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Stretching spalle quali esercizi fare

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La spalla è l’articolazione più mobile del nostro corpo, ma allo stesso tempo è anche la più fragile. Gli esercizi di stretching per le spalle dovrebbero tenere in considerazione:

  • anatomia: osteo-muscolare
  • funzionalità: salute dei tessuti
  • scopo: prestazione sportiva

E’ controproducente avere sia una spalla rigida e bloccata, sia troppo mobile e lassa. Non è l’obiettivo di questo articolo parlare dei muscoli che si articolano ed interagiscono con la mobilità della spalla, che test fare per valutarli e come potenziali. Per questo vi rimandiamo a:

In questo articolo analizzeremo nello specifico alcuni esercizi di stretching per le spalle, ma prima di farli valutate la funzionalità della vostra articolazione (se è sana) e cosa vi conviene allungare.

Articolo di Elia Bartolini

Il primo esercizio che vediamo coinvolge la spalla attraverso la catena muscolare antero-interna (pettorale-bicipite). Da sdraiati proni ruotiamo col busto mantenendo il braccio teso. I particolari a cui fare attenzione sono:

  • spalla adesa al pavimento
  • braccio disteso

stretching spalla

Il secondo esercizio riguarda sempre il pettorale. Da seduti estendiamo il braccio toccando il pavimento con le mani rivolte indietro.

  • eleviamo
  • retraiamo
  • deprimiamo

la spalla e solo successivamente avanziamo col bacino fino a sentire la corretta tensione.

stretching spalle

Il terso esercizio per la mobilità delle spalle è alla spalliera. Allunga sempre il pettorale.

  • eleviamo le spalle
  • retraiamo le spalle
  • deprimiamo le spalle
  • adduciamo le scapole

Distendiamo bene le braccia e pieghiamo gli arti inferiori fino a raggiungere la corretta tensione.

eserczi stretching spalle

Il quarto esercizio riguarda il gran dorsale ed i fasci addominali del gran pettorale. E’ importante non inarcare la schiena perchè una funzione secondaria del gran dorsale è estendere il dorso e così facendo lo accorceremo meno.

Per aumentare la tensione possiamo sia ruotare il busto, sia cambiare la posizione dei piedi, di lato rispetto alla spalliera per enfatizzare il lavoro solo su un lato.

flessibilita spalle

Altra variante può essere fatta in ginocchio, lasciando che sia la forza di gravità a tirarci giù, oppure utilizzando una panca (questa versione è più avanzata e richiede una buona mobilità nella cerniera dorso-lombare).

mobilità spalle

Il quinto esercizio riguarda la capsula della spalla. Il braccio addotto medialmente viene tirato dall’altro che usa la presa sul collo per generare tensione. Altrimenti partendo da sdraiati supini, ruotiamo tenendo fermo un braccio fino a ritrovarci nella medesima posizione.

come migliorare la flessibilita spalle

I prossimi esercizi riguardano la cuffia dei rotatori e richiedono una buona mobilità, pertanto provate a fare prima un test dei rotatori della spalla.

spalle stretching

Gli ultimi due esercizi di flessibilità della spalla riguardano la componente di extrarotazione ed intrarotazione, coinvolgendo ovviamente i muscoli della cuffia dei rotatori.

spalle esercizi stretching

spalle esercizi mobilità

L’articolo: Stretching spalle, quali esercizi fare è di Elia Bartolini

Note sull’autore
Sono un ragazzo classe 1994, che si allena da anni nella ginnastica e nel corpo libero. Credo in un allenamento graduale, sensato e sicuro, volto alla riscoperta delle vere potenzialità e movimenti del corpo umano. Amo muovermi, scoprire movimenti nuovi e allenare la forza del mio corpo. Seguo un discreto numero di atleti. Allenarmi ed allenare sono due costanti nella mia vita.
Elia segue diverse persone nella zona di PESARO – Tavullia – Cattolica e dintorni ma anche ONLINE
Mail: barto.elia@gmail.com
Pagina FB
Sito web

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Le migliori idee sono quelle che si realizzano

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migliori idee

Le migliori idee sono quelle che si realizzano” Paolo Evangelista

Volevamo segnalarvi questa fantastica iniziativa sul sito Ironmanager , un calcolatore per trovare il proprio consumo calorico giornaliero (TDEE) ed i rispettivi macronutrienti.

L’iniziativa è ottima perchè ci sono due modi per trovare quante calorie dobbiamo assumere per ipoteticamente non variare di peso (e poi da li impostare una strategia per il dimagrimento o per la massa muscolare):

  1. mettere tutto quello che mangiamo su un’app come Fatsecret. Se in quella settimana non siamo variati di peso abbiamo trovato il nostro TDEE
  2. utilizzare una formula teorica per calcolarlo e quella usata su Ironmanager ha probabilmente l’algoritmo migliore

Insomma una bella iniziativa che ci voleva anche in Italia. A dir la verità la stiamo sviluppando pure noi ed uscirà sul project nel 2017 assieme a molte nuove news che trasformeranno il sito.

Ci tenevamo comunque a condividerla subito visto che Fran è stato il primo.

Le male lingue penseranno che per scrivere questo articolo siamo stati pagati, in realtà quando condividiamo le iniziative degli altri facciamo tutto gratis ma non perchè siamo buoni. Perché la reputazione di chi condivide le cose utili, anche se non sono le sue, è molto più remunerativa nel lungo periodo che una marchetta.

Da appassionati non viviamo le altre realtà sul web come concorrenti, ma siamo felici come tutti gli utenti quando arriva qualcosa di utile e nuovo come questa.

Quindi ancora complimenti per l’iniziativa del calcolatore di calorie e macronutrienti e come sempre: “le migliori idee sono quelle che si realizzano“.

 

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Il limite nella forza massima negli sport da combattimento

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forza sport da combattimento

Il limite della forza massima negli sport da combattimento: alla ricerca del transfer: dal 1RM al MAT1

Al mondo ci sono due tipi di atleti che in palestra si allenano usando pesi e sovraccarichi, e  possono essere classificati in due macrocategorie: coloro i quali li utilizzano come fine ultimo e coloro i quali li adoperano come mezzo per raggiungere altri obiettivi.

Facciamo un po’ di chiarezza su quest’ ultima affermazione considerando, ad esempio, un Powerlifter (PL) e un praticante Sport da Combattimento (SDC).

Per il PL, l’allenamento con i pesi e quindi la pratica con le alzate di forza quali Stacco da Terra, Squat e Panca Piana, rappresentano già di per sé l’esecuzione dei gesti atletici che egli si troverà ad eseguire nei contesti di gara. Dunque per il PL l’allenamento con i sovraccarichi è, di fatto, già allenamento specifico.

Per un atleta di SDC (il concetto è estensibile ovviamente anche ad altri contesti sportivi), l’allenamento con i pesi ed i sovraccarichi rappresenta invece una fase aspecifica del periodo preparatorio affrontata per incrementare alcuni livelli condizionali quali (a seconda dei casi) la forza, la resistenza, l’esplosività, etc, qualità tutte che gli servono per diventare un Fighter più efficace durante il combattimento.

Gli atleti di SDC che intendono dedicarsi a questo tipo di preparazione aspecifica hanno ovviamente la necessità di programmare tale periodo preparatorio rispettando i seguenti tre punti fondamentali:

  • Ridurre al minimo il rischio di infortunio durante la esecuzione delle alzate (principio che vale chiaramente per tutti gli atleti di qualsiasi disciplina sportiva).
  • Programmare l’ allenamento in modo efficiente in maniera da ottenere il miglior risultato possibile nel minor tempo possibile (è bene ricordare che tutto il tempo che un Fighter trascorre in sala pesi è, di fatto, del tempo prezioso sottratto alla preparazione specifica che è quella che più gli è necessaria. Quindi il tempo dedicato alla fase aspecifica deve essere ottimizzato per non incorrere in inutili perdite di tempo!)
  • Ottenere Transfer atletico.

Cosa è il Trasfer atletico?

Il Trasfer Atletico è la capacità di un gesto atletico aspecifico di aumentare l’efficienza di un gesto atletico specifico.

transfer atletico

Ad esempio, un Thai Boxer che affronta dei mesocicli di forza utilizzando Squat e Panca Piana ha ottenuto Trasfer atletico se e solo se alla fine del periodo di preparazione aspecifico riesce realmente ad eseguire i gesti di calci e pugni in maniera più esplosiva. In caso contrario avrà solo perso tempo!

(Ovviamente tutti i miglioramenti condizionali devono essere riferiti a dei test con dei parametri numerici/percentuali misurabili e confrontabili!)

Di esempi di Transfer atletico se ne potrebbero fare ovviamente tantissimi.

Il punto di partenza per qualsiasi programmazione di allenamento aspecifico è generalmente l’analisi (fase dei test preliminari) di due importantissimi fattori:

  • le capacità coordinative del soggetto da allenare,
  • le capacità condizionali dello stesso.

L’ analisi delle capacità coordinative rappresenta quella fase nella quale il Preparatore atletico valuta in che maniera l’atleta esegue gli specifici gesti allenanti che si vogliono inserire nella programmazione: ad esempio, l’atleta sa eseguire correttamente uno Stacco da terra? Quali sono i principali compensi motori da correggere? Quali sono gli errori tecnici per adesso accettabili? Etc…

I test coordinativi preventivi sono fondamentali in quanto solo e solamente i gesti atletici eseguiti correttamente (reclutamento neuromuscolare, traiettorie di spinta, timing di esecuzione, gestione degli sticking point, etc…) permettono l’ottenimento del Trasfer di cui abbiamo parlato prima.

In caso contrario l’allenamento risulterà forse stancante ma non certo allenante!

Acquisite le capacità coordinative di base, e dopo che l’ atleta ha dunque imparato ad eseguire correttamente i gesti allenanti (fase di adattamento neurale), solo allora si può acquisire attraverso i test condizionali quale è l’attuale livello prestativo dell’atleta e di lì iniziare dunque a migliorarlo.

Ricordiamo che un test condizionale eseguito su uno schema motorio non consolidato è un test non rappresentativo!

Il problema che approfondisco nel presente articolo è riferito proprio a questa delicata fase di analisi.

Quando si pensa ai test di Forza Massimale (FM), generalmente l’immaginazione corre subito al test del 1RM che, espresso in Kg (o in altre unità di peso), rappresenta il massimo peso che l’ atleta riesce a sollevare/muovere/spingere in una singola esecuzione.

Se ad esempio l’ atleta ha un 1RM pari a 200 Kg sullo Stacco da terra, vuol dire che durante il test è riuscito ad esprimere, in fase di sollevamento, una forza massima di 200 Kg.

Attenzione però, perché il limite conoscitivo del valore 1RM è che, in questo contesto, non ci fornisce alcuna informazione sul “come” l’ atleta abbia sollevato i 200 Kg!

Il concetto di 1RM infatti, ormai largamente utilizzato come parametro fondamentale in quasi tutti i programmi di preparazione, deriva direttamente dal mondo del Powerlifting nel quale, in fase competitiva ed all’ interno dei regolamenti specifici, si ha come riferimento il massimo peso sollevato, al lordo dei compensi generati nella fase di massimo sforzo. Non è infatti raro vedere grandi campioni di questo sport sollevare pesi da record effettuando però, al limite delle loro possibilità, delle alzate che, stranamente, non sono tecnicamente belle da vedere.

(Credo che siamo tutti d’ accordo nel ritenere che le massime espressioni di prestazione atletica non sono sempre degli esempi da cui apprendere per imparare un gesto tecnico! E’ come se ad un pugile alle prime armi si decidesse, per ipotesi, di insegnare la guardia della Boxe imitando i movimenti di Muhammad Ali il quale, molto spesso, aveva una guardia completamente bassa. Quel tipo guardia e di schema motorio funzionava sul grande Alì e solo su di lui, ma non è certo applicabile su larga scala a tutti i Boxer! Per la maggior parte dei pugili, quel tipo di impostazione sarebbe semplicemente fallimentare!).

Come diceva qualcuno “I principianti devono imparare le regole, i professionisti le regole le conoscono, i grandi Campioni le regole se le scrivono in base alle loro necessità”.

abilita sport da combattimento

La parziale informazione contenuta nel parametro del 1RM quindi, per quella che è stata la mia esperienza in ambito preparatorio aspecifico rivolto sugli atleti di SDC, è un grosso limite che rischia di fuorviare le programmazioni di forza su atleti non specializzati nell’allenamento con i sovraccarichi.

Vale sempre la pena di ricordare che un atleta di SDC trascorre nella sala pesi un tempo abbastanza limitato nell’arco della settimana/mese (il contrario sarebbe un errore!) e certamente non può ritenersi, salvo casi particolari, abilissimo come un PL nella esecuzione delle alzate di forza.

Questo limite di abilità tecnica comporta, per questo tipo di atleta, una perdita di efficienza ed una maggior generazione di compensi ed errori tecnici non accettabili mano a mano che ci si avvicina al suo limite 1RM;  ciò si concretizza nel fatto che nella fase dei test condizionali si ottengono con molta probabilità dei valori di 1RM eseguiti con esecuzioni sbagliate, fuori traiettoria, ricche di compensi e quindi pericolose e non allenanti.

La programmazione successiva che ne deriva, tenendo conto di questo valore, rischia di essere pertanto sovrastimata per le reali capacità dell’ atleta!

Come ovviare a questo problema?

Una strada possibile (non l’ unica ovviamente) è quella di abbandonare la via del 1RM e di intraprendere quella di un altro parametro di forza che è il MAT1.

M.A.T. è un acronimo che sta per Miglior Alzata Tecnica.

MAT1 rappresenta, in pratica, il massimo peso sollevato/mosso/spinto mantenendo uno schema motorio all’interno dei limiti di accettabilità tecnica, quindi meno pericoloso per l’atleta e soprattutto per lui allenante.

Ovviamente il peso MAT1, per un determinato atleta ed in uno specifico momento, è inferiore al suo 1RM e questa differenza è inversamente proporzionale al relativo grado di specializzazione alla pratica nelle alzate di forza; cioè meno l’atleta è bravo tecnicamente nella esecuzione di una alzata e più grande sarà la differenza tra il suo valore di 1RM  e quello del suo MAT1.

E’ chiaro che per la analisi di un MAT è necessario che il Preparatore atletico conosca esattamente il corretto schema motorio da eseguire e riconosca, nel caso specifico, quali sono i compensi per il momento accettabili rispetto a quelli da correggere immediatamente, pena la non efficacia dell’ allenamento.

Facciamo degli ipotetici esempi numerici.

Se un Fighter, impegnato nella spinta su Panca Piana solleva 100 Kg di 1RM generando, però, in fase massimo sforzo diversi compensi non accettabili (es: assenza di fermo sotto, rimbalzo sul petto, “perdita” delle scapole e dei gomiti, traiettorie di spinta sbagliate, etc…) è probabile che abbia un MAT1 di circa 70 Kg (stiamo solo facendo ovviamente solo delle ipotesi!).

