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Approfondimento al Kaatsu Training

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In un precedente articolo sul Kaatsu training avevamo scritto delle imprecisioni. Pertanto, grazie alle vostre segnalazioni, approfondiamo l’argomento inserendo le corrette informazioni.

Kaastu Training

Il metodo KAATSU viene sviluppato in Giappone a partire dal 1967 grazie alle ricerche dello studente Yoshiaki Sato, studente di medicina alla Tokio University. Nel 1973 il dottor Sato completa lo sviluppo del metodo KAATSU, registrandone il marchio. Il metodo comincia ad essere adottato da strutture mediche e università e nel 1994 viene brevettata la prima fascia occludente, mentre dal 1997 è possibile conseguire la certificazione di istruttore KAATSU.

L’ottenimento della certificazione originale per specialisti KAATSU prevede un intenso percorso di studi sulla tecnica del metodo, sulla sua fisiologia applicata, sulle varianti pratiche e sull’utilizzo dei prodotti KAATSU. Per ottenere l’idoneità è necessario, una volta terminato il percorso formativo, superare un esame scritto di 100 domande con almeno il 90% delle risposte esatte.

Attualmente gli strumenti con cui gli istruttori possono lavorare sono:
1) KAATSU Bands (Air o Aqua)
2) KAATSU Master
3) KAATSU Nano

L’obiettivo di questi dispositivi è favorire l’allenamento per ciascun individuo, tenendo conto dello stato di salute, della pressione, dell’età e dell’esperienza di ogni soggetto.

Il KAATSU training viene spesso confuso col Blood Flow Restriction (BFR), ma questi due metodi hanno in comune solo la parziale occlusione del flusso ematico durante l’ allenamento. Possiamo definire il KAATSU come il completo perfezionamento del BFR.

KAATSU in giapponese significa aumento di pressione. Ciò è dato dall’occlusione a livello prossimale dell’arto che si vuole allenare. Per logici motivi appare dunque evidente che i gruppi muscolari che potranno essere sottoposti a questo tipo di allenamento sono ridotti. Infatti, si può applicare questo metodo solo agli arti.

Nell’allenamento KAATSU si applicano due fasce occludenti, chiamate “KAATSU bands”, che vanno ad interrompere il flusso venoso con una pressione specifica per ogni soggetto. Una volta raggiunta la pressione ottimale si possono eseguire determinati esercizi come ripetizioni con un carico al 20% di una ripetizione massimale o semplici camminate.

Il primo meccanismo a cui assistiamo è quello del reclutamento muscolare. In condizioni normali, utilizzando carichi molto bassi, le fibre utilizzate saranno quelle di tipo I. Ma in questa specifica condizione di carenza di ossigeno, le fibre rosse si esauriscono facilmente e il sistema neuromuscolare sarà costretto a reclutare le fibre di tipo II. È proprio in questa situazione che subentra il secondo meccanismo fisiologico, vale a dire un accumulo esponenziale di acido lattico all’interno del muscolo. L’acido lattico si lega ad alcuni recettori specifici che, comunicando con l’ipotalamo, stimolano il rilascio di GHRH che a sua volta permette la stimolazione di GH. Il terzo meccanismo consiste nella riduzione della concentrazione di cortisolo. Infatti, a causa della minore intensità a livello muscolare e articolare, l’organismo sarà sottoposto a un livello di stress molto inferiore rispetto ad un allenamento con sovraccarichi alti. L’ultimo meccanismo fisiologico dovuto alla mancanza di ossigeno è un forte stimolo del processo di angiogenesi. Si avrà quindi un netto miglioramento della vascolarizzazione per aumento dei vasi sanguigni.

Per quanto riguarda l’allenamento KAATSU, è fondamentale ribadire che la sua applicazione può essere attuata solo da persone in possesso di idonea e certificata formazione. Infatti, in allenamenti dove alla base non ci sia una chiara e precisa pianificazione, i rischi per il paziente sono molto alti. Grazie alla strumentazione KAATSU l’istruttore potrà allenare in maniera appropriata e sicura, seguendo una determinata procedura che avrà come obiettivo quello dell’ottimizzazione del risultato in base alle caratteristiche e alle esigenze del soggetto.

A differenza del KAATSU training, il BFR può essere eseguito da chiunque anche utilizzando semplici lacci o knee-wraps. Ovviamente i rischi di questo allenamento sono molteplici, in quanto non si conosce con esattezza la pressione con cui si sta lavorando. In poche parole si utilizza come scala di misurazione “troppo stretto” o “no, stringi ancora un po’!”.

Nonostante ciò, in soggetti che non presentano particolari problemi cardiaci, il metodo sfrutta le stesse caratteristiche del KAATSU e dunque garantisce ottimi vantaggi soprattutto in una fase di scarico o in soggetti anziani o con problemi di peso.

La cosa fondamentale da tenere a mente è che entrambi i metodi limitano il flusso venoso e non quello arterioso quindi ci sarà sempre e solo un rallentamento e mai un’ ostruzione totale del flusso.

Per chi volesse approcciare il BFR consiglio di cominciare a stringere molto poco concentrarvi sulle sensazioni che ciò genera. Man mano che prenderete confidenza con questo tipo di allenamento, vedrete che l’ occlusione ottimale riuscirete a trovarla senza problemi.

In conclusione esprimo la mia personale opinione sul KAATSU training.

A mio avviso il metodo funziona e si candida ad essere una vera e propria rivoluzione nel campo dell’allenamento, soprattutto per la capacità di coinvolgere molteplici tipologie di soggetti: dall’ atleta elite, al vecchietto con problemi di movimento; dal diabetico, al soggetto in fase di riabilitazione.

Enrico Prati, Dr. in scienze motorie e sportive, fitness coach Con la preziosa collaborazione del coach Daniele Baioletti

Mail:

enrico.prati@live.it e
danielebaioletti@gmail.com

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Frequenza dei pasti: tra realtà e falsi miti

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Uno dei falsi miti più duri a morire nel mondo della nutrizione, soprattutto quella sportiva, riguarda la frequenza dei pasti (Meal frequency) ed in particolar modo la convinzione che esisterebbe un certo vantaggio (aumento del metabolismo) nel mangiare più volte al giorno con pasti piccoli e frequenti rispetto che nell’assumere le stesse calorie in pochi pasti ma più abbondanti.

Non saltare la colazione, mangiare ogni 2-3 ore, fare 6 pasti al giorno…sono tutti consigli che almeno una volta nella vita in molti hanno ascoltato e seguito alla lettera.

Si pensa che mangiare più volte al giorno possa portare ad incrementare il metabolismo, incentivare la perdita di massa grassa, ridurre la fame (e controllare l’appetito) e migliorare il controllo di insulina e glucosio [1]. In letteratura è stato coniato il termine “stocking the metabolic fire” quando negli anni ’60 – attraverso una serie di studi – era emerso come effettivamente le persone che mangiavano più volte al giorno tendevano anche a perdere più facilmente peso [2][3][4]. Ma quanto c’è di vero in tutto ciò? Esiste davvero tutta questa differenza a livello metabolico e salutare nel fare pasti più frequenti?

Lo scopo di questo articolo è di fare chiarezza sull’argomento utilizzando buona parte della letteratura scientifica in merito messa a disposizione negli ultimi decenni.

Frequenza dei pasti

Saltare la colazione fa ingrassare?

Uno dei consigli cardine di quasi ogni dieta e delle varie linee guida nutrizionali è di non saltare mai la colazione. La colazione è da molto tempo ormai considerato il pasto più importante della giornata, questo soprattutto perché esistono in letteratura associazioni che mostrano come gli individui che saltano la colazione hanno anche un alto IMC ed un aumento dei rischi di diabete 2 e di CAD. Inoltre secondo diversi studi osservazionali sembrerebbe esistere una certa correlazione tra il consumo di un pasto al mattino e la perdita di peso e il miglioramento della composizione corporea. Secondo tali studi la colazione potrebbe avere effetti positivi nel migliorare il controllo della fame durante il corso della giornata, avere più energie a disposizione e fornire un quadro metabolico migliore. [5][6][7]

Come sappiamo però gli studi osservazionali non implicano la presenza di una relazione causa-effetto. Molti di questi studi non tengono conto del fatto che le persone che tendono a fare una colazione ricca e sostanziosa sono anche quelle più meticolose nel controllare il proprio apporto calorico. Pare infatti che queste siano più abituate a consumare frutta, verdura ed alimenti ricchi di fibre. [8] Le persone che saltano la colazione solitamente, non monitorando le calorie che assumono durante la giornata, tendono spesso a mangiare di più e/o male e di conseguenza ad ingrassare. La maggior parte degli studi osservazionali si scontra spesso su questo tipo di fallacia.

Dobbiamo anche tener conto del fatto che molti di coloro che saltano la colazione lo fanno con lo scopo di dimagrire ritrovandosi comunque già in una condizione di sovrappeso.

In uno dei pochi studi randomizzati che affronta l’argomento condotto nel 2014 da Dhurandhar et al [9] erano stati comparati gli effetti sulla composizione corporea tra chi saltava la colazione e chi invece consumava un pasto al mattino su un totale di 283 soggetti tra obesi e sovrappeso.

Nell’arco delle 16 settimane non è stata riscontrata alcuna differenza nella perdita di massa grassa tra i due gruppi.

Non sembrerebbe quindi esistere una posizione univoca riguardo l’importanza della colazione nella letteratura e la scelta potrebbe semplicemente basarsi sulle preferenze personali. Fare o non fare la colazione è semplicemente questione di abitudine e stile di vita alimentare. E’ sempre l’introito calorico giornaliero/settimanale a far da padrone.

Al di là degli studi scientifici basterebbe osservare semplicemente cosa succede nel mondo animale dove nessuno si chiede né si preoccupa di cosa o se mangiare la mattina, soltanto l’uomo lo fa e nemmeno da molti decenni a questa parte; da quando cioè l’obesità e le malattie che ne conseguono sono in aumento. [10] Siamo sicuri che il problema sia davvero la colazione?

Metabolismo

Vi è l’idea che aumentare il numero dei pasti porterebbe ad incrementare il metabolismo ed incentivare così la perdita di massa grassa. [11] In particolare si è più volte pensato che stare troppe ore senza consumare un pasto potesse causare un rallentamento del metabolismo e portare in una condizione che in letteratura viene definita come “starvation mode”, una condizione metabolica che – a causa di uno scarso apporto di cibo- comporta una riduzione del metabolismo e di conseguenza ad un blocco della perdita di peso. Quest’idea è però completamente infondata.

In realtà pochi studi nel passato avevano appoggiato tali teorie. Tra questi uno studio condotto sugli animali aveva infatti mostrato che i cani che mangiavano 4 pasti al giorno presentavano una risposta alla termogenesi maggiore rispetto ai cani che consumavano un solo pasto al dì [12] In un altro studio lo stesso gruppo di ricercatori era riuscito a dimostrare lo stesso effetto però questa volta sugli uomini [13]. Gli stessi erano arrivati alla conclusione che questo fosse dovuto ad un aumento della stimolazione del sistema nervoso simpatico. Numerosi altri studi invece non hanno trovato differenze significative in questo senso. [14][15][16]

Il fatto che negli animali si siano riscontrati certi risultati non dovrebbe però stupire. Gli animali infatti – soprattutto quelli più piccoli – hanno una durata di vita media molto inferiore rispetto agli uomini e stare già alcune ore senza mangiare potrebbe equivalere ad una intera giornata e più di digiuno per l’uomo.

Gli aumenti della termogenesi dovuti alla frequenza dei pasti sono spesso correlati al TEF (termic effect of food) o effetto termico indotto dal cibo (chiamata anche DIT da dietary induced thermogenesis). Il TEF rappresenta una piccola parte dell’energia consumata dal corpo durante la giornata. Per l’esattezza si tratta della quantità di energia consumata dopo un pasto. Essa rappresenta in pratica la quantità di energia che viene utilizzata dal corpo per digerire ed assorbire i macronutrienti.

Il TEF differisce a secondo del tipo di macronutriente digerito: il consumo di energia per la digestione dei carboidrati è pari infatti al 5-10%, quello delle proteine arriva fino al 20-30% circa mentre per i grassi si aggira intorno allo 0-3%. [17] In generale l’effetto termico indotto dal cibo con un pasto misto si stima abbia un valore pari al 10% circa del metabolismo. Ciò vuol dire che ogni volta che si consuma un pasto viene bruciato il 10% circa delle calorie contenute al suo interno.

In una meta-analisi condotta da Bellisle nel lontano 1997 non era stata però trovata alcuna correlazione tra la frequenza dei pasti e l’aumento della spesa energetica del corpo. Questa risulta essere uguale indistintamente dal numero dei pasti che si sceglie di consumare durante la giornata. Infatti più ricco è il pasto maggiore è anche il TEF [11] .

Per fare un esempio pratico quando con una dieta di 1800 kcal consumiamo sei pasti al giorno di 300 kcal ciascuno il valore del TEF per ogni pasto è pari a 30 mentre il TEF totale durante la giornata avrà un valore pari a 180. Se consumiamo la stessa quantità di calorie però in tre pasti da 600 kcal ciascuno in questo caso il TEF per ogni pasto sarà di 60 mentre quello totale sarà sempre di 180 [18].

 

Effetti sulla composizione corporea

E’ stato più volte ipotizzato che l’aumento della frequenza dei pasti possa essere direttamente collegato con la perdita della massa grassa e che possa anche favorire il mantenimento della massa muscolare (ideale quindi nelle diete per dimagrire). Esistono infatti diversi studi osservazionali che indicano una correlazione inversa tra frequenza dei pasti e la percentuale di tessuto adiposo [2][3][4]

In uno studio di Iwao et al [19] condotto su dei pugili era emerso che gli atleti che consumavano sei pasti al giorno perdevano meno massa magra e presentavano livelli molecolari di catabolismo muscolare inferiori rispetto agli atleti che ne consumavano solo due. Lo stesso studio però presenta alcune lacune e limitazioni come mostrato anche da diversi altri ricercatori: innanzitutto la durata della ricerca che è di poche settimane, poi il numero esiguo di soggetti presi in esame e infine il tipo di dieta ipocalorica ed ipoproteica che venne somministrata agli atleti di appena 1200 kcal e 60 g di proteine. Uno dei pochi casi in cui la frequenza dei pasti può risultare rilevante è quando la quantità di proteine consumate durante la giornata è insufficiente. In questo caso dividere le proteine in più pasti sembra permettere di risparmiare più massa magra. [20]

In un altro studio di Benardot [21] condotto su atleti erano stati comparati gli effetti del consumo di tre piccoli spuntini aggiuntivi di 250 kcal rispetto ad un gruppo placebo che aveva consumato spuntini non calorici. Il primo gruppo mostrava incrementi della performance anaerobica ed una migliore ritenzione di massa magra. Ovviamente però è impossibile stabilire se tali benefici siano dovuti alla frequenza dei pasti o all’aumento delle calorie.

Un recente studio di Arciero et al. [22] aveva mostrato che il consumo di 6 pasti al giorno in una dieta ad alto contenuto proteico (35% delle calorie totali) era superiore ad una dieta di tre pasti al giorno con un consumo di proteine alto o moderato (15% delle calorie totali) per quanto riguarda la composizione corporea. Anche qui però possiamo trovare diverse limitazioni quale ad esempio il tipo di soggetti presi in esami ovvero donne in sovrappeso che non svolgevano alcun tipo di allenamento, né aerobico né soprattutto di contro resistenza. Alcuni autori come Schoenfeld hanno mostrano poi alcuni dubbi sulla validità delle misurazioni prese in tale studio.

Una ricerca invece aveva mostrato addirittura un miglioramento nella composizione corporea con una maggior perdita di massa corporea e massa grassa e un miglioramento della massa magra nei soggetti che consumavano un unico pasto al giorno rispetto a chi ne consumava tre [23]; non si sa bene il motivo di tale risultato anche se si presume sia dovuto per effetto del partizionamento calorico. [24]

Nella prima meta-analisi in assoluto condotta sulla correlazione tra frequenza dei pasti e composizione corporea da parte dei ricercatori Schoenfeld, Aragon e Krieger [25] era emerso in una prima analisi un piccolo vantaggio nel consumare più pasti al giorno. Rimuovendo poi alcuni studi come quelli di Arciero e Iwao, che come già abbiamo visto presentano diverse limitazioni, è emerso invece che non sembra esserci alcuna differenza tra chi consuma più o meno pasti al giorno.

Da tener conto però che la meta-analisi ha raccolto una serie di studi esclusivamente su soggetti sedentari. E’ stato diverse volte ipotizzato – anche attraverso alcuni riferimenti scientifici – che dopo un allenamento i muscoli sono più recettivi al consumo di proteine mostrando quindi un possibile maggior vantaggio nell’aumentare la frequenza dei pasti nell’incremento della massa muscolare nelle 24 ore successive l’allenamento.

Resta comunque consigliato per gli atleti di consumare circa 3-4 pasti al giorno per massimizzare i guadagni ipertrofici soprattutto con pasti proteici (almeno 20 g di proteine a pasto). Gli effetti anabolici di un pasto durano infatti circa 6 ore [26] e sono dovuti soprattutto all’effetto dell’aminoacido leucina (nella scienza dell’esercizio fisico è stato introdotto il concetto di leucine threshold). 20-30 g di proteine contengono circa 2-3 g di leucina che è stato dimostrato essere la quota ottimale per massimizzare la sintesi proteica, eccetto in soggetti anziani dove la soglia aumenta fino a 35-40 g di proteine (3-4 g di leucina). [27]

Infrequenza e frequenza dei pasti

Mentre quindi come abbiamo visto nei paragrafi precedenti non sembra esserci molta differenza nella scelta del numero dei pasti, pare invece che una infrequenza di questi nel corso della settimana possa portare a degli squilibri metabolici soprattutto sul metabolismo glucidico e lipidico. In particolare in alcuni studi condotti su delle donne è stato dimostrato che quando non si tiene costantemente una frequenza regolare dei pasti avviene un peggioramento della sensibilità all’insulina [28], con un aumento dell’insulino resistenza e una riduzione dell’effetto termico del cibo (TEF) [29] con tutti gli effetti negativi sulla composizione corporea e sul quadro metabolico che ne conseguono (aumento del colesterolo totale e LDL in particolare).

Al di là della scelta del numero dei pasti che risulta quasi del tutto ininfluente ai fini dei nostri risultati, è preferibile e raccomandabile quindi mantenere costantemente più o meno lo stesso numero dei pasti durante il corso della settimana per evitare possibili effetti negativi sulla salute.

Fame e sazietà

Riguardo la questione in merito all’appetito e al senso di sazietà in letteratura non c’è purtroppo una posizione univoca.

Alcuni studi hanno mostrato che quando le stesse quantità di calorie vengono consumate in piccoli pasti durante il corso della giornata si riesce ad avere un maggior controllo dell’appetito correlando tale risultato probabilmente ad una attenuazione della risposta all’insulina. [30][31]

Altri studi invece hanno mostrato proprio l’esatto contrario, rivelando che l’aumento della frequenza dei pasti potrebbe causare un aumento della fame e del desiderio di mangiare. [32][33][1]

Proprio per il fatto che le posizioni non sono univoche e non esiste una soluzione che vada bene per tutti sarebbe consigliato semplicemente mangiare quando si ha fame in base anche alle proprie necessità e allo stile di vita.

Se abbiamo problemi a controllare il nostro appetito possiamo comunque ricorrere all’ormai noto “digiuno intermittente”.

Uno dei vantaggi del digiuno intermittente è quello di riuscire ad aiutare a controllare la fame e ad essere sazi. Per comprendere meglio come questo possa agire dobbiamo iniziare a distinguere la fame limbica (ovvero quella proveniente dalla testa) da quella somatica (proveniente dallo stomaco). La prima si presenta quando abbiamo di fronte del cibo o anche quando semplicemente pensiamo ad esso. Si presenta anche a stomaco pieno e soprattutto quando siamo abituati a mangiare ad una certa ora. Per questo motivo è anche facilmente regolabile a seconda delle nostre abitudini alimentari.

La fame limbica non è in realtà un processo innato ma si manifesta per abitudine al cibo. Per fare un esempio banale basta guardare il comportamento dei bambini che spesso sono riluttanti a mangiare e il più delle volte devono anche essere svegliati per mangiare durante i primi mesi dalla nascita.

Il digiuno intermittente , in base a molte evidenze pratiche, è stato dimostrato essere uno strumento utile per riuscire a distinguere la fame limbica da quella somatica (cioè quella vera). Basta infatti abituarsi a digiunare per diverse ore nel corso della giornata per far sì che il corpo e la mente si abituino a contrastare la fame. [34]

Qual è quindi la frequenza ottimale dei pasti?

In realtà non esiste una frequenza migliore; o meglio, la frequenza migliore è quella che riesce ad inserirsi meglio nelle abitudini alimentari del singolo individuo. C’è chi per impegni lavorativi o di studio si trova più a suo agio a fare solo 2 pasti chi invece preferisce farne 5 o 6 perché ha difficoltà a stare troppo tempo senza cibo sotto i denti.

Come abbiamo visto dalla letteratura scientifica in merito non esistono grossi vantaggi nel fare più pasti al giorno, né sulla composizione corporea né sulla regolazione della fame e della sazietà. L’unico caso in cui si potrebbe fare un minimo di attenzione è quando si vogliono massimizzare i guadagni ipertrofici. Anche se a riguardo si attendono nuove ricerche e conferme in ambito scientifico pare che sarebbe più idoneo consumare circa 3-4 pasti al giorno distanziati di circa 5-6 ore per sfruttare al meglio la sintesi proteica e massimizzare i guadagni di massa muscolare [18] mentre non fa alcuna differenza o potrebbe essere addirittura controproduttivo consumarne una quantità ulteriore [35].

Non vi resta quindi che scegliere e provare qual è la frequenza migliore che più si adatta a voi ricordando comunque che sono sempre le quantità di calorie e la ripartizione di macro e micronutrienti ad avere la priorità .

Frequenza dei pasti: tra realtà e falsi miti è di Ivan Pitrulli

Ivan Pitrulli: Classe ’92 laureato in scienze delle attività motorie e sportive presso l’università di Palermo, ha sviluppato durante gli studi la passione verso la letteratura scientifica attraverso la quale cerca di combattere i falsi miti che girano nelle palestre su allenamento e nutrizione.

Mail: ivan.pitrulli@gmail.com

Per approfondire gli argomenti scopri il nostro libro Project Nutrition

Project Nutrition

Bibliografia

1) Leidy et al 2011 – The effect of eating frequency on appetite control and food intake: brief synopsis of controlled feeding studies.

2) Fabry et al 1964 – The frequency of meals: its relation to overweight, hypercholesterolaemia, and decreased glucose tolerance

3) Fabry et al 1966 – Effect of meal frequency in school children: changes in weight-height proportion and skinfold thickness

4) Hejda et al 1964 – Frequency of food intake in relation to some parameters of the nutritional status.

5) Dubois et al 2009 – Breakfast skipping is associated with differences in meal patterns, macronutrient intakes and overweight among pre-school children

6) Deshmukh-taskar et al 2010 – The relationship of breakfast skipping and type of breakfast consumption with nutrient intake and weight status in children and adolescents: the National Health and Nutrition Examination Survey 1999-2006.

7) Giovannini et al 2010 – Symposium overview: Do we all eat breakfast and is it important?

8) Rampersaud et al 2005 – Breakfast habits, nutritional status, body weight, and academic performance in children and adolescents.

9) Dhurandhar et al 2014 – The effectiveness of breakfast recommendations on weight loss: a randomized controlled trial.

10) Piccini 2015 – La dieta più antica del mondo
11) Bellisle et al 1997 – Meal frequency and energy balance.

12) LeBlance et al 1986 – Effect of meal size and frequency on postprandial thermogenesis in dogs.

13) LeBlance et al 1993 – Components of postprandial thermogenesis in relation to meal frequency in humans.

14) McCrory et al 2011 – Eating Frequency and Energy Regulation in Free-Living Adults Consuming Self-Selected Diets

15) Palmer et al 2009 – Association between eating frequency, weight, and health

16) Cameron et al 2010 – Increased meal frequency does not promote greater weight loss in subjects who were prescribed an 8-week equi-energetic energy-restricted diet.

17) Westerterp et al 2004 – Diet induced thermogenesis

18) http://www.lookgreatnaked.com/blog/are-frequent-meals-beneficial-for-body- composition/

19) Iwao et al 1996 et al – Effects of meal frequency on body composition during weight control in boxers.

20) McDonald Lyle 2007 – Protein Book

21) Benardot et al 2005 – Between-meal energy intake effects on body composition, performance, and total caloric consumption in athletes

22) Arciero et al 2013 – Increased protein intake and meal frequency reduces abdominal fat during energy balance and energy deficit.

23) Stote et al 2009 – A controlled trial of reduced meal frequency without caloric restriction in healthy, normal-weight, middle-aged adults.

24) http://www.vivereinforma.it/alimentazione/item/la-frequenza-ottimale-dei-pasti

25) Schoenfeld et al 2015 – Effects of meal frequency on weight loss and body composition: a meta-analysis.

26) Layman 2004 – Protein quantity and quality at levels above the RDA improves adult weight loss.

27) Schouler & Aragon 2015 – Lean muscle diet

28) Farshchi et al 2004 – Regular meal frequency creates more appropriate insulin sensitivity and lipid profiles compared with irregular meal frequency in healthy lean women.

29) Farshchi et al 2004 – Decreased thermic effect of food after an irregular compared with a regular meal pattern in healthy lean women.

30) Speechly et al 1999 – Greater appetite control associated with an increased frequency of eating in lean males.

31) Smeets et al 2008 – Acute effects on metabolism and appetite profile of one meal difference in the lower range of meal frequency.

32) Ohkawara et al 2013 – Effects of Increased Meal Frequency on Fat Oxidation and Perceived Hunger

33) Munsters et al 2012 – Effects of meal frequency on metabolic profiles and substrate partitioning in lean healthy males.

34) http://www.bodybuilding-natural.com/alimentazione/il-digiuno-intermittente/
35) http://www.bodyrecomposition.com/muscle-gain/meal-frequency-and-mass-gains.html/

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Alzate frontali: un esercizio da evitare?

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Nella teoria di allenamento per il fitness e bodybuilding di stampo ‘accademico’, le alzate frontali sono un esercizio fortemente criticato e spesso ‘bandito’ dai programmi di allenamento per i deltoidi. In alcuni testi dedicati agli esercizi in palestra queste vengono addirittura omesse dalla lista delle scelte possibili per stimolare il muscolo in questione. È scopo di questo articolo condurre un’analisi dei perché queste posizioni predominino tra i professionisti del settore.

Perché le alzate frontali sono bandite?

I primo e più evidente motivo per cui le alzate frontali sono bandite da molti tecnici del settore risiede nel fatto che i deltoidi anteriori ricevono già uno stimolo molto alto in tutti i movimenti di spinta e nelle croci per il petto.

Nella maggior parte degli esercizi per il petto – cioè i movimenti di spinta orizzontale e le croci – i deltoidi anteriori sono altamente coinvolti per permettere il movimento. Tutti questi esercizi sono accomunati dalla flessione (o adduzione) orizzontale della spalla nella fase concentrica. In questi movimenti i deltoidi vengono più attivati in proporzione all’inclinazione della panca e/o in proporzione alla chiusura dei gomiti (adduzione degli omeri) (1,2), e in alcuni casi alle macchine più che ai pesi liberi (3). Questo significa che i deltoidi anteriori sono più attivi nelle spinte e nelle croci su panca inclinata rispetto alla piana o declinata, oltre a subire una maggiore attivazione se in questi esercizi i gomiti vengono più chiusi (1), come nella panca piana a presa inversa o in quella a presa stretta per tricipiti. Sintetizzando, in tutti gli esercizi per il petto in cui viene sollecitata di più la porzione alta del gran pettorale, tende ad attivarsi di più anche il capo anteriore (1,2).

Negli esercizi di spinta verticale per i deltoidi – tutte le overhead press – avviene un’abduzione dell’omero in posizione di extra-rotazione. Anche se in anatomia viene indicato che il capo laterale sia la porzione più importante del deltoide per abdurre dell’omero (4), in realtà il grado di reclutamento tra capo anteriore e laterale viene molto condizionato dal livello di rotazione interna o esterna del segmento durante il movimento. Con omero intra-rotato (come nelle alzate laterali o nelle tirate al petto/mento) effettivamente il capo laterale predomina sull’anteriore (5,6), con omero extra-rotato invece (overhead press e alzate laterali inverse) il capo anteriore assume un ruolo molto più importante (5) mentre il capo laterale è meno attivo (5,7). Dato che la categoria delle overhead press viene ritenuta ‘fondamentale’ per stimolare i deltoidi, secondo logica non avrebbe senso sostituirle con le alzate frontali in quanto le prime sarebbero più efficaci, oltre che capaci di attivare molto più il capo laterale assieme a quello anteriore (8).

In conclusione, la logica nell’eliminare dalle schede le alzate frontali riconosce che i deltoidi anteriori sono già abbondantemente stimolati da tutti gli esercizi per il petto e dalle overhead press, per tanto sarebbe inutile praticare ulteriori esercizi di isolamento. Questo porterebbe il capo anteriore ad essere sovrastimolato anche per il fatto che i muscoli di piccole dimensioni richiedono generalmente meno volume (quantità) di lavoro rispetto ai muscoli più grandi (9).

