiudere ugualmente le ripetizioni, sbagliando).
  • Tirare correttamente con movimento corretto delle scapole durante la fase concentrica (di tirata), ma nella fase eccentrica non permettere alle scapole di allontanarsi tra loro, ma trattenerle come volessimo tenere sempre il petto aperto (questo non permette un allungamento consono dei muscoli scapolari coinvolti).
  • Tenere il sellino troppo alto o troppo basso e non riuscire quindi a tenere le corrette linee di movimento.
  • Effettuare mezze ripetizioni e non consentire un corretto e completo movimento di scapole e spalle.

I deltoidi posteriori?

Se utilizzi una presa larga stimoli in modo maggiore il deltoide posteriore, questo perché il movimento di estensione d’omero (la tirata e il movimento del braccio) si svolgerà maggiormente sul piano trasverso, come vedere nella figura sottostante. Se il target sono gli adduttori scapolari e deltoidi posteriori il consiglio è di tenere l’avambraccio parallelo al terreno durante la tirata.

Vertical row: prese e impugnature

Presa più larga delle spalle con presa neutra o prona

Il movimento prevede una flessione del gomito parziale (fino a circa 90°) associata all’estensione d’omero (la tirata) che si svolge maggiormente sul piano trasverso con coinvolgimento maggiore del deltoide posteriore, il quale però nella fase di partenza non è allungato al massimo.

Presa neutra o prona larghezza spalle

Il movimento diviene un’estensione d’omero prevalentemente sul piano sagittale con coinvolgimento maggiore di gran dorsale, trapezio medio, romboidi e parzialmente deltoidi posteriori.

Presa stretta più stretta delle spalle

Per presa stretta si intende una presa più stretta delle spalle neutra (palmi che si guardano). Anche in questo caso il movimento diviene un’estensione d’omero prevalentemente sul piano sagittale, quindi con coinvolgimento maggiore di gran dorsale e deltoide posteriore (parziale), ma minore coinvolgimento dei muscoli adduttori scapolari, in quanto essendo molto stretta la presa difficilmente riusciremo ad addurre bene le scapole (avvicinare le scapole) a fine della fase concentrica (quando siamo in alto).

Presa inversa larghezza spalle (supina)

Questa variante se eseguita bilateralmente può aiutare alcuni soggetti ad “aprirsi” correttamente adducendo le scapole (avvicinandole tra loro) nella parte finale del movimento. I muscoli coinvolti non sono differenti rispetto alla variante a presa prona a parità di larghezza di presa.

Se la finalità è coinvolgere maggiormente i bicipiti la sconsiglio, in quanto essi lavorano comunque in modo non completo per via del fatto che il movimento in flessione del gomito resta comunque incompleto; oltre a ciò serve una buona mobilità, viceversa aumenteranno gli stress articolari.

Varianti esecutive di vertical row:

Vertical row alto (gomiti alti)

Per tale variante puoi effettuare le stesse considerazioni fatte in merito alla “presa larga neutra o larga prona”, il consiglio è quello di tenere comunque i gomiti leggermente più bassi delle spalle in quanto un’estensione d’omero associata ad un’elevata abduzione (allontanamento del braccio dal busto) aumenta le forze compressive all’interno dell’articolazione e ciò non è un bene, in particolare se si hanno già fastidi alla spalla.

Vertical row basso bilaterale o singolo

Generalmente eseguito alla macchina “low row”, qui il movimento diviene un’estensione d’omero prevalentemente sul piano sagittale con coinvolgimento prevalentemente (ma parziale) del gran dorsale.

Questo perché la spalla parte da una posizione in flessione minore di 90°, il braccio è meno orizzontale al terreno, quindi il gran dorsale interviene per meno gradi di movimento, oltre che non partire da una posizione di allungamento completo.  Inoltre, il coinvolgimento di trapezio medio e romboidi (qualora muoviamo correttamente la scapola) e parzialmente deltoidi posteriori.

In questa variante è facile (soprattutto per soggetti con difficoltà a percepire i movimenti scapolari) che ci siano compensi alzando le spalle verso le orecchie (con maggiore coinvolgimento del trapezio superiore) che incidono poi negativamente sulla corretta esecuzione e stimolo muscolare.

Varianti di Vertical row

Puoi eseguire questo esercizio con pesi liberi e senza macchina possiamo riprodurlo in due modalità, con bilanciere o con manubri, cambiando il piano di lavoro in base al target del nostro esercizio. E’ consigliabile posizionare una panca su due rialzi in modo che risulti molto alta mettendo sotto di essa il bilanciere (a formare una croce con essa). Varianti:

  • Lavorare maggiormente il centro schiena e i deltoidi posteriori (in tal caso meglio un bilanciere): sdraiati a pancia in giù e afferra il bilanciere con una presa pari a quella “prona larghezza spalle” del vertical row, attuando i dovuti aggiustamenti della stessa in base al feeling. Parti con le scapole abdotte (quindi senza tenerle vicine e contratte a inizio movimento, ma rilassare il centro schiena) senza forzature, quindi la panca deve essere posizionata sufficientemente alta, il posizionamento è simile al seal row, ma il movimento è differente e più controllato.
  • Lavorare maggiormente il gran dorsale: possiamo utilizzare manubri o bilanciere: il movimento viene eseguito con i gomiti più vicini al busto, mentre tiri pensa di andare verso i glutei con i manubri o il bilanciere, per concentrarti sull’estensione dell’omero, più che sulla flessione del gomito.

 Vertical row o rematore con manubrio?

Puoi eseguire il vertical row:

  • lavorando maggiormente sul gran dorsale piegando meno il braccio e lavorando con i gomiti più vicini al busto;
  • lavorando maggiormente sui romboidi, deltoidi posteriori e bicipiti se al contrario pieghi di più il braccio durante la tirata e/o tieni i gomiti più lontani dal busto per coinvolgere maggiormente i deltoidi posteriori.

Questi due punti valgono nel rematore con manubrio, se però il target è il centro schiena/deltoidi posteriori è consigliabile il vertical row a presa prona o neutra larghezza spalle (o poco più) con la macchina (soprattutto se simile a quella in figura qui sotto) o la variante con bilanciere su panca rialzata vista sopra. In entrambi i casi lavorando bilateralmente (con tutte e due le braccia insieme).