Cioè, 70 Kg di carico rappresenta il limite ultimo entro il quale egli riesce ad eseguire un’ alzata “pulita” che gli conferisce quindi Trasfer.

100 Kg possiamo considerarli quindi come il suo “Massimale Nominale (1RM)”, mentre i 70 Kg rappresentano il suo “Massimale Reale (MAT1)”.

pericolosità pesi preparazione atletica

(E’ opportuno evidenziare che se il MAT1 è inferiore al 70% del 1RM, conviene soffermarsi ancora sulla fase di adattamento alla tecnica in quanto i carichi iniziano ad essere realmente allenanti tra il 70% e l’ 85% ca. del 1RMvedi Legge di Henneman).

Se dovessimo programmare il successivo mesociclo di forza calcolando tutto in base al suo 1RM di 100 kg, andremmo a produrre tutto l’eventuale lavoro al di sopra del 70% del 1RM in maniera completamente sbagliata, pericolosa e non allenante!

L’ esperienza maturata in questo ambito mi ha portato pertanto a ragionare e a programmare tenendo conto, a seconda dei casi casi, del limite MAT1 e non più del 1RM.

L’ obiettivo del programma di allenamento deve essere, in seguito, quello di portare l’ atleta ad avere un Massimale Reale (MAT1) compreso all’ interno dei seguenti range di carico in rapporto al SUO peso corporeo (BW):

Stacco da terra: 2,5 – 2,50 BW

Back Squat: 1,75 – 2 (BW)

Bench Press: 1,25 – 1,5 (BW)

Questi valori sono ovviamente più facilmente raggiungibili da atleti medio/leggeri (70/80 Kg) rispetto a quelli pesanti (90 Kg ed oltre) e devono anche di volta in volta essere interpretati sul singolo soggetto, sulla sua biometria  e sulla sua attuale composizione corporea (% di grasso, % massa magra, % massa muscolare, etc…), ma questo è un discorso complesso che converrebbe approfondire in un altro articolo dedicato.

Solo raggiunti questi livelli di carico, l’ allenamento con le tre alzate di forza inizia ad avere un senso logico, in quanto solo all’interno di questi range l’ alzata fornisce una ottimale stimolazione neuromuscolare.

Per intenderci, un Fighter di 80 Kg che si allena staccando da terra sempre e solamente 100 Kg sta solo perdendo del tempo prezioso che gli converrebbe impiegare diversamente, ad esempio nella preparazione specifica!

inutilità pesi preparazione atletica

A questo punto del discorso ed acquisiti i principi finora espressi, è chiaro che il concetto generale del MAT, con le dovute attenzioni ed interpretazioni, è applicabile ed utilizzabile anche (ma non solo) ad esempio agli esercizi di Forza Resistente andando a distinguere nelle fasi di test, quelli che sono i valori numerici “nominali” rispetto a quelli “reali”.

Esempio:

un atleta che esegue un numero massimo di 10 trazioni alla sbarra di cui, però, solo le prime 6 fatte in maniera corretta e le ultime 4 con kipping, oscillazioni e ROM ridotti, si troverà ad affrontare una successiva programmazione fuorviata se in quest’ultima si andrà a considerare un numero massimo di esecuzioni eseguibili (N.Max) pari a 10.

Ad esempio, un classico schema di allenamento in EMOM da 10 minuti, con il 40% del N.Max da eseguire in ogni minuto (programma che sulla carta dovrebbe essere relativamente facile da eseguire) rappresenterà per l’atleta in questione una mole di lavoro molto probabilmente non gestibile correttamente in quanto al di sopra delle sue reali capacità.

Ecco che anche in questa ipotesi, come punto di partenza per un programma di Forza Resistente sarà opportuno non partire dal N.Max=10 (massimale nominale) ma da un N.Met=6 (massimale reale o numero massimo di esecuzioni tecniche).

Anche in questo caso di esempi se ne potrebbero fare tantissimi.

La sintesi del discorso è che, come sempre, il lavoro in palestra e le relative programmazioni che ricercano il reale miglioramento prestativo di un atleta devono essere fondate più sul concetto di Qualità che di Quantità.

Solamente con una cura maniacale della Qualità si può generare, nel tempo, Quantità realmente utilizzabile.

Questo vale nello Sport così come vale nella Vita di tutti i giorni.

Per approfondire gli argomenti leggi anche l’articolo di Ado Gruzza

Articolo di Mattia Gargano

Resp. Tecnico Regionale (Puglia) Preparazione Atletica – KOMBAT LEAGUE

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Cibi per dimagrire

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Oggi vedremo quali sono e se esistono veramente dei cibi per dimagrire. Se volete la pappa pronta e cercate una lista d’alimenti da mangiare per dimagrire, potete anche smettere di leggere subito l’articolo, se invece volete comprendere i principi della nutrizione e della fisiologia, allora continuate pure, perché solo l’impegno nella dieta come nello studio, può portare al miglior risultato.

cibi che fanno perdere peso

Avete presente la storia che una caloria non è una caloria? e che non è vero che se mangi 100 kcal dalla pasta, dal pollo o dall’insalata è uguale, perchè stimolerai ormoni diversi ed otterrai risultati diversi?

Be, in gran parte, purtroppo, non è vero, si ingrassa sempre nello stesso modo che si segua una chetogenica, una mediterranea, la Zona, il digiuno intermittente, ecc. Indipendentemente da cosa e come mangiate un eccesso calorico, si trasformerà sempre in grasso. Per quanto l’essere umano non è una macchina calorimetrica (l’apparecchio con cui si bruciano gli alimenti per scoprire quante calorie possiedono), risponde sempre alle leggi della termodinamica o meglio della bioenergetica.

Per questo tutti gli approcci alimentari funzionano, se mangi di più del tuo fabbisogno ingrassi, se mangi meno dimagrisci, semplice no?

Le diete esistono per addolcire la pillola, per lubrificare la supposta. Mangia gli alimenti del tuo gruppo sanguigno, elimina il latte che fa male, nutriti come l’uomo preistorico, togli la carne, ecc sono tutte strategie spesso più psicologiche che fisiologiche, per dare un ordine alimentare da seguire, l’ordine porta ad avere inconsciamente un miglior controllo dell’apporto energetico.

Tra le tante strategie che abbiamo per mangiare e dimagrire senza dover essere schiavi del conteggio calorico, c’è quella di prediligere gli alimenti con una bassa densità calorica o energetica (ovvero quanto volume occupa per 100 kcal).

Ha più calorie la pasta o il miele e la marmellata? Sicuramente non la pasta, anche se la maggior parte delle persone non lo sanno.

Le diete low carbs funzionano principalmente perchè i cereali sono alimenti ad alta densità energetica ed è facile assumere troppe calorie mangiandoli, non perchè stimolano l’insulina e l’insulina fa ingrassare.

Arrivati alla scoperta che purtroppo il segreto è che non esistono segreti, vediamo quali sono i migliori cibi per dimagrire e perchè.

Quali sono i cibi per dimagrire

quali sono i cibi per dimagrire

Gli alimenti possono avere diverse proprietà, dal punto di vista del dimagrimento forse la più importante è quella del portare ad un maggior senso di sazietà. Nessuno a meno che non sia estremamente motivato, riesce a resistere nel tempo alla fame. Per questo alcuni alimenti sono alla base di alcune diete, perchè le rendono più protraibili nel tempo.
Gli elementi che concorrono al senso di sazietà sono:

  1. Densità calorica
  2. Stimolazione dell’insulina
  3. Quantitativo proteico
  4. Quantitativo di antinutrienti
  5. Impegno dell’apparato gastrointestinale

Più un alimento risponde a queste caratteristiche e più è saziante e possiamo definirlo un cibo per dimagrire. Vediamo d’analizzare ogni punto.

Densità calorica

Più un alimento è idratato e meno è calorico. Ricordiamoci che i cereali e legumi durante la cottura si ridratano mentre tutti gli altri alimenti si disidratano. Per assumere 250 kcal bisognerebbe mangiare 1500g d’insalata oppure solo 72g di riso. Prediligere alimenti con bassa e media densità energetica, permette alla persona di riempirsi la pancia, assumendo un quantitativo calorico modesto. Un’ottima strategia per sentirsi sazio.

Stimolazione dell’insulina

L’insulina è un ormone saziante (nel breve termine). Teoricamente chi non ha una resistenza insulinica a livello ipotalamico, dovrebbe sentirsi sazio dopo un piatto di pasta. Al contrario chi perde l’affinità con questo ormone, quando mangia i carboidrati continua ad avere fame senza sentire nessuna sazietà. Scegliere una dieta low carb o low fat potrebbe dipendere molto a seconda di che cibo ci sazia di più.

Quantitativo proteico

Le proteine oltre a stimolare l’insulina (vedi aminoacidi insulinogenici), aumentano il senso di sazietà. Le basi azotate contenute nei protidi richiedono un lavoro aggiuntivo al corpo, questo porta l’organismo ad avvertire prima quando sta esagerando con le proteine rispetto agli altri macronutrienti

Quantitativo di antinutrienti

Gli antinutrienti contenuti nei legumi, frutta secca, cereali integrali, frutta acerba, ecc richiedono anche loro un lavoro aggiuntivo da parte dell’organismo per essere neutralizzati. Le fibre alimentari oltre a non trasformarsi in calorie (in realtà non è proprio così), aiutano il senso di sazietà. I legumi sono alimenti molto sazianti perchè contengono sia un buon quantitativo proteico, stimolano l’insulina ed hanno un’alta quota d’antinutrienti.

Impegno dell’apparto grastrointestinale

La capacità del nostro organismo di digerire ed assimilare gli alimenti è limitata. Più un alimento è tagliato, triturato e scomposto in tanti pezzettini, come le farine, e più è facile che il nostro corpo assorba tutte le calorie. Al contrario più rimane intero e più aumenterà la parte non edibile e assorbiremo meno energia.
Una volta veniva consigliata la pasta addizionata di glutine, per dimagrire. Da una parte perchè più proteica, dall’altra perchè il glutine essendo una proteina complessa da scomporre e digerire porta maggior senso di sazietà.

Più cuociamo gli alimenti e più la cottura spezza i legami chimici e più assorbiremo calorie da quell’alimento.

Quali cibi evitare per dimagrire?

quali cibi evitare per dimagrire

Se sopra abbiamo indicato le proprietà da ricercare negli alimenti per avere un maggior senso di sazietà, i cibi da evitare per  dimagrire saranno quelli che contengono le caratteristiche opposte:

  • Alta densità energetica
  • Facilmente assimilabili (come le calorie provenienti dai liquidi)
  • Molto cotti

Dolciinsaccatiformaggicondimentiprodotti da forno, bevande caloriche, sono tra gli alimenti che dobbiamo evitare più facilmente se non vogliamo assumere troppe calorie senza accorgercene.

Ovviamente possiamo dimagrire benissimo anche mangiano formaggi e salumi, ma dobbiamo essere molto bravi nel moderarci.

Quali cibi abbinare per dimagrire

quali cibi abbinare per dimagrire

Le combinazioni tra gli alimenti che possiamo fare, se vogliamo dimagrire, sono quelle che mescolano alimenti a bassa-media densità energetica, con piccole porzioni ad alta densità calorica.
Il consiglio di iniziare a mangiare, cambiando l’ordine del pasto,  partendo dall’insalata, per poi passare al secondo, primo ed infine il dolce, cerca di riempire lo stomaco con alimenti che contengono poche calorie.

Inserire legumi o frutta secca (in piccole dosi) nella giornata aumenta il senso di sazietà, come anche tenere una buona quota proteica.

Infine mescolare alimenti cotti a quelli crudi apporta ulteriori vantaggi per sentirci più appagati assumendo meno calorie.

Su internet troverete diversi articoli che sostengono che se abbini la papaya all’avocado ed al manzo stimoli l’enzima Filippo che interagisce con l’ormone Luca, che ti porta a dimagrire. Le combinazioni dei singoli alimenti sono veramente affascinanti, ma purtroppo ricadono nella categoria delle supercazzole.

Conclusioni sui cibi per dimagrire

La composizione corporea è determinata da oltre 2o0 fattori importanti e 200.000 superficiali. Ricercare il cibo X perchè fa dimagrire porterà sempre a ricercare la bacchetta di Dumbo, distogliendosi da quello che conta nella fisiologia, ovvero:

Calorie, Macronutrienti, Micronutrienti.

Vi ricordate qualche hanno fa quando andava di moda citare uno studio che aveva “dimostrato” che il cioccolato amaro faceva dimagrire? Quanti integratori o farmaci per perdere peso vedete a base di cioccolato amaro?

Non esistono cibi per dimagrire, esistono buone abitudini alimentari!

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Intra-workout: cosa assumere durante l’allenamento

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L’integrazione intra-workout nutrition sta prendendo piede sempre più nel corso di questi ultimi anni e, mentre sul cosa mangiare prima di allenarsi e cosa mangiar dopo la palestra, si è parlato e stra parlato, sull’Intraworkout, ci sono ancora alcune lacune.

Tanto si è fatto per iniziare a parlare di carboidrati (ma l’ipoglicemia reattiva?!) i BCAA sono stati pian piano abbandonati.. il tutto è sempre in continua evoluzione e, come al solito, questo porta a creare confusione su confusione. Quello che proporremo qui di seguito sarà, per l’appunto, una proposta. Non è la verità assoluta, nè l’unica possibilità, ma rappresenta un possibile modello di integrazione per un’atleta medio in condizione standard.. per i vostri specifici casi invece, ovviamente l’integrazione ideale.. “dipende“.

Amminoacidi Essenziali (EAA)5-10gr
Creatina5-6gr
Elettroliti2-3gr di citrati
Carboidrati30-40gr
Acqua1-2l

Intra-workout: Amminoacidi Essenziali

aminoacidi essenziali intra workout

L’assunzione di EAA (aminoacidi essenziali) va valutata sulla base del livello di amminoacidemia ematica, dunque bisogna andare a vedere quando (e di quale entità) è stato l’ultimo pasto proteico fatto. É comunque una buona soluzione quella di non sovraccaricarsi a livello proteico, di arrivare abbastanza “scarichi” a livello gastrico ed assumere 5-10g di essenziali durante l’allenamento.

Perchè non i BCAA? I ramificati rappresentano solo tre degli amminoacidi essenziali (leucina, isoleucina e valina). Normalmente vengono suggeriti perchè, grazie alla leucina, andiamo a stimolare la sintesi proteica. Questo è corretto ma bisogna considerare che, seppur stimolata, con i soli BCAA essa non avverrà. Il pool deve esser completo (da qui l’utilità degli EAA).