Alzate frontali

Altre motivazioni sulla alzate frontali

Oltre ai motivi sopra esposti, esistono altre ipotesi che rafforzerebbero l’idea di escludere le alzate frontali dai programmi di allenamento per i deltoidi. Quello maggiormente citato è il possibile squilibrio tra i capi del deltoide. Molto spesso gli atleti sollecitano eccessivamente il petto, i deltoidi anteriori, il gran dorsale e i bicipiti trascurando i muscoli agonisti, e andando in contro a quella che da alcuni viene definita ‘sindrome da squilibri muscolari’ (10). Nel caso specifico del deltoide, se viene trascurato l’allenamento per i deltoidi posteriori il capo anteriore risulta troppo sollecitato, e aggiungere le alzate frontali aggraverebbe questo squilibrio. Questo ragionamento esclude però la possibilità che l’atleta consapevole alleni adeguatamente i muscoli antagonisti e/o sappia regolare il volume di allenamento per il capo anteriore, al fine di per prevenire tali squilibri.

Un altro motivo per cui le alzate frontali potrebbero essere criticate è l’ipotetico stress sulla bassa schiena. Il braccio teso rappresenta un lungo braccio di leva, che aumenta il momento meccanico (il carico interno) in proporzione al grado di sollevamento e al carico utilizzato, per tanto nelle fasi finali dell’alzata il sovraccarico aumenta le forze compressive e di taglio sulla zona lombare. Questo costringe la muscolatura lombare ad attivarsi di più per mantenere la lordosi neutra. Tuttavia gli esercizi di isolamento dovrebbero essere eseguiti con carichi medio-bassi (<75% 1-RM), e se la forma di esecuzione rimane corretta non c’è motivo di preoccuparsi di uno stress perfettamente gestibile. Il problema riguarderebbe i casi in cui l’esercizio viene eseguito in maniera errata compensando con un brusco inarcamento lombare, probabile causa dell’uso di carichi troppo elevati in proporzione alle capacità del soggetto.

Le alzate frontali potrebbero essere sconsigliate per evitare anche l’infiammazione del capo lungo del bicipite. Questo fascio partecipa attivamente alla flessione del braccio oltre che come stabilizzatore della testa omerale durante il movimento. Viene proposto che questo, nei casi peggiori, possa determinare l’infiammazione del suo tendine (11). Si tratta però di una conseguenza ipotetica, e ancora resa improbabile se l’esercizio viene eseguito in maniera corretta, con carichi contenuti e saltuariamente.

Una valutazione razionale sulle alzate frontali

Valutando le motivazioni espresse da molti tecnici dell’esercizio, effettivamente le alzate frontali appaiono come un esercizio del tutto superfluo che non offrirebbe alcun particolare vantaggio aggiuntivo nello sviluppo del deltoide anteriore. Tuttavia quando un esercizio viene bandito dai programmi di allenamento c’è il rischio che questo sia la conseguenza di fallacie logiche come la falsa dicotomia (‘pensiero in bianco e nero’) e l’argomento fantoccio (fallacia dello strawman).

La falsa dicotomia spiega l’errore logico nel ragionare solo per estremi escludendo le vie di mezzo, moderate e più realistiche. Secondo il ragionamento per estremi, le alzate frontali sono svantaggiose o superflue, per tanto non si dovrebbero tassativamente praticare. Questo errore logico viene rafforzato da un’altra fallacia detta argomento fantoccio. Per giustificare la propria argomentazione non vengono solo usati degli ragionamenti estremi, ma vengono citati esempi che si allontanano dall’argomentazione iniziale, come l’abuso dell’esercizio, l’ipersviluppo del deltoide anteriore, la trascuratezza dei muscoli antagonisti, esecuzioni scorrette, carichi esagerati e problematiche articolari. Tutti questi fattori non hanno però attinenza con la tematica in sé, ma si riferiscono ad argomenti a parte che di per sé non sono necessariamente ad essa legati.

Se il fine è quello di diffondere delle linee guida utili e sensibilizzare su una pianificazione di allenamento razionale, certamente emerge che le alzate frontali siano un esercizio superfluo e nettamente secondario. Per una buona parte degli utenti fitness potrebbero essere completamente evitabili e sostituite con esercizi più completi. Questo viene ulteriormente confermato dal fatto che gli esercizi di isolamento (mono-articolari) sono meno importanti rispetto a quelli composti (multi-articolari), e vengono quindi lasciati in secondo piano (9). Questo però non significa che le alzate frontali non possano essere sfruttate con criterio in un programma per l’ipertrofia dei deltoidi.

In quali casi usare le alzate frontali?

Contrariamente a quello che si può credere, le alzate frontali potrebbero essere usate in maniera razionale nei programmi di allenamento, perlomeno per alcuni soggetti.

Alcuni ad esempio potrebbero presentare dei deltoidi anteriori particolarmente carenti, e sebbene questo problema sia raro non si può escludere l’uso dell’esercizio per portare ad un riequlibrio nei casi in cui ve ne sia la necessità. A maggior ragione una carenza di deltoidi potrebbe richiedere un approccio in multi-frequenza, che ha effettivamente dimostrato di favorire uno sviluppo dell’ipertrofia tendenzialmente migliore della mono-frequenza (12). In un programma in multi-frequenza il deltoide anteriore potrebbe essere stimolato solo indirettamente in una giornata dedicata al petto, mentre potrebbe ricevere uno stimolo diretto con overhead press e alzate frontali in una sessione dedicata ai deltoidi separatamente. Anche se può apparire controintuitivo, la multi-frequenza si può adattare bene anche ai muscoli di piccole dimensioni anche perché impiegano meno giorni per il recupero (13) ed essere quindi ri-allenati produttivamente. Questo può valere soprattutto se in una delle due sessioni essi vengono stimolati solo indirettamente come muscoli sinergici.

Il fatto che le alzate frontali vengano introdotte in un programma di allenamento non significa inoltre che se ne debbano praticare molte serie. Non si esclude la possibilità di eseguire un numero contenuto di serie di alzate laterali (come le monoserie) lasciando più spazio ad esercizi fondamentali.

Un altro caso in cui le alzate frontali potrebbero essere sfruttate è nella ricerca di un movimento propedeutico (accessorio) per il miglioramento di una performance specifica. Sebbene questo tenda ad allontanarsi dagli scopi stretti del fitness e del bodybuilding, anche in questi casi le alzate frontali potrebbero essere prese in considerazione.

Riferimenti

1. Barnett C et al. Effects of variations of the bench press exercise on the emg activity of five shoulder muscles. J Strength Cond Res. 1995 9(4), 222-227.
2. Trebs AA et al. An electromyography analysis of 3 muscles surrounding the shoulder joint during the performance of a chest press exercise at several angles. J Strength Cond Res. 2010 Jul;24(7):1925-30.
3. McCaw ST, Friday JJ. A comparison of muscle activity between a free weight and machine bench press. Strength and Coral. Res. 8(4):259-264. 1994.
4. Kuechle DK et al. Shoulder muscle moment arms during horizontal flexion and elevation. J Shoulder Elbow Surg. 1997 Sep-Oct;6(5):429-39.
5. Botton CE et al. Electromyographical analysis of the deltoid between different strength training exercises. Med Sport. 2013. 17 (2): 67-71.
6. McAllister MJ et al. Effect of grip width on electromyographic activity during the upright row. J Strength Cond Res. 2013 Jan;27(1):181-7.
7. Reinold MM et al. Electromyographic analysis of the supraspinatus and deltoid muscles during 3 common rehabilitation exercises. J Athl Train. 2007 Oct-Dec; 42(4): 464–469.
Saeterbakken AH, Fimland MS. Effects of body position and loading modality on muscle activity and strength in shoulder presses. J Strength Cond Res. 2013 Jul;27(7):1824-31.
9. Helms ER et al. Recommendations for natural bodybuilding contest preparation: resistance and cardiovascular training. J Sports Med Phys Fitness. 2015 Mar;55(3):164-78.
10. Weitz B. Minimizing weight training injuries in bodybuilders and athletes. In: Robert D. Mootz, Kevin A. McCarthy. Sports Chiropractic. Jones & Bartlett Learning, 1999. pp. 16.
11. Sakurai G et al. Electromyographic analysis of shoulder joint function of the biceps brachii muscle during isometric contraction. Clin Orthop Relat Res. 1998 Sep;(354):123-31.
12. Schoenfeld BJ et al. Effects of resistance training frequency on measures of muscle hypertrophy: A systematic review and meta-analysis. Sports Med. 2016 Apr 21.
13. Mike JN, Kravitz L. Recovery in training: The essential ingredient. IDEA Fitness Journal, 2009. 6(2),19-21.

Note sull’autore:

Lorenzo Pansini nasce a Trieste nel 1988. Oltre a praticare da un decennio bodybuilding natural, consegue i titoli di Personal Trainer, Istruttore di fitness e bodybuilding, e partecipa a diversi seminari presso lo CSEN-CONI. Da diversi anni autopromosso come gestore e principale contributore nel progetto fitness e bodybuilding su wikipedia, è autore di centinaia di articoli sulla nota enciclopedia online inerenti al bodybuilding, al fitness, e ad argomenti correlati come l’alimentazione, la supplementazione e la fisiologia. Uno dei suoi principale obiettivi come autore, è quello divulgare informazioni aggiornate, complete e rigorosamente su base scientifica sfatando i dogmi, i falsi miti e i luoghi comuni molto diffusi nell’ambiente fitness e bodybuilding, tramite analisi critiche e oggettive fondate solo su una ricca bibliografia scientifica.”

Contatto FB

Mail: lorenzo.pansini@gmail.com

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Cheat day e cheat meal: quando ricaricare

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La prima cosa che viene chiesta quando si propone un protocollo alimentare è il pasto libero o cheat day / cheat meal. Bisogna avere quel momento per poter appagare il palato e poter soddisfare le necessità sociali che ci impongono di mangiarci una pizza una volta ogni tanto.. no?

Ma si tratta soltanto di qualcosa che aiuta in termini psichici o ha un riscontro e un’utilità anche da un punto di vista metabolico e fisiologico? Vedremo che l’inserimento di picchi calorici e glucidici ha un senso ed è anzi un qualcosa di imprescindibile all’interno di un periodo di ipo-alimentazione ma anche di iper-alimentazione.

Tipologie di cheat meal / cheat day

Dunque, le tipologie di pasto libero sono due:

  1. Un pasto libero vero e proprio (cheat meal). In questo caso lo scopo è prettamente psicologico. Al soggetto viene lasciato un pasto in cui non ha vincoli di scelta (in termini quantitativi e qualitativi) degli alimenti da consumare. Quello che ne consegue a livello metabolico è tanto di guadagnato o perso, poco importa, il beneficio psicologico in questi casi supera di gran lunga ogni malus. Va detto che questa si presta anche come un’arma a doppio taglio in quanto rappresenta il passo più breve per cadere in fenomeni di binge eating e disturbi alimentari veri e proprio (vivere in funzione di quell’unico pasto libero che starà nei nostri pensieri per tutta la settimana).
  2. Una giornata di picco calorico/glucidico (cheat day). In questo caso il pasto o giornata di picco calorico o glucidico è ben studianta e ponderata. Si tratta di una deroga alla dieta, se così vogliamo intenderla, o meglio di giorni in cui avremo maggiori quantità di cibo da poter consumare e i vincoli saranno più o meno penetranti. Potremo difatti avere una maggior varietà di scelta, la possibilità di non calcolare la grammatura di cibi o semplicemente un giorno con macros pre-impostati più alti. Insomma i paletti possono essere più o meno penetranti, il concetto è che godiamo come porcelli a mangiare di più.

In quest’articolo ci soffermeremo su questa seconda tipologia di ricarica e, nello specifico, vedremo come, quando e perché impostare un cheat day nei due contesti che siamo soliti tener conto: dieta definizione  e la dieta per la massa.

Cheat Day durante la definizione

. Perchè?

Cosa succede quando andiamo in ipocalorica? Per definizione introduciamo meno kcal di quante ne spendiamo, il corpo ha quindi un deficit calorico da colmare. Per far fronte a questa spesa va ad attingere alle risorse che ha, mobilita grassi e amminoacidi ed in determinati casi, che non approfondiremo, chetoni (che in verità vengono utilizzati sempre in minima parte). Ha bisogno quindi di substrati energetici. Ora, senza entrare nell’analisi di quanto dell’uno e quanto dell’altro, è logico che il gioco non può andare avanti all’infinito. Il nostro corpo ragiona così: dobbiamo sopravvivere, un GAP calorico mette a rischio la sopravvivenza quindi dobbiamo farvi fronte, come? Abbassando il metabolismo. Tutti i “processi” del corpo rallentano, come una macchina con poca benzina dove spegnete la radio, abbassate il condizionamento, alzate i finestrini, cercando di RISPARMIARE il più possibile. Questo si traduce prevalentemente in un down (mi piace utilizzare terini inglesi, vi direi che è perchè sto fisso su forum americani ma sostanzialmente è perchè fa molto figo) un down dicevo di diversi ormoni: leptina, tiroidei, testosterone etc.. Assistiamo inoltre ad una deplezione delle scorte epatiche e muscolari di glicogeno che si riflette in maniera negativa sulla performance.

Bello, niente di nuovo, cose dette e stradette, ci fai perdere tempo per questo? Procedo oltre che è meglio.

Un picco calorico ha un effetto di paracadute nei confronti della discesa del metabolismo traducendosi non solo in un maggiore mentenimento della massa magra ma anche in un ulteriore stimolo nella perdita di adipe. Doppio beneficio insomma.

. Come?

La ricarica calorica dovrà essere composta principalmente da glucidi, perchè questo? Da una parte i glucidi sono i macronutrienti che hanno un impatto maggiore sul profilo ormonale che abbiamo visto sopra. Dall’altra parte sono anche quelli che meglio si prestano al ripristino delle scorte muscolari ed epatiche di glicogeno. Piccola partentesi, contesti di ipo-alimentazione sono un ottimo momento per puntare anche sul fruttosio (in minima parte e non contestualmente al pasto di picco glucidico). É vero che il glucosio e i suoi polimeri (in particolare l’amilosio) influenzano in modo particolare gli assi neuroendocrini, ma il fatto che il fruttosio viene metabolizzato nel fegato risulta vantaggioso in quanto le scorrte di glicogeno epatico sono il principale indice per l’avvio dei processi di glicogenosintesi a carico della massa muscolare. In sostanza con il fruttosio catabolizzerete di meno, quanto meno non son dirvelo, son finezze ragionate sulla carta, ma tanto vale..

In parallelo a questo consiglio c’è quello di limitare l’apporto lipidico fino anche a circoscriverlo alle fonti indirette (i grassi contenuti in carni e cereali). Questo per due ordini di ragioni:

  1. Uno dei motivi per cui ingrassiamo (oltre ovviamente all’eccesso calorico) è il contestuale apporto di lipiti e glucidi. In un metabolismo glucidico, in presenza di insulina, i lipidi vengono stoccati direttamente negli adipociti non potendo essere ossidati. Viceversa se assumiamo solamente glucidi un eventuale eccesso (comunque difficile in contesti di ipoalimentazione) viene, per lo più, disperso in calore.
  2. Avendo un target di kcal da raggiungere converrà puntare tutto sui glucidi che abbiamo visto essere i più efficaci per gli scopi che ci siamo posti.

Il consiglio è inoltre quello di scegliere fonti facilmente digeribili. Non è raro che degli atleti superino gli 800-1000gr di chos in ricarica. Ecco, vi sfido a prenderli da fonti di difficile digeribilità o anche da avena e fonti fibrose in generale.

Per quanto riguarda le proteine possiamo anche diminuirle a 1,5-2gr/kg, tenendo conto che in contesti di ipo-aimentazione può esser utile salire fino ai 2,7gr/kg.

Cheat meal e cheat day

. Quando?

Per quanto riguarda la frequenza del cheat meal: dipende. Per quanto riguarda il cheat day: dipende.

Andiamo per gradi. Anzitutto bisogna ragionare in termini di discesa metabolica. Più alto sarà il GAP calorico, maggiore la velocità di discesa del metabolismo, maggiore il tasso di deplezione delle scorte energetiche, più frequentemente dovremo inserire una ricarica. Viceversa minore sarà il GAP calorico, più lenta la discesa metabolica, minore il tasso di deplezione del glicogeno e meno frequentemente inseriremo la ricarica. Possiamo quindi trovarci ad avere una ricarica ogni 4 giorni come anche una volta ogni 7-10 giorni. Il concetto sta nello stabilire una quota settimanale  e ciclizzarla come risulta più conveniente. Sia chiaro che bisogna tener conto anche e soprattutto dell’allenamento, ma questo l’ho già detto parlando di GAP calorico. Difatti un maggior volume d’allenamento comporterà un maggior dispendio energetico e, a parità di kcal assunte, un maggior GAP calorico (ricarica più frequente).

Sempre parlando di allenamento converrà coordinare la giornata di ricarica con lo stesso. Pertanto farla combaciare con i giorni di allenamento di un gruppo muscolare carente e, viceversa, allenare i gruppi muscolari che stanno avanti nei giorni in cui l’ipo-alimentazione è protratta da più tempo (praticamente prima della ricarica). In questo modo i gruppi carenti trarranno beneficio non solo dal miglioramento della performance ma anche dall’aumento del metabolismo e del tasso di proteosintesi.

ESEMPIO PROTOCOLLO IN IPOCALORICA

Target Glucidico settimanale: 2400gr

Target calorico settimanale: 17’900 kcal

Gruppi muscolari carenti: Gambe, spalle

Gruppi muscolari forti: Dorso

Push-Day (enfasi petto) 300gr chos – 2400kcal
Pull-Day + Cardio 300gr chos – 2400kcal
Legs + Cardio 700gr chos – 4000kcal
Push-Day (enfasi spalle) 300gr chos – 2400kcal
Pull-Day + Cardio 300gr chos – 2400kcal
Legs 300gr chos – 2400kcal
Cardio 200gr chos – 1900kcal

Per approfondire questi argomenti scopri il nostro libro: Project Nutrition.

Project Nutrition

Cheat day e cheat meal durante il periodo di massa?

. Perchè?

Parlare di “cheat day e cheat meal” in contesti di iper-alimentazione è una buffonata.. ricarica di cosa? Il concetto di “picco glucidico” si presta sicuramente meglio. Ma ha davvero senso inserirlo? Di fatto si, e abbiamo almeno 4 buoni motivi.

  1. Motivo numero 1. L’abbiamo già visto, impostare dei picchi glucidici permette di gestire meglio le asimmetrie muscolari dando un vantaggio metabolico ai gruppi muscolari carenti (e, sia chiaro, parlo sia da un punto di vista di Forza che di Ipertrofia).
  2. Motivo numero 2. Limitare i picchi glucidici all’interno della settimana da un grande vantaggio in termini di sensibilità insulinica, e questo vale anche per la distribuzione dei macronutrienti nell’arco della giornata.
  3. Motivo numero 3. Avere dei giorni nei quali l’apporto glucidico non permette il ripristino completo delle scorte di glicogeno e dei giorni in cui si va a sovracompensare allena il muscolo ad aumentare la sua capacità di immagazzinamento. Il che si traduce in un miglioramento della performance anche sul lungo termine.
  4. Motivo numero 4. Questa strategia (ragazzi, non è niente di nuovo eh, si tratta della carbs cycling, ma ssshhhhh) permette di limitare (ahimè non scongiurare) l’accumulo di massa grassa. Abbiamo già visto uno dei motivi per cui ingrassiamo, la contestuale assunzione di lipidi e glucidi. Ecco, in questo modo possiamo dividere i giorni di picco glucidico da giorni in cui tenderemo ad assumere un quantitativo maggiore di lipidi in modo da tenerne una buona quota settimanale e non veder crollare i valori ormonali (cosa comunque difficile in contesti di iper-alimentazione).

. Come?

Vale quello detto per il periodo di ipo-alimentazione. Tendenzialmente glucidi alti, grassi indiretti, proteine medie.

Cheat day e cheat meal

. Quando?

Anche qui vale quello che abbiamo detto per il periodo di ipo-alimentazione, coordinazione con l’allenamento e frequenza che, logicamente, sarà più rada (bilancio calorico settimanale all’interno dei quali imposteremo dei giorni a carboidrati medi e dei giorni di picco glucidico).

ESEMPIO PROTOCOLLO IN IPERCALORICA

Target Glucidico settimanale: 3550gr

Target calorico settimanale: 21’900 kcal

Gruppi muscolari carenti: Gambe, spalle

Gruppi muscolari forti: Dorso

Push-Day (enfasi petto) 500gr chos – 3100kcal
Pull-Day + Cardio 500gr chos – 3100kcal
Legs + Cardio 800gr chos – 4300kcal
Push-Day (enfasi spalle) 500gr chos – 3100kcal
Pull-Day + Cardio 500gr chos – 3100kcal
Legs 500gr chos – 3100kcal
Cardio 250gr chos – 2100kcal

. Spunto Jolly

Un ulteriore spunto che possiamo dare è quello di far combaciare questa strategia (carbs cycling) con una variazione anche calorica all’interno della settimana (calorie shifting). Ragazzi, nente di nuovo, ne parlava già Hatfield nella sua dieta. Si tratta di far combaciare i giorni di picco glucidico con giorni in cui il GAP calorico (in questo caso di surplus calorico) è maggiore e i giorni a carboidrati medi con un GAP nullo o molto lieve. In questo modo vengono amplificati gli effetti di cui ho parlato nei 4 motivi.

Conclusioni sul cheat meal e cheat day

Questo articolo ha lo scopo fondamentale di giustificare le mie abboffate, e su questo non ci piove. Credo però ci siano anche degli spunti interessanti che possono essere applicati in contesti di ipo ed iper alimentazione. In effetti il pasto libero o cheat meal è un qualcosa di molto complesso da gestire e da inserire all’interno del protocollo, considerando che bisogna ragionare anche e soprattutto in termini di sostenibilità. Possiamo come abbiamo detto, fissare dei vincoli più o meno penetranti. Io personalmente, in soggetti che non sono in preparazione di gara, preferisco impostare in maniera rigida i picchi in contesti di iperalimentazione (che son più delicati) e lasciare invece un ampio spazio di manovra (scelta della grammatura ma controllo delle fonti) in contesti di ipo-alimentazione. Così per esempio limitarsi a dare un pasto libero di soli glucidi e proteine ad libidum, evitando grassi, può risultare una strategia che appaga mente e corpo.

NOTE SULL’AUTORE 
L’articolo: Cheat day / cheat meal  è di  Ludovico Lemme
Personal Trainer certificato ISSA e studente SaNIS (scuola di nutrizione e integrazione sportiva). Segue diversi atleti, sia dal vivo che online nel campo del Bodybuilding e del fitness in generale. Nel 2015 avvia il progetto Rhinocoaching con il quale si propone di creare una piattaforma di riferimento per i suoi atleti e per gli appassionati in generale.
Contatti: rhinocoachingofficial@gmail.com
Pagina FB: https://www.facebook.com/ludovicolemmemygrowth/
Sito Web: www.rhinocoaching.it

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Fibre alimentari: cosa devi sapere

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Varietà fibre alimentari
Che cosa sono le fibre alimentari?

La prima definizione di fibra fu quella di “carboidrati non disponibili”.  Tuttavia l’espressione non è poi così corretta poiché “non disponibile” può lasciar pensare “non utilizzabile”. Oggi sappiamo, invece, che alcune componenti delle fibre alimentari possono essere metabolizzate dall’organismo perché la flora batterica intestinale possiede le capacità enzimatiche per digerirle.

Ad ogni modo possiamo dire che la fibra alimentare non è un nutriente essenziale, ma esercita molteplici azioni funzionali e metaboliche che la fanno ritenere un’ importante componente della dieta. Nonostante questo non esistono RDA precise ma è indubbio che un certo quantitativo di fibre (anche qui le opinioni sono contrastanti ma sembra si sia raggiunto un accordo di massima che identifica un valore ottimale che si situa intorni ai 30-35 grammi di fibra al giorno) nell’alimentazione giornaliera sia legata a effetti benefici sulla salute umana.

Quali sono gli effetti fisiologici della fibra alimentare?

Gli effetti fisiologici della fibra o meglio dei suoi componenti sono principalmente (ma non solo) riconducibili alle proprietà fisiche di assorbire o trattenere acqua. Quest’azione, svolta soprattutto dalla cellulosa e dalle emicellulose, comporta un aumento della massa fecale e un transito intestinale accelerato: le fibre aumentano il peso ed il volume delle feci, diminuendone la consistenza ed agiscono da regolatori importantissimi della funzione intestinale.

In realtà una delle problematiche nello studio delle fibre alimentari e dei loro effetti fisiologici sull’organismo umano è data dalla diversità delle varie componenti e dalle loro proprietà: gli effetti della fibra infatti dipendono in larga parte da proprietà la viscosità e la fermentabilità. In passato si è passati alla definizione di fibra solubile per indicare quei tipi di fibra con elevata viscosità che, per questo, avevano effetti benefici sulla glicemia e sul colesterolo LDL, e fibra insolubile per quei tipi di fibra che avevano la capacità di aumentare la massa fecale e di avere effetti lassativi. Però non tutte le fibre solubili sono dotate di elevata viscosità e non tutte le fibre insolubili hanno effetti lassativi.

La fibra alimentare ha effetti soprattutto sull’apparato gastrointestinale: senso di sazietà, rallentamento dello svuotamento gastrico, rallentamento dell’assorbimento dei nutrienti, diminuzione dell’assorbimento di nutrienti, effetti sulla glicemia e pare sul colesterolo, ed effetti sulla flora batterica. Tuttavia si attribuiscono, e spesso lo si è fatto in passato, anche effetti terapeutici e di prevenzione della fibra su specifiche neoplasie (cancro al colon in particolare).

Fibre alimentari nella dieta

Struttura fibra cellulosa

Il livello di fibre alimenti ottimale sembra aggirarsi intorno ai 30-35g/die (parliamo sempre di valori medi e indicativi, anche perché non esistono RDA precise per il consumo di fibre e queste non vengono suddivise in solubili o insolubili). Anche in questo caso l’introito può essere aumentato e la tollerabilità ad alti livelli di fibra alimentare è soggettiva.
L’impiego e l’uso di fibre isolate in capsule o polvere da aggiungere agli alimenti o da ingerire immediatamente prima del pasto come mezzo di controllo dell’intake calorico hanno generalmente uno scarso effetto per quanto riguarda l’effetto indiretto sulla riduzione di peso ottenibile. Le fibre aggiunte al pasto e non naturalmente legate all’alimento, sembrano infatti avere un effetto blando per quanto riguarda il ritardare lo svuotamento gastrico.

Per quanto riguarda i livelli di introduzione di fibra alimentare, poiché sulla base dell’evidenza scientifica è difficile discriminare il contributo diretto della fibra da quello di altri componenti presenti in una dieta ricca in alimenti vegetali (minerali, vitamine, antiossidanti, carboidrati complessi) nel mantenimento dello stato ottimale di nutrizione e di salute, una volta raggiunti i fabbisogni fisiologici di tutti i nutrienti avendo un’alimentazione varia che prevede sia frutta che verdura e fonti di carboidrati complessi, l’assunzione di circa 30-35 grammi al giorno di fibra è abbastanza facilmente raggiungibile.

In alcuni casi, l’assunzione di quantità più alte di fibra (circa 50-60 grammi ad esempio) sono ben tollerate, in altri porta a effetti negativi e fastidi gastrici.

Il mio consiglio, una volta raggiunti circa 35 grammi di fibra, è di non fossilizzarsi sull’assunzione di cereali integrali che contribuisce, anche se indirettamente, a far lievitare la quantità di fibra assunta.

Alimentazione e cancro, fibre e neoplasie: che correlazione c’è?

Fibre alimentari tumori colon

Per quanto riguarda il possibile ruolo preventivo della fibra sulla comparsa del cancro del colon, i meccanismi tramite i quali la fibra potrebbe esercitare effetti protettivi sembrano essere i seguenti:

  • Diluizione dei contenuti intestinali
  • Assorbimento di potenziali carcinogeni
  • Più rapido turnover dei contenuti intestinali
  • Alterazione del metabolismo degli acidi biliari.

Il rapporto tra alimentazione e neoplasie appartiene alle problematiche più studiate. Il ruolo della fibra alimentare nell’etiologia del cancro al colon appare controverso. Numerose sono le analisi epidemiologiche che suggeriscono che un’alimentazione ricca in fibra possiede un effetto protettivo nei confronti delle neoplasie colonrettali. Altre ricerche indicano che una dieta ad alto contenuto di fibra può proteggere dalla comparsa di neoplasie dell’ovaio, dell’endometrio e della mammella.

Numerosi studi epidemiologici hanno indicato da molti anni che una dieta ad alto contenuto di fibra è associata ad un ridotto rischio di neoplasie del colon.

Tutto ciò parte dalle osservazioni di Burkitt, che rilevò una relazione tra bassa incidenza di neoplasie del colon in alcune regioni dell’Africa ed elevati introiti alimentari di fibra.  Ad ogni modo bisogna sempre tener conto che gli studi epidemiologici non danno certezze e soprattutto non sono in grado di determinare un ruolo causale (e non casuale) di un determinato trattamento o in questo caso della fibra alimentare per la prevenzione delle neoplasie. Ci possono essere stati altri centinaia di fattori che possono aver influenzato la correlazione cancro-fibra.

Al momento, infatti, non esistono evidenze ragionevoli e soprattutto conclusive sull’efficacia della fibra alimentare nella prevenzione dell’adenoma e del carcinoma del colon. Non conosciamo se e quanto la fibra può ridurre il rischio di cancro e nemmeno se esiste una dose soglia oltre la quale si esplica l’effetto protettivo o terapeutico.

Le prime evidenze a favore del ruolo preventivo delle fibre sull’insorgenza del cancro del colon vengono da due studi di meta-analisi di studi caso-controllo.
I due studi hanno dimostrato che esiste una riduzione del rischio di cancro del colon nei soggetti che assumono elevate quantità di fibra alimentare.