Viceversa, se il target è il gran dorsale puoi eseguire anche il rematore con manubrio monolaterale, perché riesci a partire con la spalla più flessa e quindi ad avere dei gradi di movimento in più – cosa possibile anche posizionandosi sulla vertical row in modi particolari in base a come fatta, ma sono principi attuabili da persone con discreta esperienza allenante.

Vertical row o pulley?

Il piano su cui si svolge il movimento al vertical row è simile se la macchina è come quella della figura sopra, il pulley però può spesso avere alcuni svantaggi:

  • il cavo spesso si trova più in basso: questo facilmente fa perdere il corretto setting e fa elevare le spalle diminuendo il lavoro sul centro schiena, oltre che ridurre i gradi di flessione di partenza dell’omero riducendo il lavoro sul gran dorsale (il braccio è meno parallelo al terreno in partenza).
  • persone con ischiocrurali retratti (muscoli posteriori della coscia): faticheranno ad eseguire il pulley basso, quindi in tal caso meglio una vertical row o variante su panca rialzata per far sì che lavorino correttamente.
  • rep range scelto: se vuoi fare tante ripetizioni (in linea generale = o >15) o al contrario lavorare a medio basse ripetizioni (5-6) con carichi pesanti, può avere senso scegliere la variante su panca rialzata o la vertical row. Così non rischi di terminare prima la serie o perdere la tecnica per via dell’affaticamento di altri muscoli stabilizzatori che permettono di tenere il busto eretto e fermo nella pulley.

Conclusioni sul vertical row

In conclusione, non selezionare a priori un esercizio o macchinario, ma:

  • analizza i muscoli target che vuoi maggiormente lavorare (ricordandoti che è una semplificazione),
  • il soggetto in questione (mobilità, infortuni, esperienza di allenamento, rep range, preferenze, disponibilità in sala pesi dei vari attrezzi…),
  • il contesto della programmazione in cui inseriamo l’esercizio.

Così allora riuscirai nel tempo a creare strategie e protocolli personalizzati e con la giusta sinergia che porterà nel tempo a migliorare. Per allenare correttamente la schiena devi essere ben consapevole dei movimenti scapolari e controllarli perfettamente, se ciò non è possibile è su questo in primis che devi lavorare.

Bibliografia:
Roncari A. Project exercise Volume 1. Milano: project inVictus; 2017.
Henselmans M. “3 reasons rows are an inferior exercise for your lats”. 2014.
Platzer W. Anatomia Umana, Atlante Tascabile. 5° edizione. Casa Editrice Ambrosiana; 2016.
Helms E. Morgan A. Valdez A. The muscle & strenght Pyramid. Second edition. 3dmj; 2018.

L'articolo Vertical row: come si esegue e a cosa serve? proviene da Project inVictus.

Carb cycling: come ciclizzare i carboidrati

$
0
0

carb cycling

Dato che dire di mangiare una quantità di carboidrati differente a seconda dei giorni di allenamento in palestra o meno era troppo lungo, è nata la carb cycling. Ciclizzare i carboidrati è una strategia che può aumentare l’aderenza alla dieta ma che non fa miracoli. Scopri cos’è, come funziona e se è la tattica giusta per te con questo articolo!

Cos’è la carb cycling per ciclizzare i carboidrati? Cosa vuol dire?

La carb cycling risulta una delle strategie alimentari attualmente più in voga, in quanto in effetti risulta estremamente vantaggiosa. Il problema è che spesso l’applicazione della stessa risulta più complessa di quanto si creda per via di misunderstanding di base.

La carb cycling è un approccio alimentare che prevede la ciclizzazione dell’apporto glucidico all’interno di un periodo medio-breve, in genere la settimana.

Questo concetto è tuttavia riduttivo, in quanto non tiene conto che dell’input calorico. Se consideri anche l’output bisogna fare un discorso relativo al bilancio energetico. Dunque si attua questa metodologia (e più nello specifico una calorie shifting) quando il bilancio energetico nei vari giorni varierà (ipercalorica, normocalorica,…).

C’è quindi una carb cycling “impropria” nel momento in cui mantieni il livello glucidico inalterato sia nei giorni ON (allenamento) che OFF (riposo).

Come funziona la carb cycling (ciclizzazione dei carboidrati)?

In pratica per ciclizzare, stabilisci dei giorni ad alto apporto glucidico (mediamente +50-100g) e altri a basso apporto glucidico, potendo anche inserirne alcuni a medio apporto. Gli step da seguire, soprattutto se ti alleni, sono:

  1. Impostare un quantitativo target settimanale di calorie e macronutrienti;
  2. Ripartire il tutto nei vari giorni della settimana tenendo distinti giorni ad alto quantitativo glucidico e giorni a medio/alto quantitativo lipidico;
  3. Far combaciare le giornate con alto apporto calorico e glucidico con quelle in cui ti alleni.

Puoi anche considerare l’idea di inserire la giornata con più alto apporto glucidico quando alleni il gruppo muscolare più carente.

Carb cycling: vantaggi e svantaggi

carb cycling come ciclizzare i carboidrati

Questa strategia ha diversi vantaggi:

  1. Allena il muscolo alla sovracompensazione delle scorte di glicogeno
  2. Di conseguenza, migliora la capacità di stoccaggio e di riserva muscolari
  3. Evita o ritarda l’insorgere di desensibilizzazioni insuliniche
  4. Permette di favorire la risposta ipertrofica di determinati gruppi muscolari piuttosto che di altri

Tra gli svantaggi c’è una ben identificabile problematica che sorge con l’impostazione vista precedentemente, in quanto non viene considerato che da un lato il muscolo si adatta e “cresce” nel momento in cui non lo alleni, come in un giorno OFF.

Considera anche che allenare un gruppo muscolare richiama energia e calorie distogliendole dai processi di recupero di quello allenato il giorno precedente.

Dall’altro lato, invece, un giorno di non allenamento è un giorno in cui consumi di meno e il dispendio calorico è inferiore. Consegue un partizionamento dei nutrienti sfavorevole se non c’è ciclizzazione: calorie e nutrienti in eccesso che non solo sono più facili da accumulare, ma anche più probabilmente sotto forma di adipe.

Carb cycling per dimagrire

carb cycling dimagrire palestra

È assodato a livello scientifico che nel breve periodo (3-6 mesi) una dieta o una strategia alimentare vale l’altra ai fini del dimagrimento a parità di deficit calorico. Ad esempio, se nei 3 mesi una low-carb o una chetogenica danno più risultati, poi questo “vantaggio” con il tempo viene comunque perso.