Rispetto alle proteine inoltre gli essenziali hanno una grande facilità ad esser assorbiti presentandosi in forma libera. Un’altra valida alternativa è l’assunzione di di-tripeptidi che vengono assimilati anche più velocemente in quanto sfruttano una via preferenziale in termini di assorbimento.

Intra-workout: Creatina

creatina intra workout

Allo stato dell’arte la creatina è sicuramente uno degli integratori più efficaci in termini di miglioramento della performance e della composizione corporea. Normalmente se ne consiglia l’assunzione di 5-6g divisi nell’arco della giornata assieme a pasti glucidici, questo per andare a sfruttare il picco insulinco con conseguente migliore veicolazione ed assorbimento. L’assunzione non deve quindi necessariamente esser fatta a ridosso dell’allenamento perchè la creatina lavora a livello di saturazione delle scorte, dunque nel lungo periodo. Tuttavia proponiamo di assumere tutta la dose giornaliera durante l’allenamento. Questo permetterà di sfruttare lo stato di iperemia locale a livello muscolare in modo da migliorarne l’assunzione nel miocita.

Un altro protocollo che viene suggerito è quello che vede una prima fase di carico con 20g giornalieri per 5 giorni seguita poi da una fase normale di 5-6g. Anche se questo permetterebbe di saturare prima le scorte muscolari, dobbiamo considerare che molta della Creatina assunta andrebbe persa a livello urinario, il protocollo è dunque evitabile. La durata d’assunzione è normalmente di 4 settimane anche molto spesso si tende (e mi ci metto in mezzo) a far tenere l’integratore fino anche a 12 settimane.

Intra-workout: Elettroliti

elettroliti intra workout

I sistemi di contrazione muscolare funzionano sulla base della presenza e dell’intervento i diversi minerali. Stessa cosa per quanto riguarda lo scambio di acqua e nutrienti dal compartimento intra all’extra-cellulare. Stessa cosa per migliaia di reazioni elettrochimiche che accadono nel nostro corpo ogni giorno, in particolar modo mentre ci alleniamo. L’equilibrio elettrolitico risulta dunque fondamentale non solo per la performance ma anche per tutti quei processi di adattamento muscolare che tanto ricerchiamo. L’allenamento tende a causare diverse perdite, soprattutto attraverso la sudorazione. L’integrazione di sodio, calcio, potassio e magnesio copre dunque un importantissimo ruolo. Teniamo inoltre in considerazione che gli stessi permetteranno anche una migliore veicolazione di acqua e nutrienti all’interno del miocita ricoprendo pertanto un ruolo ancor più importante nell’integrazione durante l’allenamento. Per quel che concerne i dosaggi in genere dipende dal blend. Possiamo però, parlando dei singoli sali, consigliare: 0.8/1gr di sodio, 2/2.5gr di magnesio citrato e 3/3.5gr di potassio citrato, il tutto considerando c.ca 2l di acqua per la soluzione.

Intra-workout: Carboidrati

carboidrati intra workout

Sui carboidrati ho già dedicato un articolo (carboidrati peri-workout e pre-workout), piuttosto completo, che mette in luce l’importanza della loro assunzione per il miglioramento della performance. L’articolo va poi a presentare i diversi prodotti sul mercato e ad individuare i perchè e i percome sceglierne alcuni. Onde evitare di dilungarmi anche stavolta presento un breve sunto del tutto:

  1. Consigliamo l’integrazione di 30-40g di carboidrati durante l’allenamento (considerando un workout di c.ca 1-2h). Occhio però a considerare sempre anche quano è stato fatto l’ultimo pasto, evitiamo di arrivare troppo “carichi” all’allenamento, come abbiamo detto anche per le proteine.
  2. Per quel che concerne il prodotto, vanno bene delle semplici maltodestrine, nel caso però in cui si riscontrino problemi a livello di motibilità gastrica o assorbimento intestinale, allora si potranno utilizzare altri prodotti come del Vitargo o delle Ciclodestrine (HBCD).

Intra-workout: Acqua

acqua intra workout

In assoluto il più importante, l’acqua risulta l’integratore senza il quale nulla di quello detto prima avrebbe senso… questo non solo per il fatto che non potreste diluire tutto il popocchio visto prima, ma anche perchè non potremmo garantire un corretto assorbimento di nutrienti senza prima garantire un corretto equilibrio idrico (sia nel compartimento intracellulare che in quello extracellulare e soprattutto plasmatico). In sostanza non crescerete mai abbastanza se non sarete idratati. Questo vuol dire che, in primis, dovremo garantire un corretto stato di idratazione corporea durante la giornata, in secundis (o forse è il contrario..) garantirlo a ridosso dell’allenamento. Consigliamo dunque di assumere 1-2lt di acqua durante un allenamento di 1-2h o comunque cercare di arrivarci pian piano. Per approfondire leggi: Reidratazione durante l’allenamento.

Conclusioni e considerazioni finali sull’ Intra-workout

cosa assumere durante l'allenamento

Ultima dritta che può esser data riguarda la palpabilità della bevanda e la sua freschezza. Esse garantiranno non solo un miglior assorbimento ma anche un miglioramento della performance grazie ad una grande influenza a livello psicologico (la “sorsa ghiacchiata” di cui parlo nel videoarticolo).

Come detto prima le strade son diverse e questa è solo una proposta, una proposta però ragionata che fa (invita a..) ragionare. Altri prodotti potrebbero essere inseriti (vedi beta-alanina, HMB etc..), altri potrebbero esser tolti, dipende tutto dal soggetto e dagli obiettivi.

Consideriamo quel che ci serve, quello che non ci serve e regoliamoci di conseguenza.

NOTE SULL’AUTORE
L’articolo: Intra-workout: che integratori utilizzare, è di Ludovico Lemme
Personal Trainer certificato ISSA e studente SANIS (scuola di nutrizione e integrazione sportiva). Segue diversi atleti, sia dal vivo che online nel campo del Bodybuilding e del fitness in generale. Nel 2015 avvia il progetto Rhinocoaching con il quale si propone di creare una piattaforma di riferimento per i suoi atleti e per gli appassionati in generale.
Contatti: rhinocoachingofficial@gmail.com
Pagina FB: https://www.facebook.com/ludovicolemmemygrowth/
Sito Web: www.rhinocoaching.it

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Ipertrofia e forza: le logiche che li correlano

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Facciamo un riassunto velocissimo della puntata precedente? Partendo dal presupposto che storicamente il range tra le 8 e le 12 ripetizioni è considerato quello ottimale per l’ipertrofia, cerchiamo di avere un quadro più chiaro su questa questione.

ipertrofia funzionale
Di Ado Gruzza

1. Abbiamo detto che rispetto anche a soli 10 anni fa (pure meno ad essere onesti) oggi c’è un altissimo numero di persone che fa per lunghi periodi dell’anno allenamenti basati su protocolli di Forza, quindi a basse ripetizioni. Motivo? L’apertura del Crossfit alla Pesistica, la nuova raggiunta popolarità (almeno in Italia) del nostro Powerlifing, il passaparola.
Molta parte di questa massa di nuovi adepti, si allenano sulla Forza per avere anche e soprattutto risultati estetici. Questa massa di persone ha accumulato dati e informazioni, per quanto caotici.
Il primo è che quanto meno non si perde massa magra facendo meno di 6 ripetizioni, cosa non ovvia fino a pochissimi anni fa al grande pubblico e tutt’ora sconosciuto in certi ambienti accademico intellettuali.
La seconda è che statisticamente, anche se l’analisi è di per sé molto poco scientifica, costoro stanno avendo risultati. Semplicemente perchè il numero di persone che si avvicina a questo modo di allenarsi, cresce sempre di più. Crescono per il passaparola, per la soddisfazione di risultati raggiunti, che spesso non riuscivano ad ottenere prima.

2. La ricerca vista da vicino da risposte molto poco chiare. Analizzando le meta analisi (passatemi il gioco di parole) pare che non vi sia alcuna differenza a livello di sviluppo ipertrofico tra utilizzare un 3RM e un 10RM. Per quanto questo dato possa sembrare irragionevole, soprattutto se letto nel contesto in cui è sviluppato.
Questi due punti sono sufficienti a dire che il range ipertrofico classico (tra 8 e 12RM) non sia effettivamente quello ottimale?
Forse vi stupirò in quanto esperto di Allenamento della Forza, però, secondo me no! Ciò non toglie che ritenga che messe nel giusto contesto, le basse ripetizioni siano una bomba atomica per l’ipertrofia ed un passaggio imprescindibile nell’allenamento.

3. Abbiamo visto la tripartizione di Schoenfeld (ricercatore molto popolare e che spinge molto sul lato commerciale in ambito di ipertrofia) una sintesi piuttosto chiara dei meccanismi che inducono ipertrofia. Sintesi che dovremmo seguire nel tentativo di sviscerare un’analisi sensata e soprattutto, PRATICA:

  1. Tensione meccanica 
  2. Stress metabolico
  3. Danno muscolare.

Dato per assodato questo quadro di partenza, vi racconterò la mia personalissima storia. Una storia che parte da una piccola grande incomprensione.
Sono probabilmente tra gli ultimi o tra i più giovani di una generazione che ha fatto in tempo ad allenarsi senza conoscere tutto quello che si conosce oggi. Buffer, multiarticolari, tecnica, attivazione neuromuscolare, eccetera eccetera. Il mondo dei pesi è cambiato molto, e con molta mia soddisfazione visto sono stato tra quelli che ha spinto di più perchè questo cambiamento avvenisse.
Però, da qualche parte ho iniziato pure io. Ho iniziato con la palestra classica, cercando di aumentare sempre i carichi in maniera hard, spingendo sempre al massimo le ripetizioni, considerando un allenamento solo se il muscolo l’avevo spremuto da ogni parte possibile.
Ovviamente zero risultati, o al massimo, pochi. Per me e per quelli che mi stavano attorno. Solo pochi crescevano: non natural o gente che cresceva anche andando a sbadilare l’orto dietro casa.

Cominciavano a quel tempo a comparire i primi metodi brevi ed intensi. Di buono notai subito un amore verso gli esercizi fondamentali, idea che intuitivamente mi sembrò buona. Di contro, quell’infrequenza e quell’eccessiva ansia verso la necessità (per me irreale) di fare sempre quella ripetizione in più, l’idea ansiogena ed anch’essa irreale del sovrallenamento e della supercompensazione, fecero balzare immediatamente al mio intuito che, malgrado andassero enormemente di moda (c’è stato un periodo che queste metodiche le hanno spostate praticamente tutti, ed ero una mosca bianca) questa roba non era la risposta.

Verso il 2003 o 2004 scoprì, a fronte delle mie estenuanti ricerche nella rete (ancora primordiale ai tempi) che esistevano da qualche parte i programmi dell’allenatore della nazionale russa di Powerlifting. BANG! Rivoluzione! O meglio, mi sembrò tale.
Non esisteva più niente di quello che prima sembrava indispensabile. Buffer ampio (cioè non protrarre le serie fino all’ultima ripetizione possibile), ripetizione ossessiva del gesto tecnico, frequenza alta, volumi a carichi medi, ripetere tante volte una serie che poteva sembrare assolutamente facile. Rivoluzionario davvero.
Mi tolse una enorme frustrazione: sentivo che stavo allenandomi come un atleta e non come un palestrato! Quasi un functional ante litteram. E, finalmente, arrivò anche il primo sviluppo muscolare.

Lo stesso muscolo allenato 4 volte a settimana (da scomunica per l’epoca) iniziava a crescere. I carichi iniziarono a crescere! Tutto tornava.

ipertrofia e allenamento forza

Gli sciatori si allenavano sempre e avevano gambe enormi, senza stripping, superset, serie giganti ne roba simile. Idem i lottatori, i lanciatori, i rugbisti, eccetera, eccetera. Mi pareva che il quadro fosse completo.
Visto che la vena dell’allenatore era dentro di me, iniziai a far provare questa roba folle a chi si allenava con me: crebbero tutti. Tutti quelli che faticavano (a dir poco) a crescere con la roba normale da palestra, con questa follia sovietica, crescevano.
Deduzione fatta al tempo: tutto quello che sappiamo sull’ipertrofia è sbagliato, questa è la chiave entro cui rivedere il tutto.
Avevo ragione? No. O meglio solo in parte, però la risposta era molto, molto, incompleta.

I programmi in stile Pesistica Olimpica (Sheyko ne è un esempio possibile)  deenfatizzano (beh, tolgono enfasi) ad alcuni stressor su cui il palestrato medio martella in maniera eccessiva, ed enfatizzano stimoli che il palestrato medio non considera minimamente. Probabilmente perché più complessi da comprendere e di prospettiva a medio e lungo termine.
Il problema (per il palestrato medio) sta nel fatto che l’ipertrofia E’ un evento a medio lungo termine e il suo sviluppo una cosa concettualmente complessa.

Ricordatevi sempre un principio fondamentale nell’allenamento in ogni ambito: il principio “quando non c’è serve” per cui un soggetto che è carente di un particolare stimolo allenante, avrà grandi risultati nell’immediato, introducendolo.
Chi si allenava in palestra allora, chi si allenava con me allora, io allora, tutti allora: eravamo ingozzati di pompaggio strenuo spinto fino al limite in ogni cacchio di allenamento, in ogni schifo di esercizio, in ogni schifosissima serie! Senza la sufficiente e razionale frequenza. Senza una scelta razionale di esercizi che avessero al loro interno una importante componente neurale, di apprendimento motorio, di complessità.
Esattamente il contrario di quello che avviene per un ginnasta, un pesista, un lanciatore, un lottatore nell’impegno del loro allenamento competitivo.
Smettere di fare questa roba suicida spiega una parte del successo dell’allenamento della forza nel bodybuilding che tutti sperimentammo passando a certe logiche dal profumo sovietico. Non era lo Sheyko ad essere magico, era quello che facevamo tutti quanti che faceva abbastanza pena!

Però questo ovviamente non basta.
Vi ricordate i tre cardini dello sviluppo ipetrofico secondo Schoenfeld?

1. Generare tensione muscolare di alto livello.
2. Lavoro metabolico.
3. Danno muscolare.

Comunemente si ritiene che il punto 1 sia determinato dal carico. Vero, però molto incompleto. Un carico troppo alto e pessimamente gestito (ad esempio pensate ad un principiante che solleva carichi massimali) inibisce in qualche modo la capacità di generare tensione muscolare o una corretta attivazione muscolare.
Non è solo il carico in termini di % a determinare la tensione muscolare. Il gradiente di tensione muscolare è determinato almeno da altri due fattori fondamentali, mai considerati a sufficienza:
a. Tecnica, controllo.
B. Velocità a carichi superiori o uguali al 80% del 1RM come diretta conseguenza. La velocità a carichi inferiori è del tutto indifferente e assolutamente sopravvalutata nella preparazione atletica.