Successivamente altri studi osservazionali di larghe dimensioni hanno dimostrato che debole o mancante è la correlazione tra consumo di fibre e rischio di insorgenza di neoplasia del colon.

Più recentemente il dibattito sull’efficacia della fibra alimentare nella prevenzione delle neoplasie del colon si è nuovamente risvegliato dopo che altre numerose ricerche epidemiologiche hanno rivisitato la problematica. Nel 2003 due ampi studi prospettici hanno evidenziato che un’aumentata assunzione di alimenti ricchi di fibra riduce il rischio del cancro colorettale in modo significativo e sicuramente importante. In questo studio di Bingham, viene dimostrato che un’elevata assunzione di fibra è inversamente correlata all’incidenza di cancro del colon, ma nessun alimento ricco in fibra è riconosciuto essere più protettivo di altri.

Altri studi, condotti in Cina, Giappone e in USA non hanno rilevato alcun effetto protettivo della fibra nella prevenzione del cancro colorettale.

I risultati scientifici sono, come possiamo vedere, estremamente contraddittori e non emerge dalla letteratura medica una sensazione di certezza del ruolo protettivo o terapeutico della fibra soprattutto perché non si ha ancora una sufficiente chiarezza sui reali meccanismi con cui la fibra possa esercitare un concreto effetto protettivo e quali siano inoltre le componenti della fibra maggiormente capaci di svolgere questo ruolo.

Ad oggi, l’uso costante di fibra alimentare non può rappresentare il nodo centrale delle raccomandazioni nutrizionali nella prevenzione delle neoplasie al colon.

Addirittura recenti studi sperimentali su modelli animali (non sull’uomo) hanno stabilito che gli effetti dei diversi tipi di fibra sull’intestino sono contraddittori e non del tutto comprensibili. Così come i vari nutrienti nel lume intestinale possono influenzare la proliferazione epiteliale, la fibra fermentabile può stimolare la proliferazione nel colon.

Quindi, in assenza di vantaggi riscontrati nell’uomo e di alcuni effetti dannosi in senso carcinogenetico osservati in modelli animali, è suggerita cautela nelle raccomandazioni di supplementi di fibra. E’ interessante quindi come si stia passando da un “la fibra è miracolosa per la prevenzione del cancro” a un ripensamento critico, specie quando aggiunta sotto forma di supplementi alla dieta normale, valutati da alcuni autori come “modalità sconosciuta e potenzialmente dannosa” nell’influenzare le abitudini dietetiche moderne della popolazione generale.

Ogni giorno osserviamo sugli scaffali dei supermercati un numero crescente di prodotti alimentari che consentono di consumare diete ricche in glucidi raffinati, grassi e con “fibra aggiunta”…

Ruolo terapeutico delle fibre alimentari nel diabete mellito

Nel diabete mellito l’uso della fibra ha assunto negli ultimi anni un ruolo e un’importanza indiscutibile sebbene spesso è eccessivamente esaltata. L’innovazione più rilevante nella terapia dietetica del diabete mellito è sicuramente rappresentata dalla modifica dei programmi dietetici prescritti al diabetico che adesso prevedono un’introduzione di carboidrati relativamente alta (50-55% del fabbisogno energetico, in genere, rappresentata dai glucidi, anche per i diabetici) in contrapposizione con diete particolarmente restrittive per quanto riguarda i carboidrati, prescritte in passato.

E’ la fibra alimentare che ha permesso, fondamentalmente, una più libera introduzione di carboidrati. Esistono infatti evidenze certe che la fibra alimentare eserciti importanti azioni metaboliche, il cui risultato globale può migliorare i tassi glicemici. Ma quello che appare più importante è che le ricerche hanno dimostrato che aumentando l’introito di carboidrati e l’apporto di cibi ad alto contenuto di fibra solubile si può determinare un sensibile miglioramento della glicemia giornaliera e una contemporanea riduzione del colesterolo LDL, senza aumenti o variazioni significative dei trigliceridi o una diminuzione del rapporto tra HDL e LDL.

Fibra alimentare e dislipidemie

Controversa è la spiegazione dell’effetto dimostrato dalla fibra alimentare nell’abbassare i livelli di colesterolo e sul metabolismo lipidico. La fibra potrebbe agire alterando il processo di assorbimento dei lipidi e/o quello degli acidi biliari: la fibra alimentare, per le sue capacità di assorbire acqua o di formare gel e di assorbire acidi biliari, può quindi condizionare la velocità del transito intestinale, il peso e la consistenza delle feci, ed altri processi metabolici quali il turnover del colesterolo e l’assorbimento di grassi e/o glucidi.

Il tempo di transito gastrointestinale è proporzionale al ritardo dello svuotamento gastrico (azione delle frazioni solubili), al rallentamento del transito nel tenue (le fibre solubili tendono a formare gel che svolgono un’attività ritardante sull’assorbimento del glucosio) e alla riduzione del tempo di transito nel colon (le fibre solubili assorbono acqua, aggiungendola alla massa fecale, formatasi per effetto dei batteri, e incrementano la peristalsi (le frazioni non solubili aumentano la distensione del colon e quindi la peristalsi). Le fibre solubili inoltre legano gli acidi biliari nel tenue.

Nonostante le dimostrazioni degli effetti metabolici della fibra sul metabolismo lipidico, analizzando la letteratura scientifica sorgono diverse questioni ancora controverse e molte perplessità. Infatti il trattamento dietoterapico delle dislipidemie non include sempre e invariabilmente l’aumento della fibra dietetica come componente essenziale.

Sarebbe giusto chiedersi quale ruolo possa avere la fibra alimentare nel trattamento delle più frequenti dislipidemie e quali siano le modalità complesse con cui essa riesce a svolgere le sue funzioni. Le inevitabili e per molti aspetti ovvie perplessità nascono dalle caratteristiche stesse della fibra:
molti alimenti (cereali, frutta, verdura, legumi) contengono fibra, ma tutti in quantità estremamente diverse. Inoltre “fibra” significa un insieme eterogeneo di frazioni con funzioni altrettanto diverse e complesse, alcune non completamente conosciute.

La distinzione accademica tra fibre solubili e insolubili perde di significato quando allo scopo di analizzare un determinato effetto fisiologico o metabolico, si studia non tanto il supplemento dietetico di fibra quanto l’attività di un aumento di fibra alimentare in toto. Consideriamo infatti anche che uno stesso alimento spesso contiene più frazioni diverse di fibra. Molto probabilmente le controversie sugli effetti della fibra nelle dislipidemie nasce proprio dal fatto che la fibra è un insieme di frazioni diverse che possono agire sulla colesterolemia in modo molto diverso.

Si potrebbe pensare, ad esempio, che l’effetto positivo della fibra, come avviene in alcune situazioni, potrebbe essere la conseguenza di un effetto indiretto: una dieta ad alto contenuto di alimenti ricchi in fibra è inevitabilmente povera di grassi animali, ed in particolare di colesterolo e di acidi grassi saturi e può consentire un riequilibrio dell’assetto lipidico grazie alla riduzione della quota lipidica globale e non per le azioni primarie della fibra. Ancora, una dieta ricca di frutta e verdura è di solito associata ad una dieta più equilibrata, più saziante e composta da alimenti meno densi energeticamente e questo porta ad una riduzione dell’apporto calorico (sappiamo bene che la restrizione energetica è la prima indicazione dietoterapica efficace per le displipidemie).

Fibre alimentari e obesità

Fibra alimentare ed obesità

Nell’obesità la fibra alimentare ha un suo ruolo specifico e per molti aspetti essenziale. L’effetto “saziante” di diete con elevato contenuto di fibra alimentare è la più convincente dimostrazione dei benefici ottenibili con la fibra.

Non esistono dubbi che alcuni tipi di fibra rallentano lo svuotamento gastrico che determina una rilevante sensazione di sazietà.

L’effetto terapeutico delle fibre alimentari non sembra d’altra parte riconducibile solo alla distensione gastrica e quindi alla sensazione di ripienezza indotta da alimenti ricchi di fibra. Appare verosimile sottolineare che diete ad alto contenuto di fibra alimentare (frutta, verdura, legumi, cereali), sostanzialmente povere di grassi animali e di alimenti raffinati, siano realmente capaci di consentire quelle profonde inversioni di tendenza alimentare in grado di riequilibrare la dieta e promuovere una sensibile perdita di peso. Possiamo quindi affermare che più per un effetto diretto, la fibra ha effetti positivi per il trattamento dell’obesità in quanto è assunta “automaticamente” in quantità adeguate (intorno ai 30-35 grammi/die) semplicemente iniziando ad alimentarci meglio evitando alimenti raffinati e aumentando l’apporto di verdure e alimenti integrali (che siano veri integrali..).

Fibre prebiotiche

Prebiotici e fibra alimentare

Alcune tipologie di fibre alimentari, in generale frutto e galatto-oligosaccaridi, possiedono la caratteristica di modificare selettivamente la microflora intestinale umana: inulina e oligofruttosio, sfuggendo alla digestione nell’intestino tenue, sono potenziali substrati per la flora batterica intestinale che è in grado di idrolizzarli e fermentarli.

L’alimentazione con oligofruttosio determina un incremento del peso secco delle feci e una regolarizzazione e normalizzazione della frequenza di defecazione. Questo è dato da un accrescimento del numero dei batteri dovuto all’estesa fermentazione del carboidrato. Oltre il 60% dell’inulina viene metabolizzata ad acidi grassi a catena corta, principalmente acetato e lattato.

Con il termine prebiotico si definisce la capacità di un carboidrato indigeribile di modificare in modo positivo la microflora intestinale umana, generalmente determinando un aumento del microbiota intestinale di specie acidofile (bifidi, lattici).

Per quanto riguarda gli effetti prebiotici dell’inulina e di altre molecole simili sembra esserci un generale consenso e forti evidenze scientifiche. Come avviene però con qualsiasi argomento, spesso ci si lascia trasportare dall’entusiasmo e quando poi gli interessi sono più di marketing che sulla salute delle persone si inizia a strumentalizzare determinati studi  scientifici.

Spesso si dice che la supplementazione di frutto-oligosaccaridi siano efficaci anche per l’incremento dell’assorbimento dei minerali, in particolare di calcio e magnesio. E’ bene invece sottolineare che se si analizza la letteratura scientifica in merito ci sono risultati contrastanti.

Voglio sottolineare la frase “risultati contrastanti”. Questo capita in moltissimi argomenti nel settore dell’alimentazione e dell’integrazione. Solitamente le persone, professionisti, esperti e non, vanno selettivamente a considerare solo gli studi a favore o quelli a sfavore, in base ai propri interessi. Ad esempio: “Fino a 15 grammi al giorno di frutto-oligosaccaridi non sono stati registrati effetti sull’assorbimento dei minerali” (Ellegard et al., 1997).

Potrebbe voler dire che la supplementazione è inutile.

Ma ancora: “15gr al giorno di inulina somministrata ad adolescenti ha fatto registrare un significativo incremento del calcio assorbito” (Van de heuvel et al., 1999).

Questo invece dovrebbe significare che la supplementazione con inulina è importante, e anzi, è presto fatta l’associazione inulina->maggiore assorbimento di calcio->implicazioni favorevoli per la prevenzione dell’osteoporosi.

“Yamashita et al. Nel 1984 hanno osservato, dopo la somministrazione di oligofruttosio (8gr al giorno per 2 settimane) a soggetti diabetici, la riduzione del tasso di LDL e della glicemia ma non di trigliceridi”

 “Brighenti et al. (1999) hanno registrato una riduzione del livello ematico sia di trigliceridi che di colesterolo in seguito al trattamento con inulina (9 grammi al giorno per 28 giorni) di volontari sani”.

Altri autori non hanno, al contrario, riscontrato alcun effetto sui lipidi né sulla glicemia indotto dal consumo di questi carboidrati.

Ma quindi?

Ma quindi la realtà delle cose è che occorre fare ulteriori indagini, studi e ricerche più accurate e confrontabili, prima di consigliare e suggerire l’impiego di questi carboidrati prebiotici come fibre per abbassare il colesterolo e i trigliceridi nel sangue.

Qualche autore però può tranquillamente prendere uno di quegli studi, a seconda dei suoi interessi, e farlo passare come verità assoluta. Come possiamo vedere, a fare disinformazione ci vuole poco. E vivere su PubMed non ci rende esperti o più informati per forza di cose. Quindi è inutile postare 1-2 studi ogni volta per dimostrare la propria ragione, senza considerare tutti gli altri studi contrastanti, come sono stati fatti gli studi, su chi sono stati fatti gli studi, ecc.

Comunque la tolleranza a questi oligosaccaridi è di circa 20-30 grammi al giorno. C’è però da dire che questa tolleranza si osserva nei soggetti già adattati al consumo di carboidrati indigeribili. Nei soggetti non adattati invece già a dosi di 10 grammi al giorno si manifestano effetti collaterali gastrointestinali.

Io personalmente suggerisco un impiego massimo di 15-20 grammi al giorno, procedendo gradualmente, partendo da 5-10grammi, alla tolleranza di questi oligosaccaridi.

Conclusioni sulle fibre alimentari

La definizione di fibra alimentare presenta indubbie difficoltà. Non tutti i ricercatori hanno le idee chiare su cosa si debba intendere per fibra. Molti credono che la fibra sia sostanzialmente la crusca, altri che la fibra eserciti solo attività sull’apparato gastrointestinale, o si dimenticano che la quantità e/o il tipo di fibra sono decisivi nell’esplicazione delle proprietà positive o negative. Proprio in merito ai loro effetti è difficile studiarli “in vivo” poiché questi sono differenti in base alle proprietà delle varie frazioni di fibre, estremamente eterogenee.

La fibra alimentare infatti non è una sostanza singola e non è un vero nutriente, eppure ha molteplici funzioni su organi ed apparati diversi e ha un ruolo sicuramente importante (spesso documentato con certezza, altre volte no) nell’ambito delle scienze della nutrizione.

Inoltre bisogna sottolineare che quando si prescrive una dieta ricca di fibra o un supplemento di fibra solubile, dobbiamo essere assolutamente certi di quelli che devono essere gli obiettivi del trattamento.

Esistono davvero benefici concreti in conseguenza di un’alimentazione ricca in fibra così come esistono precise e dimostrabili controindicazioni all’uso esagerato di fibra; pertanto ritengo sia importante precisare che la fibra alimentare in quanto tale e non come supplemento dietetico possiede molteplici attività e può svolgere determinate funzioni e modulazioni positive, ma occorre ammettere che per molti anni le fibre alimentari sono state considerate la panacea di tutti i mali (effetti protettivi su tumori e malattie gastrointestinali, effetti curativi sull’obesità, diabete mellito, dislipidemie) e occorre quindi ripensare alla fibra in altri termini, cercando di “smontare” tutti i miti  attraverso una più attenta informazione che si presti meno ad errate e frettolose interpretazioni.

L’articolo: Le fibre alimentari: cosa devi sapere è del Dr Daniele Esposito
Laureto in Scienze Motorie e Nutrizione, lavora come personal traine a Napoli e provincia.
Sulla sua pagina Facebook pubblica molti articoli ed interventi interessanti da seguire.

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Epicondilite ed epitrocleite: esercizi polsi

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Tantissime persone, soprattutto chi si allena nel corpo libero e calisthenics, soffrono di epicondiliti ed epitrocleiti. Spesso queste infiammazioni tendono a cronicizzare e a non passare neanche con mesi di riposo. Questo genera frustrazione in chi ne è soggetto e non riesce neanche ad allenarsi. Ma perché epicondilite ed epitrocleite è così difficile da togliere?

Scopriamolo assieme.

Cosa succede ai tendini nell’epicondilite ed epitrocleite?

Epicondiliti epitrocleiti

Purtroppo una cura sicura per l’epitrocleite ed epicondilite non esiste, l’uso di farmaci FANS aiuta a sfiammare  ma se i tendini dei muscoli che si inseriscono sul gomito, rimangono deboli, la patologia tende a non passare completamente.

Appena cerchiamo d’eseguire delle trazioni alla sbarra, subito il gomito fa malissimo e dobbiamo smettere. Cosa dobbiamo fare?

Muoverci. L’infiammazione e lo sfilacciamento tendineo tengono a disorganizzare le fibre di collagene nel tendine, rendendolo debole e soggetto a traumi. Per questo attraverso l’esercizio fisico dobbiamo ricreare linee di forza che direzionino nel modo corretto le fibre di collagene.

Epicondilite epitrocleite

Stretching, stretching attivo e rinforzo muscolare sono le parole d’ordine per velocizzare la cura delle nostre epicondiliti – epitrocleiti. Tra tutti questi esercizi lo stretching attivo (quello generato dalla contrazione del muscolo antagonista) deve prevalere sugli altri.

Una muscolatura dell’avambraccio sbilanciata, sia a livello di forza che di lunghezza, porterà facilmente il gomito ad essere soggetto a traumi.

Epicondilite ed epitrocleite che esercizi fare?

Nel seguente video abbiamo racchiuso tutti gli esercizi di mobilità e rinforzo utili per riequilibrare la mobilità del polso e dell’avambraccio. Per dare così agio ai nostri tendini e per guarire finalmente, in modo fisiologico e funzionale dell’epicondilite ed epitrocleite.

Adottate questi esercizi in modo graduale quando l’infiammazione non è più acuta. La pratica non deve essere invasiva ed eccessiva ma quotidiana ed i tempi di guarigione possono richiedere anche 1-3 mesi.

Una volta guariti evitate come la peste tutti quegli esercizi (trazioni supine) che possono mettere a rischio i vostri gomiti.

Buona guarigione.

Il video è girato presso Calisthenics Bologna

Logo bolognaVia Jacopo della Quercia,1 Bologna
Mail: info@calisthenicsbologna.it

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Le lesioni muscolari nello sportivo

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La lesione muscolare è più frequente di quanto si possa pensare. Gli arti inferiori sono la parte più colpita, soprattutto la parte posteriore: gli ischiocrurali ed il tricipite surale,  senza dimenticare il quadricipite. Le fibre muscolari cicatrizzano rapidamente, ma, nella zona lesa, si forma una cicatrice, difficile da eliminare completamente. Il muscolo, in questo punto, perde in parte le sue funzionalità.

Vari fattori predispongono all’insorgenza delle lesioni muscolari:

  • Il muscolo non è predisposto al lavoro intenso per imperfetta preparazione o mancanza di riscaldamento
  • Il muscolo è indebbolito da una pregressa lesione non riabilitata
  • Il muscolo presenta esiti cicatriziali che predispongono alla recidiva
  • Il muscolo affaticato da superallenamento
  • Il muscolo esposto al freddo a lungo risulta meno elastico.

Il trauma può essere diretto o indiretto, nel primo caso può avvenire tramite contusioni, nel secondo si può trattare di contratture, stiramenti o strappi, in questo articolo approfondiremo soprattutto le lesioni indirette che sono più frequenti negli sportivi.

Lesione muscolare

Sintomi delle lesioni muscolari indirette

Una lesione di primo grado è dovuta allo stiramento dell’unità muscolo-tendinea che provoca la rottura di solo alcune fibre muscolari o tendinee; la lesione di secondo grado è più severa della precedente, ma non vi è interruzione completa dell’unità muscolo-tendinea; la lesione di terzo grado si configura come una rottura completa dell’unità.

  1. Contrattura = irrigidimento muscolare. Si manifesta con un dolore muscolare a distanza dell’attività sportiva, con una latenza variabile, mal localizzato, dovuto ad un’alterazione diffusa del tono muscolare, imputabile ad uno stato di affaticamento del muscolo.
  2. Stiramento = dolore acuto durante l’esecuzione di un movimento. Conseguenza di un episodio doloroso acuto, ben localizzato, per cui il soggetto è costretto ad interrompere l’attività, pur non comportando necessariamente un’impotenza funzionale immediata. Non vi sono lacerazioni macroscopiche delle fibre, il disturbo può essere attribuito ad un’alterzione funzionale delle miofibrille. La conseguenza sul piano clinico è rappresentata dall’ipertono del muscolo, accompagnato da dolore.
  3. Strappo di primo, secondo e terzo grado = dolore acuto e completa impotenza durante l’esecuzione di un movimento. Dolore attribuibile alla lacerazione di un numero variabile di fibre muscolari. Lo strappo muscolare è sempre accompagnato da uno stravaso ematico, più o meno evidente a seconda dell’entità e della localizzazione della lesione e dell’integrità o meno delle fasce. La distinzione in gradi viene riferita alla quantità di tessuto muscolare lacerato.

Trattamento terapeutico e rieducazione funzionale dell’atleta

Il trattamento deve seguire i tempi di guarigione fissati dal processo di riparazione. Ha come scopo di limitare le conseguenze, prevenire i danni futuri, restituire il più rapidamente possibile l’atleta alle competizioni nel rispetto dei tempi di guarigione biologica.

Fase iniziale
L’azione lesiva provoca edema, ematoma, vasodilatazione e costrizione arteriolare. Il trattamento si pone l’obiettivo di controllare l’entità delle manifestazioni in modo da limitare e circoscrivere il danno tissutale. Lo scopo sarà quello di contenere al massimo l’entità della lesione, quindi arrestare nelle prime 24 ore l’emorragia e l’essudazione, affinchè gonfiore e versamento, non rallentino il processo di guarigione. Il metodo più semplice ed efficace, chiamato R.I.C.E. (Rest, Ice, Compression, Elevation). La terapia con ghiaccio produce una vasocostrizione molto intensa, ha effetti anestetici e attenua lo spasmo muscolare riflesso. Raffreddando la cute, inizialmente si realizza una vasocostrizione locale, che aiuta a contenere il versamento, dopo 5/10 minuti aumenta la portata del flusso ematico nei tessuti superficiali e profondi. Le applicazioni devono avere una durata di circa 20 minuti a intermittenza cioè 3 minuti di applicazione e 1 minuto di eliminazione della fonte refrigerante e vanno ripetute ogni 2/4 ore per i primi 3/4 giorni. Dopo circa 20 minuti il bendaggio e la borsa del ghiaccio verranno rimossi ma la parte lesa verrà sollevata. Dopo circa 2/4 ore verranno riapplicati bendaggio e borsa del ghiaccio.

Fase riparativa 
In linea di massima, superate le prime 24-48 ore dal trauma, si può stabilire esattamente l’entità della lesione e quindi programmare la fase di recupero durante il processo di riparazione.Questo può essere così sintetizzato: fra la 48a e la 72a ora la fibrina viene organizzata in modo da preparare le gittate vascolari, l’organizzazione e l’evoluzione dei blasti pluripotenti responsabili della neoformazione connettivale. Il trattamento quindi dovrà essere programmato secondo, i seguenti criteri:

A) Nel muscolo esercizi graduali di allungamento prima passivi e poi attivi
B) Prevenzione delle aderenze che si ottiene mediante trattamenti fisioterapici:

  • Ionoforesi
  • Ultrasuonoterapia, che facilita la rimozione dei cataboliti.
  • Onde elettromagnetiche, che migliorano la vascolarizzazione.
  • Idromassaggio e massoterapia, dapprima distanti dal focolaio e successivamente, a seconda dell’evoluzione, anche nella cicatrice comunque non prima del 10°-15° giorno.
  • Laserterapia che facilita la cicatrizzazione.

Questo trattamento va impostato dalla 48a ora al 15°-30° giorno a seconda dell’entità della lesione e della struttura lesa.

Il recupero funzionale
La cicatrice formata e la stabilità articolare acquisita permettono di iniziare il recupero specifico che si propone di ricostruire il trofismo muscolare, lo schema motorio e la forza muscolare. Per il trofismo questa fase si avvale degli esercizi di isometria senza carichi ed in isotonia (concentrica ed eccentrica) con resistenze variabili da 2 a 5 kg.

Articolo del  Dott. Francesco Del Zotti
NOTE SULL’AUTORE
Nell’ Ottobre del 2015 ho conseguito la laurea in “Scienze delle attività motorie e sportive” presso l’università Gabriele d’Annunzio con sede a Chieti. Sono un operatore specializzato nell’applicazione del Taping Elastico, tecnica molto diffusa nel mondo sportivo a livello agonistico. Dall’estate del 2015 inizio a lavorare in una palestra a Chieti, dove seguo i miei clienti con allenamenti personalizzati.
Da 4 anni seguo bambini dai 6 ai 9 anni in diversi sport, i miei allenamenti si focalizzano sullo sviluppo della motricita’ di base attraverso esercizi di nuova generazione come gli esercizi psicocinetici e propriocettivi. Nel 2014 compio la mia prima esperienza lavorativa come preparatore atletico, seguendo per tutta la stagione una squadra di calcio.
A Febbraio 2016 apro il sito web www.MONDOALLENAMENTO.it
Pagina FB: https://m.facebook.com/mondoallenamento/
Sito Web: http://www.mondoallenamento.it/
Contatti: francesco.delzotti@hotmail.it

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Come effettuare il riscaldamento

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Questo sul dynamic warm-up (riscaldamento dinamico) vuole essere parte di una serie di articoli tecnici sulle varie fasi dell’allenamento, cui seguiranno uno specifico sul defaticamento ed uno più generale sullo stretching pre- e post-workout.

In qualsiasi programma di allenamento che si rispetti, prima di iniziare un’attività fisica di intensità sia elevata che moderata, deve essere svolto un adeguato riscaldamento; analogamente, al termine di ogni seduta di allenamento, è opportuno far seguire un periodo di defaticamento, entrambi con dello stretching, preparatorio al lavoro che si andrà a compiere nella fase centrale, e con funzione di recupero e rilassamento al termine della seduta stessa.

warm-up-riscaldamento

Cosa c’è da sapere…

Il warm-up (riscaldamento) è la fase preparatoria a quella centrale dell’allenamento. Si distinguono diversi tipi di riscaldamento, a seconda dei criteri utilizzati: attivo e passivogenerale specifico.

Il warm-up ha effetti di vario genere sull’organismo: fisiologici, psicologici e legati alla sicurezza.

Oggi, in ogni campo del movimento umano, si parla di dynamic warm-up: questo è costituito da diverse fasi, ciascuna avente un determinato obiettivo, ovvero indirizzata a preparare l’organismo dal punto di vista fisiologico, neuromuscolare e biomeccanico al lavoro successivo.

Introduzione

Che cos’è il riscaldamento?

Con le più semplici parole di Wikipedia:

“Il riscaldamento, in lingua inglese warm-up, è una pratica eseguita prima della prestazione fisica-sportiva per consentire al corpo di riuscire ad affrontare il vero e proprio allenamento nelle migliori condizioni possibili, preparandolo, migliorando la prestazione fisica e riducendo il rischio di infortuni.”

Sia che si tratti di un allenamento aerobico/anaerobico (corsa, ciclismo, nuoto, etc.), di fitness a corpo libero o con carichi esterni, di body-buildingpower liftingweight liftingCrossFit, etc. o di uno più specifico sport (pensiamo alle differenze tra calcio e pallavolo, per esempio), possiamo dare la seguente definizione: il warm-up (riscaldamento) consiste in una quella parte dell’allenamento, che precede il workout vero e proprio, preparatoria all’allenamento stesso, ovvero una fase di preparazione dell’organismo in toto (sistema cardio-circolatorio e cardio-polmonare, apparato muscolo-scheletrico, sistema nervoso centrale) alla fase principale del lavoro fisico e/o atletico pianificato per una determinata sessione di allenamento (workout) o tipo di allenamento (training).

Tipi di riscaldamento

Da un punto di vista prettamente soggettivo da parte dell’esecutore, possiamo fare una prima distinzione del riscaldamento in:

  • riscaldamento attivo, eseguito dall’atleta (e l’unico di interesse sportivo e per il fitness), e
  • riscaldamento passivo, che tende semplicemente a “riscaldare” letteralmente il corpo (si pensi ai massaggi, a creme, oli e unguenti che rilasciano calore, scaldamuscoli, etc.).

Tuttavia, la distinzione più comune, e sicuramente più idonea, che si fa del riscaldamento è quella in riscaldamento generale e riscaldamento specifico:

  • riscaldamento generale, consistente in jogging, esercizi di ginnastica generale, stretching blando, etc., ovvero forme di lavoro che non hanno alcun rapporto tecnico con le azioni neuromuscolari specifiche degli esercizi previsti nella successiva fase centrale della seduta di allenamento;
  • riscaldamento specifico, comprendente determinati esercizi preliminari che hanno la funzione di “richiamare” il tipo di attività che andranno ad essere svolte nella seduta di allenamento, quali lo squat a corpo libero prima di un allenamento in cui si praticheranno attività dello stesso tipo o serie di avvicinamento al carico di lavoro di un’alzata di potenza del powerlifting.

Un’ulteriore distinzione di warm-up, che sarà analizzata in maniera approfondita di seguito, è quella in:

  • static warm-up (riscaldamento statico), ovvero una fase di riscaldamento, ormai di vecchia concezione, in cui vengono utilizzati solamente esercizi di stretching statico oltre a una eventuale fase aerobica di riscaldamento precedente ad essi;
  • dynamic warm-up (riscaldamento dinamico), che consiste in un’attenta suddivisione della fase di riscaldamento in diversi momenti, in un determinato ordine cronologico, con obiettivi e modalità di esecuzione molto differenti tra essi e, sopratutto, con le modalità adottate in passato con i soli esercizi di allungamento (statico).

A cosa serve il riscaldamento?

Scopo del warm-up è dunque quello di preparare l’organismo alla prestazione fisica, atletica o sportiva, diminuendo al contempo il rischio di traumi. Più nel dettaglio:

“Secondo Powers e Howley (1994), gli effetti positivi della fase di riscaldamento possono essere distinti in fisiologici, psicologici e legati alla sicurezza.”