Lo stesso vale anche per la carb cycling: a parità di taglio delle calorie (condizione necessaria per perdere peso) ciclizzare i glucidi non fa “dimagrire” di più rispetto ad uno stesso piano alimentare non ciclizzato. È più una questione di aderenza e di impatto soggettivo.

Dato che per ottenere un risultato serve tempo, cerca la strategia che più soddisfa le tue esigenze e che ti permette di risultare costante nel lungo periodo: la carb cycling è una delle possibilità, ricordando che la persona non è solo “peso sulla bilancia” o “estetica” ma anche salute.

Come fare la carb cycling? Calcolo carb cycling

Dopo aver stabilito il fabbisogno energetico, ci sono due punti fermi da tenere in considerazione:

  1. Apporto proteico: fisso e compreso nel range 1.6-2.2 g/kg (per gli sportivi) a seconda della fase e dell’approccio scelto;
  2. Apporto lipidico e glucidico, che vanno tenuti separati.

Questo perchè in contesto ipercalorico in presenza di insulina i grassi tendono ad essere stoccati nelle riserve adipose, un concetto visto e spiegati in diversi altri articoli (grassi e carboidrati vanno mangiati assieme?)

Il problema principale sta proprio nel decidere in quali giorni tenere un apporto glucidico più alto (contestualizzato all’output).

Carb cycling e ricomposizione corporea

In un’ottica di ricomposizione corporea la scelta migliore è quella di ridurre l’apporto glucidico in parallelo ad una riduzione dell’output (carb cycling propria):

  • nei giorni ON mangi di più: ipercalorica;
  • nei giorni OFF basati su un introito normocalorico o addirittura ipocalorico.

In questo modo puoi contare sul fatto che elevate quote glucidiche vengono introdotte solo quando ben direzionate verso il miocita piuttosto che l’adipocita, assicurando, in periodi di iper-alimentazione, un minor accumulo di massa grassa.

Se l’introito glucidico e calorico risulta comunque alto anche nei giorni OFF puoi introdurre delle sezioni di attività cardiovascolare. Questo sistema può essere un giusto compromesso nel caso in cui tu non voglia tenere un GAP troppo alto tra giorni ON e OFF a livello calorico.

Un ulteriore consiglio è quello di ragionare ad ore piuttosto che a giorni. In questo senso ti ritrovi ad abbassare l’introito man mano che ti allontani temporalmente dall’allenamento: in sostanza, la maggior parte delle calorie della giornata viene consumata nelle ore più vicine al workout.

In un’ottica di guadagno della massa muscolare conviene tenere l’apporto calorico alto anche ne giorni OFF – utile soprattutto per soggetti “burners” (con un metabolismo particolarmente attivo). In questo modo, poni in parallelo ai processi di recupero e di adattamento del gruppo allenato un grande apporto nutritivo che aiuta ed accentuare questi processi.

Qui la problematica principale è che l’atleta accumula anche un certo quantitativo di adipe. Per far fronte a questa situazione ci sono due strategie:

  1. Come visto sopra, introduci dell’attività cardiovascolare, coinvolgendo il gruppo muscolare allenato il giorno precedente;
  2. Introduci essenzialmente glucidi (e proteine) e riduci al massimo i grassi;

Per un miglior risultato, puoi abbinare contemporaneamente entrambi i suggerimenti.

Carb cycling in massa (bulking) nel bodybuilding e in palestra

Carb Cycling in massa

Ricorda di ragionare in ottica di ipertrofia muscolare: la prestazione, parametro assolutamente fondamentale, deve essere in questo caso contestualizzata alle necessità estetiche. Come impostare la carb cycling in fase di massa?

  1. Dividi la settimana in giorni ON e OFF;
  2. Dividi gli ON in giorni in cui l’allenamento ricade su gruppi muscolari carenti o ben sviluppati;
  3. Scegli una determinata split muscolare.

In merito al punto 3, il consiglio è quello di far seguire all’allenamento dei gruppi muscolari carenti, un giorno di riposo: è un modo per non far sovrapporre al recupero muscolare l’allenamento di altri gruppi muscolari che richiamano energie e nutrienti.

In questi giorni risulta in alcuni casi interessante ed utile inserire un’attività cardiovascolare blanda e breve. Ad esempio, il giorno dopo aver fatto gambe (gruppo carente) fai 15’ di corsa LISS. Così, mantieni la richiesta energetica e nutritiva in loco ed accentui il partizionamento dei nutrienti. È tuttavia una tattica rischiosa perché può influire sul recupero.

Carb cycling in definizione

Carb Cycling definizione

Nella dieta in definizione la percentuale di nutrienti dedicata ai glucidi diminuisce, più o meno notevolmente, in risposta all’abbassamento calorico e all’incremento proteico.

Dal momento che i carboidrati sono una fonte energetica primaria e che l’allenamento è importante anche in fase di cut, è ancor più consigliabile per favorire l’aderenza e anche l’approccio mentale quanto detto in precedenza: riservare la quota glucidica per i giorni ON e per le ore vicine a quelle del workout.

I grassi nella carb cycling

I grassi nella carb cycling sono impostati per esclusione: in pratica, colmano il gap che si forma tra l’introito calorico prefissato e quello già occupato da proteine e carboidrati.

Di conseguenza, le giornate OFF e le ore più distanti dall’allenamento sono quelle che hanno una maggior quantità di lipidi. Un modo anche utile per allenare la flessibilità metabolica e mantenere una certa capacità di utilizzazione degli acidi grassi.

Conclusioni sulla ciclizzazione dei carboidrati

Anche per la carb cycling, come le altre strategie alimentari, non è una proposta definitiva ma un’alternativa: sta al soggetto riuscire a trovare quella che più si adatta alle sue esigenze. Come? Individuando la strategia che sembra più congeniale e provando!

Ricorda anche che se da una parte la ciclizzazione dei glucidi può aumentare l’aderenza al piano alimentare, dall’ altra rispetto ad un’altra dieta con gli stessi introiti di nutrienti settimanali non porta a particolari vantaggi.

Ciò che conta resta il lungo periodo: perciò, più che cercare il modo per avere risultati da una settimana all’altra, trova la strategia che ti consente di essere aderente nel corso dei mesi.

E poi in primis, il punto resta l’allenarsi: bene e per del tempo. Il resto viene inevitabilmente da sé!