A chi ha lavorato anche solo un minuto della propria vita sulle alzate fatte in maniera tecnica, il punto A è chiarissimo. Però per renderlo ancora più chiaro: pensate di fare Panca piana con il fermo al petto di 5 secondi, immobili, uscendo in massima accelerazione mantenendo un controllo totale sull’attrezzo. Con carichi elevati. Ci vuole o non ci vuole più (parlando in termini da bar) più Forza a parità di carico?
Il controllo e la tecnica incidono enormemente sulla qualità della tensione muscolare sviluppata.

Ergo, un lavoro con ampia frequenza e molto buffer ha allenato i soggetti a sviluppare più controllo motorio a carichi elevati, diventando più forti e sviluppando maggiore tensione muscolare.

Il lavoro metabolico (punto 2) venne da il grande volume di lavoro fatto con esercizi multi articolari complessi (che improvvisamente divennero il cardine delle sedute di allenamento) ed il danno muscolare, non più ricercato tramite poche serie spompate fino al limite delle proprie capacità quanto dalle tantissime serie DISTRIBUITE nella settimana. Da qui la mia analisi (che fece molta breccia e che ritengo tutt’ora molto corretta) di spostare l’attenzione dalla singola serie alla settimana intera di lavoro.
Così come quella di spostare l’attenzione dal muscolo al sistema corpo nella sua interezza. Anche per chi, in fondo, si fosse occupato solamente di mettere massa magra.

Riassumendo: non è che quel programma in particolare fosse l’ideale per l’ipertrofia, semplicemente ha tolto stress eccessivi dal nostro allenamento, stress che erano ripetuti per una fede cieca nel passaparola, un approccio quasi superstizioso e sicuramente arcaico al più classico del bodybuilding.
Ha tolto stress ed ha aggiunto componenti che mancavano: frequenza, controllo, ricerca dell’accelerazione, ridare importanza al sistema nervoso centrale. Risultato finale: chi non era mai crescituo, crebbe!

Una cosa però va notata e in pochi, forse nessuno lo fece: i carichi utilizzati erano esattamente quelli consigliati dal bodybuilding classico.
Si sa che la scuola sovietica della pesistica olimpica dice che si debba usare una vasta varietà di zone di intensità, però il maggior numero di ripetizioni totali deve essere consumato (più o meno a seconda degli autori) tra il 70 e l’80% del 1RM (carico ottimale).
Non vi sfuggirà carichi tra 12 e 8RM corrispondano esattamente al 70 e 80% del massimale.
Per questo sono convinto che:

stimolo meccanico ipertrofia

1.  Se  cercate l’IPERTROFIA dovete incentrare una parte cospicua delle vostre sedute con carichi che vi permettano di fare da 8 a 12 ripetizioni. Il punto è che con quei carichi non dovete cercare di farne SEMPRE da 8 a 12, anzi, la maggioranza delle volte, accontentatevi di farne meno. Molto spesso (Medvedyev, Roman) la metà. Per concentrarsi su altri fattori importantissimi come quelli sopraelencati.

2. Lavorare SEMPRE (sottolineo che è l’idea del ‘sempre’ ad essere criticata) a pompaggio strenuo fa si che i tempi di recupero diventino altissimi, portando a non potere totalizzare lo stesso volume allenante (Roman 1986) nell’arco del micro ciclo. Il corpo impiegherà più energie nello smaltire le sostanze di rifiuto e nel far recuperare i tessuti di quante ne impiegherà nella crescita.

3. I meccanismi di recupero (diciamo di supercompensazione) sono massimi nelle prime ore (Hartmann e Tunnemann 1986) dopo la seduta allenante. Per questo allenare il muscolo con più frequenza e con volumi più razionali può essere una scelta molto interessante.

4. Sebbene la maggior parte del lavoro debba essere svolto vicino all’75% del massimale, deve essere presente l’uso di tutte le zone di intensità dal 50\60% fino al 100% del 1RM.
Per questo l’allenamento deve essere periodizzato e comprendere il più svariato range di ripetizioni possibili. Serie da 20 e serie da 1 sono altrettanto importanti quanto le classiche serie da 10 ripetizioni.

5. Il cervello è il motore primario della nostra crescita muscolare. Per questo il lavoro che, semplificando, chiamiamo ‘neurale’ deve avere un posto importante: esercizi multi articolari (non per forza e non solo Squat, Panca piana e Stacco da terra) complessi e che richiedano tempo di apprendimento sono fondamentali. Imparare a fare un clean con Kettlebell pesanti può dare uno stimolo ai vostri bicipiti carenti che nemmeno centinaia di serie di curl concentrato ai cavi possono dare.

6. Usate una vasta gamma di esercizi complessi: Panca piana, panca stretta, board press, panca a terra, panca con catene, elastici, fermi lunghi, discesa e salita rallentate, eccetera, eccetera. Oltre ad essere divertente, vi aiuterà ad imparare ad essere più efficienti nell’attivazione neuromuscolare.
Imparate ad usarli BENE!

7. Alternare sedute molto impegnative a sedute relativamente facili è un’altra arma eccellente per migliorare il proprio potenziale. Cioè che vi fa diventare atleti migliori, vi permette di spendere quelle qualità in più nell’allenamento specifico dell’ipertrofia.

8. Banalmente, con un massimale di 200 kg di Squat posso fare circa 10 ripetizioni con 150 kg. Con un massimale di 150 kg posso farne 10 con 110 kg. Credetemi, per i vostri muscoli non sarà la stessa cosa.
Per questo imparare a sviluppare tensioni importanti sarà una chiave di lettura fondamentale. Questo non significa che dobbiate fare solo triple e solo alzate da Powerlifting. Questo significa che (come stanno intuendo tutti i più intelligenti body builder del pianeta natural) una parte del vostro allenamento dovrà essere dedicato a questo.

9. L’idea che le basse ripetizioni siano inutili per l’ipertrofia credo che venga da una cattiva analisi dei soggetti testati. Il tempo sotto tensione del muscolo nello specifico di una alzata quasi massimale fatta da un atleta avanzato e con ottimo controllo tecnico è molto più alto di quello fatto a pari % di carico da un atleta scoordinato e senza sufficiente controllo. Ecco perché conosco molti atleti che sperimentano ipertrofia in periodi in cui allenano solo alzate singole, doppie o triple.

10. Il lavoro sulla forza nei multi articolari è molto divertente. Introducetelo nel vostro allenamento e divertitevi. Aver piacere in quello che si fa, vivendolo senza stress è una fantastica risorsa per la crescita.

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NOTE SULL’AUTORE E SUL CORSO ISTRUTTORI

L’articolo: Ipertrofia e forza: le logiche che li correlano è di Ado Gruzza

Se vi è piaciuto quello che avete letto.
Se avete capito che è il momento di inserire le alzate del Powerlifting nella vostra normale routine di allenamento, e volete farlo ai massimi livelli.
Se vi siete appassionati al Powerlifting e volete iniziare passando dalla porta principale.
Se siete appassionati di allenamento della Forza e volete aver l’occasione di lavorare a contatto diretto con un gruppo di allenatori dalle straordinarie conoscenze tecniche e dalla straordinaria creatività:
vi aspettiamo al Corso Istruttori Powerlifting FIPL di Milano 2017 Base e Avanzato. Ormai da anni, il punto di riferimento italiano dell’allenamento della Forza.

Nel link avete tutte le informazioni che vi servono: Corso Istruttori

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Allenare i muscoli carenti della schiena

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In un precedente articolo su come sviluppare i muscoli pettorali, ho introdotto l’argomento specializzazione, con un’ampia analisi di cosa vuol dire specializzare, chi la dovrebbe prendere in considerazione ed in che modo ragionare quando ci si approccia.
Qui invece potete trovare una guida su come affrontare una specializzazione dei muscoli carenti.
In questo articolo propongo un possibile programma di specializzazione per la schiena e ne spiego la logica.

muscoli carenti schiena

Articolo di Domenico Aversano

La prima cosa da fare è : programmare un volume molto alto di lavoro nel microciclo (solitamente settimana, ma dipende da come uno vuole impostare il lavoro possono essere anche 10 giorni o 2 settimane, etc), da suddivere su di una frequenza di allenamento per il gruppo interessato alta, e programmare su di questi una progressione di parametri (carico, volume, densità).

Ovviamente per non eccedere le capacità di recupero dell’organismo il volume complessivo e le frequenza allenante per i restanti gruppi muscolari sarà molto basso, il minimo indispensabile per stimolare il mantenimento della massa muscolare già presente : questo solitamente è indentificabile in 8-10 serie settimanali per i gruppi più grandi e 5-8 serie per quelli più piccoli, suddivisi su una frequenza medio-bassa (1 volta ogni 5-8 giorni). Sottolineo ancora, perchè è importante, che durante una specializzazione la stragrande maggioranza delle capacità anaboliche, di lavoro e di recupero dell’organismo vadano indirizzate sul gruppo target e che il lavoro sui restanti gruppi muscolari debba essere il minimo indispensabile per il mantenimento (che di solito è MOLTO meno di quanto si possa credere.)

Su che tipo di periodizzazione scegliere, in ambito scientifico non ci sono evidenze molto forti e nette ma sembra che la periodizzazione ondulata giornaliera possa essere quella che  abbia un piccolo vantaggio in più quando l’obiettivo è l’incremento della massa muscolare.

In questo programma esempio quindi la useremo come modello : strutturiamo allenamenti diversi che si alterneranno nel corso del microciclo che vanno a stimolare sistemici metabolici diversi e quindi ad indurre addattamenti differenti nei muscoli.

Per semplificare riassumiamo i tre tipi di stimoli in questo modo :

  • Alti carichi, basse ripetizioni, lunghi tempi di recupero, ROM che enfatizza l’allungo sotto carico (Danno Meccanico)
  • Carichi medi, ripetizioni medie, tempi di recupero medi, rom completo eliminando i punti morti (Alto livello di tensione meccanica)
  • Carichi bassi, ripetizioni alte, recuperi brevi, alta densità di lavoro, ROM che enfatizza i punti di massima contrazione (stress metabolico con gran produzione di lattato ovvero il cosidetto “pompaggio”)

Prima di proseguire però voglio fare un’importantissima premessa :

Per un corretto allenamento della schiena è imprescindibile un perfetto controllo scapolare ed un’ottima propriocezione (volgarmente “connessione mente-muscolo). Nel caso queste manchino, prima di cimentarsi in protocolli di specializzazione o anche solo aumentare carichi e volume di allenamento è necessario eseguire un lavoro propredeutico ad apprendere il perfetto controllo scapolare e migliorare la propriocezione. Questo discorso è applicabile a tutti i gruppi muscolari ma ha ancora più importanza in particolare per i muscoli della schiena ed i pettorali.

Consigli per effettuare un lavoro propedeutico

La prima cosa da avere ben chiara è che l’allenamento per migliorare controllo e propriocettività è diverso da quello per migliorare massa e forza muscolare.

Quando svogliamo un lavoro propriocettivo, vogliamo evitare la fatica estrema o l’intensità eccessiva che possono inficiare la qualità del lavoro e la sensazione e gli schemi motori che si devono apprendere mentre vogliamo tenere la frequenza altissima (anche tutti i giorni) per “abituare” il più possibile il sistema nervoso a riconoscere le sensazioni date dal corretto lavoro muscolare, dalla postura e la posizione delle varie parti del corpo nello spazio (appunto propriocezione).

Per imparare il corretto controllo scapolare ci dobbiamo focalizzarci sulle “scrollate” e le “scrollate inverse”.

I movimenti da lavorare sono principalmente quattro :

  • Adduzione (retrazione) delle scapole
  • Abudzione (protrazione) delle scapole
  • Elevazione delle scapole
  • Depressione delle Scapole

Adduzione : scrollate orizzontali con manubri o bilancere su panca piana, al pulley, ai cavi, con elastici o alle macchine.

Abduzione : Push Up Plus/Push Up Scapolari o Abduzione unilaterali su panca piana e inclinata con manubri, oppure con cavi o bande elastiche.

Elevazione : scrollate con braccia sopra la testa (come la parte finale “lockout” di un military press) con bilanciere, manubri,cavi o elastici

Depressione scapolare : scrollate inverse alla sbarra per trazioni, lat machine o cavi.

Mantenere la massima contrazione per 4-5 secondi, allungare il muscolo e mantenere il massimo allungamento per 2-3 secondi.
Eseguire 3-4 serie da una decina di ripetizioni non a cedimento per ognuno dei 4 tipi di movimenti scapolari

Con alta frequenza settimanale e già dopo pochi giorni la propriocezione dovrebbe aumentare notevolmente.

Per la propriocezione dei dorsali sono molto utili esercizi che enfatizzano con una trattenuta isometrica la contrazione di picco, come ad esempio i rematori distesi proni su panca. Anche qui l’enfasi è sulla contrazione ed il controllo, non sul carico.

Chiusa questa piccola ma fondamentale parentesi passiamo al programma vero e proprio

Come allenare i muscoli della schiena

Come punto di partenza possiamo utilizzare un volume di 25 serie totali suddivise su una frequenza di 3 giorni, in giorni non consecutivi. (Ad esempio Lun Merc Ven). Il volume totale andrà poi pian piano crescendo nell’arco delle settimane.

La selezione degli esercizi:

Questo è un aspetto fondamentale, vanno selezionati i giusti esercizi per il tipo di lavoro che si vuole andare a fare.

Per quanto riguarda i muscoli della schiena possiamo suddividere il piano di lavoro generalmente in tre funzioni muscolari :

  • Estensione dell’omero sul piano sagittale (Dorsali)
  • Adduzione dell’omero sul piano frontale (Dorsali e Gran Rotondo)
  • Adduzione e depressione scapolare (Fasci medi ed inferiori del trapezio principalmente, con contribuito della gran parte della muscolatura della schiena)

Riferendoci ai movimenti dell’omero sul piano sagittale, in tutti gli esercizi l’omero deve arrivare parallelo al busto e non oltre: l’iperestensione  (quando il braccio va più indietro rispetto al busto) è a carico soprattutto del capolungo del tricipite e del deltoide posteriore che sono muscoli molto più deboli dei dorsali e che quindi limitano eccessivamente il carico da utilizzare se si volesse utilizzare il massimo ROM di estensione dell’omero.

Danno Meccanico

Vogliamo utilizzare esercizi che forniscono la possibilità di utilizzare grossi carichi ed abbiano un ROM ed una curva della resistenza particolarmente adatta ad enfatizzare l’allugamento muscolare sotto carico.