  • Gli effetti fisiologici consistono in “un incremento della funzionalità enzimatica, con aumento di velocità delle reazioni, che si producono grazie all’aumento della temperatura corporea”; ciò agevola il metabolismo al punto di favorire una minore produzione di lattato, una maggiore attitudine al suo smaltimento e, pertanto, una ritardata insorgenza dell’affaticamento, aumenta la lubrificazione delle articolazioni e di conseguenza della loro mobilità e stabilità, infine prepara il sistema nervoso centrale, in particolare aumentando l’efficienza degli impulsi nervosi.
  • Gli effetti psicologici del riscaldamento sono l’aumento dell’attivazione nervosa e della predisposizione allo sforzo fino al punto di creare il giusto atteggiamento mentale per l’esecuzione degli esercizi o delle prove stabilite nel workout ed il miglioramento della prestazione fisica in esse.
  • Gli effetti legati alla sicurezza infine, rappresentano il miglior metodo (a meno di non indossare un’armatura e non effettuare nessun movimento, che ovviamente non è lo scopo dell’allenamento) per prevenire eventuali traumi alle strutture osteoarticolari e muscolotendinee, o quantomeno per ridurne il rischio ai minimi termini.

Il Dynamic Warm-Up

Un dynamic warm-up può essere inteso come una visione in chiave moderna, alla luce dei progressi in campo scientifico [1] [2] [3] [4] [5], di cosa è e come dovrebbe essere formulata la fase di riscaldamento prima di un allenamento o di un evento atletico e sportivo come una gara o competizione, ovvero un insieme di movimenti atti a favorire la preparazione dei diversi distretti corporei alla prestazione che si sta per eseguire.

Fasi del Dynamic Warm-Up

Da quanto visto fino a questo momento, si evince quanto il riscaldamento sia una parte estremamente importante dell’intera seduta di allenamento, tanto quanto la pianificazione dell’allenamento stesso. Il riscaldamento può, o meglio deve, essere scomposto in una serie di fasi ben distinte e organizzate fra loro secondo un certo ordine logico, per la trattazione del quale prenderò spunto da questo articolo del Dr. John Rusin sul warm-upquesto di Eric Bach sull’allenamento del core e la sua importanza all’interno della parte dedicata al riscaldamento; un altro interessante spunto, sul riscaldamento specifico, si può trovare in questo video di Chris Hinshaw sugli esercizi preparatori per i lavori di soglia anaerobica e massima potenza aerobica nella corsa.

Secondo Rusin, il dynamic warm-up dovrebbe comprendere diverse fasi (sia statiche che in movimento), in un certo ordine cronologico, poste immediatamente a seguire il riscaldamento generale, che andrà a costituire una sorta di “fase 0” del warm-up:

  1. attivazione generale, consistente in un riscaldamento prettamente aerobico;
  2. rilascio miofasciale (SMR), con foam roller o altri strumenti similari, che possono essere utili a ridurre lo stato di contrazione dovuto ad allenamenti precedenti o dolori cronici;
  3. riscaldamento articolare, con esercizi di mobilità articolare e stretching statico e dinamico;
  4. esercizi correttivi e rimedi motori, fase tecnica indispensabile per la correzione di schemi motori errati;
  5. attivazione muscolare mirata, con esercizi indirizzati all’attivazione specifica dei distretti muscolari interessati nella seduta di allenamento ed eventualmente con serie di avvicinamento al carico di lavoro di un determinato esercizio muscolare di forza;
  6. sviluppo dei pattern motori funzionali, consolidamento degli schemi motori richiesti nei vari sollevamenti e di altri gesti tecnici (le alzate di Power Lifting e Weight Lifting ed i gesti atletici delle diverse discipline sportive);
  7. attivazione del Sistema Nervoso Centrale, con movimenti esplosivi e ridotto numero di ripetizioni al fine di migliorare sincronizzazione, reclutamento neuromotorio (mediante l’incremento del firing rate e l’abbassamento della soglia di attivazione), coordinazione muscolare (intra e inter-).

Mantenendo l’ordine suggerito dall’autore, faccio notare che spesso alcune di queste fasi possono essere fuse tra loro stesse: un esempio sono la fase sugli esercizi correttivi (fase 3) e quella sul consolidamento degli schemi motori (fase 5), oppure le ultime due, poiché, nell’esecuzione di specifiche tecniche (come quelle del Weight Lifting), l’attivazione nervosa è massimale per via dell’esplosività dei gesti.

Suggerisco pertanto di considerare la schematizzazione fatta da Rusin in maniera meno rigida e più personalizzabile, a seconda delle esigenze personali e del tipo di workout che si attende alla fine di tale procedura di riscaldamento.

Si possono ora esaminare le singole sezioni del dynamic warm-up nei dettagli.

» fase 0 – Attivazione Generale

La fase preliminare di ogni riscaldamento che si rispetti deve sempre essere costituita da un’attivazione generale a base aerobica.

Il pre-riscaldamento, la “fase 0” di questo processo, dovrebbe durare intorno ai 5 minuti, nei quali si eseguirà un esercizio aerobico a scelta, dipendentemente dalla disponibilità di attrezzature e spazio, a intensità moderata (è pur sempre riscaldamento!), cui seguirà il riscaldamento specifico.

Si può fare dello jogging o della corsa leggera con allunghi nell’ultima parte, una pedalata sulla cyclette, ma i migliori mezzi potrebbero essere la storica Airdyne Bike o la nuova Assault Bike, un rower (vogatore), una macchina ellittica che, come la corsa, attivano tutto il corpo, dai polsi alle spalle, al core, dalle anche alle caviglie.

» fase 1 – Rilascio Miofasciale (SMR)

Per i motivi appena detti, dando per scontata l’importanza imprescindibile della precedente fase di pre-riscaldamento, la nostra sessione di warm-up dovrebbe iniziare con un rilascio miofasciale.

Secondo John Rusin, che ha stilato la lista cui mi riferisco, il Self Myofascial Release (SMR) costituisce il miglio mezzo per ridurre lo stato di contrazione muscolare dovuto ad allenamenti precedenti, senso di oppressione o qualsiasi altra disfunzione in settori specifici, come per esempio dolori cronici da contratture, stiramenti e tendiniti che potrebbero affliggere l’atleta.

Tuttavia questa pratica, se adottata su tutto il corpo prima di workout molto impegnativi, potrebbe avere un’effetto negativo sul sistema nervoso centrale al punto da “opacizzare” l’effetto sulla prestazione, pertanto sarebbe bene utilizzare il foam roller e strumenti simili soltanto in piccole sezioni del corpo e soprattutto se davvero necessario. È inutile, infatti, fare del SMR sui quadricipiti prima di una sessione di squat se le gambe non sono doloranti e perfettamente riposate!

In conclusione, è bene utilizzare le tecniche di SMR per alleggerire la tensione muscolare, ma a patto che si sia predisposti e non si abbia un calo delle prestazioni; in caso contrario, sarebbe meglio evitarne la pratica durante il dynamic warm-up, dedicandocisi in un altra sessione di allenamento specifica per il rilassamento e la mobilità e sfruttare il tempo “risparmiato” per le fasi successive.

» fase 2 – Riscaldamento Articolare

warm-up stretchesA meno di non seguire un programma di body-building in monofrequenza (ovvero della forma lunedì: pettorali + bicipiti, mercoledì: dorso + tricipiti, venerdì: spalle + gambe) – ma mi riservo comunque il diritto di dissentire anche in tal caso –, sarebbe bene provvedere a un riscaldamento specifico di ogni muscolo e articolazione del corpo sia in posizione statica (stretching statico), sia mediante movimenti delle parti interessate (stretching dinamico).

Stretching statico

Sebbene sia ormai risaputo (ma esistono studi contrastanti in merito) che una buona sessione di stretching post-workout porti benefici al rilassamento muscolare, favorisca il recupero e abbia un effetto protettivo dagli infortuni, non discuteremo dell’importanza di esso al termine dell’allenamento, ma all’inizio, ovvero nella nostra fase di riscaldamento dinamico specifico.

Lo stretching (statico), tuttavia, comporta anche degli svantaggi: per la sua natura, il mantenimento di posizioni di allungamento dei muscoli per lunghi periodi di tempo (dell’ordine del minuto o più, e comunque bel al di sopra dei 30-45″), è stato dimostrato ridurre l’attitudine del muscolo a compiere prestazioni di potenza (forza esplosiva) ed agilità (forza rapida), a causa dell’alterazione neurologica e delle proprietà viscoelastiche delle unità muscolotendinee (MTU). [7]

Recenti studi [6] hanno tuttavia dimostrato che lo stretching statico, se eseguito per brevi intervalli di tempo (da 15 a 45 secondi, con una media di 30″, per posizione e per 5′ totali), non sembra ridurre le performance atletiche di velocità e forza esplosiva.

Dovrebbe a questo punto essere abbastanza chiaro che in una fase di riscaldamento dinamico, che dovrebbe per forza di cose durare meno della fase centrale dell’allenamento per il quale è concepito, non può avere tra le sue sotto-fasi una di stretching statico in cui vengano mantenute posizioni di allungamento (anche fosse per soli 2-3 gruppi muscolari) di un minuto o più, anche fosse solo per il tempo che impiegherebbe…

Per entrambi questi motivi (lunghi tempi di allungamento, che comportano riduzione delle prestazioni di potenza e agilità, e tempi richiesti per la fase di stretching, che tolgono minuti preziosi alla sessione di allenamento) è opportuno eseguire esercizi di allungamento per soli pochi gruppi muscolari (quelli maggiormente coinvolti nella seduta che si andrà a svolgere) e per non più di 30″, in modo da non dover incorrere nelle complicanze appena esposte.

Dunque sono da preferire movimenti che coinvolgano le articolazioni di capo, spalle, busto, anche e ginocchia (e, nello specifico, gomiti, polsi e caviglie) e posizioni di allungamento dai 10″ ai 30″ della catena cinetica posteriore e dei flessori dell’anca per stimolare la risposta neurale e preparare la muscolatura a movimenti esplosivi e veloci. Qualora si presentassero disfunzioni e tensioni in altre parti del corpo oltre a quelle citate, come nei pettorali o nelle spalle, è opportuno dedicare qualche secondo di questa fase anche ai muscoli interessati da tali limitazioni funzionali.

Questi pochi secondi spesi in tediose e quasi dolorose posizioni statiche porteranno tuttavia una discreta quantità di benefici ai muscoli interessati [4], a partire dalla mobilità e dall’elasticità, fino alla capacità di prestazioni di forza superiore e resistenza alla fatica.

Stretching dinamico

Per quanto riguarda il secondo punto, a seconda della sezione corporea e dei movimenti ad essa fisiologicamente permessi e non ultimo il tempo necessario e disponibile, è possibile eseguire una lunga serie di movimenti: slanci, oscillazioni, circonduzioni, rotazioni (o torsioni), flesso-estensioni, piegamenti/distensioni.

A titolo di esempio, è possibile eseguire circonduzioni, rotazioni, flesso-estensioni laterali ed antero-posteriori del capo, circonduzioni delle spalle e delle anche, slanci, oscillazioni e piegamenti/distensioni delle braccia e delle gambe, circonduzioni e flesso-estensioni di polsi e caviglie, torsioni del busto, circonduzioni del bacino…

Lo stretching dinamico, se fatto dolcemente, senza eccessive forzature e movimenti troppo bruschi, comporta una serie di benefici:

  1. Attiva i muscoli interessati: mediante l’impiego di movimenti per determinati distretti muscolari che si intendono utilizzare durante l’allenamento, al momento della prestazione richiesta i muscoli coinvolti saranno già stati attivati dal punto di vista metabolico, aumentando il flusso sanguigno e favorendo pertanto l’ossigenazione dei tessuti e l’apporto di nutrienti, oltre allo smaltimento dei cataboliti nei muscoli;
  2. Migliora l’ampiezza del movimento: oltre alle fibre muscolari, sono sollecitati anche i tessuti connettivi (miofascia, tendini e legamenti), estensibili ed elastici, che se non regolarmente allenati possono perdere parte della loro elasticità;
  3. Accresce la consapevolezza del proprio corpo: in base agli stimoli ricevuti durante i movimenti di allungamento dinamico tramite il sistema di feedback propriocettivo, il sistema nervoso centrale sarà stato preparato al lavoro successivo, essendo direttamente coinvolto nel meccanismo della contrazione muscolare volontaria e del suo controllo fine e riflesso;
  4. Stimola la produzione di liquido sinoviale all’interno delle capsule articolari, lubrificandole e contrastando l’usura delle cartilagini articolari e l’artrosi causati da movimenti forzati o con carichi eccessivi sulle articolazioni o dalla sedentarietà, consentendo una maggiore escursione dei capi articolari;
  5. Intensifica le prestazioni muscolari e la potenza: studi in merito hanno rivelato che lo stretching dinamico prima di un allenamento può aumentare la capacità di sollevare carichi maggiori e le prestazioni atletiche complessive rispetto al non eseguire nessun tipo di allungamento o solo stretching statico.

Per tutti questi motivi, lo stretching dinamico ha il vantaggio di allungare rapidamente la muscolatura e lubrificare le articolazioni, preparando entrambe le strutture ai movimenti potenti e rapidi di un qualunque workout o prestazione sportiva.

» fase 3 – Esercizi Correttivi e Rimedi Motori

Il miglior metodo per incrementare la forza e l’ipertrofia muscolare è allenarsi… ma bene!

Dato per scontato che qualunque cosa si faccia nel proprio allenamento sia funzionale a un miglioramento anche infinitesimale o al mantenimento della condizione attuale, sorge l’ovvia domanda:

“Per ottimizzare meglio il tempo impiegato, cosa è necessario fare?”

La risposta non può che essere una sola: efficienza. Chiunque abbia invece pensato a qualcosa del tipo “aumentare il volume di lavoro e/o l’intensità (carico) dell’allenamento” ha probabilmente sbagliato, o quanto meno non ha considerato che la priorità è un’altra, per due semplici motivi:

  1. aumentare l’intensità di lavoro comporta il dover compensare il proprio movimento in qualche modo, se non si possiede una buona tecnica; ovviamente solo i veri professionisti (ma parliamo a livello olimpico) anche all’1-RM non “sporcano” la propria tecnica;
  2. aumentare il volume dell’allenamento, senza essere in grado di mantenere la pulizia del gesto, una corretta esecuzione dei movimenti, può sì sembrare vantaggioso, ma non è certo la soluzione migliore, dati i presupposti.

Per poter “agire” da lifter esperto e aumentare carichi, serie e ripetizioni, è allora necessario anche saper gestire tali intensità e volume di allenamento…

In questa fase è bene tenere a mente che il carico è la variabile meno importante, in quanto gli schemi motori che si vogliono correggere devono essere eseguiti in una forma il più corretta possibile, a maggior ragione se devono essere corretti movimenti scoordinati o di compensazione, asimmetrie o tecniche apprese in modo errato. Anche la rapidità di esecuzione andrebbe trascurata o non enfatizzata, almeno non in questa fase, quanto in quella relativa al consolidamento dei pattern motori funzionali.

La variabile più importante è, invece, la scelta degli esercizi, delle varianti o dei singoli segmenti in cui è possibile scomporre un’alzata, per esempio.

Poiché in questa fase l’attivazione del sistema nervoso è quasi massimale, sia a seguito dell’elevata concentrazione richiesta per consolidare, modificare e riscrivere i pattern motori, sia lo sforzo fisico richiesto nell’eseguire movimenti molto complessi ed esplosivi quali i sollevamenti olimpici (OLs), è normale anche raggiungere frequenze cardiache elevate, respiro affannato e copiosa sudorazione.

Per quanto appena detto, migliorare la propria tecnica porterà, col tempo, molti benefici in termini di resa ed efficienza del proprio allenamento.

» fase 4 – Attivazione Muscolare Mirata

Successivamente agli esercizi correttivi, e prima del passaggio successivo, si eseguiranno tutti quegli esercizi di attivazione muscolare per i distretti corporei che saranno coinvolti nel workout.

Le contrazioni muscolari saranno pertanto più concentrate e dirette all’attivazione metabolica dei muscoli interessati, così che essi possano essere “pronti” ad eseguire movimenti più esplosivi, duraturi e precisi.

È opportuno pertanto provare e riprovare i movimenti effettuati in modo da valutare lo stato di riscaldamento raggiunto e verificare che stia effettivamente apportando un beneficio alla performance, sia durante l’esecuzione di tali esercitazioni, sia durante l’allenamento, su base giornaliera, onde evitare di sprecare tempo prezioso ad eseguire movimenti non funzionali allo scopo.

» fase 5 – Consolidamento dei Pattern Motori Funzionali

Core activation

L’allenamento del core, indispensabile per la stabilizzazione statica e dinamica del busto durante i sollevamenti e la totalità dei gesti atletici, andrebbe preferibilmente svolto durante questa fase del dynamic warm-up.

I movimenti che andranno ad essere eseguiti dovranno essere funzionali all’attività sportiva, ovvero impedire l’iperestensione, la rotazione e la flessione laterale. Ciò può avvenire con movimenti detti di anti-extension (anti-estensione), anti-rotation (anti-rotazione), anti-lateral flexion (anti-flessione laterale)  e glutes activation (attivazione dei glutei).

Nel dettaglio, alcuni esempi di esercizi per ciascuna delle funzioni sopracitate:

Altra fondamentale funzione del core, oltre a quella di prevenire movimenti non necessari, è quella di trasferire la forza tra la parte superiore e inferiore del corpo, da cui si evince che la sua importanza sia men che meno trascurabile durante il proprio riscaldamento.

Skills

Sulla falsa riga di quanto precedente visto riguardo la correzione degli schemi motori, una fase tecnica dedicata alla pratica e al miglioramento tecnico delle alzate fondamentali o dei gesti tecnici del proprio sport non può assolutamente essere sottovalutata.

Si eseguiranno pertanto esercitazioni per i principali sollevamenti del Power Lifting (squat, bench press, deadlift), del Weight Lifting (clean & presssnatch) o i gesti atletici (tiro, lancio, passaggio, battuta, ricezioneswing, scatto, cambio di direzione, etc.) dello specifico sport praticato.

Altresì, in previsione di un workout per la parte bassa del corpo si eseguiranno squat e stacchi, per la parte alta le varie presse, per quelli di trazione (pull) stacchi e tirate verticali (high pull) e orizzontali (rematori), per quelli di spinta squat e presse, per i total body un mix dei diversi tipi di movimento. A seconda della qualità e durata prevista dell’allenamento, si sceglieranno uno o più esercizi da “praticare” prima dell’esecuzione delle serie cosiddette “allenanti”.

Questa fase costituisce quella che nel CrossFit e in molti altri sport è l’allenamento della tecnica, in cui si eseguiranno le cosiddette “skill“.

» fase 6 – Attivazione del Sistema Nervoso Centrale

L’ultimo passaggio di un dynamic warm-up dovrebbe essere costituito da esercizi esplosivi che abbiano lo scopo di:

  • aumentare la sincronizzazione (o, meglio, diminuire la de-sincronizzazione, aumentando la velocità di raggiungimento della forza massima);
  • migliorare il reclutamento delle unità motorie (più fibre muscolari si contraggono, più forza si genera), grazie all’incremento del firing rate (la frequenza degli impulsi elettrici o, in termini semplicistici, la “forza” con cui il Sistema Nervoso Centrale invia segnali elettrici lungo i nervi verso le unità motorie) e l’abbassamento della soglia di attivazione (la “forza” dello stimolo richiesta per attivare le fibre muscolari), di modo che forza, durata e rapidità della contrazione siano massimali, in una determinata unità di tempo, e permettano una maggior rapidità di raggiungimento del valore richiesto;
  • aumentare la coordinazione intramuscolare (tra le fibre muscolari dello stesso muscolo, in modo che agiscano all’unisono, dosando la forza per quanto richiesto) e la coordinazione intermuscolare (tra le fibre di muscoli diversi, deputati alla stessa azione – muscoli agonisti e sinergici – o ad azioni complementari – muscoli antagonisti e ausiliari).

L’attivazione del Sistema Nervoso Centrale si espleta quindi con movimenti come sprint, salti verticali o in lungo, lanci, spinte, seguiti in maniera rapida ed esplosiva per poche ripetizioni (dell’ordine delle 3-5 al massimo). I gesti dovranno essere potenti e precisi ma ridotti in numerose non allenare i muscoli allo sfinimento ma il SNC.

Terminata quest’ultima fase del warm-up, dopo qualche minuto di recupero è possibile iniziare il proprio allenamento con tutti i sistemi attivi.


Esempi pratici…

» Dynamic Warm-up

Una buona sequenza di riscaldamento generale e specifico, che utilizzo sempre prima dei miei allenamenti è la seguente:

  1. fase 0 – Attivazione Generale
    • 50-100 jumping jacks (se il tempo è poco o non è presente un gran volume aerobico nel workout) o 3′ di corsa con ultimo minuto di allunghi, cui segue 1 minuto di camminata;
  2. fase 1 – Rilascio Miofasciale (SMR)
    • al momento non eseguito, ma previsto in futuro (sto ridimensionando solo ultimamente tutto il mio warm-up);
  3. fase 2 – Riscaldamento Articolarewarm-up exercices
    1. 12 circonduzioni, torsioni, flessioni laterali ed antero-posteriori per lato/direzione del capo;
    2. circonduzioni delle braccia: partendo con braccia aperte a livello delle spalle, mani aperte con dita unite e pollice verso l’alto, eseguire dei rapidi cerchi verso dietro (e successivamente nel secondo intervallo verso avanti) via via incrementandone il raggio fino alla massima ampiezza possibile;
    3. 12 torsioni del busto per verso alternate verso destra e sinistra (orario e antiorario) con braccia abdotte a livello delle spalle, avambracci flessi a 90° e mani di fronte al petto;
    4. 12 circonduzioni, per verso, del bacino (immaginate di giocare con un hula hop; fondamentale per “sbloccare” l’anca nei movimenti del Power Lifting o del Weight Lifting);
    5. accosciata completa con stance larga, aiutandosi con la pressione dei gomiti sulle ginocchia con i gomiti, tenendo le mani unite poste a livello del ventre, e oscillazioni del bacino nelle varie direzioni, lateralmente e avanti e indietro, per “sbloccare” le articolazioni di anca, ginocchio e caviglia, per la durata di 30″ in movimento;
    6. 15-30″ di affondi statici frontali (uno per gamba) ed eventualmente laterali e con l’aggiunta di stretching anche per i glutei in affondo frontale, per allungare la muscolatura dell’anca e dell’arto inferiore (vedi Chad Mackay, per esempio);
  4. fase 3 – Esercizi Correttivi e Rimedi Motori
    • mobilizzazione della spalla col bastone, anche con presa snatch (larga); dovrebbe stare nella fase di riscaldamento articolare, ma la metto spesso appena prima dei sollevamenti olimpici più per prepararmi psicologicamente che fisicamente:
      1. estensioni in avanti-alto e indietro
      2. circonduzioni con le mani vincolate al bastone
      3. distensioni del bastone avanti e dietro la testa
      4. overhead squat e thruster con bastone o bilanciere scarico (a seconda del livello: un atleta olimpico questi gesti li eseguirà col bilanciere vuoto, un principiante o intermedio con un bastone)
    • ripasso tecnico dei sollevamenti olimpici con varie forme di esercizio, variando di giorno in giorno: spezzoni delle alzate in piccole parti (immaginate di spezzettare il clean & jerk in deadlifthang squat cleanpush jerk oper esempio, prima, seconda e terza tirata), alzate complete o complex;
  5. fase 4 – Attivazione Muscolare Mirata
    • 12 squat a corpo libero (meglio se in overhead, con le braccia rivolte in alto e aperte, per una maggiore attivazione del core);
  6. fase 5 – Consolidamento dei Pattern Motori Funzionali
    • attivazione specifica del core, cui ho aggiunto un esercizio per il VMO, vasto mediale obliquo, di Mike Sheridan, qui, ed uno per la spalla che ho visto fare a Chad Mackay tempo fa – seguitelo, è un tipo “smart”):
      1. 2 x 60” walk-outs / 2 x 30”/side single leg walk-outs
      2. 2 x 45”/side side plank / 2 x 8/side 1 arm plank to Ts
      3. 2 x 8/side band Pallof presses / 2 x 30”/side band half-kneeling anti-rotation hold
      4. 2 x 8/side heel elevated step-ups
      5. 2 x 12/side quad hip extensions / 2 x 12/side single leg hip thrusts
      6. 2 x 30”/side KB arm bar
    • esercitazione di un’unica skill a seduta, come double unders, handstand, hollow, etc.
  7. fase 6 – Attivazione del Sistema Nervoso Centrale
    • esecuzione dei sollevamenti olimpici con carichi bassi o discreti e movimenti esplosivi per l’attivazione del SNC.

Un interessante flusso di warm-up di :

» altri esempi di Riscaldamento Specifico

A seconda del tipo di lavoro pianificato, si possono eseguire determinati movimenti preparatori a vari gesti tecnici o atletici.

Qualche esempio di movimenti ed esercitazioni nelle varie fasi:

  • nella corsa a intervalli, o nelle gare e allenamenti di velocità dell’atletica leggera, un buon warm-up potrebbe comprendere esercizi di coordinazione di braccia e gambe (si pensi a skip alto, basso, corsa calciata in dietro e in avanti, corsa laterale, carioca, passo stacco alternato e successivo), esercizi di attivazione muscolare (corsa balzata mono- e bilaterale, allunghi e scatti, etc.); lo illustra in maniera abbastanza esaustiva Chris Hinshaw:
  • Qui degli altri esempi di Coach Barber:
  • in una fase di riscaldamento nella pallamano, invece, andremo a “riscaldare” il gesto del tiro e del passaggio con vari esercizi in posizione statica o dinamica, eserciteremo il tiro da fermo e con i passi (con 1, 2, 3 passi con partenza da fermo e con rincorsa), etc.

Gli esempi possibili sono ovviamente moltissimi; ne ho riportati due quasi o completamente opposti rispetto al primo ma diversi tra loro, per comprendere meglio la grande, immensa, varietà di esercizi che è possibile utilizzare e sopratutto le combinazioni che possono rendere ogni fase di riscaldamento specifica per ogni sport, attività, tipo di allenamento o workout.


Fonti e bibliografia

Per approfondimenti, lascio il link agli articoli (in inglese) su T Nation:

Chris Hinshaw sul CrossFit Journal:

 su Breaking Muscle:

e il mio precedente, più generalizzato, su riscaldamento, defaticamento e stretching.

Seguono alcuni studi in inglese sul dynamic warm-up (1-5) che è possibile leggere gratuitamente; altri, purtroppo, non sono consultabili se non come abstract, ma confermano quanto detto in questi riportati. Sullo stretching statico, inoltre (6-7, di cui solo il primo è interamente consultabile) esistono un’infinità di nuovi e vecchi studi:

  1. Ayala F., Moreno-Pérez V., Vera-Garcia F.J., Moya M., Sanz-Rivas D., Fernandez-Fernandez J., “Acute and Time-Course Effects of Traditional and Dynamic Warm-Up Routines in Young Elite Junior Tennis Players” – PLoS One, 2016 Apr 12
  2. Cilli M., Gelen E., Yildiz S., Saglam T., Camur M., “Acute effects of a resisted dynamic warm-up protocol on jumping performance” – Biology of Sport, 2014 Sep 12
  3. Yapicioglu B., Colakoglu M., Colakoglu Z., Gulluoglu H., Bademkiran F., Ozkaya O., “Effects of a Dynamic Warm-Up, Static Stretching or Static Stretching with Tendon Vibration on Vertical Jump Performance and EMG Responses” – Journal of Human Kinetics, 2013 Dec 31
  4. Samson M., Button D.C., Chaouachi A., Behm D.G., “Effects of dynamic and static stretching within general and activity specific warm-up protocols” – Journal of Athletic Training, 2012 Jun 1
  5. Feigenbaum A.D., McFarland J.E., Schwerdtman J.A., Ratamess N.A., Kang J., Hoffman J.R.
    Dynamic warm-up protocols, with and without a weighted vest, and fitness performance in high school female athletes – Journal of Athletic Training, 2006 Oct-Dec
  6. de Oliveira F.C., Rama L.M., “Static stretching does not reduce variability, jump and speed performance” – International Journal of Sports Physical Therapy 2016 Apr
  7. Hough P.A., Ross E.Z., Howatson G., “Effects of dynamic and static stretching on vertical jump performance and electromyographic activity” – the Journal of Strength and Conditioning Research / National Strength & Conditioning Association, 2009 Mar

Note sull’autore

Angelo Ruggiero
Dott. in Scienze Motorie , Preparatore Atletico e Strenght Trainer con esperienza decennale nello Sport e nel Fitness.

Visita il suo sito http://PhysicalTraining.it


L'articolo Come effettuare il riscaldamento sembra essere il primo su Project inVictus.


Preparazione per le prossime gare di Bodybuilding Natural (Parte 3)

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Ciao ragazzi! Manca davvero pochissimo al mio ritorno sul palco di gara dopo 24 mesi di off-season. Dopo i primi due articoli-resoconto della mia preparazione:
Preparare una gara di Bodybuilding Natural
Il mio percorso (parte 2)
Eccomi di nuovo qui sul Project a darvi un veloce aggiornamento sulla mia preparazione alle gare estive.