Approfondisci l’argomento dieta, dimagrimento e ricomposizione corporea, con la nostra guida gratuita per cominciare a farti delle solide basi su cui poi approfondire:

Guida di base alla nutrizione

Guida di base alla nutrizione

Come mangiare correttamente per dimagrire

Co-autore: Ludovico Lemme
Personal Trainer certificato ISSA e studente SaNIS (scuola di nutrizione e integrazione sportiva). Segue diversi atleti, sia dal vivo che online nel campo del Bodybuilding e del fitness in generale. Nel 2015 avvia il progetto Rhinocoaching con il quale si propone di creare una piattaforma di riferimento per i suoi atleti e per gli appassionati in generale.
Contatti: rhinocoachingofficial@gmail.com
Sito Web: www.rhinocoaching.it

L'articolo Carb cycling: come ciclizzare i carboidrati proviene da Project inVictus.

Vacuum addominale: esecuzione corretta

$
0
0

vacuum addominale esecuzione

In questo articolo parleremo del vacuum addominale e della sua corretta esecuzione; capiremo se ha senso una sua esecuzione per raggiungere la famosa “pancia piatta” tanto ricercata da chi si iscrive in palestra ed ha qualche kg di troppo, analizzando principalmente il suo inserimento nel contesto bodybuilding.

Cos’è il vacuum addominale? A cosa serve?

La definizione che più si addice allo scopo di questo articolo in merito al vacuum addominale, in una visione quindi da appassionati del fitness e bodybuilding, è quella di essere in fin dei conti una vera e propria posa estetica, che comparve già in scatti del 1950-1960 di Steve Reeves e spopolò nella “golden era” del bodybuilding. (utilizzato in alcune varianti, in parte pesenti anche in questo articolo, come vero e proprio esercizio per i muscoli profondi dell’addome in particolare il trasverso).

Era una posa caratteristica delle competizioni di questa disciplina ed eseguita spesso nei servizi fotografici dagli atleti estetici dell’epoca. Vi sono anche altri contesti in cui si utilizza il vacuum, i quali esulano però da questo articolo.

L’obiettivo del vacuum addominale è l’esecuzione di una posa che permette di ridurre per alcuni secondi la dimensione della vita e creare un effetto ottico di “torace largo” e vita stretta che creano un certo impatto visivo e permettono di mostrare oltretutto (quando la massa grassa è a bassi livelli) i vari muscoli che circondano superficialmente la gabbia toracica.

Il vacuum addominale attiva la muscolatura del core e si verifica in particolare grazie al muscolo addominale più profondo trasverso dell’addome e obliqui interni (in sinergia con gli altri muscoli più superficiali del core) ed altri muscoli accessori della respirazione (per capire meglio di che muscoli stiamo parlando ti consiglio la lettura di questo articolo.)

Come si fa il vacuum addominale? Esecuzione e respirazione corretta

vacuum addominale palestra bodybuilding

Il vacuum richiede tecnica e pratica costanti per riuscire a svolgerlo per un tempo sufficiente in posa e richiede un controllo massimo del core e della respirazione, l’obiettivo deve essere finalizzato a riuscire ad eseguire il vacuum in piedi.
Il vacuum corretto si esegue:

  • in piedi, con le mani in genere posizionate dietro la testa e le spalle basse senza andare in chiusura (è eseguibile anche in altre pose, per esempio in un doppio bicipite, una volta che siamo in grado di eseguirlo e controllarlo);
  • colonna in posizione naturale con le sue curve fisiologiche;
  • prima fase di espirazione (molto importante, non si deve trattenere l’aria nei polmoni, deve essercene il meno possibile);
  • seconda fase trattenendo il respiro e chiudendo la glottide;
  • terza fase in cui contrai i muscoli profondi dell’addome restando in apnea (ricercando una falsa inspirazione);
  • espansione conseguente della gabbia toracica, con l’impressione visiva e percettiva che l’addome sia schiacciato contro la colonna e il torace in espansione. Non si deve ricercare la contrazione dei muscoli superficiali dell’addome andando ad eseguire una sorta di crunch in piedi);
  • un vacuum può durare dai 3 ai 20 secondi in genere, in base alle capacità del soggetto.

Benefici del vacuum addominale: fa dimagrire?

Vacuum e dimagrimento sono due cose differenti, la finalità del vacuum non è certo quella di perdere grasso né di “assottigliare la vita” in modo permanente, ma piuttosto quella di rinforzare e diventare bravi a contrarre i muscoli menzionati precedentemente, per un tempo continuo adeguato.

Quanti vacuum fare?

E’ consigliabile una buona frequenza di tale esercizio. Inizialmente difficilmente riuscirai a contrarre bene i muscoli profondi maggiormente coinvolti, sia per mancanza di forza che per mancanza di tecnica, quindi come per ogni movimento e skill cerca di inserirla 3-4 volte settimanali, non necessariamente quando alleni l’addome con esercizi specifici (come crunch o altri esercizi).

Quante serie e ripetizioni fare?

Le serie per sessione possono variare, consiglio da un minimo di 3 ad un massimo di 4 e di inserirlo ogni qualvolta vai a provare le pose in vista di una competizione.

Le ripetizioni possono andare dalle 6 alle 10 in base al tempo di esecuzione di ogni ripetizione, considerando che una ripetizione consiste in: espirazione, vacuum in apnea (di durata dai 3 ai 20 secondi), 2-6 cicli di inspirazione ed espirazione completi (quindi respiri normali per riprendere aria).

Se sei un principiante e quindi hai una bassa capacità tecnica e di restare in apnea, meglio restare intorno alle 10 ripetizioni, viceversa se sei avanzato e hai capacità di restare in apnea per 15-20 secondi allora puoi svolgere anche 5-8 ripetizioni.

Quando fare il vacuum addominale?

vacuum addominale palestra esecuzione

Puoi inserirlo anche in momenti differenti rispetto all’allenamento, magari durante una pausa nella giornata o nei giorni di riposo dall’allenamento, fino anche a frequenze di anche 5-6 volte settimanali o quotidianamente (se molto allenati e/o in prossimità di una gara qualora siamo atleti agonisti o di un servizio fotografico).

Dopo quanto si vedono i risultati con il vacuum addominale?

È molto soggettivo: il vacuum è un esercizio molto difficile che richiede duro lavoro e costanza. Se in partenza non riesci a controllare bene il trasverso da supini sdraiati a terra, è difficile fare un buon vacuum, soprattutto in piedi.