Indubbiamente da questo punto di vista gli esercizi migliori sono due : Trazioni Zavorrate (focus sull’estensione\adduzione dell’omero a carico  LATS e fasci inferiori del trapezio per la depressione scapolare) e Rematori con petto in appoggio con bilanciere\manubri\macchine (focus sull’adduzione scapolare a carico dei fasci medi del trapezio ed enfasi sulla massima contrazione dorsale con una curva della resistenza diversa da quella degli esercizi in verticale come le trazioni)

Personalmente suggerisco di utilizzare degli anelli per effettuare le trazioni in quanto è possibile ruotare il polso eliminando gran parte dello stress a livello del gomito e trovare l’ampiezza della presa (distanza tra gli anelli) più adatta alla struttura soggettiva.

In alternativa la presa che consiglio di più è quella neutra (palmi che si guardano) con un’ampiezza appena superiore alla larghezza delle spalle. Questo perchè utilizzare alti carichi su un grosso volume negli esercizi di tirata e specialmente le trazioni con un presa sempre prona o sempre supina generano grosse tensione sull’articolazione del gomito e potrebbe facilmente portare ad epitrocleite ed altre patologie a carico dei tessuti connettivi.

Per quanto riguarda i rematori, la presa deve essere circa larghezza spalle in modo da lavorare quanto più possibile sul piano sagittale, ma non deve essere forzata ogni soggetto deve trovare l’ampiezza della presa che gli permette di caricare in sicurezza senza avvertire nessun fastidio al livello delle spalle.
L’esecuzione è particolarmente importante. E’ fondamentale enfatizzare il massimo allungamento con un fermo di 1-2 secondi e controllare pienamente la fase eccentrica del movimento  facendola durare 2-3 secondi, il movimento parte SEMPRE dalle scapole che devono essere elevate ed abdotte in massimo allungamento, e poi depresse ed abdotte all’inizio della fase concentrica prima che avvenga il movimento degli omeri.

Consiglio in generale nell’allenamento della schiena e soprattutto nei programmi di specializzazione l’utilizzo di fasce per la presa (straps) e una presa “falsa” ovvero senza pollice su tutti gli esercizi di tirata per due motivi principali : ciò abbassa enormemente le tensioni a livello dei gomiti, e aiuta tantissimo dal punto di vista della propriocezione ad utilizzare i dorsali nel movimento di “tirata” limitando il lavoro dei flessori del gomito e dei muscoli della presa (spesso limitanti nelle serie più lunghe, o con carichi molto alti).

Dato il tipo di stimolo che vogliamo apportare (danno meccanico) useremo serie multiple per un basso numero di ripetizioni totalizzando un volume di lavoro medio-basso.

Quindi :

  • Trazioni Zavorrate 5×4 con il 6RM con 3 minuti di recupero 3secondi in eccentrica 2 secondi di fermo in allungo concentrica esplosiva
  • Rematore con petto in appoggio 5×4 con il 6RM con 3 minuti di recupero 3secondi in eccentrica 2 secondi di fermo in allungo concentrica esplosiva

Ovviamente prima di utilizzare carichi così alti suggerisco di effettuare un ottimo riscaldamento con magari qualche serie di avvicinamento a buffer (ramping) partendo con % di 1RM più basse.

Durante le settimane l’obiettivo qui sarà aumentare i carichi a parità di ripetizioni recuperi e serie.

allenamento muscoli schiena

Tensione muscolare

Quando vogliamo generare un’alta tensione muscolare gli esercizi che selezionamo dovrebbero avere queste caratteristiche :

  • Rom più ampio possibile con meno “punti morti” possibili
  • Possibilità di usare carichi considerevoli

Gli esercizi più indicati sono sicuramente le numerose varianti di Lat Pulldown, Trazioni e Rematori.

Per quanto riguarda le trazioni, le utilizzerei a questo scopo solo se si è in grado di farne 10 consecutive in perfetto controllo, fermo in basso ed in alto e negativa controllata con il proprio peso corporeo perchè altrimenti si finisce per fare serie troppo brevi oppure a compensare l’esecuzione con slanci o mezze ripetizioni.

Utilizzeremo un range di ripetizioni medio con carichi e recuperi medi ed un volume complessivo della seduta medio alto quindi :

  • Lat Machine o Trazioni presa larga neutra o prona (focus sull’adduzione sul piano frontale)
    4×6/10 con il 10RM 90-120sec di recupero senza enfatizzare i fermi ma sempre con completo ROM scapolare
  • Lat Machine o trazioni  larghezza spalle presa neutra (lavoro sull’estensione dell’omero sul piano sagittale)
    4×6/10 con il 10RM 90-120sec di recupero senza enfatizzare i fermi ma sempre con completo ROM scapolare
  • Rematori con petto in appoggio (busto parallelo al pavimento) con manubri o bilanciere o alle macchine
    4×8/10 con il 10-12RM 90-120sec di recupero senza enfatizzare i fermi ma sempre con completo ROM scapolare

Ovviamente gli esercizi possono essere eseguiti anche nelle loro varianti unilaterali, ottimo nel caso di squilibri fra i due lati o per avere la massima libertà articolare (specialmente nella lat machine che con sbarra fissa è più vincolante).

L’obiettivo durante le settimane qui sarà aumentare le ripetizioni a parità di carico, serie e recuperi

Stimolo Metabolico

Per quanto riguarda lo stimolo metabolico gli esercizi che scegliamo dovranno avere le seguenti caratteristiche :

  • Rom più completo possibile con una curva di resistenza che enfatizza soprattutto la massima contrazione
  • Curva della resistenza senza punti morti

Esercizi particolarmente adatti sono le varianti di rematori ai cavi (pulley, high cable row, low cable row..)

  • Pulldown con corda ai cavi alti
  • Adduzioni ai cavi alti sul piano frontale

Useremo un range di ripetizioni alto, carichi moderati e recuperi bassi per tenere alta la densità del lavoro.
Per fare ciò si prestano particolarmente bene tecniche come il Rest Pause o le serie a ripetizioni totali

Quindi :

Adduzioni ai cavi alti 100 Reps in Rest Pause con il 20RM e mini recuperi di massimo 20sec

  • Rematori al pulley larghezza spalle, o alle macchine 50 ripetizioni con il 15RM con 60sec di recupero e tutte le serie necessarie ad arrivare a 50 ripetizioni
  • Pulldown a braccia semiflesse (ma bloccate) al cavo alto in ginocchio o in piedi lontano dal cavo 3xmax con il 30RM e 40sec di recupero tra le serie.

L’obiettivo qui sarà abbassare i recuperi a parità di tutti gli altri parametri.

In definitiva la scheda ponendo tutti gli altri gruppi in monofrequenza su 3 giorni sarà   struttura più o meno così :

Giorno 1 : Schiena Danno Meccanico + Gambe
Giorno 2 : Schiena Stimolo Metabolico
Giorno 3 : Schiena Tensione muscolare + Braccia + Spalle + Petto

Personalmente preferirei aggiungere un quarto giorno in cui allenare da sole le gambe o gli altri muscoli dell’upper il minimo indispensabile per il mantenimento per non appesantire troppo gli altri giorni di allenamento e lasciarli principalmente dedicati solo alla schiena.

Nota finale su come allenare i muscoli della schiena 
Non ho preso in cosiderazioni gli stacchi e lo loro varianti perchè sono un esercizio in cui il motore principale è rappresentato dagli estensori delle’anche e la muscolatura del back lavora principalmente in isometria come stabilizzatore della colonna. Poichè rappresentano un esercizio particolarmente tassante a livello sistemico ed articolare non li reputo adatti in un lavoro  di specializzazione dove le energie vanno concentrare sui quei movimenti in cui il muscolo target è motore principale del movimento e va limitata la fatica sistemica dato dall’allenamento degli altri gruppi muscolari.

Ciò non toglie però che in altre fasi dell’allenamento varianti come stacchi rumeni o mezzi stacchi a presa larga possano fornire uno stimolo nuovo e diverso alla muscolatura della schiena e promuovere nuova crescita muscolare.

Autore dell’articolo: Domenico Aversano.
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La spalla: biomeccanica ed esercizi in palestra

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Quello della palestra, si sa, è da sempre riconosciuto come un ambiente ricco di contraddizioni e confusione, dove le certezze vacillano, messe in crisi da più solide consuetudini nate da miti e leggende del mondo del body building, le quali trovano fonte costante di nutrimento dalla perseveranza dei professionisti di ieri e di oggi a rendersi recalcitranti allo studio, alla sua applicazione e allo spirito critico animato da una sana e umana curiosità.

Il paradigma di tutto ciò è sicuramente ben rappresentato dal gruppo di esercizi dedicati alla stimolazione del gruppo muscolare “Spalle”, così come viene chiamato nella maggioranza di schede di allenamento dei centri fitness del passato e del presente.

La spalla: biomeccanica ed esercizi in palestra

Generalmente racchiusi in questo gruppo abbiamo esercizi con scopo ipertrofico mirati al deltoide (nei suoi 3 fasci anteriore-medio-posteriore) e al trapezio superiore. Ed è proprio a riguardo di questi due principali muscoli e della loro selettiva stimolazione che, normalmente, nascono le principali discussioni accompagnate regolarmente da contraddizioni grosse come case che purtroppo nella stragrande maggioranza dei casi non vengono mai notate ed analizzate, nella più totale inconsapevolezza alimentata nei migliori dei casi dalla retorica dei guru del settore o quando va male dal carisma prodotto dalle dimensioni muscolare di chi porta avanti le teorie.

Ma facciamo un po’ d’ordine e cominciamo a capire di che stiamo parlando esattamente, prima di iniziare ad analizzare la biomeccanica della spalla e capirne quindi a fondo le dinamiche reali e non quelle metafisiche nate dal body building.

Mi impegnerò ad essere il più chiaro e schematico possibile per rendere questo articolo una volta per tutte uno strumento in mano agli appassionati stufi di sentirsi raccontare tutto e il contrario di tutto in palestra e sui forum.

Iniziamo col classificare gli esercizi principali in base ai movimenti proposti e ai muscoli target. In palestra per deltoide e trapezio si propongono:

  • Distensioni sopra la testa
  • Alzate laterali
  • Tirate al mento
  • Shrugs o scrollate

E già nascono i primi miti e le prime contraddizioni che il palestrato medio non percepisce cercando malamente di argomentare le sue tesi.

Le alzate laterali vanno eseguite fino a 90° per far lavorare solo il deltoide perché dopo i 90° lavora il trapezio.
Questo assioma del mondo del body building, ragionandoci un po’ su, trova subito un paio di contraddizioni se andiamo ad analizzare gli altri esercizi proposti e le indicazioni solitamente date a seguito.

  • Mediamente durante l’esercizio di distensione sopra la testa l’esecuzione consigliata dal palestrato medio è quella con l’omero in posizione di partenza a 90° (figura 1) e relativa spinta verso l’alto fin sopra la testa (figura 2). In accordo con l’assioma sopra esposto, quindi, l’esercizio di distensione sarebbe un esercizio principalmente per il trapezio e poco per il deltoide e invece sappiamo come le indicazioni fornite dagli stessi guru siano diverse.
    spinte verticalispinte spalle
  • Nelle tirate al mento, con l’aiuto della foto sotto, possiamo immediatamente notare che, l’omero arresta il suo movimento a poco più di 90° per cui, sempre secondo l’assioma, sarebbe un esercizio per il deltoide e non per il trapezio. Chi frequenta la palestra o è appassionato di body building sa benissimo che invece è un esercizio must per chi vuole trapezi sopra le orecchie.
    tirate al mento

In virtù di ciò un po’ di perplessità nasce spontanea e crolla la credibilità di questi personaggi che si aggirano in palestra. E allora come stanno veramente le cose? Per chiarire un po’ la situazione cercherò di dare poche ma incisive informazioni di fisiologia articolare subito da applicare e da spendere da domani in sala attrezzi.

Biomeccanica applicata: le informazioni chiave nella pratica dell’allenamento per le spalle

La spalla è un complesso articolare che sviluppa la sua funzionalità grazie al movimento di 3 ossa: omero, scapola e clavicola. Per semplicità mi soffermerò solo sul movimento di omero e scapola. Sulla scapola è bene ricordare che si inseriscono ben 17 muscoli, che in qualche modo contribuiscono con il loro equilibrio ad una corretta biomeccanica scapolare e di conseguenza a un fisiologico movimento di abduzione, ricercato in esercizi come distensioni sopra la testa e alzate laterali.

In particolare prenderò in considerazione due di questi muscoli, il trapezio superiore e il deltoide, i muscoli target del gruppo di esercizi per “le spalle”.
Trapezio e deltoide stringono tra di loro un rapporto molto intimo, sia in termini anatomici (possiedono un inserzione comune a livello della clavicola e della scapola) sia in termini biomeccanici.

Durante l’abduzione, il movimento eseguito sia nelle alzate laterali, sia nelle distensioni che nelle tirate al mento (a cambiare sono la lunghezza della leva e le rotazioni d’omero per il resto sono il medesimo movimento), entrambi i muscoli sono coinvolti, garantendo un movimento associato di omero e scapola che insieme determinano il completo range fisiologico..

Ma in che modo sono coinvolti? A quali gradi di abduzione? E’ proprio qui il punto cruciale.
I movimenti di omero e scapola sono governati da quello che viene definito appunto il “ritmo scapolo-omerale”. Fin dagli anni ’50 il ritmo scapolo-omerale era 2:1, ovvero di ogni 3° di movimento di abduzione 2° sono dati dal movimento omerale (deltoide) e 1° da movimenti scapolari (trapezio superiore) (Inman et all, 1944)

Studi più recenti tuttavia ci consegnano informazioni più dettagliate inerenti la biomeccanica scapolo omerale. In particolare Bagg e Forrest nel 1988 ci suggeriscono come nei primi 80° di movimento di abduzione il ritmo è di 3:1 in favore dell’omero, tra 80° e 140° di abduzione è di 2:1 in favore dell’omero e tra 140° e 170° di abduzione è di 1:1.

In virtù di ciò possiamo affermare che, in un contesto nel quale omero e scapola si muovono sempre in simultanea e in simultanea si contraggono trapezio superiore e deltoide, sicuramente il contributo del deltoide nei primi 90° circa è maggiore (3:1) rispetto al trapezio che invece aumenta la sua attività a scapito di quella del deltoide a gradi maggiori di abduzione (1:1).

Semplificando molto, possiamo altresì affermare con più consapevolezza che potrebbe avere senso l’assioma del body building che prevede di non superare i 90° di abduzione per coinvolgere principalmente (e sottolineo principalmente) il deltoide nelle alzate laterali.
Tuttavia possiamo affermare anche che, sempre in virtù di queste conoscenze, nell’esercizio di distensione sopra la testa, se si vuole coinvolgere maggiormente il deltoide, il movimento debba partire da 0° di abduzione ovvero con il braccio lungo i fianchi e non da 90° come invece si vede sempre fare. (Figura 4-5)

esercizi spalleesercizi deltoide

Un’ulteriore riflessione pratica può essere estrapolata in merito all’esercizio tirate al mento. Il range articolare durante l’esecuzione dell’esercizio va da 0° a 90° circa di abduzione d’omero. Rifacendosi alla fisiologia articolare sopra esposta, semplificando, possiamo dire che in questo range il motore primo è il deltoide e non il trapezio superiore, ragion per cui seguendo la logica semplicistica del body building le tirate al mento non possono essere classificate come esercizio per il trapezio, come si crede, bensì per il deltoide.