Prossimi Appuntamenti Agonistici
  • 2 Luglio (#5WeeksOut)English Grand Prix 2016, gara di Bodybuilding & Fitness organizzata dalla Panther’s Gym e IFBB inglese (UKBFF) all’interno dell’evento World Power Expo – ExCel, Londra . “Gara di rodaggio” e di esperienza su un palco importante con atleti PRO di fama internazionale. Mi cimenterò qui per la prima volta nella categoria Men’s Physique –al momento non ho ancora la piu’ pallida idea del posing per questa categoria ma ho fissato il primo appuntamento 1to1 presso la Panther’s per il 7 di Giugno. Forse un po’ troppo tardi ma con il lavoro ed impegni vari non riuscivo prima. Mi piacerebbe poi riuscire a scendere a Parma a trovare il mio amico Master Poser, Giuseppe Zannotti nelle prossime settimane.
  • 24 Luglio – (#8WeekOut) UKDFA Southern Counties  – Rientro ufficiale sul palco di gara del Bodybuilding Natural con questa gara di qualificazione alle Finali Britanniche di Autunno. In questo caso salirò sul palco di battaglia nella Categoria Pesi Medi (o sopra gli 80Kg) e tentare di qualificarmi per le finali.

Peso attuale: 84.1Kg

Body Fat attuale (stima): 8-9%

Circonferenza vita: 77.5c

Riflessioni delle ultime Settimane

Preparazione gara bodybuilding

Sono da poco tornato da un viaggio di alcune settimane a Bali dove sono comunque sempre riuscito ad allenarmi tutti i giorni, a volte anche 2 volte al giorno. Ora sono di nuovo in partenza per gli incontri IronManager di Molfetta (29 Maggio), Verona (11 Giugno) e Rimini Wellness in mezzo ai due appuntamenti.

Alcuni anni fa, avrei probabilmente rinunciato a viaggi ed appuntamenti vari in una fase cosi’ ravvicinata alla gara. In realtà l’ho fatto, rinunciando ad un paio di viaggi di promozione a Tokyo nel 2012 ed ad altri mini-trips on-the-road nel 2014. In passato a questo punto avevo post-it e fogli attaccati al frigorifero e per tutta la casa con la tabellina di marcia settimana per settimana, calcoli minuziosi dei macros, piano integrazione suddiviso per momenti della giornata, etc…Quest’anno, ed in particolare negli ultimi mesi, il mio obiettivo primario in questa preparazione, è davvero quello di provare a riuscire a dormire 30 minuti in piu’ ogni notte.

Devo ammettere che non biasimo assolutamente chi continua a darmi del Bomber dalla mattina alla sera. Io stesso, 6 anni fa, nel corso della mia prima preparazione soffertissima, non avrei mai creduto a chi mi avesse detto che a distanza di anni, sarebbe stato cosi’ facile e meno doloroso prepararsi per una gara. Non credo comunque in nessun miracolo e nemmeno di essere stato baciato dalla genetica – ora avete visto il mio punto di partenza da Tortello?!?!?

Credo che negli ultimi anni stia vivendo molto di rendita, per quello che ho fatto in precedenza nel corso della preparazione alle altre 12 gare a cui ho partecipato. Mantenere poi sempre discreti livelli di body fat (anche in off-season) migliorando allo stesso tempo la mia capacita’ metabolica, ha decisamente giocato un ruolo decisivo. Rispetto ai miei primissimi anni di sperimentazione mi sono sempre allenato minimo 4 volte a settimana, tutte le settimane dell’anno ed ho cercato di evitare quelle inutili diete yo-yo che mi avevano portato ai plateau degli inizi. Sono sempre andato avanti come un panzer, senza voltarmi indietro e cercando di migliorare il mio fisico di mese in mese sperimentando ed imparando dai miei errori. E’ effettivamente incredibile quanto possa ora conoscere il mio corpo ed i suoi ritmi rispetto a pochi anni fa. Mi piacerebbe che anche voi poteste arrivare a questo livello di equilibrio interiore piuttosto che puntare subito il dito alle vitamine S!

Anche le prossime settimane, almeno fino al 15 di Giugno, saranno all’insegna della massima flessibilita’. Flessibilita’ negli allenamenti, in base alle palestre ed attrezzature che trovero’ in giro e Flessibilita’ nella dieta visto che non potro’ sempre portare con me le palline di riso e le mie fonti proteiche preferite.

Allenamento

Fran

Il deficit calorico delle ultime settimane e lo stress dei mille impegni quotidiani mi hanno costretto a ridimensionare il volume e la frequenza degli allenamenti rispetto all’inizio della preparazione. Fino a questo momento poi mi sono ritrovato nei weekends a lavorare sui programmi dei miei atleti e a dimenticare di prepare il mio piano di battaglia in palestra. A Bali e nelle ultime settimane ho seguito piu’ che altro una traccia ed allenato “a sensazione” sempre  utilizzando i principi di autoregolazione per non abusare con intensita’ e volume. La scelta degli esercizi era dettata dall’attrezzatura disponibile nelle palestre dove mi allenavo, seguendo comunque sempre uno schema in multifrequenza con periodizzazione ondulata giornaliera (DUP).

Nelle prossime 6 settimane la mia “traccia” prevede un alternarsi di protocolli di allenamento stile Filetto Fase #2 e DOGG CRAPP. L’idea è quella di alternare settimane  di allenamenti di forza sui multiarticolari con solo serie in buffer e settimane  dove lavorerò piu’ su tecniche di intensificazione come superset, drop sets e widow makers (WM).

Questa è la distribuzione degli allenamenti che seguiro’ nelle prossime settimane – vi darò poi i dettagli delle diverse sedute allenanti nei prossimi aggiornamenti su www.ironmanager.it

MONDAY       – Dorsali – Petto – Spalle
TUESDAY       – Quadricipiti – Femorali – Glutei – Addominali
WEDNESDAY – Bicipiti – Tricipiti
THURSDAY    – Dorsali – Spalle – Petto
FRIDAY          – Femorali – Glutei – Quadricipiti – Addominali
SATURDAY     – Spalle – Bicipiti – Tricipiti
SUNDAY         – OFF

Alternero’ poi 1 settimana dove faro’ dai 20 ai 30 minuti di cardio (LISS o HIIT a seconda del giorno) a 1 settimana di stop completo dal cardio.

Alimentazione

Fran cibo

Nelle ultime settimane di vacanza a Bali non ho avuto tempo e modo di “contare i miei macros” e ho quindi cercato semplicemente di mangiar 3-4 pasti al giorno a sazietà. Quando ho esagerato con raw cakes ed altre prelibatezze dell’isola ho ricorso al digiuno di 24 ore per rientrare in carreggiata. Come anticipato nello scorso articolo, la mia dieta a Bali e’ stata totalmente vegana e cosi’ e’ rimasta anche al mio ritorno fino ad oggi. Gli alimenti alla base della mia dieta attuale sono tempeh, riso integrale, patate dolci, latte di canapa, amaranto, avocado, mandorle, semi di zucca, noodles di fagioli neri, ceci, piselli, grano saraceno, quinoa, semi di chia, semi di canapa, yogurt di latte di cocco e soia, fagioli dall’occhio, tofu, edamame, blend di proteine vegetali a colazione e nel pre-nanna, verdure e mirtilli a valanghe.

I miei macros attuali sono i seguenti:

  • Proteine: 160g al giorno (circa 2g x Kg di massa magra)
  • Grassi: 50-60g al giorno
  • Carboidrati: 350-450g
Integrazione
  • Citrato di potassio: circa 4g al giorno
  • Citrato di magnesio: circa 2g al giorno
  • Creatina: 5g al giorno tutte le mattine (www.ironmanager.it/creatina)
  • K-Rala: 300mg + 300mg mattina e sera
  • Vitamina D3: 2500ui + 2500ui mattina e sera
  • Curcumina in forma Meriva o con bioperina: 1.5g al giorno

TO BE CONTINUED…

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Le abilità mentali per resistere alla fatica.

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Quando il gioco si fa duro, usa la testa!

‘Basta. Fermati. Non ce la faccio più. Non riesco più a respirare, non sento più le gambe, le braccia, mi gira la testa. Me lo dice il corpo di fermarmi. Sono al limite. Basta. Basta. Dai ancora per poco, NO, basta non sopporto più tutto questo dolore, questa fatica’.

Quante volte ci siamo ripetuti queste frasi nel momento più doloroso, più faticoso di un allenamento, di una gara, sembra di vederle scorrere, come fossero sottotitoli, davanti a noi, appena prima di fermarci, di stoppare tutto. Basta. Posso riprendere fiato. Ma subito dopo aleggia una sensazione di sconfitta, di fallimento. Potevo dare di più. Avrei potuto.

Abilità mentali

Ma cos’è la fatica? Il dizionario definisce la parola ‘fatica’ come ‘sforzo intenso e prolungato che porta all’indebolimento progressivo delle facoltà di resistenza fisiche o spirituali’. La fatica determina una riduzione di rendimento, di prestazione, di funzionalità, di capacità di concentrazione a cui si accompagna un desiderio di interruzione dell’attività in corso.

Sicuramente la sensazione di fatica è familiare a tutti gli atleti-amatori che praticano attività fisiche che richiedono sforzi notevoli prolungati e resistenza aerobica/anaerobica (possiamo citare la maratona, il ciclismo, il triathlon, il crossfit) ma, in generale, in qualsiasi sport bisogna confrontarsi con la sensazione di fatica, uscire dalla così detta ‘Zona di comfort’, mettersi faccia a faccia con la proprie capacità di resistenza fisica e mentale.

Ormai è un dato certo che il limite mentale sopraggiunga prima del limite fisico, in altre parole, quindi, quando iniziamo a ripeterci ossessivamente di non farcela più, probabilmente abbiamo ancora un buon 40% di benzina fisica da poter sfruttare. E allora cosa ci blocca? E cosa ci può aiutare a spingere il limite più in là, a sviluppare maggiore resistenza alla fatica? Come fanno certi atleti a percorrere una maratona di 14 ore nel deserto? Cosa spinge un atleta di crossfit a portare a termine un WOD di 400 pull-ups e pistol-squats? Cosa spinge una persona in palestra a fare una ripetizione in più nonostante la mente dica di fermarsi?

In Psicologia dello sport si sente molto parlare di due abilità mentali: la durezza mentale e la resilienza.
– La durezza mentale è definita come ‘un costrutto multidimensionale che comprende la capacità mentale di recuperare dopo sconfitte ed errori, l’abilità di controllare la tensione agonistica, la capacità di mantenere l’attenzione per periodi di tempo prolungati, il livello di autostima sportivo e il grado di coinvolgimento e impegno nel sopportare la fatica e raggiungere i propri obiettivi’ (Goldberg, 2000). In pratica, coinvolge la determinazione, la perseveranza, l’impegno, la capacità di resistere alla fatica ed al dolore, per usare al massimo le proprie capacità, per ottenere una performance ottimale.
– La Resilienza è, invece, ‘la capacità di resistere alle frustrazioni, allo stress ed alle difficoltà della vita fronteggiando efficacemente gli eventi critici e reagendo in modo positivo’ (Trabucchi, 2000). La persona resiliente è in grado, quindi, di adattarsi alle situazioni avverse, come possono essere fatica e dolore. È stato dimostrato come Durezza mentale e Resilienza siano alla base della personalità di atleti di alto livello e siano, quindi, necessarie per affrontare fatica e dolore e raggiungere performance di successo.

Scavando ancora più a fondo, però, la durezza mentale e la resilienza si basano su due importanti pilastri psicologici: l’autoefficacia e l’autostima. Come facciamo, infatti, a recuperare dopo una sconfitta se crediamo di non esserne in grado? Come possiamo sopportare il dolore se non ci crediamo dotati di resistenza? Come possiamo sopportare lo stress se la rappresentazione di noi stessi è un fallimento? Come possiamo porci degli obiettivi sfidanti e faticosi se non ci sentiamo di avere le abilità necessarie o, peggio, se non crediamo neanche di essere in grado di impararle?

Vediamo, quindi, come poter allenare la nostra autostima, la nostra autoefficacia e, quindi, come poter costruire la durezza mentale e la resilienza.

Il primo passo verso la costruzione di una buona autoefficacia è l’utilizzo del pensiero positivo, cioè l’orientamento del pensiero dal negativo (i classici non devo, non voglio) al positivo (riesco, voglio, faccio). Il pensiero positivo è strettamente connesso al self-talk, di cui ho largamente parlato nell’articolo sulla preparazione mentale nel sollevamento pesi. Cambiare la prospettiva da ‘non voglio fermarmi’ a ‘vado avanti’ ci pone in un assetto ottimale, che aumenta il nostro senso di autoefficacia.

Il pensiero positivo è strettamente collegato al cambiamento di prospettiva nel leggere la realtà che ci circonda. La realtà, infatti, non è oggettiva, come può sembrare, ma è filtrata dal nostro punto di vista, da ciò che selezioniamo come importante per noi e da come lo interpretiamo. Il nostro modo di pensare, il nostro modo di vivere ci ha ormai portato a concentrarci solo sulle cose che NON abbiamo fatto, che NON abbiamo portato a termine, che potevamo fare meglio. Nessuno ci ha mai insegnato, invece, a renderci conto di tutte quelle piccole cose che ogni giorno scegliamo di fare, ma che potevamo scegliere di non fare. Alzarci dal letto, andare al lavoro, sorridere anche se si è tristi, andare in palestra, mangiare quell’alimento sano piuttosto che quella barretta di ‘junk food’. Chissà perché, però, riusciamo solamente a notare quando in palestra non ci siamo andati, quando non siamo riusciti a seguire la dieta, quando non siamo riusciti a fare la decima ripetizione (ma ne abbiamo fatte 9!), quando non siamo riusciti ad arrivare ai 5km di corsa (ma ne abbiamo fatti 4!). Iniziamo a tenere un diario dei successi, iniziamo a scrivere fisicamente quello che di buono facciamo ogni giorno, tutto ciò che, anche di piccolo, portiamo a termine. Iniziamo a sottolinearci i successi, non gli insuccessi.  L’autoefficacia subirà un’impennata.

Ovviamente l’autoefficacia sportiva si basa soprattutto sui successi sportivi, sulla capacità di darsi un obiettivo e raggiungerlo, sul dimostrarsi di potercela fare, e questo è fondamentale anche nella resistenza alla fatica, della quale parleremo a breve.

In tutto questo, quindi, non poteva mancare una parte dedicata ai rinforzi. L’autoefficacia trae vita dai rinforzi, dai ‘bravo’ detti dal nostro trainer, dai nostri amici, dai nostri genitori; impariamo, però ad auto-rinforzarci, come ho detto prima, a sottolinearci i nostri successi e a dirci ‘bravo’ di conseguenza.

fatica

Dopo aver messo le basi per una solida autoefficacia si possono iniziare ad apprendere, sviluppare ed allenare la durezza mentale e la resilienza, così importanti nel riuscire ad ottenere una performance ottimale ma anche così necessarie per riuscire a resistere alla sensazione di fatica. In generale le tecniche più utilizzate prevedono la valorizzazione dei propri punti di forza e l’individuazione delle proprie aree da migliorare, la creazione di un proprio goal setting (stilare, quindi, una strategia di obiettivi a breve, medio e lungo termine), tecniche di pensiero positivo e self talk, tecniche di concentrazione (come per esempio la stesura di una routine, una sequenza automatizzata di gesti, visualizzazioni e parole che deve essere applicata prima di ogni allenamento/gara per favorire la concentrazione), tecniche di rilassamento (respirazione, training autogeno, rilassamento muscolare di Jacobson), tecniche di visualizzazione e allenamento ideomotorio (vedi ‘preparazione mentale nel sollevamento pesi’) e la rievocazione, l’immaginazione delle sensazioni provate in una prestazione ottimale precedente (‘Sport Resilience lab’ di S. Ortensi). Tutte queste tecniche sono utilizzate nei protocolli di Mental training con uno psicologo dello sport, lavorando sia con atleti di alto livello sia con atleti amatori e squadre sportive.

Arrivando al dunque, dopo aver sviluppato autostima, autoefficacia, durezza mentale e resilienza, quali sono, nello specifico, le tecniche mentali per resistere al dolore e alla fatica?

Innanzitutto bisogna prefissarsi degli obiettivi SMART (Specifici, misurabili, attuabili, realistici, legati al tempo a disposizione). Obiettivi che siano realizzabili ma a poco a poco sempre più sfidanti, sempre più faticosi, ma comunque sempre realizzabili. In ogni allenamento dobbiamo uscire dalla nostra ‘zona di comfort’, abituarci in maniera gradualmente maggiore alla sensazione di fatica, a dimostrare a noi stessi di essere in grado sempre di più di gestire la sensazione di dolore. La durezza mentale, infatti, è costruita su piccole vittorie, piccoli miglioramenti; le tue azioni fisiche, costantemente, ti dimostrano la tua forza mentale. È proprio la tecnica di esporsi a piccole dosi che ci dà la prova di sapere resistere e ci infonde quella autoefficacia che ci rende ancora più motivati (‘l’ho già affrontato prima e ce l’ho fatta’) quando il ‘gioco si fa più duro’. Il metodo di porsi degli obiettivi è molto utile anche per suddividere in più step, in più ‘trigger point’, l’allenamento/gara. E’ molto più facile e motivante, infatti, porsi l’obiettivo di raggiungere i 10 km di volta in volta (in una maratona che magari ne ha 40), oppure darsi l’obiettivo di portare a termine ogni singolo esercizio di un WOD, piuttosto che pensare al lontano obiettivo finale.

Rilassamento

La capacità di rilassarsi prima di un allenamento particolarmente faticoso o in vista di una gara è fondamentale. L’obiettivo è, quindi, usare delle tecniche di respirazione adeguate per raggiungere un livello di tensione muscolare e di attivazione fisiologica ottimale per far fronte alla prestazione. Grazie al rilassamento tutte le risorse fisiche e mentali possono essere incanalate verso la meta e non disperse per far fronte ad un’ansia eccessiva, che brucia in anticipo le riserve.

Il rilassamento è fondamentale anche dopo la fine di una gara o di un allenamento faticoso. Associare, infatti, una sensazione di rilassamento in seguito ad una sensazione di fatica e dolore, fa in modo di renderla più gestibile e meno ‘traumatizzante’.

Il rilassamento è necessario anche per poter utilizzare al meglio le tecniche di visualizzazione: la visualizzazione pre-gara consiste, in una maratona ad esempio, nell’immaginarsi vividamente la conformazione del percorso, ogni rettilineo, curva, collina, discesa, ogni sensazione corporea, pensiero ed emozione legata al percorso, compreso il momento in cui il corpo inizierà a dire basta, il così detto muro. Visualizzare, infatti, aiuta ad arrivare preparati, oltre che tecnicamente, anche mentalmente alla prestazione, avendo già immaginato nel dettaglio, avendo già reso familiare, ciò che potrà succedere.

La visualizzazione durante la gara, invece, consiste soprattutto nell’immaginarsi il momento in cui in passato è stata raggiunta una performance ottimale, definita ‘flow’. Nei momenti di difficoltà nell’allenamento/gara presente, infatti, immaginarsi i pensieri, i movimenti, le emozioni e le sensazioni legate al flow aiutano a rinfonzarsi e darsi la giusta carica per continuare. In questo caso la visualizzazione ha la stessa funzione del self talk positivo. Ripetersi, in mente o ad alta voce, infatti, dei ‘mantra/parole chiave’ motivanti (‘continua così, sei forte, vai’) o delle immagini particolarmente incentivanti (il flow, il vostro atleta preferito) sono fondamentali per superare le barriere mentali della fatica. Nella corsa, un’immagine particolarmente utile consiste nel visualizzare delle corde che vengono ancorate ad un albero qualche metro davanti a voi, dandovi la sensazione di essere spinti in avanti, come se le corde facessero da traino e spingessero il vostro corpo a muoversi più velocemente.  ‘Se desiderate compiere qualcosa nella realtà, innanzitutto visualizzate voi stessi mentre riuscite a compierla’ diceva Arnold Lazarus.

Un’altra tecnica molto utilizzata viene definita ‘distrazione’. Esempi di distrazione posso essere contare gli alberi durante una maratona, coniugare verbi, contare al contrario, creare la lista della spesa, guardare le persone, cantare una canzone. Tutto questo per distrarsi dalla sensazione di dolore e fatica che si sta provando in quel momento. In realtà non è corretto definire questa tecnica con la parola ‘distrazione’; essa, infatti, consiste nel sapersi concentrare e spostare il proprio focus attentivo dall’interno (dolore, fatica) all’esterno, dirigendo e concentrando la propria attenzione verso stimoli lontano dalle nostre sensazioni fisiche. La concentrazione va allenata, sembra facile concentrarsi sul paesaggio ma in realtà la maggioranza di noi riuscirà per pochi secondi, tornando immediatamente alla sensazione spiacevole di dolore.

Infine l’ultima modalità che vi presento per resistere alla fatica non si tratta di una tecnica, ma piuttosto di una ‘forma mentis’ diversa. Da sempre la nostra società ci insegna a reprimere l’ansia, la fatica, il dolore. Non ci insegna a conoscerlo, a convivere con esso. Non ci insegna a capirne il senso. Ad utilizzarlo in modo positivo. Ne è la prova l’abuso di farmaci odierno. Bisognerebbe imparare ad accettare di provare fatica (c’è sempre un limite!), viverla come tale, così com’è, decidere consapevolmente di essere in grado di sopportarla, senza fare finta che non esista, senza lottarci contro. Come un momento passeggero, transitorio, come un segnale dell’uscita dalla nostra ‘zona di comfort’, come segnale di un passo verso il miglioramento di noi stessi, verso la prova di essere stati efficaci, di aver resistito.

Lavora ogni giorno sui tuoi pensieri piuttosto che concentrarti sui tuoi comportamenti. È il tuo pensiero che crea i tuoi sentimenti, e, alla fine, anche le tue azioni’ Wayne W. Dyer.

NOTE SULL’AUTRICE

Eleonora Orsi – Milano – Mail: orsi.ele@gmail.com
Laureata in Psicologia clinica all’università di Milano ‘Bicocca’, iscritta all’albo degli psicologi della Lombardia, specializzata in Psicologia dello sport e specializzanda in Psicoterapia cognitivo-comportamentale.
Atleta agonista per A.S.D ‘Alex Club’ di Milano nella pratica sportiva del sollevamento pesi olimpico e nella distensione su panca.
Fin da sempre appassionata di nutrizione, allenamento, benessere e sport applica le conoscenze derivate dai suoi studi psicologici alle sue passioni, soprattutto per quanto riguarda la psicologia e lo sport, ponendosi come obiettivo di diffondere l’importanza della preparazione mentale e delle sue tecniche nella prestazione sportiva.

 

 

 

 

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Reverse Diet e Recovery Diet

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Diciamocelo, quando si finisce un periodo di restrizione calorica, l’ultima cosa a cui vogliamo pensare è la dieta. L’obbiettivo è stato raggiunto, la volontà crolla e il relax è quantomai necessario. Sappiamo però bene che lasciarsi andare può essere davvero deleterio e soprattutto senza senso. Per questo motivo è cresciuto negli ultimi anni l’interesse per le strategie volte a “uscire” da periodi di ipo alimentazione. Tra di esse spicca sicuramente la “reverse diet”, una strategia che va a braccetto con il concetto di “lean bulk” sposando l’idea di aumentare la massa magra in modo lento, graduale e soprattutto senza un eccessivo accumulo di massa grassa (vedi anche : come accelerare il metabolismo e dieta per la massa nel bodybuilding).

Le tendenze sono principalmente due: c’è chi si getta a piè pari in massa e chi invece applica l’ormai nota Reverse Diet cercando di far rimanere inalterata la massa grassa aumentando le kcal in maniera lenta e graduale. Vedremo che entrambe le strategie hanno dei pro e dei contro ma, in realtà, nessuna delle due risula ottimale. Proporremo dunque una nostra alternativa.

Ri-alimentarsi

Cerchiamo di capire anzitutto quello che succede quando torniamo ad iper-alimentarci dopo un periodo di restrizione calorica.

Anticipiamo che i discorsi che faremo prenderanno come riferimento la normocalorica teorica, ovverosia i livelli normo-calorici di un soggetto normo-alimentato. In altre parole è vero che da un punto di vista pratico se alziamo anche di un poco le kcal stando molto bassi ci staremo in concreto iper-alimentando. Per i nostri fini si presta però meglio ragionare sui livelli astratti.

Dunque, quando alziamo l’introito calorico il metabolismo tenderà ad aumentare seguendo l’input energetico. Possiamo dinstinguere un breve periodo da un lungo periodo dove:

  1. Il breve periodo è indentificato nel momento in cui il metabolismo è sotto la manteinance, ovverosia la normo-calorica teorica. In questa fase il metabolismo è molto efficiente, aumenterà in maniera proporzionale all’aumento dell’introito calorico. Peraltro parte delle kcal introdotte andranno a ripristinare le scorte energetiche, ci troveremo dunque ad accumulare poca massa grassa.
  2. Il lungo periodo è invece identificato nel momento in cui il metabolismo supera tali livelli. In questo caso il processo di aumento metabolico è poco efficiente, le scorte energetiche saranno verosimilmente sature e, a parità di surplus calorico, tenderemo ad accumulare maggior massa grassa.
Bulk it up!

Andiamo ad analizzare la prima strategia, ovverosia il gettarsi a piè pari in massa. Il concetto è quello di raggiungere livelli di iper-alimentazione (sopra la manteinance) nel giro di pochi giorni.

Nel breve periodo ci ritroveremo pertanto ad avere un forte boost metabolico. Il metabolismo raggiungerà quindi molto in fretta la manteinance, le scorte energetiche verranno saturate in fretta e accumuleremo poca massa grassa.

Viceversa nel lungo periodo ci ritroveremo a mal gestire gli introiti calorici. Nel giro di poco tempo il metabolismo “perderà terreno” rispetto all’input calorico e verosimilmente accumuleremo molta massa grassa ritrovandoci vittime di fenomeni di insulino-resistenza e problematiche affini.

reverse diet

Reverse Diet

Il concetto alla base della Reverse Diet è quello di un lieve aumento delle kcal ingerite (si parla del 3% delle kcal totali). Questo deve esser fatto in maniera continuativa in modo da realizzare un graduale e lento aumento dell’introito calorico. Non ci sono tempistiche precise, si deve monitorare lo specchio e soprattutto la BF (body fat) cercando di evitare che si arrivi a prendere più di un punto percentuale a settimana.

Vien da se che raggiungeremo in molto tempo dei livelli calorici pari a quelli del mantenimento teorico, dunque nel breve periodo il metabolismo premerà sull’acceleratore e perderemo margini di efficienza. In questo contesto mi preme sottolineare come non abbia senso cercare di far rimanere inalterata la massa grassa (perlomeno nel caso in cui si raggiungano livelli del 4-6% come quelli richiesti in gara) in quanto si tratta di percentuali sotto-fisiologiche che accentuano uno stato tendenzialmente catabolico del corpo e ostacolano i processi di adattamento e crescita muscolare. Inoltre lo stress psico-fisico soppotato in periodi di restrizione calorica è ben gestito nel momento in cui si ha un focus, un obiettivo (che può essere salire sul palco o fare il galletto in spiaggia). Una volta che lo si raggiunge (si conquista la coppa o si la tanto agognata gnocca in discoteca) prolungare condizioni di sotto-alimetazione porterà a stressor mal gestiti che accentueranno il quadro catabolico cui saremo vittime.

Nel lungo periodo invece ci ritroveremo a gestire in maniera impeccabile alte quote caloriche con una percentuale di massa grassa molto bassa.

La nostra proposta sulla Reverse Diet e Recovery Diet

Dando uno sguardo d’insieme capiamo bene come gettarsi subito in massa è una strategia efficace nel breve periodo mentre applicare la Reverse Diet risulta ottimale nel lungo periodo. La nostra proposta si basa sulla distinzione di due diverse strategie, una nel breve ed una nel lungo periodo.

  1. Nel breve periodo ci converrà raggiungere ma manteinance piuttosto in fretta. Questo non vuol dire andare subito in iper-alimentazione ma raggiungere la normo-calorica teorica nell’arco di 2-3 settimane. In questo modo sfrutteremo il rebound anabolico dato da periodi di ipo-alimentazione, ripristineremo in fretta scorte energetiche e performance e aumenteremo di qualche percentuale i punti di massa grassa tornando in range fisiologici ed in un contesto tendenzialmente anabolico.
  1. Nel lungo periodo invece sarà più utile applicare una Reverse vera e propria, dunque operare tanti piccoli aumenti calorico-glucidici per cercare di mantenere inalterata la massa grassa andando a migliorare progressivamente la performance.

In questo modo avremo una strategia ottimale sia sul breve che sul lungo periodo che si presterà molto bene all’atleta medio.

Pasto post-gara

Ultimo spunto che lasciamo è quello relativo al pasto post-gara/sveltina con la tipa. In questo caso rimandiamo per lo più al precedente articolo sul cheat day e cheat meal. In effetti risulta fruttuoso avere un pasto molto denso a livello calorico/glucidico dopo un periodo di restrizione calorica. Ragioniamo però sul fatto che dopo una gara il quadro è diverso. Difatti una delle strategie che si utilizzano nelle ultime settimane prima della competizione è quella di applicare una Reverse, questo per far rimanere inalterata la massa grassa andando a ripristinare le scorte energetiche ed ottenendo pertanto un aspetto più pieno in competizione. Sia chiaro, suggeriamo comunque un pasto libero dopo il palco per via dei vantaggi psico-fisici che comporta. Tuttavia vi invitiamo a tener presente che le scorte energetiche (se avete fatto le cose per bene) non sono completamente sature. In altre parole evitate abboffate degne dei migliori programmi di Real Time ma vivetevela in maniera serena e spensierata.