I risultati di un buon vacuum si notano nel corso di settimane e mesi. Quando sarai in grado di eseguirlo al meglio potrai apprezzarlo particolarmente, soprattutto quando la massa grassa sarà a bassi livelli; puoi inoltre sbizzarrirti nel proporlo durante pose di vario genere (doppio bicipite, semi-rilassate frontali, pose classiche ecc…).

Proposta di progressione

Ecco delle proposte di progressione in base al livello di partenza con gli obiettivi di ogni fase (da impostare con frequenze, serie e ripetizioni adattate secondo le linee guida sopra).

Soggetto principiante

Soggetto non in grado di controllare i muscoli profondi che non ha mai eseguito un vacuum.

FASE 1

  •  imparare ad eseguire cicli respiratori completi (inspirazione ed espirazione) dapprima a terra supino con gambe flesse;

vacuum addominale esecuzione palestra

  • apprendere il vacuum in posizione supina con gambe flesse adeguando la durata dei cicli respiratori alle capacità del soggetto;
  • mantenere un vacuum in posizione supina per 15-20 secondi per una serie da 6 ripetizioni.
  • occhio a non fare l’errore qui sotto, nella foto a sinistra non c’è contrazione del trasverso e quindi non c’è un’esecuzione del vacuum corretta, nella foto a sinistra invece il vacuum è svolto correttamente.

FASE 2

  • apprendere il vacuum in posizione seduta;

vacuum addominale esecuzione palestra

  • mantenere un vacuum in posizione seduta per 10-15 secondi per 2-3 serie da 6 ripetizioni.

FASE 3

  • apprendere il vacuum in quadrupedia;

vacuum addominale palestra

  • mantenere un vacuum in quadrupedia per 10-15 secondi per 2-3 serie da 6 ripetizioni.

FASE 4

  • apprendere il vacuum in piedi con appoggio delle mani sulle cosce con le ginocchia semiflesse;

vacuum addominale esecuzione

  • mantenere un vacuum in questa posizione per 10-15 secondi per 2-3 serie da 6 ripetizioni.

FASE 5

  • apprendere il vacuum in piedi con mani dietro la nuca
  • mantenere un vacuum per 10-15 secondi per 2-3 serie da 6 ripetizioni.

Soggetto intermedio

Soggetto in grado di eseguire il vacuum in piedi con mani dietro la nuca per 10-15 secondi per 2-3 serie da 6 ripetizioni.

Qui puoi dapprima imparare il vacuum in posizione semi-rilassata in piedi, poi eseguire varie pose tipiche che andrai a proporre in una eventuale gara o servizio fotografico. Passa poi ad eseguire nelle varie pose cicli sempre più duraturi di apnea in termini di secondi, riducendo i respiri tra un’apnea e l’altra.

FASE 1

  • apprendere il vacuum in varie pose con l’obiettivo di riuscire a mantenerlo per 10-15 secondi per 2-3 serie da 6 ripetizioni.

FASE2

  • Aumento progressivo della tenuta del vacuum per 20 secondi per ogni ripetizione:

settimana 1: 3×6 vacuum da 15 secondi, 6 respirazioni tra le ripetizioni (inspiro-espiro= 1 respirazione)

Settimana 2-3: 3x 6 vacuum da 17 secondi, 6 respirazioni tra le ripetizioni (inspiro-espiro= 1 respirazione)

Settimana 4-5: 3x 6 vacuum da 20 secondi, 6 respirazioni tra le ripetizioni (inspiro-espiro= 1 respirazione)

NB. Le serie e le ripetizioni servono per capire la logica, non sono arbitrarie.

FASE3

  • Diminuzione progressiva dei respiri necessari a riprendere il vacuum nelle varie ripetizioni:

Settimana 1-2: 3×6 vacuum da 20 secondi, 5 respirazioni tra le ripetizioni (inspiro-espiro= 1 respirazione)

Settimana 3-4: 3×6 vacuum da 20 secondi, 4 respirazioni tra le ripetizioni (inspiro-espiro= 1 respirazione)

Settimana 5-6: 3×5-6 vacuum da 20 secondi, 3 respirazioni tra le ripetizioni (inspiro-espiro= 1 respirazione)

Settimana 6-7: 3×5-6 vacuum da 20 secondi, 2 respirazioni tra le ripetizioni (inspiro-espiro= 1 respirazione)

Settimana 8-9: 3×4-5 vacuum da 20 secondi, 1 respirazione tra le ripetizioni (inspiro-espiro= 1 respirazione)

Il vacuum addominale fa male? Controindicazioni

vacuum addominale esecuzione palestra

È sconsigliato eseguire tale esercizio a soggetti:

  • ipertesi,
  • con patologie cardiovascolari,
  • con patologie respiratorie,
  • durante la gravidanza.

Conclusioni sul vacuum addominale

Il vacuum è un esercizio molto tecnico che richiede una certa preparazione e attitudine alla skill. Alcune persone non riescono a raggiungere l’esecuzione di un vacuum ben fatto perché non si applicano con la dedizione adeguata. Se guardi una foto di bodybuilder professionisti che eseguono tale posa sciolti e sicuri di sé è perché il loro lavoro è appunto quello di posare su un palco e molti di loro allenano le pose quasi quanto i propri muscoli (o almeno è auspicabile).

La resa estetica del vacuum varia da soggetto a soggetto, ci sono persone che per loro conformazione eseguono vacuum estremi, ma se ben allenato è degnamente eseguibile anche da soggetti senza particolare dote genetica e conformazione strutturale specifica.

Chiaramente un buon vacuum è più difficile da eseguire se hai appena mangiato ad un all you can eat o hai introdotto un’elevata mole di cibo. Ricordati che un buon vacuum si apprezza soprattutto in fase di definizione quando la massa grassa è ad un livello basso (vedi foto dei modelli proposte).

Bibliografia

Tamara Rial Rebullido, Iván Chulvi-Medrano, October 2018, “The Abdominal Vacuum Technique For Bodybuilding”, Strength and Conditioning Journal.

Omkar S. and Vishwas, B. Yoga techniques as a means of core stability training. J.
Bodywork Mov Thep. 13, 98-103, 2009.

Ithamar L, de Moura Filho AG, Benedetti Rodrigues MA, Duque Cortez KC,
Machado VG, de Paiva Lima CRO, et al. Abdominal and pelvic floor
electromyographic analysis during abdominal hypopressive gymnastics. J Bodywork
Mov Ther 22: 159-165, 2018.

Roncari A. Project exercise Volume 2. Milano: project inVictus; 2018.