Conclusioni: le esecuzioni consigliate

Come sempre lo studio e l’applicazione delle conoscenze scientifiche di fisiologia articolare sono in grado di aiutarci ad eludere la nube di ignoranza e inconsapevolezza creata da molti pseudo professionisti. Ora è bene trarre le conclusioni, per iniziare così ad eseguire da domani degli esercizi per le spalle più sensati e consapevoli.

Innanzitutto è bene precisare come la ricerca dell’isolamento tra deltoide e trapezio sia una vera e propria chimera. Solo il fatto di mantenere in mano un manubrio lungo i fianchi mentre ci apprestiamo ad eseguire delle alzate laterali, provoca una contrazione del trapezio superiore, che è deputato tra l’altro a sostenere il cingolo scapolare. Inoltre la sua contrazione determina una elevazione e rotazione esterna scapolare fondamentale per tutto il movimento di abduzione dell’omero. Impossibile e aggiungo io poco auspicabile una sua non attivazione in tali movimenti.

Qualche parola è bene spenderla anche per il discorso rotazioni in abduzione. Spesso si vedono eseguire abduzioni in rotazione interna come nelle alzate laterali (i classici “svuota la bottiglia d’acqua) e le tirate al mento. Oramai gli studi biomeccanici da anni ci indicano come l’associazione di questi due movimenti sia assolutamente rischiosa e poco consigliabile per la salute della spalla, confermato anche dalla notevole somiglianza tra tali esecuzioni e i test clinici di evocazione del dolore alla spalla esposti in un apposito articolo. (Graichen et al., 1999, Brossmann J et al., 1996, Yanai T. et al., 2006, Hughes et al., 2012, Pappas et al., 2006)

Sarà più facile comprenderlo se provate ad abdurre il braccio in completa intrarotazione (pollici verso il basso, figura 6), osservando così ad un certo grado di movimento un impossibilità a proseguire : è avvenuto il contatto tra tubercolo maggiore dell’omero e acromion della scapola, con conseguente intrappolamento e schiacciamento dei tessuti interposti in quella zone come il tendine del sovraspinato (il più lesionato in palestra) e la borsa sub-acromiale. Alla lunga tali compressioni e forze lesive portano ai classici dolorini “a spillo” da infiammazione tissutale anteriormente alla spalla, che spesso si presentano tra i frequentatori di palestre.

Al contrario, se provate ad eseguire un’abduzione in parziale extrarotazione (pollici verso l’alto, figura 7), non si presenterà alcun arresto del movimento da impedimento meccanico, in quanto il tubercolo maggiore dell’omero “sfugge” all’acromion evitando il conflitto e preservando i tessuti grazie a un movimento più fluido e funzionale. (Reinold et al. 2007, De Jongh et al., 2011)

intrarotazione omeroextrarotazione omero

In definitiva….quali esercizi per le spalle e perché???

  • Le alzate laterali eseguite fino a 90° possono realmente coinvolgere meno il trapeziorispetto a quelle oltre i 90°. A questo punto sarebbe da chiedere ai guru per quale strano motivo non lo si debba coinvolgere. Ad ogni modo consiglio di evitare di soffermarsi su queste paranoie e concentrarsi sul movimento fisiologico, volendo anche sopra i 90° consapevoli di cosa si sta contraendo e perché.
  • Distensioni sopra la testa sono da eseguire a partire da 0° con le braccia lungo i fianchi e non da 90° come si vede sempre. Solo così si avrà, oltre che un esercizio a ROM completo anche un’efficiente contrazione del deltoide.
  • Consiglio di eseguire questi due esercizi in parziale extrarotazione d’omero per evitare fenomeni da impingement il cui rischio diverrà enormemente più significativo dagli 80° in su di abduzione. A chi soffre invece di problematiche a carico del capo lungo del bicipite anche tale variante è sconsigliata. Consiglio inoltre di eseguirli entrambi seguendo il piano scapolare ovvero con l’omero anteposto di circa 30° (figura 8-9 ) in modo da favorire una maggiore congruenza articolare e la funzionalità della cuffia dei rotatori.

anteposizione 30 spinteanteposizione 30 alzate laterali
Distensioni e alzate laterali eseguite sul piano scapolare con omero extraruotato e anteposto di circa 30°

  • Sconsiglio le tirate al mento, che oltre a non essere un buon esercizio per il trapezio superiore come visto, sono anche poco fisiologiche e a rischio impingement.
  • Per quanto riguarda le “shrugs” il discorso è altrettanto ampio e gli dedicherò un articolo prossimamente per chiarire le modalità esecutive migliori per la stimolazione del trapezio.Ci tengo a precisare come tali consigli siano esclusivamente un’applicazione pratica della teoria scientifica, per chiarire molte contraddizioni e aumentare la consapevolezza e la credibilità dei veri professionisti. Da un punto di vista muscolare qualsiasi esecuzione con un sovraccarico per le spalle, in condizioni favorevoli porterà a ipertrofia anche se non verrà seguita la biomeccanica. Diverso invece il discorso per il rischio di lesione, che in tal caso diverrà più alto. Questo è tutto. Auspico in una tempestiva applicazione di tali concetti e un’estinzione di chi ha fatto di tutto per creare confusione e mal informazione. Buon allenamento!

Spalla: vai alla guida

Articolo del Dr Andrea Roncari

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Nutrigenetica: dimmi che DNA hai e ti dirò chi sei

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nutrigenetica nutrigenomica

Anche i non addetti ai lavori hanno ormai sentito parlare di Nutrigenetica e Nutrigenomica, e in particolare di test genetici che permettono di stilare il proprio personale profilo metabolico.

Prima di intraprendere un qualuque tipo di discorso pro o contro queste metodiche è assolutamente fondamentale distinguere i due ambiti a cui ci si può riferire: la ricerca e l’applicazione clinica.

Nel mondo della biologia molecolare gli esperti del settore sanno che le scienze “omiche” sono il futuro. Genomica, Proteomica, Metabolomica, sono tutte accomunate dal principio di esaminare (o tentare di esaminare) la complessità degli organismi viventi come un unicum. L’intento ultimo è quello di poter identificare un giorno, profili caratteristici delle cosiddette patologie multifattoriali e segnali (biomarker) in grado di predirle. Si tratta di patologie la cui causa è molto complessa e dipende da un’insieme di geni e fattori ambientali, tra cui depressione, obesità, malattie neurodegenerative. Per la verità la grande maggioranza delle patologie.

Il metabolismo è anch’esso una funzione biologica multifattoriale, perché coivolge migliaia di geni ed enzimi, ed è a sua volta grandemente influenzato da stili di vita, attività fisica, ritmi stagionali, ecc. In questo campo di ricerca la nutrigenetica (lo studio di specifici geni) e la nutrigenomica (lo studio dei geni del metabolismo nel loro insieme) stanno dando risultati molto incoraggianti.

Vediamo ora che applicazione pratica ha tutto ciò nell’attuale stato dell’arte. Mai come oggi i test genetici sono disponibili a prezzi accessibili, e questa opportunità è stata immediatamente commercializzata. Sono esami che vengono presentati come assolutamente affidabili ed estremamente professionali. E infatti lo sono, la genetica è arrivata a standard di qualità molto elevati.

Il punto cruciale della questione è l’effettiva utilità e applicabilità dei risultati (affidabilissimi) che si ottengono. Abbiamo parlato di malattie multifattoriali, e di come anche il metabolismo sia regolato da migliaia di geni che si influenzano reciprocamente e da fattori ambientali non dipendenti dal genoma.

Come può un test su pochissimi geni determinare il funzionamento specifico di un metabolismo individuale e consentire di stilare una dieta apposita che vi garantisca la forma fisica e la longevità? Non può, e nessuno ve lo promette in questi termini infatti. Si parla sempre e comunque di predisposizioni: ad esempio se avete un determinato polimorfismo di un certo gene potreste sviluppare l’obesità. E non possono dirvi nemmeno con che percentuale. Nel dubbio, mettetevi a dieta.

Un’altra cosa che non vi dicono è che anche una persona che NON ha quel polimorfismo potrebbe comunque sviluppare l’obesità, e magari anche con maggiore probabilità di voi.
Di fatto, persino persone già obese potrebbero benissimo risultare negative al test.

In sostanza si forza l’applicazione clinica di risultati sperimentali: un conto è studiare un gene in ricerca per capirne il ruolo nel metabolismo, altro conto è voler estendere l’impiego di quel singolo gene come strumento predittivo nella popolazione generale. Teniamo anche presente che un solo gene può avere moltissime funzioni, a seconda della sua regolazione epigenetica e del distretto corporeo in cui viene trascritto.

L’AIRC, l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, in linea con quanto stabilito dall’ASCO (il corrispettivo americano), suggerisce molta cautela nell’impiego dei test genetici per valutare la predisposizione al cancro. E si sta parlando di cancro, non di metabolismo. Ad esempio raccomanda che il test venga eseguito solo secondo prescrizione di un medico genetista, che sappia intepretare i risultati in base alla storia clinica e familiare del paziente. Non dimentichiamoci che esistono moltissimi tipi di cancro, alcuni a componente genetica forte, altri quasi nulla.
Sulla stessa lunghezza d’onda si schiera anche il Centro di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione del CREA (ex-INRAN) che pur sottolineando l’importanza della Nutrigenetica nella ricerca, consiglia prudenza nell’interpretazione dei risultati dei test.

Ma scendiamo nel dettaglio e prendiamo in esame alcuni geni impiegati in questi test.

test genetici

Molto studiato è il gene LPH (che codifica la beta-D-galattosidasi, l’enzima che scinde il lattosio): individui che hanno un certo polimorfismo in questo gene possono presentare intolleranza al lattosio.
Ma che cosa vuol dire? L’intolleranza al lattosio può manifestarsi in diversi gradi di severità, può apparire e scomparire in diverse fasi della vita e a seconda delle abitudini alimentari. Senza contare che per diagnosticare l’intolleranza basta il semplice Breath Test. Insomma val la pena fare un test genetico sul LPH per capire se al soggetto il latte fa male? No.

Un discorso analogo è valido per i geni del sistema HLA, studiati per la predisposizione alla celiachia, il gene VDR per il metabolismo della vitamina D, o il gene FTO per la predisposizione all’obesità.

Non parliamo poi della sindrome metabolica, dell’insulino resistenza e del diabete. I geni studiati sono moltissimi e tutti sembrano essere coinvolti. Citiamone alcuni: il gene PCI (un inibitore della via insulinica), il gene PTP1B (un altro regolatore negativo del signaling insulinico), il gene PPAR-gamma (che codifica per una proteina coinvolta nello sviluppo del tessuto adiposo), i geni KCNJ11 e SURI (per il canale del potassio ATP-dipendente delle cellule beta pancreatiche), il gene MLXIPL (regolatore trascrizionale dei geni della lipogenesi). E l’elenco non finisce qui. Senza contare l’apporto decisivo di fattori epigenetici e ambientali (come l’apporto calorico nei primi anni di vita, l’attività fisica, ecc.) che posso influenzare l’espressione genica.

Siamo sicuri che i nutrizionisti che prescrivono i test abbiano la competenza genetica di interpretare questa complessità, che non è pienamente compresa nemmeno da chi la studia quotidianamente? Ai posteri l’ardua sentenza.

In conclusione qui non si vuole dare un giudizio definitivo sui test genetici. Ogni professionista opera secondo il proprio metodo e valuta autonomamente l’utilità delle tecniche offerte dal mercato. Sono state riportate semplicemente riflessioni personali e le linee guida dei grandi istituti di ricerca, con l’intento di fornire al lettore strumenti aggiuntivi per trarre le proprie conclusioni. Il principio qui utilizzato è il principio dell’economia, lo stesso impiegato nella teoria delle scienza: ovvero ottenere il massimo con il minimo sforzo. I test genetici forniscono informazioni indispensabili e giustificano il costo impiegato per ottenerle? Ho davvero bisogno di questi risultati per capire quali siano le strategie alimentari più adeguate alla mia costituzione motebolica? Al momento, la risposta sembra proprio NO.

Ho volutamente tralasciato di approfondire le applicazioni pratiche delle scienze omiche, come ad esempio la metabolomica, che in campo nutrizionale sta dando buoni riscontri, perché si tratta di tecniche ancora costose e con sperimentazione in fase embrionale. Teoricamente a livello applicativo hanno una grande potenzialità, probabilmente maggiore dei test genetici. Nei prossimi anni sarà bene tenere sotto controllo questa branca della biologia, perché potrebbe riservarci interessantissime sorprese.

Articolo del Dott. Lorenzo Ambrosini Biologo nutrizionista, lavora ad Ascoli Piceno e zone limitrofe.
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Abbuffate di dolci e natalizie: come sopravvivere

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Chi dopo un’abbuffata di dolci o col cenone di Natale non ha pensato di mettersi a dieta dopo le feste e lo sgarro?
Le abbuffate natalizie o occasionali ormai sono uno sfogo tipico della nostra società, dove il cibo assume, sempre di più, il ruolo di gratificare la persona (in fondo mangiamo anche per nutrirci).

Ecco una breve guida su come comportarsi quando andremo incontro alle abbuffate.

1 Prevenire le abbuffate

E’ il bilancio calorico settimanale a contare, non quanto mangiamo in 1-2 giorni. Ingrassiamo perchè nell’arco della settimana, se non dell’intero mese abbiamo mangiato troppo, non per un’abbuffata occasionale.
Se sappiamo che avremo il cenone di Natale o di capodanno, mettiamoci a “dieta” quella settimana, iniziando a mangiare meno nei 3-4 giorni che precedono l’abbuffata.

In questo modo andremo a pareggiare l’introito calorico totale che è il fattore chiave delle variazioni di grasso.
In questa guida sulla ricomposizione corporea, troviamo degli spunti pratici su come comportarci la settimana dell’abbuffata.

2. Preferire gli zuccheri ai grassi

Questo consiglio funziona solo per chi si allena e per chi non è soggetto da insulino resistenza. Chi è abituato ad utilizzare le proprie scorte di glicogeno muscolare, le abbuffate di dolci sono da preferire rispetto ad abbuffate con molti grassi. Si è visto che importanti eccessi calorici, dati principalmente dai carboidrati vanno in primis a supercompensare le scorte di glicogeno e che l’eccesso si trasforma in calore piuttosto che in grasso.