Reverse Diet e Recovery Diet

NOTE SULL’AUTORE 
L’articolo: Cheat day / cheat meal  è di  Ludovico Lemme
Personal Trainer certificato ISSA e studente SaNIS (scuola di nutrizione e integrazione sportiva). Segue diversi atleti, sia dal vivo che online nel campo del Bodybuilding e del fitness in generale. Nel 2015 avvia il progetto Rhinocoaching con il quale si propone di creare una piattaforma di riferimento per i suoi atleti e per gli appassionati in generale.
Contatti: rhinocoachingofficial@gmail.com
Pagina FB: https://www.facebook.com/ludovicolemmemygrowth/
Sito Web: www.rhinocoaching.it

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HICT: un metodo innovativo per le MMA

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HICT- UN METODO INNOVATIVO

   Quest’articolo si propone di presentare un metodo di allenamento innovativo per quanto riguarda le prestazioni fisiche dell’atleta nello sport, il metodo HICT (High-Intensity Continuous Training).  Si tratta di un approccio applicabile su larga scala a qualsiasi tipo di atleta di sport da combattimento (e non solo), in quanto prende in considerazione i movimenti basilari del nostro corpo, per sfruttarne la resa nella tecnica sportiva e portarlo verso un continuo miglioramento. Ho cominciato da poco ad usare questo tipo di metodo con gli atleti che seguo nelle MMA e nel Karate e, fin da subito, ho capito che valeva la pena approfondirne i benefici. Si tratta di un tipo di allenamento poco conosciuto, i libri sulla preparazione ne parlano poco o nulla. Per quanto mi riguarda, ne ho sentito parlare per la prima volta in un podcast che ho trovato navigando in internet durante la mia esperienza lavorativa in California. Nel podcast a parlare era Joel Jamieson, preparatore di fama internazionale per quanto riguarda le MMA. Jamieson, in realtà, non delineava in modo esaustivo le caratteristiche di questo metodo d’allenamento ma ne esaltava l’innovatività e, soprattutto, l’efficacia.

      Gli sport da combattimento richiedono l’intervento di diversi sistemi energetici. Bisogna essere potenti, veloci ma anche resistenti. Questo metodo ha lo scopo di migliorare la resistenza alla fatica, la capacità di smaltire l’acido lattico e la capacità di ricevere maggiori energie dal sistema aerobico. Vediamo nelle specifico come funziona.

     Passando alla parte pratica, consiglio di avvicinarsi a questo metodo facendo uso di un versaclimber o, in alternativa, di una semplice cyclette. Ciò che si deve fare è regolare la resistenza dell’attrezzo al massimo e poi pedalare (nel caso in cui si usi, a questo punto, una cyclette). L’attenzione ora si sposta su due cose: non si devono superare mai i 20-30 rpm né la soglia anaerobica dell’atleta, che dovrà quindi mantenersi in un range aerobico. L’allenamento richiederà l’impiego di un cardiofrequenzimetro che possa permettere un controllo costante del battito cardiaco. Ogni pedalata è un lavoro a sé stante che prevede la massima concentrazione e resa dell’atleta; ogni pedalata dovrà poi essere seguita da una breve pausa di pochi secondi per permettere agli arti di alternarsi senza spreco di energie. Questo metodo d’allenamento innovativo può essere applicato sia in preparazione a un match o una gara, sia nella fase di recupero attivo dopo un allenamento specifico di MMA, come uno sparring. Nel primo caso il mio consiglio è quello di effettuare due round da venti minuti ciascuno intervallati da una pausa di circa dieci minuti, questo non più di una o due volte in settimana durante il periodo di sviluppo dell’allenamento di tipo aerobico. Nel secondo caso si parla di un lavoro di venti minuti il giorno stesso dello sparring, a distanza di qualche ora dall’allenamento. Nel caso in cui si voglia usare questo tipo di metodo durante i training camp, bisogna tenere presente che esso va affiancato da sessioni di allenamento pliometrico (tra qualche riga capirete perché).

     L’alta resistenza che utilizziamo per svolgere un allenamento con il metodo HICT forza l’utilizzo delle fibre muscolari a contrazione veloce. Sappiamo che le FT (fibre a contrazione veloce o di tipo II) sono tendenzialmente più grosse delle ST (fibre a contrazione lenta o di tipo I) e questo aspetto, unito alla capacità di contrarsi più velocemente, conferisce alle FT la capacità di sviluppare maggiore potenza durante una contrazione. Al contrario delle ST, geneticamente predisposte a svolgere un lavoro aerobico (e quindi di resistenza) grazie all’elevato numero di mitocondri e di enzimi aerobici che intervengono nella produzione di ATP. Le FT, in presenza di ossigeno, nel processo della respirazione cellulare, contengono elevate concentrazioni di creatina-fosfato e di enzimi anaerobici e una scarsa densità mitocondriale. Queste condizioni si verificano, nella creazione di ATP, principalmente attraverso le vie metaboliche anaerobica alattacida e lattacida. Ciò permette alle FT di ottenere energia più velocemente attraverso il metabolismo anaerobico, traducendosi in una contrazione più rapida e quindi più potente. Tuttavia, la loro scarsa capacità aerobica ne causa un rapido affaticamento.

     Nell’uomo le fibre FT sono classificate in due sottocategorie, le fibre FTa (o fibre muscolari di tipo IIa) e le fibre FTx (dette una volta anche fibre muscolari di tipo IIb). Le FTa possiedono un maggior numero di mitocondri ed enzimi aerobici delle FTx , e si caratterizzano per una migliore resistenza allo sforzo rispetto alle ST; risulta quindi evidente che le FTx siano le fibre più facilmente affaticabili di tutte ma anche le più voluminose e rapide nella contrazione, generando una potenza di contrazione doppia delle fibre FTa e quasi 10 volte superiore alle fibre ST (Widrick, et al, 1996b).

     L’ordine di reclutamento delle fibre muscolari durante uno sforzo va dalle fibre ST alle fibre FTx, man mano che l’intensità aumenta. Questo è dovuto alla diversa natura dei motoneuroni che innervano le unità motorie contenenti fibre a contrazione lenta (ST) i quali, più piccoli, hanno bisogno di uno stimolo nervoso minore per eccitare le loro unità motorie a contrarsi rispetto ai motoneuroni che innervano le unità motorie contenenti fibre a contrazione rapida (FT). Questi ultimi, più grandi, richiedono infatti un maggiore stimolo nervoso per eccitare alla contrazione le rispettive unità motorie. Più semplicemente, l’ordine di reclutamento delle fibre nervose è il risultato della potenza necessaria per svolgere un movimento e non della velocità necessaria per compierlo; man mano che lo sforzo cresce, le fibre FTa vengono reclutate per assistere le fibre ST e, solo successivamente, quando lo sforzo si avvicina alla massima intensità, intervengono le fibre FTx (Wilmore and Costill 1999).

     Nella letteratura scientifica è ben documentato che le capacità aerobiche delle fibre veloci, sia FTa che FTx, possono aumentare con l’allenamento; se utilizzate per compiere un lavoro, le fibre, attraverso un aumento della capillarizzazione, del numero e del volume mitocondriale, migliorano queste capacità (Holloszy 1967). Con l’HICT costringiamo il nostro sistema motorio al reclutamento di un alto numero di fibre a contrazione veloce attraverso l’uso di una forte resistenza, che obbliga i nostri muscoli ad utilizzare il massimo della potenza disponibile per compiere un movimento reclutando il maggior numero possibile di fibre FTx. La continuità di questo allenamento, caratterizzato da brevi pause di pochissimi secondi tra una forte contrazione e l’altra, non permette al corpo di ricreare la creatina-fosfato, che si consuma nelle prime contrazioni, in quanto la velocità di ri-sintesi di valori apprezzabili di questa molecola si aggira intorno ai 60-90 secondi. La rigenerazione incompleta di questa molecola costringe le fibre veloci ad affidarsi alla glicolisi anaerobica (metabolismo anaerobico lattacido) e al metabolismo aerobico. Come risultato, le fibre FTx migliorano la capacità di assorbire l’ossigeno dal circolo sanguigno e di trasportarlo ad un numero crescente di mitocondri che si rendono disponibili al metabolismo aerobico. Quando la capacità di prelevare ossigeno dal torrente circolatorio viene migliorata, il risultato potrebbe essere anche un incremento del VO2max (parametro biologico che esprime il volume massimo di ossigeno che un essere umano può consumare nell’unità di tempo per contrazione muscolare). La bassa frequenza di questo allenamento permette, inoltre, di mantenere questo tipo di lavoro per un periodo di tempo più lungo, e di migliorarlo man mano che le fibre FTx sviluppano capacità aerobiche sempre maggiori. Inoltre, la quantità di ATP cresce prima dell’affaticamento, fornendo una continuo e adeguato apporto di ossigeno grazie alla contenuta velocità del ritmo cardiaco che si mantiene sempre al di sotto della soglia anaerobica. La soglia di affaticamento muscolare di queste fibre, quindi, migliora permettendo di compiere sforzi ad altissima intensità per più tempo.

     Una spiacevole conseguenza del miglioramento delle capacità aerobiche delle fibre FTx dato da questo tipo di allenamento sembrerebbe essere la diminuzione della velocità di contrazione e della dimensione delle stesse, in quanto l’incremento di queste capacità causerebbe l’acquisizione da parte delle fibre FTx di caratteristiche tipiche delle fibre FTa (Anderson, Klitgaard, and Saltin,1994; Widrick et al.,2002), comportando una diminuzione della potenza di contrazione. È importante quindi integrare questo allenamento con sedute di pliometria, un allenamento che permette di migliorare la velocità di contrazione nelle singole fibre muscolari (Malisoux et al.,2007).

Andersen, J.L., H. Klitgaard, and B. Saltin. (1994). Myosin heavy chain isoforms in single fibres from m.vastus lateralis of sprinters: influence of training. Acta Physiologica Scandanavia, 151: 135-142.

Fitts, R.H. and J.J. Widrick. (1996). Muscle mechanics: Adaptations with exercise-training. In J.O. Holloszy  (Ed.) Exercise and Sports Sciences Reviews (pp. 427-443) Baltimore MD: Williams and Wilkins.

Henriksson, J. and J.S. Reitman. 2008. Quantative measures of enzyme activities in Type I and Type II muscle fibers of man after training. Acta Physiologica Scandanavica, 97(3): 392-397.

Holloszy, J. (1967). Effects of exercise on mitochondrial oxygen uptake and Respiratory enzyme activity in skeletal muscle. The Journal of Biological Chemistry. 242(9): 2278-2282.

Jensen, L., J. Bangsbo, and Y. Hellsten. (2004). Effect of high intensity training on capillarization and presence of angiogenic factors in human skeletal muscle. Journal of Physiology, 557: 571-582.

Malisoux, L, M. Francaux, H. Nielens, P. Renard, J. Lebacq, and D. Theisen. (2007). calcium sensitivity of human sincle muscle fibers following plyometric training. Medicine and Science in Sports and Exercise, 38: 1901-1908.

Tabata, I, K. Nishimura, M. Kouzaki, Y. Hirai, F. Ogita, M. Miyachi, and K. Yamamoto. (1996). Effect of moderate-intensity endurance and high-intensity intermittent training on anaerobic capacity and VO2max..

Medicine &amp; Science in Sports &amp; Exercise, 28(10): 1327-1330.

Widrick, J.J. S.W. Trappe, C.A. Blaser, D.L. Costill. 1996. Isometric force and maximal shortening velocity of single muscle fibers from elite master runners. American Journal of Physiology, 271: C666-675

L’articolo: HICT: un metodo innovativo per le MMA è di Lochner Emanuele
Per informazioni e contatti lo trovi su Instagram/Facebook: Lochner Emanuele

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La Dieta Flessibile

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La Dieta flessibile racchiude un concetto molto ampio che ha bisogno, necessariamente, di essere analizzato. Alla base della sua “filosofia” c’è il cercare un compromesso tra il miglior approccio dietetico ed una sostenibilità nel tempo. Scopriamolo assieme!

Cos’è la dieta flessibile?

Anzitutto cerchiamo di capire di cosa si tratta. Normalmente si intende con questo termine qualsiasi approccio all’alimentazione che preveda il venir meno dei tradizionali paletti della dieta “bro”.

Per esempio:

  1. Scelta delle fonti. Che può non esser ristretta ai soli riso, merluzzo, broccoli e pollo. La variazione delle fonti è qualcosa di sicuramente più sostenibile, in questo caso però suggeriamo di andarci cauti e dunque di non eccedere con il “junk food”. Rispettare comunue una logica, per esempio con un alto quantitativo glucidico prediligere fonti poco fibrose per non gravare sull’apparato gastrointestinale, non eccedere con gli acidi grassi più dannosi come il laurico etc…
  2. Mangiare o non mangiare ogni tot ore. In questo caso si può sicuramente stare sereni, oltre alla cura del peri-workout il nutrient timing influenza ben poco la composizione corporea nel lungo periodo. Organizzarsi in primis da un punto di vista lavorativo/sociale è la soluzione migliore.
  3. Macros e grammature. Molti approcci dietetici prevedono il mangiare ad libitum (a sazietà) restringendo eventualmente le fonti tra cui poter scegliere (ad esempio la Dukan o la dieta Lemme). Questo è l’aspetto più delicato che influisce di più sulla riuscita del piano nutrizionale. Possiamo però dire che, posti certi limiti, possiamo ottenere un po’ di flessibilità anche qui.

Capiamo bene che la dieta flessibile può essere tante cose. Abbiamo anche visto (vediamo tutti i giorni) che ognuno la applica e la vive come meglio crede e si sente.

La nostra proposta di Dieta Flessibile

Andiamo dunque ad analizzare quello che può essere un valido approccio all’alimentazione che ci permetta al contempo di avere una sostenibilità sul lungo periodo.

Disclaimer: non si tratta di una valida alternativa rispetto alla classica dieta “bro”. Il monitoraggio costante di tutte le variabili del caso rappresenta comunque la strategia migliore. Se però non siete professionisti o ancor di più agonisti, l’applicazione di questi consigli può essere esrtemamente conveniente, soprattutto se state iniziando a martellarvi i cosidetti a forza di tapperware e shakers.

Contate i macros in maniera orientativa

Primo step è quello di impostare una giornata tipo. Scegliere gli alimenti e nerdeggiare sull’app del caso. A quel punto avete un piano sul quale muovervi e modificare ad occhio o in maniera orientativa le varie fonti. Al posto del basmati mettete l’avena o qualche cereale integrale. Fate delle modifiche dei macros senza troppi calcoli in modo da rispettarli il più possibile ma non impazzite.

Anche per quanto riguarda la grammatura, se da una parte all’inizio può essere necessaria, man mano che ci facciamo l’occhio possiamo anche farne a meno, non saranno quei pochi g di differenza  a mettere a rischio la nostra composizione corporea.

Impostate un timing generale

Senza essere troppo maniacali stabilite un timing di base.

  1. Picco calorico e glucidico a ridosso dell’allenamento
  2. Lipidi lontani dallo stesso
  3. Proteine equamente divise

Rimando all’articolo sul cosa mangiare dopo la palestra, per ora basta osservare che la strategia si presta bene ad una dieta high carb e low fat in modo da poter far combaciare il picco calorico con quello glucidico.

Per approfondire questi argomenti scopri il nostro libro: Project Nutrition.

Project Nutrition

Prevedete uno o due giorni di ricarica

Rimando anche in questo caso ad un precedente articolo, quello sul Cheat Day. Due rapidi consigli applicativi:

  1. Sottostimate l’introito calorico settimanale in modo da avere più margini di sgarro e poter mangiare a sazietà (ad libitum).
  2. Non siate troppo fiscali con i giorni, abbiate un margine di deroga (per es. nei giorni del weekend)

Non mi sto contraddicendo rispetto a quel di cui ho parlato in altre sedi. Come ho detto non è la migliore strategia in assoluto, è semplicemente un compromesso.

Allenatevi

Allenatevi TANTO, ricordandovi sempre che il volume/frequenza d’allenamento dipendono da quanti anni vi allenate. Più siete “esperti” e più la vostra capacità di sopportare il lavoro cresce. Seguite, nello specifico, due importanti idee:

  1. Alto Volume. In modo da gestire meglio gli eventuali eccessi calorici.
  2. Alta Frequenza. In modo da poter contare su di un partizionamento dei nutrienti che verranno, pertanto, veicolati per lo più nel miocita (grande vantaggio in periodi di iperalimentazione).
Conclusioni

Questi 4 consigli sono piuttosto semplici, non si vuole dimostrare nulla o avanzare alcuna pretesa. Non è una panacea ma solo, lo ripeto, un compromesso. Bisogna, nella maggior parte dei casi, fare un passo indietro per capire dove si è e dove si vuole arrivare. Ognuno avrà i propri pesi sulla bilancia, ognuno potrà decidere quel che è meglio per sè. L’importante è saperlo fare in maniera obiettiva. L’importante, in fondo, è essere flessibili :)

Dieta Flessibile

NOTE SULL’AUTORE 
L’articolo: Cheat day / cheat meal  è di  Ludovico Lemme
Personal Trainer certificato ISSA e studente SaNIS (scuola di nutrizione e integrazione sportiva). Segue diversi atleti, sia dal vivo che online nel campo del Bodybuilding e del fitness in generale. Nel 2015 avvia il progetto Rhinocoaching con il quale si propone di creare una piattaforma di riferimento per i suoi atleti e per gli appassionati in generale.
Contatti: rhinocoachingofficial@gmail.com
Pagina FB: https://www.facebook.com/ludovicolemmemygrowth/
Sito Web: www.rhinocoaching.it

L'articolo La Dieta Flessibile sembra essere il primo su Project inVictus.

Ricomposizione corporea: la guida

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Ricomposizione corporea

Introduzione

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Abbiamo cercato di fornirvi piccole nozioni pratiche per personalizzare un piano in modo sensato su un soggetto ed evitare i classici errori delle diete super veloci.

Partiamo sempre dal presupposto che per dimagrire o per incrementare massa muscolare ci vuole TEMPO, PAZIENZA, DISCIPLINA e seguire un piano accurato e personalizzato.

Detto questo, anziché attuare un programma super veloce in modo poco sensato vi proponiamo degli esempi e divisioni di programmazioni che sicuramente daranno più risultati e meno effetti collaterali.

Non ci fermeremo a parlare tanto della parte teorica (se non per pochi punti in modo da sfatare dei falsi miti e farvi approcciare meglio alla dieta) ma cercheremo di arrivare subito al succo (cosa che tutti preferiscono, visto che il tempo stringe). Qualora vogliate approfondire tutte le nozioni da sapere per quanto riguarda l’alimentazione potete trovarle nel libro PROJECT NUTRITION, che invitiamo a leggere.

Perché una guida gratuita sulla ricomposizione corporea?

Sono ormai anni che lavoriamo e siamo atleti di uno degli sport forse meno capiti e meno seguiti in Italia, ovvero il Natural Body building, ma tramite la nostra passione e il nostro studio cerchiamo di diffondere quelle che sono le nostre esperienze sul campo cercando di evitare a tante persone di cadere nei nostri stessi errori da “mito da spogliatoio”.

Chi siamo

Fabrizio e Daniele

Siamo 2 personal trainer, atleti, preparatori e consulenti online con l’aspetto molto critico del nostro lavoro e sempre alla ricerca di nuovi modi, nuovi approcci per trarre il meglio e il miglior risultato possibile.

Ci occupiamo ormai da anni di ricomposizione corporea su tutti i tipi di persone (a partire da un classico sedentario fino all’atleta che ha come scopo l’agonismo), abbiamo avuto la fortuna di lavorare con centinaia di persone e testare vari protocolli.

Ci siamo appassionati a questo sport e lavoro continuando a scoprirlo e ad amarlo ogni giorno di più vedendo come con un piccolo contributo si riesce a cambiare la vita delle persone e renderla migliore. Crediamo che il corpo sia una macchina perfetta che ci è stata affidata alla nascita, sarebbe un peccato non scoprire tutto il suo potenziale.

Una buona ricomposizione corporea darà maggiore benessere, maggiore salute e maggiore capacità di affrontare la vita, ecco perché vogliamo dare questo nostro piccolo contributo a tutti voi.

Ma il nostro lavoro non finisce qui, per restare sempre aggiornati su tutti i nostri argomenti che possano migliorare il modo di allenarsi e alimentarsi abbiamo un nostro sito internet: www.naturalbodytraining.it dove ogni settimana saranno pubblicati vari articoli e video su alimentazione, integrazione, allenamento e ricette fitness dei nostri fit-chef.

Ma adesso finiamo con le chiacchiere e passiamo alla pratica.

Come impostare un piano per il dimagrimento e la ricomposizione corporea

Molto spesso quando un atleta o un semplice utente da palestra decide di voler dimagrire la prima cosa che fa è quella di mangiare meno, insieme vedremo se questa è veramente l’unica soluzione e se questo porterà realmente a dei benefici?

Partiamo dalle basi e capiamo meglio cosa porta ad una perdita di grasso.

Il primo punto da chiarire è la differenza tra perdita di peso e perdita di grasso, pesarsi e trovarsi con qualche etto in meno sulla bilancia non è detto sia dimagrimento, il peso può essere perso per diversi motivi: una maggiore diuresi, minore ritenzione idrica, diminuzione del glicogeno muscolare, ecc.

Chiarito questo primo e importante punto passiamo a capire realmente quanto tempo ci vuole per dimagrire.

Dimagrire o ingrassare è dato principalmente da una abbassamento o un surplus calorico di settimane o mesi e non da un cambio calorico momentaneo, quindi, non è la variazione calorica momentanea che fa dimagrire ma principalmente è il deficit energetico prolungato nel tempo. Proprio per questo se avete deciso di fare una settimana detox (che va tanto di moda specie nei periodi post feste o pre estate) per dimagrire e recuperare il peso preso in quei giorni o settimane di abbuffate, ci dispiace dirvi che state sbagliando strada.

In una settimana di abbuffata realmente avrete messo su pochi etti di grasso, il resto dei chili che vedete sulla bilancia sarà formato da ritenzione idrica e glicogeno, quindi mettetevi in riga, bevete tanto, allenatevi e in pochi giorni sarà tutto sistemato, senza dover adottare nessuna strategia estrema.

Un altro punto importante è capire se è veramente necessario “fare la fame” in una dieta per il dimagrimento.

Come abbiamo detto prima si deve necessariamente creare un deficit calorico che dovrà essere prolungato nel tempo, quindi quello di cui abbiamo bisogno è una buona testa e la capacità di sacrificarsi e tirare avanti (i risultati che si otterranno durante il percorso vi ripagheranno di tutti i sacrifici).

Ma si deve per forza mangiare meno per dimagrire? Il deficit calorico è dato dal rapporto tra le calorie ingerite e quelle consumate e ciò può essere creato in due modi:

  • Aumentare il consumo energetico (incremento dell’allenamento, dell’attività non sportiva, ecc.)
  • Diminuzione dell’introito calorico giornaliero o settimanale

Ad esempio:
Se un soggetto con un metabolismo totale di 2700 Kcal e peso corporeo di 70kg si allena 3 volte a settimana e ha una vita sedentaria volesse avere un dimagrimento dovrebbe consumare circa 2400 Kcal al giorno, quindi mangiare meno, oppure, in alternativa potrebbe aumentare una seduta di allenamento settimanale e incrementare il consumo durante il giorno (anche con semplici attività come andare a fare la spesa a piedi, fare una camminata per portare il cane a fare i bisogni, fare le scale e non prendere l’ascensore, ecc.). L’incremento di queste attività porteranno ad un consumo calorico maggiore portando il suo metabolismo totale a 3000 kcal e quindi potrebbe anche mangiare di più (2700 Kcal al giorno invece delle 2400 che avevamo previsto) e avere lo stesso un dimagrimento in quanto il deficit calorico rimane sempre più o meno di 300 Kcal/die.

Come abbiamo capito le diete a breve termine non sono poi così produttive come sembra, quindi vediamo come possiamo gestire un piano nel lungo periodo, se mi trovo a cena fuori o comunque se capita un giorno in cui si mangia di più.

Questo è un argomento importante perché più che per la restrizione calorica, la maggior parte delle volte una dieta fallisce proprio perché permette zero vita sociale, quindi, visto che i risultati reali li avremo nel medio/lungo periodo avremo la necessità di avere un approccio sostenibile, flessibile e gestibile, in modo che ogni tanto ci si possa concedere un’uscita con gli amici che permetta di affrontare la dieta per più tempo e con la giusta “costanza”.

Ritorniamo sempre alle solite, dobbiamo metterci in testa che se si vuole dimagrire è necessario un “DEFICIT CALORICO” giornaliero, settimanale o mensile (di solito preferiamo quello settimanale perché più semplice da tracciare e tenere sotto controllo).

Fissiamo quindi le calorie giornaliere e le moltiplicamo per 7 in modo di avere le calorie totali settimanali, queste calorie possono essere gestite durante la settimana, ad esempio:
impostiamo 2000 Kcal al giorno da consumare, cioè 14000 Kcal settimanali, se ho in previsione per il sabato una cena fuori, posso fare in modo da consumare 1800 calorie al giorno tutti gli altri giorno della settimana e sabato poter avere una rimanenza di 3200 Kcal da poter mangiare, quindi posso andare tranquillamente a cena con gli amici e comunque continuare a dimagrire.

Questo può portare il giorno dopo ad avere un po’ di peso in più sulla bilancia, dato dalla maggiore quantità di cibo ingerita o anche dalla quantità di acqua trattenuta (in quanto la quantità di sale non sarà uguale e i cibi saranno diversi) ma comunque la situazione nel giro di pochi giorni si sistemerà e si continuerà più motivati che mai verso l’obiettivo finale.

 Valutare il punto di partenza è fondamentale per la riuscita del piano

Dopo questi fondamentali spunti teorici che riteniamo molto importanti finiamo e passiamo senza tanti giri di parole alla parte pratica.

Ormai è risaputo da anni che la dieta migliore per la ricomposizione corporea sia quella del melone, quindi basta che 2 settimane al mese mangiare colazione, pranzo e cena un melone intero. Facendo questo eviterete problemi di salute e dimagrirete. Grazie a tutti e buona dieta.

ALT!!! Scherzavamo ovviamente, quindi ritorniamo seri e iniziamo a parlare del piano alimentare da programmare.

Come da titolo, il primo punto per una buona riuscita del piano è analizzare il punto di partenza da dove partiamo.

Dividiamo il tutto in modo schematico cosi da renderlo il più chiaro possibile:

  • Analizziamo la situazione di partenza e valutiamo con strumenti di misurazione (per quanto imprecisi siano) il livello di grasso (vedi articolo sulla plicometria)
    Più un soggetto è in sovrappeso e più nella prima parte del dimagrimento tenderà a bruciare più grasso a discapito della massa muscolare, più ci si abbassa con il grasso e più si deve stare attenti con i tagli per evitare di “bruciare” tutti i tanto amati muscoli.
  • Programmare il “tempo”
    Nel successo di una dieta la componente fondamentale è il tempo, si deve fissare un obiettivo, valutare il percorso che si deve fare e stimare il tempo che ci si deve impegnare per arrivare a tale obbiettivo, logicamente più tempo più le cose saranno fatte bene, quindi non aspettate giugno per voler dimagrire in 3 settimane prima delle vacanze estive perché questo, come abbiamo già detto, non vi porterà da nessuna parte.
  • Assicuratevi di avere una buona attivazione metabolica prima di partire
    Questo perché se state consumando 800 Kcal al giorno e non dimagrite o ancora peggio mettete peso, avete “bloccato il metabolismo”, questo purtroppo non vi farà dimagrire nemmeno stando a digiuno, quindi vi consigliamo prima di partire con una dieta di verificare “quanto” mangiate attualmente. Se vi rendete conto di magiare troppo poco avviate una REVERSE DIET e salite piano piano con la calorie soprattutto derivate dai carbs, molto lentamente di settimana in settimana (senza entrare nelle 1000 funzioni utili che svolgono i carboidrati e detto in modo molto semplice tendono ad accelerare il metabolismo).

Questi dati ci daranno un idea di quello che ci aspetta e in che direzione andare.

Un piano alimentare ha bisogno di essere personalizzato sul soggetto e ci sono miriade di approcci diversi che comunque danno ottimi risultati, cercheremo comunque di delimitare questo in 2 esempi di protocollo di dimagrimento che a seconda dei dati raccolti (percentuale di grasso, tempo a disposizione, attivazione metabolica) avranno strategie diverse.

Sappiamo bene che questi esempi saranno approssimativi e magari poco professionali, ma serviranno semplicemente a darvi un idea di come si può strutturare un programma di dimagrimento in modo sensato.

Nel momento in cui vi andrà di iniziare un percorso insieme a noi ci troverete presso la palestra FITNESS LEVEL di Roma oppure potrete usufruire del nostro servizio di consulenza online da qualsiasi parte d’Italia, per i contatti trovate tutte le info e i contatti sul nostro sito: www.naturalbodytraining.it

Ricomposizione corporea: la pratica

Protocollo ricomposizione corporea 1:
  • Soggetto: Sovrappeso (BF >20% uomo, >25% donna)
  • Attivazione metabolica: BASSA (-uomo, consumo 1200 Kcal al giorno, 3 allenamenti settimanali; –  donna, consumo 800 Kcal al giorno, 3 allenamenti settimanali)
  • Tempo a disposizione: 10 settimane
  • Perdita di grasso stimata: 7%

Iniziamo con il primo esempio pratico e vediamo come lavorare al meglio per ottimizzare il dimagrimento nel tempo a disposizione.

Come visto precedentemente iniziamo con un’analisi sul soggetto stimando (in linea di massima e con gli strumenti che si hanno a disposizione) la massa grassa della persona.

Attenendoci ai dati sopra elencati ci troviamo a lavorare su un soggetto con una percentuale molto alta di adipe quindi sappiamo già che ci sarà un bel lavoro da fare.