Roncari A. Fitness posturale Volume 2. Milano: project inVictus; 2020.

 

L'articolo Vacuum addominale: esecuzione corretta proviene da Project inVictus.

Panca piana: deprimi e adduci

$
0
0

E se io vi dicessi che addurre e deprimere sia sbagliato e che prima si deprime e poi si adduce, voi pensereste che io sia uno schizzato o leggereste l’articolo?
Beh, ormai la mia provocazione è lanciata e spero che vi porti a leggere.

Questo è il mio primo articolo per il project, il primo di spero una lunga serie, dove colgo l’occasione di presentarmi. Questa presentazione sarà fondamentale per la lettura dei prossimi articoli in quanto coglierà la logica dietro la quale mi baso per scrivere tutto quello che verrà poi.

In questo articolo parlo di panca piana, uno dei 3 big del powerlifting e probabilmente l’esercizio più amato o odiato in palestra. La tratterò in maniera probabilmente nuova per come siamo abituati per cui, che siate voi powerlifter o bodybuilder o qualsiasi altra cosa che vi avvicina al mondo dei pesi, vi consiglio di dedicare un po’ del vostro tempo alla lettura.

Magari non scoprirete nulla che ritenete utile, magari penserete che siano solo cavolate, ma vi sfido a rileggere questo articolo fra 10anni e vi assicuro che quello che c’è scritto qua sarà diventato la prassi tanto quanto oggi lo sia dire “adduci e deprimi” e qui sarà sicuramene la prima volta che leggerete tutto quanto.

Queste affermazioni sono aggressive, ma scommetto tutto quello che ho per quanto sono sicuro di quello che scrivo.

Innanzitutto, mi presento, qualcuno di voi già mi conosce come “Un Pesista in Cina”, pagina nata dall’esperienza di allenamento di circa 1 anno maturata in Cina con allenatori quali un ex allenatore della nazionale olimpica cinese Xie Yong ed un ex campione mondiale Jin JiangTao, che ho ormai abbandonato perché la vita mi ha portato altrove e grazie alla quale ho conosciuto il caro Paolo che mi ha chiesto di scrivere questo articolo. Il mio nome è Marco Clementi, sono un signor nessuno nel mondo dei pesi, nemmeno particolarmente portato, ma con una caratteristica interessante, mi guardo attorno e non mi accontento.

 

Foto di Marco Clementi
Figura 1/ una foto con i miei coach: da sx a dx Xie Yong coach della nazionale olimpica nel 2008, Zhang Xiangxiang bronzo olimpico nel 2000 e oro nel 2008 e Jin Jiangtao campione mondiale juniores nel 2008

Intanto vi faccio vedere 2 video:

i miei primi 100kg di panca, dopo 2 anni e mezzo di allenamenti. Come vedete non ho mobilità particolare e nemmeno leve interessanti.

I miei primi 150kg dopo circa 3 anni, con in mezzo due pause fin troppo lunghe per motivi lavorativi, dove si può notare un movimento tecnico di tutt’altro livello.

Guadagnare 20kg all’anno, senza doti particolari, con una pausa di 3 mesi e un’altra quasi di 5mesi, non è quanto di più comune ci sia, ma è proprio il fatto che se ci sono riuscito io, ragazzo comune, con problematiche comuni, impegni che lo portano via dagli allenamenti, senza archi estremi, ecc.. ecc…allora il risultato è replicabile se solamente si sapesse cosa e come fare.

Il mio percorso inizia con l’università dove apprendo le basi di anatomia e biomeccanica risultatemi indispensabili per poter poi sviluppare le conoscenze postume. Continua con l’inizio del powerlifting in una squadra allora conosciuta in italia con al suo interno un recordman di panca.

Segue un anno di pesistica in Cina dove la mobilità e la tecnica erano tasselli ripetuti fondamentali per qualsiasi cosa e che ha profondamente segnato la mia mentalità.

Continua a Rimini con il Gruppo Pesisti Riminese, chiamato da molti “la mecca della panca” dove c’è attualmente un atleta che è riuscito a sollevare la bellezza di 221kg in -83 (2,5kg sopra il record mondiale), dove la mia conoscenza della panca si è consolidata e dove ho trovato un ambiente molto aperto di mentalità per poter approfondire tutte le mie curiosità.

Massimale panca di Marco Clementi
Figura 2/ il mio primo massimale tirato al Gruppo Pesisti con il mio allenatore come spotter. 121kg sul bilanciere dopo 6 mesi dai 100kg

Sto ora continuando il mio percorso in autonomia, su di me e sui miei atleti, guardando con ammirazione in oriente. Questa volta non ai cinesi, ma ai giapponesi dove troviamo panche pazzesche a BW molto bassi. In Giappone i 200kg di panca sono ormai sdoganati ed è comune trovarli anche fra atleti di basse categorie. Se è comune vedere questi kg che da noi fino a pochi anni fa sembravano un miraggio c’è sicuramente qualcosa da imparare da loro.

Daiki kodama 240kg a 73kg di peso corporeo e 41 anni suonati

I giapponesi compiono un movimento particolare, chi più e chi meno, ognuno con la sua particolarità, ma tutti con dei dettagli in comune. Quel movimento viene chiamato da noi doppio incastro e in Italia abbiamo un grande espositore di questo movimento con attualmente il record in -93 e 215kg di panca sollevati in allenamento.

All’interno del gruppo pesisti non viene insegnato il doppio incastro ma un movimento basato sugli stessi principi e che a modo suo guarda tanto i giapponesi.

Ad oggi siamo tutti abituati a dire “adduci e deprimi”, ma non basta. I giapponesi sono andati oltre, i riminesi pure.

Il segreto

L’adduzione e la depressione scapolare sono la base per una buona panca, ma è il quanto che cambia tutto.

All’adduzione e depressione delle scapole è stato associato il termine “alza il petto”, ma anche qui è molto limitante.

Quando parliamo di panca piana dobbiamo capire un fattore fondamentale: tanto più le scapole sono addotte e depresse tanto più il pettorale (e in certi casi il dorsale) sarà in condizioni ottimali di spinta.

Le scapole sono il segreto di una panca efficace.

Spero che quanto detto sia una banalità da tutti riconosciuta

Quello che ritengo innovativo invece è come gestirle. Addurre e deprimere o il più banale “alzare il petto” è limitante e non permette il massimo grado di movimento delle scapole, ottimizzare il loro movimento porta ad ottimizzare la panca.