Quindi se vi allenate, depauperate le scorte di glicogeno per poi supercompensarlo durante l’abbuffata di dolci.

abbuffate di dolci

3. Compensare l’abbuffata col digiuno intermittente

Come abbiamo scritto nel punto 1 è il totale calorico settimanale che conta. Il giorno dell’abbuffata natalizia e quello seguente, si può ricorrere al digiuno intermittente per condensare tutte le calorie in 1-2 pasti, ribilanciando così l’introito calorico giornaliero.

Naturalmente le persone che mangiano tanto un giorno, quelli seguenti tendono inconsapevolmente a mangiare meno. Il digiuno intermittente può essere così una buona strategia che amplificare questo fattore.

4. Abbuffate ed alcol

Quando vi abbuffate state attenti all’alcol, non tanto perchè anche lui apporta le sue calorie (1g=7kcal), ma soprattutto perchè abbassando la leptina, diminuisce la percezione della sazietà. E’ molto più facile cadere preda di attacchi di fame e non rendersi conto che siamo già pieni, se abbiamo bevuto diversi bicchieri di vino o birra.

Cercate di bere molta acqua, piuttosto che solo bevande alcoliche, durante le abbuffate, questo vi permetterà di migliorare il senso della sazietà.

abbuffate

5. L’ordine del pasto

Se sapete che vi abbufferete soprattutto di schifezze, iniziate il pasto mangiando tanta verdura. Prediligete alimenti a bassa densità calorica e seguite se riuscite questo ordine del pasto : verdura > proteine > carboidrati > dolce.

In questo modo migliorerete il senso di sazietà.

6. “Per il dolce c’è sempre spazio”

Ricordatevi che i cenoni durante le feste sono delle maratone. Frenatevi di fronte agli antipasti (scegliendo delle verdure se ci sono), e limitatevi con le prime portate. Non fate l’errore di cercare di saziarvi subito, perchè probabilmente il pasto sarà lungo.

Roberto Albanesi scrive: “per il dolce c’è sempre spazio“, quindi ricordatevi che per quanto sarete sazi anche l’abbuffata di dolci sarà quasi inevitabile, quindi piuttosto cercate di non arrivarci pieni.

abbufata

Conclusioni sulle abbuffate

Le abbuffate svolgono un ruolo “importante” per la nostra psiche adempiendo ad un ruolo di sfogo. Il nostro consiglio è quello di leggerle nel contesto dei 365 giorni. Abbuffate programmate possono aiutare l’organismo a non far crollare la leptina ed il metabolismo, durante i periodi di dieta e da nemiche possono addirittura diventare importanti alleate.

Quindi se durante tutto l’anno siete stati bravi, godetevi i cheat day e cheat meal senza farvi troppi problemi.
E’ la somma che fa la differenza.

Buone feste.

 

 

 

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Piegamenti sulle braccia, validi o da scartare?

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Questo è un articolo complesso sulla biomeccanica dei piegamenti sulle braccia. Su cosa differiscono rispetto alla panca piana? Come lavorano i diversi muscoli? Un articolo per chi ha voglia d’approfondire, studiando, i piegamenti sulle braccia.

I push up o piegamenti sulle braccia (erroneamente chiamati flessioni), rappresentano un must nell’allenamento a corpo libero, non solo utilizzati nelle preparazioni atletiche come rafforzamento muscolare ma anche come sfida goliardica fra amici o come prova nei campi militari, restano uno degli esercizi piu noti del resistence training.
Perche scrivere un articolo sui piegamenti? sono semplici e gli amanti del ferro e della ghisa nemmeno li prendono in considerazione normalmente, ma è corretto? E’ un esercizio cosi da scartare a priori?

Biomeccanica e muscoli dei piegamenti sulle braccia

Io non penso, anzi sono convinto che abbiano notevoli potenzialità e siano molto sottovalutati, cercherò di spiegarvi il motivo analizzando gli aspetti biomeccanici.
Piu o meno tutti si sono accorti che una serie di piegamenti restituisce una sensazione differente rispetto a fare una medesima serie di panca piana, non è solo il fattore difficoltà, ma almeno personalmente il piegamento mi restituisce una maggior sensazione di “pump“.
I piegamenti restituiscono sensazioni uniche rispetto alla panca, perche sono differenti!
Cerchiamo di analizzare in cosa sono diversi.
Introduciamo il concetto di catena cinetica: come la sequenza coordinata di mobilizzazione e stabilizzazione dei segmenti ossei per produrre un movimento.
Gli arti ruotano attorno alle articolazioni e si spostano successivamente nello spazio per descrivere delle traiettorie che nel complesso generano il movimento, la dinamicità.

piegamenti sulle braccia biomeccanicaNella figura è rappresentata la schematizzazione della catena cinetica, le articolazioni sono cerniere, cioè snodi che possono solo far ruotare i segmenti ossei (rappresentati con delle linee continue), i vincoli W ed F esterni rappresentano le reazioni vincolari del terreno, mentre i pallini neri sono i vincoli interni.
Questo è un sistema necessariamente labile, ovvero si può muovere nello spazio, ma i gradi di libertà sono limitati dalla presenza del terreno.

Si possono distinguere due tipi di catene cinetiche:
-Aperte
-Chiuse

Ricordiamo che in anatomia, l’aggettivo “distale” o “terminale” sta ad intendere qualcosa lontano dalla linea mediale o dal centro del corpo, mentre “prossimale” sta ad indicare l’opposto, ovvero vicino alla linea mediale del corpo.

Nella catena cinetica aperta, l’estremità distale ( o il segmento osseo terminale) è libera di muoversi senza nessun impedimento, può quindi ruotare attorno al giunto (l’articolazione) terminale anch’esso libero di muoversi nello spazio.
Nelle catene cinetiche chiuse, l’estremità distale è limitata a muoversi da un vincolo esterno e lo stesso vale per il giunto terminale che quindi è fisso o si sposta solo contro resistenza.
Se la resistenza offerta dal vincolo all’estremità distale di una catena chiusa è inferiore al 15% della forza massima che si riesce ad esercitare, allora la catena si chiama frenata.
La pedalata è un esempio di catena cinetica frenata.

flessioni sulle braccia

La corsa o la camminata sono un’alternanza fra catena cinetica aperta e chiusa; quando il piede è a terra la catena è chiusa quando si solleva è aperta.
Piu il movimento richiede velocità e piu ci si sposta su catene cinetiche aperte.
Un esempio è il lancio di una palla nel baseball, nella pallavolo, nel calcio, nel tennis o nel rugby, la catena è aperta, il movimento è balistico e infatti l’avambraccio con la mano non hanno vincoli esterni; in una catena cinetica aperta la velocità espressa dal movimento aumenta spostandoci in direzione distale, ovvero verso l’estremità del corpo.

La panca piana è una OKC (Open kinetic chain) perche il gomito, che è il giunto terminale, è libero di andare dove vuole e lo stesso l’avambraccio, mentre i piegamenti sono CKC (Close kinetic chain) perche in questo caso avviene l’opposto, gomiti ed avambracci restano fermi.
Nella panca la resistenza è il bilanciere, nei piegamenti la resistenza è il terreno che è inamovibile, di conseguenza cambiano i punti fissi su cui avvengono i movimenti, quelli che sui piegamenti erano mobili diventano fissi sulla panca e viceversa.
Cos’è il punto fisso?
Il punto fisso è quel punto che non si sposta durante la contrazione e viene utilizzato per indicare la direzione e il verso del vettore forza generata dal muscolo motore, è in pratica il fulcro della leva.
Il capo d’origine di un muscolo è normalmente coincidente con il punto fisso, mentre l’inserzione è dove si muove. I muscoli possono avere piu inserzioni, ad esempio il bicipite ne ha due, il tricipite tre, il quadricipite quattro.
Il pettorale, ha un’unica inserzione sulla tuberosità dell’omero ma piu origini, quindi è composto da fasci, i cui nomi si riferiscono al punto d’origine stesso (clavicolare, sternale, addominale)

L’azione del pettorale normalmente si esplica sull’omero, ovvero fa muovere l’omero, ma prendendo il punto fisso sull’omero, la sua contrazione fa elevare il tronco, perche il vettore forza ha la stessa direzione ma verso opposto (Avviene lo stesso nelle trazioni).

Il bicipite in genere svolge sempre funzioni di flessore dell’avambraccio sul braccio, perche il punto fisso è sulla scapola, ma se lo inverto la funzione diventa quella di anteporre la spalla.

Nelle catene cinetiche aperte è necessario che gli stabilizzatori intervengano per fissare il segmento prossimale, mentre nelle catene cinetiche chiuse gli stabilizzatori intervengono per fissare il segmento distale; nella panca il giunto da stabilizzare è la spalla, nei piegamenti è il gomito.

Altra caratteristica è l’ordine di attivazione muscolare, nelle OKC è dal segmento prossimale verso quello distale, mentre nelle CKC è l’opposto, ma i muscoli motori principalmente interessati in entrambi gli esercizi sono pettorali, deltoidi anteriori e tricipiti.
Quello che si può osservare è che in un esercizio a catena cinetica chiusa, paradossalmente, i muscoli acquisiscono funzioni opposte a quelle a cui siamo abituati ad affidargli; il bicipite invece di flettere l’avambraccio aiuta la sua estensione.
E’ un muscolo biarticolare, agisce su due articolazioni, quella scapolo-omerale e quella del gomito.
Nei piegamenti quando il tricipite si contrae fa estendere l’omero (punto di rotazione sul gomito) e flettere l’avambraccio (punto di rotazione sul polso) , il bicipite si inserisce distalmente su quest’ultimo, cosi quando l’avambraccio ruota viene messo in tensione e di conseguenza tira prossimalmente la scapola.
Abbiamo un trasferimento di forza del tricipite alla scapola, mediato dal bicipite.
Quindi il movimento è realizzato principalmente da pettorali, tricipiti e deltoidi anteriori e stabilizzato da bicipiti, dorsali, deltoidi posteriori, cuffia dei rotatori, trapezio e gran dentato .

Il core è necessario nei piegamenti per mantenere il busto dritto, la fascia addominale con retto dell’addome, trasverso, obliqui, gli erettori spinali e i muscoli del bacino come lo psoas e il retto del quadricipite sono attivati isometricamente.

piegamenti sulle braccia

Fra i muscoli che stabilizzano il movimento, il gran dentato anteriore è sicuramente quello piu coinvolto, infatti fa aderire la scapola al torace, l’abduce e la ruota esternamente.
Nei casi di paramorfismi come le scapole alate, il gran dentato ( o serrato) è debole e non riesce a mantenere la scapola a contatto con la cassa toracica, quindi si presenta con il lato posteriore staccato e prominente verso l’esterno e questa condizione è esaltata dagli esercizi di spinta.
In questo caso è consigliato rinforzare il gran dentato, rimanendo in tema di piegamenti e movimenti a corpo libero un possibile esercizio può essere quello in cui da posizione di partenza dei push up si effettuano movimenti di abduzione e adduzione della scapola, con omero che rimane fermo nella posizione di partenza.

Negli esercizi CKC c’è una minor co-contrazione dei muscoli antagonisti, da questo ne deriva un minor carico concentrato (reazione vincolare) e meno stress sull’articolazione da stabilizzare.
(gomito nei piegamenti, spalla nella panca piana).

La co-contrazione dei muscoli “antagonisti” è un efficiente sistema del nostro organismo che ci permette di mantenere stabile un’ articolazione evitando perturbazioni della traiettoria indesiderate.
Il sistema nervoso controlla la contrazione dell’antagonista mediante dei sensori propriocettivi che inviano segnali alla centralina su tutte le variabili del movimento, come la velocità, l’allungamento o cambi di traiettoria dovuti a forze “parassite”.

Piu il movimento è libero, piu è instabile e maggiore è la richiesta di rigidezza da parte dei muscoli antagonisti che si dovranno contrarre per funzionare come ammortizzatori; per questo gli esercizi OKC richiedono una miglior coordinazione intramuscolare e intermuscolare rispetto ai CKC, quindi un’abilità propriocettiva maggiore, che è allenabile nel tempo ripetendo l’esercizio piu volte e imprimendo lo schema motorio nella corteccia motoria, in modo che il movimento diventi naturale, acquisito e che ogni sbavatura sia facilmente compensata immediatamente, cosi che pure la tensione degli stabilizzatori antagonisti si riduca al minimo necessario, senza disperdere energie.
Allo stesso tempo un sistema chiuso come i piegamenti ha piu gradi di vincolo e quindi meno possibilità di poter modificare il movimento, che diventa guidato, questo può far incorrere in problematiche laddove si presentino delle alterazioni morfologiche dell’apparato locomotore, perche ci possono essere distribuzioni non ottimali delle forze con tensioni in alcuni casi troppo elevate che portano nel tempo ad infortuni.

Una conseguenza importante dell’aumento dei gradi di vincolo e della riduzione dei gradi di libertà, quindi la forzatura della traiettoria e dei movimenti anatomici, è un aumento dello stress sulle articolazioni che sono a diretto contatto con la resistenza (polsi e caviglie).

Nei piegamenti il polso è stressato, sia perche la mano è forzatamente iperestesa sotto carico, sia perche il vincolo non permette la sua rotazione durante il movimento.
Inoltre l’iperestensione facilita le tendinopatie all’epicondilo laterale del gomito.
Lo stress aumenta ancor di piu se si tengono le mani molto strette senza ruotarle internamente, in quanto si generano delle tensioni di torsione sia sul polso che sul gomito.
Questo avviene pure nella panca piana (seppur il polso rimanga non iperesteso), mentre il problema è risolto dai manubri.
Vedremo nel prossimo articolo come poter superare la questione nei piegamenti.

Un eventuale problema posturale in un esercizio OKC può essere facilmente compensato, mentre in un CKC questo non avviene, ma è proprio perche la traiettoria è facilmente modificabile e adattabile che la correzione di uno schema motorio in un esercizio con piu gradi di libertà è piu difficile perche si tenderà sempre a ricercare la configurazione che permette di compensare il problema stesso, mentre nell’esercizio CKC, non potendo compensare, si agisce sulla resistenza stessa oppure si modifica il setup di partenza, ma non si può modificare la traiettoria durante l’esercizio.

Da questa analisi ne deriva che i piegamenti restituiscono un senso di maggior stabilità rispetto alla panca e ancor piu rispetto ai manubri, come tutti gli esercizi a catena cinetica chiusa, piu si riducono i gradi di libertà e aumentano i gradi di vincolo e maggiore è la stabilità del movimento, ciò rende anche piu facile concentrare la tensione sui muscoli motori, invece di disperderla sugli ausiliari e stabilizzatori.
Un completo neofita non riesce a fare panca piana, è scoordinato e non è capace di far seguire una traiettoria precisa al bilanciere, mentre lo stesso neofita riesce molto probabilmente a fare dei piegamenti in maniera corretta, quindi per un principiante sono sicuramente un opzione da considerare.
Ma anche per un intermedio/avanzato i piegamenti rimangono un ottimo completare che nella periodizzazione annuale non dovrebbe mai mancare.