Come secondo punto di analisi cercheremo di stimare di che attivazione metabolica dispone la persona. Faremo una settimana di test dove l’individuo dovrà annotare tutto quello che mangia e tutti i pesi corporei giornalieri (presi a digiuno al mattino appena svegli) in modo da calcolare in maniera stimata le calorie medie giornaliere, questo ci permetterà di capire le calorie che mangia e le risposte che danno in base alle variazioni di peso.

Sempre tenendo conto dei dati del nostro esempio capiamo che il soggetto consuma una media giornaliera di 1200 Kcal e che il peso rimane costante nei giorni. Questo ci fa capire che ha un metabolismo non del tutto efficiente e che quindi il primo passo sarà quello di lavorare su una buona attivazione metabolica prima di cercare un dimagrimento.

Il terzo punto da analizzare è il tempo (fattore fondamentale per fare le cose fatte bene), purtroppo meno tempo avremo a disposizione più sarà accentuata la perdita di massa muscolare e più il protocollo non sarà cosi salutare per il soggetto, sarebbe ottimale prendersi tutto il tempo necessario ed iniziare la dieta prima possibile.

Tuttavia ci sono sempre soggetti a cui piace “morire” per poche settimane quindi cerchiamo comunque di dare almeno un protocollo sensato in modo che, anche sbagliando, avranno comunque dei risultati, nell’esempio proposto abbiamo a disposizione 10 settimane.

Bene, come procediamo:

cerchiamo di costruire una buona attivazione del metabolica e prima di poter scendere con la dieta è consigliato arrivare almeno a:

  • 5/7g di carboidrati x peso corporeo
  • 0,5/0,7g di grassi x peso corporeo
  • 1,5/1,8g di proteine x peso corporeo

Avviamo una lenta REVERSE DIET (vedi l’articolo sul sito) con piccoli aumenti settimanali di 100/300 Kcal principalmente derivanti (almeno per la parte iniziale) dai carboidrati in quanto capaci di stimolare meglio il metabolismo, andando avanti fino al raggiungimento delle quote minime sopra elencate.

Facendo un calcolo approssimativo e stimando un aumento settimanale di 300 Kcal per le prime 3 settimane e di 200 Kcal per la quarta settimana ci troveremo un soggetto che passa dalle 1200 Kcal iniziali a 2300 Kcal, magari anche prendendo 1 punto percentuale di grasso ma finalmente con un metabolismo “attivo” (per molti sembreranno settimane perse ma saranno di fondamentale importanza per avere successo in questa impresa).

Programma di allenamento per le prime 4 settimane:

  • Divisione: Multifrequenza upper / lower
  • Frequenza: 4 sedute settimanali
  • Tipo di esercizi: 1 Multiarticolare + 1 isolamento
  • Ripetizioni: multiarticolare 3/5 rip. – isolamento 8/10 rip.
  • Riposo tra le serie: 90/150”
  • Serie: 4/6 Multiarticolare – 3/4 isolamento

Dopo le prima 4 settimane ci troveremo con un kg e un punto percentuale di massa grassa in più e mancano solo 6 settimane per arrivare dell’obbiettivo prefissato. In questo caso proponiamo un approccio che nonostante sia drastico darà i suoi frutti, il protocollo sarà un ULTIMATE DIET 2.0 di Lyle McDonald. McDonald è uno dei migliori tecnici al mondo ad approcciarsi sui protocolli low carbs per il dimagrimento, ha scritto vari libri, chinesiologo e scrittore laureato alla Università della California, Los Angeles (UCLA), e CSCS (Certified Strength and Conditioning Specialist), alto grado di certificazione rilasciato dalla NSCA.

Vediamo come verrà diviso il protocollo:

  • Giorno 1 e 2:

ALLENAMENTO:
Divisione: full body
Esercizi: multiarticolari giorno 1, isolamento giorno 2
Esercizi per gruppo muscolare: 1
Serie: 6
Recupero tra serie: 30/40”
Ripetizioni: 15/20

DIETA
Calorie: -50% delle calorie di mantenimento (Kcal raggiunte nell’ultima settimana)
Divisione macros:
– Proteine: 2,5g x peso corporeo
– Carboidrati: 30/50g max derivanti da frutta e verdura
– Grassi: il restante delle calorie, meglio se da MCT (olio di cocco, olio MCT)

  • Giorno 3:

ALLENAMENTO: riposo (opzionale LISS)
DIETA: uguale a giorno 1 e 2

  • Giorno 4:

ALLENAMENTO: (da fare nella seconda parte della giornata)
Divisione: full body
Esercizi: multiarticolari 1 + isolamento 1
Esercizi per gruppo muscolare: 2
Serie: 4 multiarticolari + 2 isolamento
Recuperi tra serie: 60/120” (se si vuole ottimizzare il tempo si possono eseguire anche in jump-set)
Ripetizioni: 8/10

DIETA AM:
tagliare ulteriormente il 25% dalle calorie giorno 1-2-3

DIETA PM e giorno 5:
Calorie (da post-workout e per tutto il giorno 5): +50% delle calorie di mantenimento (+50% delle Kcal della settimana 4)
Divisione macros:
– Proteine: 1,8g x peso corporeo
– Grassi: 0,5g x peso corporeo
– Carboidrati: fino a raggiungere le Kcal totali (da amidi)

  • Giorno 5:

ALLENAMENTO: riposo

  • Giorno 6:

ALLENAMENTO:
Divisione: full body
Esercizi: multiarticolari
Esercizi per gruppo muscolare: 1
Serie: 5
Recupero tra le serie: 120/240”
Ripetizioni: 3/5

DIETA:
Calorie: -15% delle calorie di mantenimento (settimana 4)
Divisione macros:
– Carboidrati: 40%
– Proteine: 30%
– Grassi: 30%

  • Giorno 7:

ALLENAMENTO: riposo
DIETA: come giorno 6

Sintesi (come da esempio mantenimento 2300 Kcal):

Giorno 1:                               -50%               (1150 Kcal)
Giorno 2:                               -50%               (1150 Kcal)
Giorno 3:                               -50%               (1150 Kcal)
Giorno 4 AM:                         -75%               (575 Kcal)
Giorno 4 PM + Giorno 5:       +100%             (4600 Kcal)
Giorno 6                                 -15%              (1950 Kcal)
Giorno 7:                                -15%              (1950 Kcal)

Media settimanale: 1790 Kcal
Abbassamento calorico settimanale: 3570 Kcal
Incremento del dispendio energetico tramite l’attività fisica
Perdita grasso stimata: 600/800g settimanali
Proseguiremo con questo protocollo per 3 settimane.

Siamo arrivati alla 8° settimana del nostro programma e mancano solo 3 settimane al traguardo, al momento tra l’effetto diuretico della dieta low carbs, la perdita di grasso e (cosa inevitabile per quanto possiamo minimizzarlo) di massa magra, ci troveremo 2/4kg in meno sulla bilancia quindi saremo passati da un peso di 71kg a 67kg ma soprattutto ci vedremo molto meglio allo specchio visto la minore acqua sottocutanea e grasso.

Il ciclo continua a farsi duro, ma voi determinati e motivati andrete avanti.

Nonostante sia una dieta progettata ad onde per avere il minore abbassamento possibile del metabolismo e procedere perdendo più grasso e meno muscolo, dopo un periodo di tempo il nostro corpo, un po’ per il taglio calorico, un po’ per i vari adattamenti, andrà incontro ad uno stallo.

Per aggirare il problema procederemo con una settimana di attivazione metabolica, questa volta (visto il poco tempo a disposizione e la sua validità) la faremo con una FULL BREAK DIET, quindi si passa alle classiche calorie di inizio ciclo (2300 Kcal) shiftando sui carboidrati e tenendo al minimo proteine e grassi in modo da far ripartire il prima possibile il metabolismo.

Divisione macros consigliata:

  • Proteine: 1,5/1,8g x peso corporeo
  • Grassi: 0,4/0,5g x peso corporeo
  • Carboidrati: il resto delle calorie

Allenamento consigliato:

  • Divisione: multifrequenza upper/lower
  • Frequenza: 4 sedute settimanali
  • Esercizi: 1 multiarticolare + 1 isolamento
  • Ripetizione: multiarticolare 3/5 rip. – isolamento 8/10 rip.
  • Riposo tra le serie: 90/150”
  • Serie: 4/6 multiarticolare – 3/4 isolamento

Teniamo sempre sotto controllo il peso corporeo e con lo specchio ci aiutiamo a monitorare questi 7 giorni, dove sicuramente a fine ciclo avremo ripreso qualche etto tra acqua e glicogeno ma comunque avremo anche “mosso” il nostro metabolismo che girerà meglio (molte volte dobbiamo fare un passo indietro per farne 2 in avanti).

Tutto procede e ci rimangono altre 2 settimane dove andremo a ripetere il ciclo U.D. 2.0 di McDonald, magari possiamo utilizzare lo stesso introito calorico la prima settimana e nella abbassare un ulteriore 10% nei giorni 5-6-7 per ottimizzare la perdita di grasso.

Abbiamo così concluso il nostro primo esempio di programma, ora sicuramente guardandovi allo specchio sarete persone completamente cambiate e con molto meno massa grassa rispetto a 10 settimane fa, ricordatevi ad inizio ciclo di scattare delle foto (frontale, laterale e posteriore) per confrontarle con i risultati ottenuti a metà e a fine ciclo.

Ora aspettiamo solo il vostri prima a dopo!

Ricomposizione corporea donna

Protocollo ricomposizione corporea 2:

Soggetto: Normopeso (BF <12% uomo – <18% donna)
Attivazione metabolica: BASSA (uomo, consumo 1200 Kcal al giorno,  4 allenamenti settimanali – donna, consumo 800 Kcal al giorno, 4 allenamenti settimanali)
Tempo a disposizione: 8 settimane

Anche in questo secondo esempio pur partendo da un soggetto con meno grasso e sicuramente con meno lavoro da fare vediamo di gestire la situazione in poco tempo e con un protocollo che come al solito riesca a far avere i risultati voluti limitando i danni sui nostri tanto amati muscoli e sul nostro metabolismo.

Come ormai avremo capito analizziamo la situazione di partenza. Salta subito all’occhio che il metabolismo è poco attivo, quindi dobbiamo procedere prima con un lavoro sullo stimolo del metabolismo.

In questo esempio visto il poco tempo a disposizione e per proporvi un protocollo diverso dal precedente partiamo direttamente con una REVERSE DIET.

Iniziamo facendo un conteggio del metabolismo totale del soggetto con le classiche formule di calcolo o calcolatori che si trovano su internet (vedi formula di Harris e Benedict).

Per rimanere nei dati dell’esempio: un soggetto di 70kg con 4 allenamenti settimanali avrà all’incirca un metabolismo totale di 2300 Kcal al giorno.

Facciamo una media tra le calorie dell’esempio (1200 Kcal) e quelle del calcolatore (2300 Kcal), il risultato sarà il nostro punto di partenza, quindi 1750 Kcal. Inizieremo il programma con un primo aumento calorico, dalle 1200 Kcal alle 1750 della media (+550 Kcal).

Questa volta l’aumento sarà più repentino nella reverse del primo protocollo quindi dovremo valutare bene tutte le misurazioni e medie di peso settimanale per non andare troppo veloci e farsi prendere la mano mettendo su troppo peso.

Utilizzeremo dalla 1° alla 3° settimana per incrementare (sempre valutando bene i dati settimanali) l’introito calorico settimanale, aumentando dalle 100 alle 300 Kcal a settimana fino ad arrivare ai parametri che ci siamo fissati come obiettivo per una buona attivazione metabolica (5-7g di carboidrati x peso corporeo, 0,5/0,7g di grassi x peso corporeo, 1,5/1,8g di proteine x peso corporeo).

Una volta arrivati al nostro primo step passeremo al nostro vero protocollo per il dimagrimento per le restanti 5 settimane a disposizione.

Settimana 4:
Cercheremo di mantenere comunque sempre il metabolismo attivo introducendo una CARBS CYCLING. Per capire come impostare un taglio calorico con la carbs cycling partiamo dalle calorie settimanali.

Dividiamo i 7 giorni della settimana in:

  • 5 LOW CARBS            (giorni di abbassamento calorico)
  • 1 MEDIUM CARBS     (giorni di normo calorica)
  • 1 HIGHT CARBS         (giorni di iper calorica)

La divisione settimanale sarà:

  • Lunedì: LOW               (allenamento pesi)
  • Martedì: LOW             (allenamento pesi)
  • Mercoledì: MEDIO      (riposo)
  • Giovedì: LOW              (allenamento pesi)
  • Venerdì: LOW              (allenamento pesi)
  • Sabato: LOW               (riposo)
  • Domenica: HIGHT       (cardio LISS)


Tagliamo in media 300 Kcal al giorno ovvero 2100 kcal totali settimanali (più o meno il 10/12%), nei giorni HIGHT aumentiamo del 50% le Kcal di partenza (2100 + 50% = 3450 Kcal), nei giorni MEDI lasciamo le stesse calorie (2300 Kcal) mentre nei 5 giorni LOW dobbiamo togliere le 2100 programmate sommate alle 1150 che si consumano in più nel giorno HIGHT (2100 + 1150 / 5 = 650 Kcal, 2300 – 650 = 1650 Kcal nei giorni LOW).

Riepilogo:

  • 5 Giorni LOW: 1650 Kcal
  • 1 Giorno Medio: 2300 Kcal
  • 1 Giorno HIGHT: 3450 Kcal

Totale Kcal settimanale: 14000 (-2100 Kcal rispetto alla settimana 3)

Divisione macros:

  • Giorni LOW:
    • Proteine: 2,8g x peso corporeo
    • Grassi: 70% delle calorie rimanenti (preferibilmente omega 3 e MCT)
    • Carboidrati: a completare le calorie del giorno
  • Giorni MEDI:
    • Proteine: 2,5g x peso corporeo
    • Grassi: 20% delle calorie rimanenti
    • Carboidrati: a completare le calorie del giorno
  • Giorni HIGHT:
    • Proteine: 2g x peso corporeo
    • Grassi: 30% delle calorie rimanenti
    • Carboidrati: a completare le calorie del giorno

Allenamento consigliato:

  • Divisione: Multifrequenza upper/lower
  • Frequenza: 4 sedute settimanali
  • Esercizi: 1 Multiarticolare + 2 isolamento in super-set
  • Ripetizione: multiarticolare 3/5 rip. – isolamento 8/15 rip.
  • Riposo tra le serie: Multiarticolare 90/150” – isolamento 40/50”
  • Serie: 3/4 Multiarticolare – 3/4 isolamento
  • Cardio LISS: 20’ cammina veloce in pendenza

Settimana 5-6-7-8:

Valutare gli andamenti di peso settimanali, se tutto prosegue secondo i piani lasciate tutto invariato, altrimenti potete scegliere due opzioni:

  1. Incrementare il consumo aggiungendo il cardio (esempio: 15’ post allenamento di camminata in pendenza e passare da 20’ a 30’ la domenica, oppure se non si ha tempo inserire il cardio H.I.I.T.)
  2. Calcolare un ulteriore taglio delle calorie settimanali (in media un 10% in meno)

Alla fine di questo programma vi dovreste provare con un’ottima ricomposizione corporea e almeno 2 kg di peso in meno (tra acqua, grasso e, anche se a malincuore, un minimo di massa muscolare).

Da un 10/11% di grasso di partenza dovremmo trovarci ad un buon 7/8% (o forse anche meno) e con la tartaruga che inizia ad emergere dal letargo.

Ricomposizione corporea uomo

ALCUNE PRECISAZIONI:

Questi che vi abbiamo proposto sono solo esempi di un piano per il dimagrimento, i giorni possono essere divisi in modo diverso e come preferite, come detto all’inizio nel lungo periodo quello che conta sono le calorie totali settimanali, quindi prendete spunto dai nostri esempi, adattateli alle vostre esigenze e personalizzateli come meglio credete per rendervi il lavoro più facile.

Riteniamo azzardato scrivere un e-book sulla ricomposizione corporea in quanto le strade sono tante e dipende molto dal punto di partenza e dalla risposta del soggetto. Come al solito nulla è legge, ma speriamo che con questo nostro piccolo contributo e le premesse iniziali possiamo dare una mano a qualcuno per riuscire al meglio e in modo più sensato possibile a progettare un programma prima dell’estate, magari facendo risparmiare tempo e massa muscolare ottimizzando i risultati. Siate padroni dei concetti, applicarli sarà poi il passaggio successivo.

Logo NBT

Buona ricomposizione a tutti e aspettiamo i vostri feedback, ecco i nostri contatti:

Mail:
fabrizioliparotipt@gmail.com
corsidanielepersonaltrainer@gmail.com

Facebook:
Fabrizio Liparoti
Daniele Corsi
Natural body Training

Sito internet:
www.naturalbodytraining.it

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Piegamenti sulle braccia, validi o da scartare?

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Questo è un articolo complesso sulla biomeccanica dei piegamenti sulle braccia. Su cosa differiscono rispetto alla panca piana? Come lavorano i diversi muscoli? Un articolo per chi ha voglia d’approfondire, studiando, i piegamenti sulle braccia.

I push up o piegamenti sulle braccia (erroneamente chiamati flessioni), rappresentano un must nell’allenamento a corpo libero, non solo utilizzati nelle preparazioni atletiche come rafforzamento muscolare ma anche come sfida goliardica fra amici o come prova nei campi militari, restano uno degli esercizi piu noti del resistence training.
Perche scrivere un articolo sui piegamenti? sono semplici e gli amanti del ferro e della ghisa nemmeno li prendono in considerazione normalmente, ma è corretto? E’ un esercizio cosi da scartare a priori?

Biomeccanica e muscoli dei piegamenti sulle braccia

Io non penso, anzi sono convinto che abbiano notevoli potenzialità e siano molto sottovalutati, cercherò di spiegarvi il motivo analizzando gli aspetti biomeccanici.
Piu o meno tutti si sono accorti che una serie di piegamenti restituisce una sensazione differente rispetto a fare una medesima serie di panca piana, non è solo il fattore difficoltà, ma almeno personalmente il piegamento mi restituisce una maggior sensazione di “pump“.
I piegamenti restituiscono sensazioni uniche rispetto alla panca, perche sono differenti!
Cerchiamo di analizzare in cosa sono diversi.
Introduciamo il concetto di catena cinetica: come la sequenza coordinata di mobilizzazione e stabilizzazione dei segmenti ossei per produrre un movimento.
Gli arti ruotano attorno alle articolazioni e si spostano successivamente nello spazio per descrivere delle traiettorie che nel complesso generano il movimento, la dinamicità.

piegamenti sulle braccia biomeccanicaNella figura è rappresentata la schematizzazione della catena cinetica, le articolazioni sono cerniere, cioè snodi che possono solo far ruotare i segmenti ossei (rappresentati con delle linee continue), i vincoli W ed F esterni rappresentano le reazioni vincolari del terreno, mentre i pallini neri sono i vincoli interni.
Questo è un sistema necessariamente labile, ovvero si può muovere nello spazio, ma i gradi di libertà sono limitati dalla presenza del terreno.

Si possono distinguere due tipi di catene cinetiche:
-Aperte
-Chiuse

Ricordiamo che in anatomia, l’aggettivo “distale” o “terminale” sta ad intendere qualcosa lontano dalla linea mediale o dal centro del corpo, mentre “prossimale” sta ad indicare l’opposto, ovvero vicino alla linea mediale del corpo.

Nella catena cinetica aperta, l’estremità distale ( o il segmento osseo terminale) è libera di muoversi senza nessun impedimento, può quindi ruotare attorno al giunto (l’articolazione) terminale anch’esso libero di muoversi nello spazio.
Nelle catene cinetiche chiuse, l’estremità distale è limitata a muoversi da un vincolo esterno e lo stesso vale per il giunto terminale che quindi è fisso o si sposta solo contro resistenza.
Se la resistenza offerta dal vincolo all’estremità distale di una catena chiusa è inferiore al 15% della forza massima che si riesce ad esercitare, allora la catena si chiama frenata.
La pedalata è un esempio di catena cinetica frenata.

flessioni sulle braccia

La corsa o la camminata sono un’alternanza fra catena cinetica aperta e chiusa; quando il piede è a terra la catena è chiusa quando si solleva è aperta.
Piu il movimento richiede velocità e piu ci si sposta su catene cinetiche aperte.
Un esempio è il lancio di una palla nel baseball, nella pallavolo, nel calcio, nel tennis o nel rugby, la catena è aperta, il movimento è balistico e infatti l’avambraccio con la mano non hanno vincoli esterni; in una catena cinetica aperta la velocità espressa dal movimento aumenta spostandoci in direzione distale, ovvero verso l’estremità del corpo.

La panca piana è una OKC (Open kinetic chain) perche il gomito, che è il giunto terminale, è libero di andare dove vuole e lo stesso l’avambraccio, mentre i piegamenti sono CKC (Close kinetic chain) perche in questo caso avviene l’opposto, gomiti ed avambracci restano fermi.
Nella panca la resistenza è il bilanciere, nei piegamenti la resistenza è il terreno che è inamovibile, di conseguenza cambiano i punti fissi su cui avvengono i movimenti, quelli che sui piegamenti erano mobili diventano fissi sulla panca e viceversa.
Cos’è il punto fisso?
Il punto fisso è quel punto che non si sposta durante la contrazione e viene utilizzato per indicare la direzione e il verso del vettore forza generata dal muscolo motore, è in pratica il fulcro della leva.
Il capo d’origine di un muscolo è normalmente coincidente con il punto fisso, mentre l’inserzione è dove si muove. I muscoli possono avere piu inserzioni, ad esempio il bicipite ne ha due, il tricipite tre, il quadricipite quattro.
Il pettorale, ha un’unica inserzione sulla tuberosità dell’omero ma piu origini, quindi è composto da fasci, i cui nomi si riferiscono al punto d’origine stesso (clavicolare, sternale, addominale)

L’azione del pettorale normalmente si esplica sull’omero, ovvero fa muovere l’omero, ma prendendo il punto fisso sull’omero, la sua contrazione fa elevare il tronco, perche il vettore forza ha la stessa direzione ma verso opposto (Avviene lo stesso nelle trazioni).

Il bicipite in genere svolge sempre funzioni di flessore dell’avambraccio sul braccio, perche il punto fisso è sulla scapola, ma se lo inverto la funzione diventa quella di anteporre la spalla.

Nelle catene cinetiche aperte è necessario che gli stabilizzatori intervengano per fissare il segmento prossimale, mentre nelle catene cinetiche chiuse gli stabilizzatori intervengono per fissare il segmento distale; nella panca il giunto da stabilizzare è la spalla, nei piegamenti è il gomito.

Altra caratteristica è l’ordine di attivazione muscolare, nelle OKC è dal segmento prossimale verso quello distale, mentre nelle CKC è l’opposto, ma i muscoli motori principalmente interessati in entrambi gli esercizi sono pettorali, deltoidi anteriori e tricipiti.
Quello che si può osservare è che in un esercizio a catena cinetica chiusa, paradossalmente, i muscoli acquisiscono funzioni opposte a quelle a cui siamo abituati ad affidargli; il bicipite invece di flettere l’avambraccio aiuta la sua estensione.
E’ un muscolo biarticolare, agisce su due articolazioni, quella scapolo-omerale e quella del gomito.
Nei piegamenti quando il tricipite si contrae fa estendere l’omero (punto di rotazione sul gomito) e flettere l’avambraccio (punto di rotazione sul polso) , il bicipite si inserisce distalmente su quest’ultimo, cosi quando l’avambraccio ruota viene messo in tensione e di conseguenza tira prossimalmente la scapola.
Abbiamo un trasferimento di forza del tricipite alla scapola, mediato dal bicipite.
Quindi il movimento è realizzato principalmente da pettorali, tricipiti e deltoidi anteriori e stabilizzato da bicipiti, dorsali, deltoidi posteriori, cuffia dei rotatori, trapezio e gran dentato .

Il core è necessario nei piegamenti per mantenere il busto dritto, la fascia addominale con retto dell’addome, trasverso, obliqui, gli erettori spinali e i muscoli del bacino come lo psoas e il retto del quadricipite sono attivati isometricamente.

piegamenti sulle braccia

Fra i muscoli che stabilizzano il movimento, il gran dentato anteriore è sicuramente quello piu coinvolto, infatti fa aderire la scapola al torace, l’abduce e la ruota esternamente.
Nei casi di paramorfismi come le scapole alate, il gran dentato ( o serrato) è debole e non riesce a mantenere la scapola a contatto con la cassa toracica, quindi si presenta con il lato posteriore staccato e prominente verso l’esterno e questa condizione è esaltata dagli esercizi di spinta.
In questo caso è consigliato rinforzare il gran dentato, rimanendo in tema di piegamenti e movimenti a corpo libero un possibile esercizio può essere quello in cui da posizione di partenza dei push up si effettuano movimenti di abduzione e adduzione della scapola, con omero che rimane fermo nella posizione di partenza.

Negli esercizi CKC c’è una minor co-contrazione dei muscoli antagonisti, da questo ne deriva un minor carico concentrato (reazione vincolare) e meno stress sull’articolazione da stabilizzare.
(gomito nei piegamenti, spalla nella panca piana).

La co-contrazione dei muscoli “antagonisti” è un efficiente sistema del nostro organismo che ci permette di mantenere stabile un’ articolazione evitando perturbazioni della traiettoria indesiderate.
Il sistema nervoso controlla la contrazione dell’antagonista mediante dei sensori propriocettivi che inviano segnali alla centralina su tutte le variabili del movimento, come la velocità, l’allungamento o cambi di traiettoria dovuti a forze “parassite”.

Piu il movimento è libero, piu è instabile e maggiore è la richiesta di rigidezza da parte dei muscoli antagonisti che si dovranno contrarre per funzionare come ammortizzatori; per questo gli esercizi OKC richiedono una miglior coordinazione intramuscolare e intermuscolare rispetto ai CKC, quindi un’abilità propriocettiva maggiore, che è allenabile nel tempo ripetendo l’esercizio piu volte e imprimendo lo schema motorio nella corteccia motoria, in modo che il movimento diventi naturale, acquisito e che ogni sbavatura sia facilmente compensata immediatamente, cosi che pure la tensione degli stabilizzatori antagonisti si riduca al minimo necessario, senza disperdere energie.
Allo stesso tempo un sistema chiuso come i piegamenti ha piu gradi di vincolo e quindi meno possibilità di poter modificare il movimento, che diventa guidato, questo può far incorrere in problematiche laddove si presentino delle alterazioni morfologiche dell’apparato locomotore, perche ci possono essere distribuzioni non ottimali delle forze con tensioni in alcuni casi troppo elevate che portano nel tempo ad infortuni.

Una conseguenza importante dell’aumento dei gradi di vincolo e della riduzione dei gradi di libertà, quindi la forzatura della traiettoria e dei movimenti anatomici, è un aumento dello stress sulle articolazioni che sono a diretto contatto con la resistenza (polsi e caviglie).

Nei piegamenti il polso è stressato, sia perche la mano è forzatamente iperestesa sotto carico, sia perche il vincolo non permette la sua rotazione durante il movimento.
Inoltre l’iperestensione facilita le tendinopatie all’epicondilo laterale del gomito.
Lo stress aumenta ancor di piu se si tengono le mani molto strette senza ruotarle internamente, in quanto si generano delle tensioni di torsione sia sul polso che sul gomito.
Questo avviene pure nella panca piana (seppur il polso rimanga non iperesteso), mentre il problema è risolto dai manubri.
Vedremo nel prossimo articolo come poter superare la questione nei piegamenti.

Un eventuale problema posturale in un esercizio OKC può essere facilmente compensato, mentre in un CKC questo non avviene, ma è proprio perche la traiettoria è facilmente modificabile e adattabile che la correzione di uno schema motorio in un esercizio con piu gradi di libertà è piu difficile perche si tenderà sempre a ricercare la configurazione che permette di compensare il problema stesso, mentre nell’esercizio CKC, non potendo compensare, si agisce sulla resistenza stessa oppure si modifica il setup di partenza, ma non si può modificare la traiettoria durante l’esercizio.

Da questa analisi ne deriva che i piegamenti restituiscono un senso di maggior stabilità rispetto alla panca e ancor piu rispetto ai manubri, come tutti gli esercizi a catena cinetica chiusa, piu si riducono i gradi di libertà e aumentano i gradi di vincolo e maggiore è la stabilità del movimento, ciò rende anche piu facile concentrare la tensione sui muscoli motori, invece di disperderla sugli ausiliari e stabilizzatori.
Un completo neofita non riesce a fare panca piana, è scoordinato e non è capace di far seguire una traiettoria precisa al bilanciere, mentre lo stesso neofita riesce molto probabilmente a fare dei piegamenti in maniera corretta, quindi per un principiante sono sicuramente un opzione da considerare.
Ma anche per un intermedio/avanzato i piegamenti rimangono un ottimo completare che nella periodizzazione annuale non dovrebbe mai mancare.

L’articolo sui piegamenti sulle braccai è di Matteo Monaci

Matteo è l’amministrato di questo gruppo Facebook per chi volesse approfondire l’argomento.

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Panca piana al femminile

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Contrariamente a quanto si potrebbe pensare la panca piana è forse uno degli esercizi più difficili da fare in palestra, più dello stacco da terra e dello squat. Le ragazze hanno un’ulteriore difficoltà, data da una forza negli arti superiori, minore, in proporzione, rispetto agli uomini.

Vediamo come impostare una corretta panca piana in una ragazza, ma non solo.