Non ho ancora parlato di arco e il tutto è voluto perché i miei discorsi prescindono da questo fattore. A parità di arco ci può essere una diversa gestione scapolare e quindi avere un setting molto più o meno performante. L’arco riduce il rom, ma sono le scapole a migliorare la spinta. I giapponesi non sono eccelsi in mobilità, hanno archi perfettamente nella norma eppure, grazie ad un controllo scapolare tendente alla perfezione, compensano egregiamente questa carenza.

È stata proprio l’ottimizzazione del movimento scapolare che ha portato il miglioramento della mia panca e che ha portato i giapponesi a risultati incredibili.

Un esempio lampante di quanto dico è il recordman italiano in -93 che a 38anni, dopo 20 anni di allenamenti in palestra, sta riuscendo a migliorare anno dopo anno e non di poco, proprio puntando tutto sulla gestione scapolare e sul doppio incastro (anche se lui odia chiamarlo così).

Cosa si può fare per migliorare la gestione scapolare? 2 fattori principali:

– Il già nominato DOPPIO INCASTRO
– E la appena accennata MOBILITÀ

Il doppio incastro

Il fine ultimo del doppio incastro è ricavare una maggiore depressione scapolare ottimizzando il gesto grazie a delle piccole accortezze biomeccaniche.
È quindi una tecnica rivolta a generare una maggiore efficienza del settaggio scapolare in ordine a creare una migliore condizione di spinta a discapito di molto lavoro in più della schiena (il che non significa meno lavoro dei muscoli di spinta, bensì la possibilità di generare maggiori tensioni). In alcuni casi, se la depressione è sufficiente, vediamo pure il dorsale, almeno per la prima fase di spinta, inserirsi come un muscolo agonista del movimento.
Viene distinta dalla tecnica classica dove si raggiunge il massimo grado di adduzione e depressione prima di partire (quindi con un incastro singolo) perché si parte molto “rilassati” per raggiungere il massimo grado di incastro solo successivamente.
Viene chiamato doppio incastro poiché si possono distinguere due fasi nell’eccentrica:

le due fasi del doppio incastro:

  • Fase di depressione: in questa fase l’attenzione è posta tutta sulla depressione scapolare che viene eseguita con un bassissimo grado di adduzione. La traiettoria del bilanciere è fortemente inclinata verso i piedi. Al termine della fase si esegue comunemente un fermo poiché la discesa continuerà con un cambio di direzione e serve stabilizzare il bilanciere prima che ciò avvenga. Questo è tanto più vero quanto più peso c’è sul bilanciere. Quel fermo è quello che comunemente viene definito come secondo incastro. Effettivamente fra la partenza e questo momento si è solo ottimizzato “l’incastro” scapolare. In questa fase braccio e scapola “traslano” verso i piedi e avviene la famosa “strizzata di gomito” cioè la flessione, “chiusura” (adduzione) e rotazione di questi per via dell’attivazione del dorsale.
  • Fase di raggiungimento al petto: qui la panca si comporta come una comunissima panca. Si adduce e si continua a deprimere, si cerca di alzare il petto e tutto il resto. Ci sono due sostanziali differenze però rispetto alla panca classica. Siamo ad un grado di depressione molto più marcato e a livello di pettorale ci ritroviamo con molta meno tensione inutile. Con la panca classica capita spesso di arrivare al petto sentendolo “tirare” troppo e rendendoci difficile il raggiungimento mantenendo il setting. Quella sensazione con il doppio incastro sparisce. Qui la traiettoria è praticamente verticale.

Ps. In alcuni atleti dal rom particolarmente corto la seconda fase potrebbe non essere visibile per il semplice fatto che il termine della possibilità di depressione scapolare coincide con il raggiungimento del petto.

Ma perché questo movimento spezzato in due ottimizza la depressione scapolare?

Parliamo un po’ di anatomia.

Figura 3 i principali muscoli che interagiscono con la spalla in panca

Innanzitutto, ho detto che nella prima fase ci si concentra molto sulla depressione e poco sull’ adduzione. Questo perché molti muscoli legati all’adduzione scapolare sono anche muscoli elevatori.

Il primo fra tutti è l’elevatore delle scapole, muscolo che adduce e ruota caudalmente la scapola. Se a noi serve deprime e ruotare medialmente la scapola, la sua attivazione gioco forza ci limita nel movimento.

Più o meno lo stesso si verifica anche col trapezio ed i romboidi.

Senza l’attivazione di questi muscoli le scapole sono molto più libere di muoversi. Molto semplicemente la scapola ha più libertà di movimento in abduzione che in adduzione. Noi non la possiamo mandare in abduzione, ma possiamo limitarne l’adduzione.

Questo però lo si potrebbe fare anche con un incastro classico prima del movimento (il che già ottimizza il gesto). Mi basterebbe concentrarmi solo a deprimere (che forza comunque un minimo grado di adduzione) prima di partire e poi scendere col bilanciere. Farlo però a gomito esteso ne limita l’efficacia.

Nel doppio incastro infatti la depressione avviene mentre si flette il gomito. Il dorsale è un muscolo che ha come funzioni dirette di addurre ed estendere l’omero e tramite il collegamento che questo ha con le scapole di deprimerle e di estendere il tronco. Permettere al dorsale di deprimere le scapole mentre fa anche le altre sue funzioni significa eliminare l’azione dei suoi antagonisti. Maggior accorciamento del dorsale significa maggior depressione scapolare. Per capire quanto detto basta deprimere una scapola mentre teniamo il braccio flesso per poi estenderlo (braccio su spalla) durante la massima depressione. Noterete come aumenta la contrazione del dorsale e di conseguenza la depressione scapolare.

Mobilità

Serve una veloce premessa per poter far capire quanto scriverò.

Quando si allena la mobilità in ottica pesi non basta semplicemente allungare un muscolo. Per essere più forti noi dobbiamo anche diventare più forti (ma guarda un po’…) e avere maggiore controllo.

Quando si fa mobilità dunque dobbiamo allenare 3 diversi parametri: la flessibilità, la forza e il controllo.

Ciò è fattibile attraverso l’attivazione, l’equilibrio e la coordinazione.

Ho inserito la flessibilità come una delle componenti della mobilità perché queste due non sono la stessa cosa. La mobilità è un’abilità che sfrutta più capacità fisiche, quelle precedentemente elencate fra cui rientra appunto la flessibilità.