Forza nelle braccia ed assetto del corpo

La panca piana è un esercizio globale, che pare dai piedi ed arriva alle mani. Il primo step da raggiungere è quello di riuscire a tenere in tensione il busto mentre si spinge. Per questo, in una donna, per acquistare forza sulle braccia, piuttosto che partire dai piegamenti sulle ginocchia, conviene farli al muro o su un rialzo.

Il corpo dovrà così tenere il CORE in tensione mentre spinge, imparando a contrarre simultaneamente muscoli addominali e braccia.

tenuta del core nei piegamenti sulle braccia

Mano a mano che la ragazza diventerà più forte, abbasserà il rialzo fino ad arrivare ai classici piegamenti sulle braccia.

piegamenti sulle braccia e panca piana

Nei piegamenti è essenziale mantenere i gomiti vicini al busto. Questo aumenta il range di movimento, protegge la spalla ed obbliga il gomito a rimanere in spinta senza compensi.

Approccio alla panca piana

Una volta che abbiamo sufficiente forza per fare 6-8 piegamenti perfetti possiamo approcciarci alla panca piana. Le cose da vedere sarebbero 1000. Ci soffermeremo sulla più importante per evitare di farci male, il settaggio delle spalle.

Molte persone si preoccupano dell’arco lombare e dei possibili rischi alla colonna vertebrale (vedi: panca piana dove mettere i piedi). In realtà nessuno si fa male alla schiena, quasi tutti alle spalle. Quindi massima attenzione all’anello debole, al cingolo scapolo-omerale.

Bisogna tenere le scapole addotte e depresse

scapole panca piana

Come se si avesse una noce da schiacciare tra le scapole e volessimo avvicinare le spalle al sedere. Per farlo molte persone si trovano bene a mettere i piedi sulla panca e a sollevare il bacino per spingersi contro lo schienale.

settaggio panca piana

Una volta posizionate correttamente le spalle, non dobbiamo perderle, mantenendo il petto in fuori ed alto per tutta la traiettoria, andando incontro al peso col petto, quando il bilanciere scende e mantenendo questo atteggiamento anche quando sale.

panca piana petto aperto

Quello che invece succede sempre agli inizi, ed è fondamentale accorgersene, è che le spalle si portano avanti di qualche cm. Sfuggono dalla loro loggia, il petto si chiude e l’alzata perde il corretto assetto.

panca piana

La panca piana sembra un esercizio facile, in realtà è molto più complesso di quanto si crede. Una ragazza che vuole sviluppare in modo armonico il suo fisico, non dovrebbe rinunciare a questo fantastico esercizio, però per poterne giovare appieno, senza farsi male, deve dedicarci del tempo, perchè questa è l’unica strada per fare la panca piana per bene.

Non c’è risultato senza costanza e senza impegno 😉

 

Se sei di PARMA o nelle vicinanze e vuoi imparare o semplicemente conoscerci, noi siamo in Via Rigoletto 6, 43126 Parma ti aspettiamo 🙂

Powerlifting Parma

Guarda anche gli altri nostri tutorial sulla panca piana

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Radicali liberi: cosa sono ed il loro ruolo biologico

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Cosa sono i radicali liberi? Perché li temiamo tanto? Centrano col farci invecchiare e con alcune malattie? E come possiamo difenderci dalla loro azione? Scopriamolo in questo articolo sui radicali liberi ed il loro ruolo biologico.

radicali liberi cosa sono e ruolo biologico

Per radicali liberi si intendono quelle molecole o atomi che possiedono un elettrone spaiato nell’orbitale più esterno, tradotto sono dei ladri di elettroni. Questa caratteristica chimica oltre a renderli instabili, li porta a ricercare un equilibrio appropriandosi dell’elettrone mancante attraverso reazioni con altre molecole quali: lipidi, carboidrati, proteine e acidi nucleici (DNA). In chimica questo tipo di reazioni sono dette di ossidoriduzione o redox, ovvero avviene uno scambio di elettroni tra due molecole dove una si ossida quindi perde elettroni mentre l’altra si riduce quindi li acquista; in questo caso si riduce un radicale libero mentre si ossida per esempio un lipide che di conseguenza diventa a sua volta instabile dando inizio ad una serie di reazioni a catena.

Normalmente ci preoccupiamo tanto delle caseine, del glutine, dell’olio di palma, ecc quando la perossidazione lipidica è veramente molto più dannosa per il nostro organismo.

azione radicali liberi

Il propagarsi di questa serie di reazioni e la durata dipendono sostanzialmente dall’azione di altre molecole dette agenti antiossidanti, in grado di cedere l’elettrone mancante e quindi di stabilizzare la reazione chimica andando a bloccare la catena.

Tra le principali forme di radicali liberi troviamo: anione superossido O2-, idrossile OH-, diossido di azoto NO2, ossido nitrico NO-, idrogeno H-, ossigeno O+, ossigeno singoletto O2+.

Da dove derivano i radicali liberi?

origine radicali liberi

L’essere umano è una macchina aerobica. Il suo metabolismo cellulare principalmente è quindi di tipo aerobico. Durante l’ossidazione dei nutrienti per ricavarne energia (ATP) forma alcuni sottoprodotti di scarto, molecole instabili cioè i radicali liberi dell’ossigeno (ROS). La formazione di queste molecole segue in modo proporzionale l’incremento del metabolismo energetico, ad esempio dovuto all’attività fisica intensa o di lunga durata, questa rappresenta la fisiologica produzione endogena di radicali liberi (vedi stress ossidativo e attività fisica). L’organismo per difendersi dalla formazione di queste sostanze instabili attiva sistemi tampone in grado mi mantenere in equilibrio il bilancio ossidativo.

Il ruolo biologico dei radicali liberi

È noto che i radicali liberi hanno un duplice ruolo nei sistemi biologici, sia benefico che dannoso. Mostrano un effetto benefico quando, ad esempio, vengono utilizzati dal sistema immunitario come agenti in grado di bloccare l’azione patogena di diversi microrganismi e specie batteriche (vengono usati dall’organismo come bombe biologiche contro agenti esterni), quando aiutano l’apoptosi (morte) delle cellule difettose o quando sono utilizzati come forma di comunicazione cellulare mediando la trasmissione di segnali biochimici tra le cellule.ruolo radicali liberi

Al contrario, se i radicali liberi sono in eccesso, possono essere danneggiate diverse componenti della cellula:in primis la membrana lipidica esterna, ma anche alcune proteine ed acidi nucleici. Questo porta a possibili danni a mantenimento dello stato di omeostasi fisiologica.

Antiossidanti sono davvero utili

Il termine antiossidanti indica tutte le molecole capaci di stabilizzare o disattivare i radicali liberi prima che essi danneggino le cellule, cioè andando a cedere un proprio elettrone esterno.

azione antiossidantiQuindi il nostro organismo è perfettamente in grado di bilanciare la fisiologica produzione endogena di molecole ossidanti, derivanti dal metabolismo aerobico, attraverso una serie di sostanze antiossidanti anch’esse di produzione endogena; il problema sorge quando vengono introdotti a livello esogeno, dall’esterno, ulteriori radicali.

Per esempio dal fumo di sigaretta, inquinamento atmosferico, cibo eccessivamente cotto o affumicato, raggi uv, farmaci e l’utilizzo di integratori di singole molecole antiossidanti che vanno solamente a modificare il meccanismo di equilibri che si crea tra i vari sistemi “tampone” dell’organismo, andando a creare una situazione di stress ossidativo che se protratto nel tempo porta a varie problematiche per la salute come il precoce invecchiamento cellulare e di conseguenza l’insorgere di varie patologie gravi come il cancro, malattie dell’apparato cardiovascolare, diabete, sclerosi multipla, artrite reumatoide, enfisema polmonare, cataratta, morbo di Parkinson e Alzheimer, dermatiti, ecc.

Dato lo stile di vita della popolazione al giorno d’oggi, è assolutamente fondamentale introdurre con l’alimentazione tutta una serie di molecole antiossidanti come:

  • Pigmenti vegetali: polifenoli, bioflavonoidi
  • Vitamine: vitamina C, vitamina E, betacaroteni (provitamina A)
  • Micronutrienti ed enzimi: selenio, rame, zinco, glutatione, coenzima Q10, melatonina, acido urico, ecc.

Per cercare di limitare l’azione dei radicali che entrano nell’organismo quotidianamente dall’ambiente esterno.

Considerazioni finali sui radicali liberi ed antiossidanti

radicali liberi e antiossidanti

Il nostro sistema di bilancio ossidativo funziona su equilibri complessi basati sulle interazioni tra le varie molecole pro e antiossidanti. Le molecole antiossidanti agiscono spesso interagendo tra loro, in quanto una singola molecola avrebbe un campo d’azione limitato ad un paio di radicali liberi, per questo motivo solo un’efficace interazione tra loro porta al risultato finale. Attraverso una dieta completa ed equilibrata, ricca di frutta e verdura di stagione dovrebbe essere garantito il raggiungimento dei fabbisogni giornalieri con un adeguato apporto di molecole in grado di svolgere azione antiossidante. Inoltre un soggetto allenato e sano, anche se l’esercizio fisico produce radicali liberi, è comunque in grado di fronteggiare la presenza di queste molecole in maniera nettamente più efficace rispetto ad un soggetto sedentario o che pratica attività fisica saltuariamente. Quindi il miglior modo per contrastare l’inevitabile invecchiamento cellulare è seguire uno stile di vita attivo e una corretta alimentazione.

Pensate che possa valer la pena d’integrare l’alimentazione con vitamine e minerali qual ora:

  • seguite una dieta ipocalorica
  • vivete in città inquinate
  • fate sport di resistenza
  • avete superato i 40 anni
  • fumate e/o bevete
Ma ricordatevi sempre che è l’equilibrio il segreto per la salute, nell’alimentazione di più non è mai meglio.

Note sull’autore:

L’articolo sui radicali liberi è del Dottor Riccardo Braglia
Laureato in Scienze Motorie Sportive e della Salute
Iscritto alla laurea magistrale in Scienze Motorie per la Prevenzione e la Salute Personal trainer FIF

BIBLIOGRAFIA

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Corti A., De Tata V., Pompella A. (2009). Agenti e meccanismi di stress ossidativo nella patologia umana. Ligand Assay 14 (1): 9-16.
Govoni S., Pelosi C., Racchi M. (2001). Stress ossidativo, demenza e invecchiamento: i confini incerti di un continuum biologico di difficile valutazione.

Iorio EL. (2006). Specie chimiche reattive e radicali liberi. Convegno “Radicali liberi e antiossidanti in medicina nello sport”

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Liu CY., Lee CF., Wei YH. (2009). Role of Reactive Oxygen Species-elicited Apoptosis in the Pathophysiology of Mitochondrial and Neurodegenerativen Diseases Associated With Mitochondrial DNA Mutations. J Formos Med Assoc ; 108(8): 599–611.

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Marketing vs Fuffa…come conoscere (e scegliere)

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Questo articolo si doveva intitolare: “La vera forza di uno spartano, è il guerriero al suo fianco” e voleva trasmettere l’idea che la vera crescita è collettiva. Non è che oggi un sito, un guru, ma neanche un ricercatore scientifico, si sveglia e rivoluziona l’ambiente. Il presente non è più del singolo, ma della squadra, del gruppo. Il project inVictus è nato come Polis, proprio per enfatizzare questa visione.

Questo articolo si doveva intitolare: Vendere bene, e voleva enfatizzare il concetto che per creare materiale di qualità ci vuole tempo e per poter dedicare del tempo, bisogna avere un ritorno economico. Quando abbiamo ideato il sito ci siamo dati tre anni prima di monetizzare. Non abbiamo mai spinto le affiliazioni esterne, non abbiamo mai accettato soldi facili che ci avrebbero fatto perdere di credibilità. Ovviamente il nostro portale non è una onlus umanitaria e mira a vendere, ma lo fa seguendo una sua etica, una sua filosofia della vita e del mondo. Possiamo piacere o non piacere, ma noi siamo così.

Questo articolo si doveva intitolare: Il Marketing ed il logorio del tempo, e voleva comunicare l’idea che tutti vendiamo, tutti vogliamo apparire come i paladini della giustizia e del bene collettivo (e sicuramente tutti ci autoconvinciamo di questo), ma l’unico modo per distinguere la realtà dalla finzione è il tempo. Nel lungo periodo è il tempo a decretare chi è vero da chi finge. Internet ha una grossa forza mette a confronto le diverse realtà e nel tempo si percepiscono le differenze.

Questo articolo si doveva intitolare in molti modi, ma la verità è che quello che oggi ci interessa è presentarvi una realtà nuova quella di Fit for Dummies, che sposa della sana informazione con una capacità espositiva ed un’allegria unica.

Quindi nello spirito della divulgazione, nello spirito del vendere sana informazione, vi presentiamo Michele Sprek, seguitelo su FB!

fit for dummies.

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L’alimentazione nei fighters

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Come deve mangiare un combattente, come dev’essere l’alimentazione nei fighters? Ovviamente non può esistere una risposta univoca, ogni persona ha una sua individualità (psicologica e biochimica) e lo stesso individuo di anno in anno cambia. Non è detto che quello che ha ben funzionato l’anno prima dia gli stessi risultati nel tempo. Con questo articolo daremo delle indicazioni generali, che rispettano alcuni principi metabolici. Starà all’individuo capire quanto modificare ed adattare per avere la miglior dieta per fighters possibile.

alimentazione fighters

L’alimentazione nei fighters

Quando si parla di alimentazione, soprattutto nella pratica sportiva, il maggior ostacolo che si pone tra l’individuo e la sua corretta applicazione è rappresentato dai consigli e riferimenti che poco hanno a che vedere con l’effettiva realtà dei fatti:

e tanti altri espedienti possono risultare limitanti, se non addirittura controproducenti, specialmente se l’atleta in questione si pone obiettivi sempre più ambiziosi.
Per fare un po’ di ordine e chiarezza nel mare magnum dei consigli usa e getta, di preconcetti, di errate credenze e fantasiose deduzioni e non divenire preda dei fili d’inciampo delle abilità narrative del “guascone da palestra”, o del fanatico di rete (che spesso e volentieri consiglia con spontaneità sanguinaria menù dietetici stravaganti), di seguito elencherò alcuni punti di riferimento che rappresentano una “bussola”, delle precisazioni a livello conoscitivo. Il loro approfondimento è faccenda da analizzare, valutare e applicare con l’aiuto dei professionisti del settore.

L’articolazione di una alimentazione idonea per i fighters deve presentarsi quanto più:

  • aderente al proprio stile di vita;
  • alla propria individualità biochimica;
  • all’obiettivo posto;
  • nonché al proprio assetto psicologico.

Solo la coerenza tra questi fattori può assicurare il successo nel lungo periodo.

dieta fighters

Ma vediamo alcuni punti cruciali:

  • Ridurre il numero dei pasti per dimagrire, non fa dimagrire. Questo accade poiché, il nostro organismo, settato geneticamente a migliaia di anni fa, legge qualsiasi riduzione dell’introito di energia quotidiana come una criticità. In tale circostanza il metabolismo “scala le marce” e l’organismo attua delle misure di contrasto (tra cui il risparmio energetico) che vanno contro il dimagrimento stesso. A farci perdere peso è l’introito calorico, non il numero di pasti. Tagli calorici drastici portano si a perdere peso rapidamente, ma solo per brevi lassi di tempo. Poi il cortisolo sale, l’organismo trattiene l’acqua e tutto si blocca.
  • Soprattutto per gli sportivi che svolgono allenamenti quotidiani o che sono vittime di sbalzi umorali è consigliato consumare almeno cinque pasti al giorno per rifornire adeguatamente le scorte energetiche (in primis glicogeno muscolare) necessarie a sostenere i duri allenamenti e a produrre il corretto atteggiamento psicologico alla disciplina. Per tale motivo, in linea generale, senza far riferimento a formule rigide o speculative, per quei soggetti normopeso, con uno stile di vita sereno, ma che presentano una certa predisposizione all’accumulo di grasso, l’introito di carboidrati, in un figther, dovrebbe oscillare in media tra i 3g/kg e i 4g/kg al giorno; mentre per i soggetti predisposti alla magrezza o alla gracilità, il tasso di carboidrati può variare dai 4g/kg ai 5g/kg al giorno. Ovviamente sono quote indicative, dipende da quanto siamo saliti coi carboidrati lontano dagli incontri, più riusciamo ad alzare il metabolismo, più in fase di cut riusciamo a rimanere alti coi carboidrati ed a dimagrire lo stesso (vedi: Come accelerare il metabolismo).
    Il fatto di fare tanti pasti e cercare di tenere un buon quantitativo glucidico permette all’organismo di stressarsi meno (meno cortisolo) e ricaricare più facilmente le scorte di glicogeno muscolare.
  • Il consumo adeguato di proteine e grassi (cosiddetti buoni: olio d’oliva, mandorle, noci e via dicendo) per una corretta funzionalità dell’organismo e la produzione di ormoni sessuali (di cui il capostipite è il testosterone) che generano forza e l’aggressività in allenamento. Ridurli eccessivamente potrebbe compromettere i risultati ricercati, per questo motivo, per i fighters, bisognerebbe non scendere sotto il 0,7g/kg  nei lipidi è 1,2g/kg nei protidi.
  • Idratarsi adeguatamente. Bere molti liquidi (comprese tisane o frutta diuretica, come spremute di limone o pompelmo) tra i pasti rappresenta una buona abitudine, non solo per migliorare la prestazione sportiva, ma per la salute in generale dell’intera architettura vivente. Tenete sempre presente che c’è un orario per mangiare, ed uno per bere (lontano dai pasti). Per approfondire leggi la reidratazione durante l’allenamento.
  • Nel momento in cui si avvicina l’incontro se si decide di tagliare per qualche giorno i liquidi, meglio disidratarsi con la sauna che con l’allenamento. Questo perché con quest’ultima pratica verrà intaccato il glicogeno muscolare necessario per la competizione nonché per tutta la funzionalità – soprattutto a livello recettoriale – dell’organismo; mentre con l’utilizzo della sola sauna perderemo quei liquidi che potremo ripristinare una volta effettuato il peso.
    Questo punto richiede delle precisazioni vista la sua applicazione a volte estremista. Consiglio di non superare la perdita di qualche kg di liquidi prima di una gara, eseguendo immediatamente dopo una buona idratazione, meglio se coadiuvata da un’altrettanto buona integrazione (a base di vitamine e minerali). Il tutto sempre sotto controllo specialistico. Per approfondire leggi la gestione dei liquidi nel taglio del peso.
  • L’alimentazione di un fighter deve essere provvista di una considerevole quantità di frutta e verdura,  per la buona funzionalità organica. Così facendo faciliteremo il recupero oltre che “allegerire” il nostro organismo da scorie metaboliche o cibi poco salutari.
  • Integratori(?). Inizio specificando che gli integratori NON sono farmaci. Per i fighters consiglio quelli scientificamente dimostrati o, quantomeno, accreditati scientificamente: essenziale un buon multivitaminico e minerali, creatina monoidrata, aminoacidi essenziali, omega-3.

In linea generale, l’alimentazione e l’integrazione di un fighter deve essere perfettamente congruente all’obiettivo da raggiungere. In tal senso meglio affidarsi a professionisti che praticano la vostra stessa disciplina sportiva, anche per una questione di coerenza, oltre che di informazione e, mi verrebbe da dire, “sperimentazione”.

L’articolo: L’alimentazione nei fighters è del Dott Claudio Lombardo

NOTE BIOGRAFICHE:

Il dott. Claudio Lombardo è laureato in Scienze organizzative e gestionali e in Scienze e tecniche psicologiche (con tesi di laurea in “Ipotesi d’intervento preventivo sul sovrappeso e obesità in una prospettiva psico-socio-biologica”) e laureando in Processi cognitivi e tecnologie.

È autore dei libri La scienza del dimagrimento, Iscriversi in palestra e continuare ad andarci, Dal mondo del sovrappeso all’universo dell’obesità e coautore del libro La dipendenza affettiva e sessuale tra normalità e patologia.

Per informazioni consultare il sito internet: www.dimagrirefit.com

 

 

 

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La Forza nel Bodybuilding è veramente utile?

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Allenarsi per l’ipertrofia muscolare, per molti vuol dire fare mille esercizi, pompando al cedimento in ogni serie. Questo atteggiamento spesso si traduce in allenamenti con bassi carichi, poco tempo di recupero ed alte ripetizioni, limitando lo sviluppo della forza (1).

Ha senso nel bodybuilding natural allenarsi così?
DIPENDE, partiamo da questo filmato:

Gli atleti doped non allenano la forza, perché ne hanno già in abbondanza, nei loro range abituali sono fortissimi, Jay fa 12 ripetizioni di panca inclinata con quanti kg? 150-160kg? E probabilmente non ha mai fatto un mesociclo di forza in vita sua. Tra l’altro usa una presa stretta ed una tensione continua. Sfidiamo chiunque a dire che non si sta allenando correttamente per l’ipertrofia.

Ma nei natural invece, serve allenare la forza? Anche qui la risposta è dipende. Ma dipende da cosa?
Guardiamo questo grafico.

forza e reclutamento muscolare

Bosco e coll dimostrarono la legge di Henneman, ovvero che intorno all’80% del carico massimale si attivano TUTTE le fibre muscolari. Non è vero che solo con carichi massimali attivi quelle più forti e pigre, basta l’80%. Da qui, per chi ricerca la massima ipertrofia, allenamenti specifici di forza con basse ripetizioni non servono a molto.
Ma (mio zio diceva che tutto quello che viene prima di un ma non conta).

Ma l’80% di 50kg sono 40kg, di 100kg sono 80kg, di 200kg sono 160kg. Questo cosa vuol dire? Che nei primi anni di palestra il nostro massimale non rispecchia il nostro vero potenziale. Molti ragazzi sono felici quando arrivano a fare 100kg di panca, come se questo fosse il traguardo di una vita. Probabilmente allenandosi correttamente potrebbero arrivare a fare 125-135kg, il che vuol dire che con 100kg possono fare serie anche a 6-8 ripetizioni. Un altro mondo, un altro risultato.

Se siete atleti avanzati, se siete già forti di natura e ormai avete quasi raggiunto il vostro potenziale, allenare per mesi la forza è uno spreco di mesocicli. Fate bodybuilding, non forza. Se invece avete ancora margine di miglioramento, se vi mancano kg sul bilanciere, in questo caso non vi resta che continuate a leggere.

forza nel bodybuilding

Del Dott Alessio Alfei

Perché la forza nel bodybuilding?

Diventare forti non significa attenersi al tipico allenamento della forza #BroScienceApproved, significa piuttosto insegnare al muscolo a generare più tensione (più tensione = più unità motorie attivate), più unità motorie attivate = più fibre muscolari coinvolte e, finalmente, più fibre allenate = più stress meccanico applicato al muscolo e di conseguenza muscoli più grossi (sempre rispettando un introito calorico ed una ripartizione dei macronutrienti corretta vedi la dieta per la massa nel bodybuilding natural).

Chi avrà braccia più grosse a parità di stazza? Uno che fa curl con il bilanciere in 3×10 con 30kg oppure uno che ne flette 50kg? Il secondo soggetto con i 50kg dovrà per forza attivare più fibre per generare la tensione necessaria alla flessione del braccio con quel carico e da qui… più tensione, più unità motorie, più unità motorie attivate e via discorrendo…

Allenarsi per la forza non significa che gli allenamenti tipici della scheda “ipertrofia” siano inutili, all’interno della programmazione tutti i tipi di allenamento hanno uno spazio ed un ruolo a seconda dell’obiettivo preposto, come avviene nelle schede PHAT.

Ma come si diventa forti? Perché è meglio essere forti?

Forti si diventa quando essere forti è l’unica scelta che abbiamo e… le persone forti sono più difficili da ammazzare e più utili in generale.

Scherzi a parte, saper sviluppare alti gradienti di forza permette di attivare più unità motorie e quindi imporre uno stress maggiore all’organismo consentendo di sollevare carichi pesanti (relazionati al nostro peso corporeo) anche per molte serie e ripetizioni.

Sintetizzandolo in termini tecnici possiamo dire che aumentando la forza dinamica massimale anche la forza resistente (fino a certi range) subirà dei miglioramenti perché, di fatto, la forza è semplicemente la capacità del muscolo di contrarsi. Da qui ne conviene che  tutto è legato alla forza, dalle semplici attività quotidiane alle prestazioni più eclatanti, diventare più forti significa trasformare un 4 cilindri 1200cc da 70 cavalli in un V8 6000cc da 300 cavalli; sorpassi rapidi, salite, e tratti ad alta velocità saranno affrontati con meno sforzo perché la potenza totale a disposizione è maggiore.

La forza è un’abilità e questo oramai lo sappiamo tutti,  non è più un’informazione riservata a qualche sopravvissuto alla Perestrojka e grazie a questa affermazione abbiamo capito che per sollevare un carico decente bisogna conoscere il movimento che ci fa spostare quel carico.
Essere forti implica la raffinazione dello schema motorio, ovvero le informazioni relative alle catene cinetiche da attivare e il grado di tensione da sviluppare per quel dato movimento. Il cervello durante il movimento deve processare moltissime informazioni a partire dalla corteccia premotoria, dove risiede l’idea del movimento, e lo deve poi mettere in atto elaborando tutte le informazioni di feedback che riceve sullo stato della tensione e dell’allungamento dei muscoli.

forza bodybuilding

Viene da sé che nelle prime fasi di apprendimento di uno schema motorio esso sarà grezzo e pieno di “errori”, avete notato che durante lo squat o la distensione su panca eseguita dai principianti si tendono ad attivare più muscoli di quelli necessari con una tensione a volte eccessiva dando vita ad esecuzioni scattose e sbilanciate; progredendo con l’apprendimento del movimento l’estetica dell’esecuzione migliora e lo sforzo, a parità di peso caricato, diminuisce perché lo schema motorio viene raffinato garantendo una coordinazione ed un’efficienza neuromuscolare maggiore.

  • La prima fase dell’allenamento della forza sarà proprio concentrarsi sull’apprendere il movimento con carichi che risultino gestibili e che permettono di memorizzare la tecnica corretta.
  • Una volta che il movimento viene metabolizzato allora è possibile iniziare a “giocare” con i pesi.

Ora, per apprendimento tecnico non si intende 3×10 o 4×8 o qualche altro schema da tabellina ma uno schema “cibernetico” ovvero con serie fisse, da 6 a 8, ma con il numero di ripetizioni determinato dal feedback dato dalla bontà dell’esecuzione tecnica. Mi  mi sembra scontato che arrivare a cedimento durante questa fase in esercizi complessi non è consigliabile, se proprio siete amanti della sensazione di bruciore muscolare potete sbizzarrirvi successivemente con esercizi complementari.

Per quello che riguarda i tempi di recupero tra le serie, è importante che l’esercizio venga eseguito bene e con carichi consistenti quindi è sempre consigliabile stare tra i 2 ed i 3 minuti, poiché è stato dimostrato (2) che recuperi inferiori non garantiscono un’ipertrofia maggiore, anzi recuperando meno il muscolo, nella serie successiva, svilupperà una tensione minore con minor stress sulle strutture contrattili . Uno dei fattori più importanti che contribuiscono all’ipertrofia è il volume allenante (il peso sollevato per serie e ripetizioni) e con recuperi al di sopra del minuto è possibile aumentare il volume utilizzando carichi decenti.

Il volume che è possibile raggiungere durante le sedute è influenzato da un altro fattore spesso ignorato: la capacità aerobica. È pressoché impensabile potersi allenare con dei volumi consistenti senza avere una buona resistenza cardiorespiratoria, questo significa che se avete intenzione di allenarvi seriamente è importante programmare anche degli allenamenti di tipo aerobico.

Questo non vuol dire che dobbiamo tutti andare a correre – la corsa è solo uno dei tanti mezzi a disposizione (HIIT, Continuo Variato, Stedy State.. etc)  per aumentare la resistenza aerobica – quello che conta è il metodo e che sia inserito con criterio all’interno della programmazione globale.

Leggendo quello che abbiamo scritto fino ad ora si capisce che la forza è un meccanismo neuro-muscolare, ovvero che quando ci alleniamo in palestra non sono solo i muscoli a subire lo stress ma anche (e soprattutto) il sistema nervoso, da qui ne consegue che entrambe le strutture si adatteranno al carico imposto, di fatto i primi adattamenti che si hanno in questo tipo di allenamento saranno a carico del sistema nervoso centrale e periferico riscontrando un mancato incremento di volume muscolare soprattutto nell’immediato post allenamento (pompaggio muscolare).

Per rendere il nostro allenamento concorrenziale nei confronti di quello a prova di #gainz dei #BroScientists possiamo sempre lavorare utilizzando tecniche di intensità (superserie e compagnia bella) in esercizi semplici verso la fine della scheda giornaliera (prendendo un po’ la filosofia del Metodo Hatfield).

Allenarsi con criterio significa anche non abusare dell’intensità intesa come allenamenti a cedimento: già è stato detto che tali allenamenti hanno un ruolo nella scheda ma farne un uso spropositato significherebbe limitare la capacità del muscolo di allenarsi frequentemente, cosa che è consigliabile soprattutto all’inizio, quando i movimenti vanno imparati praticandoli spesso.

Essere forti significa essere in grado di trasformare lo stress, la pressione, in un’opportunità.
In natura è la pressione che trasforma il vile carbone in diamante.

L’articolo: La Forza nel Bodybuilding è veramente utile? è del Dott Alessio Alfei

Dott. Alessio Alfei, ACE PT , laureato con lode in scienze motorie, preparatore atletico, titolare della palestra Muscle Power a Roma, responsabile della didattica della scuola ESC performance www.escperformance.eu
E blogger del Ministero della Forza.
Su Facebook: Alfei Performance Systems
http://www.musclepower.it
http://ministerodellaforza.blogspot.it

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