La mobilità diventa un’abilità che ci porta ad eseguire determinati movimenti complessi ad escursioni articolari elevate e non la semplice capacità di allungare un muscolo.

La mobilità non è dunque un semplice allungarsi, ma un vero e proprio contrarsi.

Figura 4 una posa come questa in foto richiede molta forza e soprattutto la giusta attivazione, la spalla deve spingere e la schiena tirare altrimenti non si riuscirà mai a chiudere. Basta guardare la contrazione degli erettori per capirlo.

Il classico stretching passivo a noi non serve quasi a nulla, noi dobbiamo sviluppare movimenti complessi.

È solo attraverso l’attivazione e il controllo che potremo dare transfert alla panca o ai pesi in generale.

Fare mobilità diventa un vero e proprio allenamento che però, più di tutti, ci da una capacità, e cioè quella di percepire e controllare il corpo, oltre a riuscire a muovere di più e meglio.

Se il movimento che ho descritto prima vi è sembrato facile da eseguire vi assicuro che non lo è e personalmente lo propongo ai miei atleti solo quando penso che abbiano raggiunto un livello di controllo del gesto abbastanza elevato per permettergli di capire ciò che fanno o sarebbe impossibile per loro riuscire ad impararlo.

Avete notato l’età dei due atleti menzionati? Nessuno dei due è giovincello e comunque stanno continuando inesorabilmente ad incrementare i loro risultati. Questo è principalmente perchè stanno migliorando con la pratica la loro gestione scapolare nonostante gli anni di pratica e se dopo tutti questi anni hanno ancora da migliorare significa che così facile non è.

La mobilità diventa dunque fondamentale per la nostra panca e in particolar modo per il doppio incastro perché ci da percezione delle scapole e del corpo e ci da controllo di questi. Quando possiamo muovere di più e meglio le nostre scapole il doppio incastro viene ottimizzato.

Se a tutto ciò riusciamo anche ad aggiungere un arco maggiore con una maggiore tenuta di schiena che altro devo dire per convincere a farla?

Voglio spiegarmi meglio usando un esercizio banalissimo come il cobra.

Cobra e attivazione

Questo è un esercizio che può venir svolto in maniera passiva spingendo semplicemente con le braccia e facendo estendere la lombare o in maniera attiva sfruttando gli erettori del rachide e il dorsale e solo secondariamente farsi aiutare dalle braccia.

Nel primo caso andiamo solo a lavorare su una compressione articolare insegnando nulla al nostro corpo e rischiando pure di farci male. Nel secondo caso insegniamo ai muscoli erettori ad attivarsi dando stabilità alla zona lombare e proteggendola da qualsiasi infortunio e soprattutto impariamo anche a connetterci il dorsale nell’estensione.

É la stessa cosa che facciamo in panca.

È questo quello di cui parlo quando dico che la mobilità va resa attiva e che si allena attraverso la contrazione. Fare le stesse cose che facciamo in panca, ma riuscire a farlo al limite dell’escursione articolare ci permette di sviluppare più coscienza dei nostri movimenti e di diventare forti anche nel massimo allungamento. Togliere il peso ci permette di focalizzarci sull’attivazione dei muscoli più profondi che normalmente non usiamo. Considerate che nello yoga si eseguono esercizi di mobilità fra le varie cose per ottenere come risultato finale un aumento della percezione e del controllo del nostro corpo. Noi andiamo a fare esattamente la stessa cosa ottenendo anche ulteriori risultati.

Attivazione e percezione ci permettono di ottimizzare quello che già facciamo, se poi riusciamo a farlo anche di più (grazie alla maggior mobilità) tanto di guadagnato.

Non mi è raro parlare con vari atleti e allenatori che mi chiedono indicazioni o spiegazioni legate alla mobilità e ritrovarmi a sentirgli dire che quando la fanno la gestione della panca migliora. È comune la sensazione di riuscire a percepire meglio il movimento e di capire meglio quello che stanno facendo.

Maggiore libertà di movimento delle scapole e maggiore arco non possono fare altro che farci guadagnare molti kg sul bilanciere.

All’inizio dell’articolo parlavo del modo di dire “alzare il petto” e dicevo che fosse limitante perché il petto non va solo portato verso l’alto, ma va anche inclinato verso la faccia. Più sarà inclinato verso la faccia (comunemente si dice “impennato”) e più il pettorale sarà avvantaggiato nella spinta.

Per impennare il petto però bisogna deprimere molto le scapole e riuscire ad estendere il rachide non solo a livello lombare, ma anche a livello dorsale (oltre che usare un corretto leg drive che porti a spingere orizzontalmente e non verticalmente).

Comunemente le persone sono molto più mobili a livello lombare e per riuscire a diventarlo a livello dorsale bisogna fare mobilità.

C’è poco da dire, per ottimizzare il setting in panca bisogna essere mobili. Bisogna riuscire a muovere le scapole per deprimerle, essere mobili a livello dorsale per impennare il petto e a livello lombare per alzarlo. Non basta avere la flessibilità per fare tutto ciò, ma bisogna anche saperlo fare e per impararlo a fare bisogna imparare ad attivarsi e avere percezione di ciò che si fa.

Conclusioni

Mobilità e doppio incastro sono dunque due metodi per ottimizzare il controllo e il movimento scapolare per creare un setting articolare in grado di migliorare la spinta. L’estremizzazione del movimento scapolare è il futuro della panca. Basta guardare i giapponesi per capirlo. Atleti che hanno portato nel mondo il doppio incastro (o versioni simili) e che al momento fanno numeri paurosi. La mobilità permette di ottimizzare il doppio incastro migliorando la gestione e la motilità delle scapole. Il doppio incastro permette di raggiungere il massimo grado di depressione scapolare. Delle scapole più depresse e addotte permettono una maggiore spinta.

Per quanto io creda che il futuro della panca sia legato al controllo scapolare e all’ottimizzazione del gesto bisogna anche porsi davanti all’ovvietà e dire che anche una buona componente muscolare sia fondamentale. Allenare sia la mobilità, che la tecnica e lasciare una buona dose di muscolazione sono fattori imprescindibili per raggiungere ottimi risultati in panca.

Se l’articolo vi è piaciuto spero che leggerete i prossimi articoli che tratteranno proprio di tutte e tre le componenti.

 

Autore: Marco Clementi

L'articolo Panca piana: deprimi e adduci proviene da Project inVictus.

Viewing all 1309 articles
Browse latest View live