L’articolo sui piegamenti sulle braccai è di Matteo Monaci

Matteo è l’amministrato di questo gruppo Facebook per chi volesse approfondire l’argomento.

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Andare in palestra fa ingrassare

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cortisolo ingrassare

Articolo della Dott.ssa Alessandra Renzi

Il troppo è come il poco, andare in palestra tutti i giorni, fa ingrassare!
So già che una parte di voi starà pensando…andare in palestra tutti giorni, ah, not my problem! 😀

I più salutisti invece staranno pensando, ma come? Parlano tutti dei mille benefici di una regolare attività fisica, e tu mi dici che andare in palestra ed allenarsi tutti i giorni fa ingrassare?
Exactly.

Non sto cercando di conquistare simpatie dei più pigri per una qualche votazione elettorale, ti sto dicendo la verità. Oggi ti spiego perché, se il tuo obiettivo è quello di perdere peso o migliorare la massa muscolare, andare in palestra tutti i giorni ed allenarti troppo intensamente potrebbe diventare uno dei maggiori ostacoli al raggiungimento dei tuoi obiettivi.
Non ti sei mai chiesto come mai la tipa o il tipo che vedi allenarsi fino allo stremo tutti i giorni in palestra non abbia il fisico di una top model o di un culturista americano? Magari mangia male? Troppi all you can eat? La genetica forse?

Magari l’hai sperimentato tu stesso sulla tua pelle. Insalatina, palestra 3 ore tutti i giorni e poi niente, ad un certo punto l’ago della bilancia non scende più, i vestiti iniziano ad andare stretti e la pancia è sempre lì.  Come mai?

La colpa è del cortisolo.

L’attività fisica intensa infatti, in assenza di un adeguato recupero e supporto nutrizionale, provoca stress ed innalza i livelli di cortisolo (noto ai più, non a caso, come ormone dello stress), da qui l’allenamento può non far dimagrire.

Gli esperti del settore lo definiscono “overtraining”; ovvero, una sindrome di mal adattamento tra carico di lavoro e capacità di recupero. Diciamo anche che tra allenamento intenso ed overtraining il confine è molto sottile. Impossibile definire la soglia del “troppo”. La risposta individuale varia in base a numerosi fattori sia genetici che ormonali, che riguardanti lo stile di vita.

Se consideriamo il breve termine e da un punto di vista evolutivo, il cortisolo ha avuto un ruolo assolutamente positivo in quanto, senza di lui, saremmo probabilmente finiti per essere il pranzo del leone. Esso ci prepara infatti all’improvvisa esplosione di richieste energetiche mettendo in atto la famosa risposta “combatti o fuggi”.

Se lo stress diventa cronico però, Houston, abbiamo un problema…

Ecco che aumentano i disturbi del sonno, i problemi digestivi, depressione, il peso aumenta  e, per non farci mancare nulla, potremmo sperimentare anche qualche problema con la memoria. I livelli sierici dell’FT3, l’ormone della tiroide, si abbassano mentre quelli del reverse T3 aumentano. Nel lungo periodo la massa muscolare diminuisce, il dimagrimento si blocca  ed il metabolismo rallenta.

Non solo, favorendo l’ìnsulino resistenza, il cortisolo in eccesso favorisce anche la deposizione di grasso, soprattutto a livello addominale.

Come se non bastasse, andare in palestra tutti i giorni non vi aiuterà nemmeno con l’ipertrofia. Come suggerisce Brad, (Brad Schoenfeld) l’ipertrofia muscolare ottimale segue una curva ad U e si posiziona in un range a metà fra pigrizia ed overtaining. Se lo dice lo specialista dell’ipertrofia magari ci fidiamo.

curva gaussiana attività fiisica

Ah, dimenticavo.. un eccesso di cortisolo abbassa ovviamente anche il testosterone.  (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15618989)

Ora che vedo il terrore nei vostri occhi posso dirvi che la situazione è reversibile. Tranquilli.

Basta seguire qualche semplice accorgimento.

  • Abbassa la frequenza degli allenamenti.
  • Prenditi il tempo per recuperare.
  • Last but not least, concediti un bel piatto di pasta!

Fammi capire, brucio 257 Kcal in palestra, mi uccido con i pesi e tu…mi dici di vanificare tutto con un piatto di pasta da 354 Kcal? Sei impazzita?

Le diete low-carb sono spesso viste come il modo migliore per ridurre il grasso corporeo, anyway, una low-carb associata ad una condizione di overtraining potrebbe innalzare alle stelle i tuoi livelli di cortisolo, avere un impatto negativo sulla funzione immunitaria e sopprimere la funzione tiroidea.

In questo modo invece, oltre a sfruttare l’effetto anabolico dell’allenamento; ovvero quella finestra temporale “where the magic happens” in cui è il muscolo a captare la maggior parte dei nutrienti per ripristinare le scorte di glicogeno, abbasseresti la risposta del cortisolo allo stress, sia fisico che mentale. (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27716864)

So che tutti parlano di uscire dalla zona di confort, ma, quando dobbiamo fare i conti con la nostra fisiologia, spingerci troppo in là potrebbe non essere la giusta via per raggiungere i nostri obiettivi.

La vita è decisamente troppo breve per sentirci stanchi ed insoddisfatti.
Moderation (and common sense) is the key.

“Da requiem; requietus ager bene credita reddit: 
Riposati; un campo che ha riposato da un raccolto abbondante.”
(Ovidio)

alessandra-renzi

Articolo della Dott.ssa Alessandra Renzi

27 anni, Nutrizionista.

Innamorata della California, del sushi e dello zucchero filato.
Dopo un master, seminari, tirocini e corsi vari ho deciso di scrivere un blog (weight a minute) e parlare di nutrizione a modo mio.

Se volete saperne di più mi trovate qui: www.weightaminute.it

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Sono stato grasso! – potrò diventare magro? E arrivare all’8%?

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Questo articolo è un estratto di uno degli argomenti del corso avanzato di nutrizione sportiva di Vivereinforma, che grazie alla collaborazione anche col Project Invictus siamo in grado di offrire anche ai laureati/studenti ISEF e Scienze Motorie. Il corso ed ulteriori informazioni, le trovate al seguente link sulla nutrizione sportiva avanzata.

Articolo di Manuel Salvadori 

riuscirò a dimagrire

Introduzione

Nella lotta al dimagrimento esistono moltissimi stereotipi, molte credenze ed altrettanti falsi miti cui poter attingere a proprio piacimento quando si scherza riguardo la scarsa capacità di dimagrire nostra o di qualche nostro amico. “Ho le ossa grosse!”, “Ho la tiroide lenta!” – sono solo due delle battute di un repertorio vastissimo, sicuramente molto noto. Il punto di cui oggi ci occuperemo è una giustificazione purtroppo veritiera della differenza di perdita di peso tra due soggetti apparentemente identici, problema molto noto a chi è stato sovrappeso/obeso e vuole ora provare (o è già riuscito) a cambiare vita.

A parità di peso, due soggetto alti 1.80m possono perdere peso molto diversamente. Durante l’anamnesi una delle prime cose da chiedere è: “Sei mai stato/a in sovrappeso?” e, se la risposta è affermativa, riusciamo effettivamente a dedurre quanti e quali problemi potranno principalmente svilupparsi.

In campo di ricerca sul tessuto adiposo siamo ancora agli albori, ed è per questo che è un argomento su cui si possono fare anche dei riferimenti empirici che sicuramente risulteranno comuni a tutti. In più ci baseremo su nozioni di fisiologia base della regolazione adiposa in grado di giustificare alcuni comportamenti, e per aiutarci maggiormente a creare un filo logico in un argomento ancora molto oscuro useremo una trattazione a punti.

Scaviamo dentro l’organo adiposo – parassita o simbionte?

Il grasso è l’essere più o meno senziente che ci ha permesso di sopravvivere a tutte le sfide che la natura ci ha presentato nel corso dei secoli, quando il concetto di “casa” e “riscaldamento” erano una lontana fantasia e molto del tempo era speso cercando di ottenere cibo e un ambiente caldo. La capacità degli adipociti (le unità funzionali del grasso) di replicarsi e la capacità di dare priorità ad altre cellule nei processi di dimagrimento troppo repentini, lo rendono un attore fondamentale della nostra sopravvivenza. Immaginate la situazione di un cacciatore-raccoglitore che per qualsiasi motivo non riesce a ottenere cibo per tanto tempo, un apporto di calorie adatto al suo mantenimento e anzi si trovi in una carestia completa. Pensare di perdere grasso e mantenere il muscolo è utopico – semplicemente perché il muscolo consuma più del grasso, che invece funge anche da deposito energetico. Trasliamo questa situazione ai giorni nostri e otteniamo lo stesso tipo di ragionamento quando si passa da regimi ipercalorici o eucalorici a regimi esageratamente ipocalorici (ad esempio una dieta PSMF o un Fat Fasting). La situazione che il nostro corpo deve affrontare è similare, se la prendiamo solo dal punto di vista dietetico (perché ovviamente le condizioni ambientali sono molto più favorevoli nel 2017 rispetto al vivere nella savana o nella giungla), e la risposta sarà la medesima: il grasso tenderà a mantenersi dando priorità alla degradazione aminoacidica muscolare. Questo avviene “da manuale”, diciamo. Ovviamente con strategie nutrizionali più volte citate sul Project siamo in grado di limitare al minimo questo processo. Una nozione da portare a casa però è che gli adipociti non muoiono, non vanno incontro a necrosi. Sono dei sacchi che si riempiono quando si ingrassa, si moltiplicano, proliferano. Quando si dimagrisce, questi sacchetti si svuotano ma non vanno incontro ad autodistruzione se non in casistiche particolari sotto stimoli ancora più particolari. Anche da vuoti, gli adipociti continuano a esercitare il loro effetto che è estremamente vario a livello endocrino.

organo adiposo

Punto n°1: il grasso è progettato per “proteggerci” dalle carestie e dalla scarsità di cibo, dando la precedenza alla degradazione muscolare nei dimagrimenti troppo veloci. Gli effetti di una passata obesità si riflettono in una capacità di dimagrimento peggiorata a causa dei numerosi effetti endocrini che gli adipociti – unità funzionali del grasso non soggette a degradazione – continuano a esercitare.

La nostra capacità di alternare l’ossidazione di grasso o di carboidrati viene definita flessibilità metabolica, e può essere allenata attraverso manipolazioni dietetiche e allenanti. Essa viene definita da un insieme molto ampio di fattori biochimici che interdipendono l’uno dall’altro:

  1. Sensibilità insulinica;
  2. Sensibilità grelinica;
  3. Sensibilità leptinica;
  4. Sensibilità adiponectinica;
  5. Cascata recettoriale sensibile ad attivazione AMPK;
  6. Cascata recettoriale POMC/Agrp

Tutte queste caratteristiche rendono univoca la capacità di risposta a uno stimolo dietetico piuttosto che a un altro, e sono la causa principale della risposta “aumento grasso” vs “aumento muscolo”. La capacità del nostro corpo di alternare tra metabolismo glicolitico e ossidativo è una delle eredità più pesanti che ci lascia l’essere stati in sovrappeso, poiché sono proprio questi 6 meccanismi a essere particolarmente alterati anche negli anni successivi. Questo cambiamento di substrato, che avviene in maniera estremamente efficace in chi ha alternato tipologie di allenamenti e stimoli in maniera ragionata, sullo stesso soggetto che però ha un passato obeso non risulta essere così efficace. In particolare, chi ha una buona flessibilità metabolica e pesa 80 kg può pensare – con un esempio totalmente immaginario – di prendere peso pulito con una dieta da 3500KCAL con macro equamente distribuiti e magari una leggera ciclizzazione. La stessa persona di 80 kg, con 3500kcal e macronutrienti equamente distribuiti farà sicuramente più fatica a rimanere pulito e in qualche caso si andrà incontro al disastro che tutti conosciamo, cioè aumentare di peso con predominanza di grasso. E tutto dipende da quei 5 fattori e dalla loro up/down regolazione.

Teniamo presente che stiamo parlando in questo caso solo di ottica nutrizionale, e non correttiva con l’allenamento.

Punto n°2: a parità di condizione dietetica e composizione corporea, una persona con un passato di obesità porterà a lungo termine gli strascichi di sensibilità insulinica peggiorata, e quindi di flessibilità metabolica poco efficiente.

Ora, dalle ricerche sull’epigenetica sappiamo che siamo in grado, attraverso fattori come la dieta e l’attività fisica, di imprimere sul nostro DNA delle piccole modifiche in grado di influenzare poi il prosieguo della nostra esistenza – il campo cosiddetto dell’Epigenetica Nutrizionale. Senza illuderci di aver trovato l’ennesimo Sacro Graal – a meno di non procedere con stimolazione peptidica – possiamo ragionare su questo. Possiamo in effetti identificare quali sono i fattori influenti e quanto possono esserlo effettivamente. Intanto, i cosiddetti set-point adiposi, cioè il livello di % di grasso a cui il nostro corpo spontaneamente tende a portarsi, viene influenzato da:

  1. Alimentazione della madre durante la gravidanza (famine experiment);
  2. Percentuale di grasso durante l’infanzia, fino agli 8-10 anni nello specifico;
  3. Percentuale di grasso durante gli anni passati e per quanto tempo è stata mantenuta.

Inoltre, dei fattori che risultano evidenti dalla poca letteratura disponibile da correlare sono:

  1. Le alterazioni cognitive che l’obesità o il sovrappeso causano e che perdurano anche molti anni dopo l’avvento di un dimagrimento;
  2. L’influenza della dieta occidentale molto ricca di sapori altamente stimolanti, in grado di alterare i recettori presenti sul tessuto adiposo – ancora più sensibili dopo un passato di obesità;
  3. L’essere stati obesi o in sovrappeso porta ad alterazioni cognitive del controllo dell’introito calorico che rende molto pericolose le ricariche di carboidrati.

Punto n°3: la passata obesità/sovrappeso hanno influenze sia biochimiche che mentali, e giocano un ruolo che spesso ci porteremo dietro tutta la vita nel nostro rapporto col cibo.

Cosa fare?

Si possono trarre delle linee guida piuttosto generiche, ma possiamo trarre qualcosa di utile. Prima di tutto: si può fare qualcosa? In generale, sì. Uno studio di cui riporto le conclusioni in lingua originale per non incorrere in errori da traduzione scientifica, recita:

In summary, we have demonstrated that ArcPomc-deficiency increases fat mass and the ratio of fat to lean mass, and it impairs the function of leptin to reduce body weight and food intake independently of body weight. Therefore, rescue of ArcPomc expression in weight-matched ArcPomc−/− mice, whether or not there is a history of previous obesity, reestablishes normal energy homeostasis and body weight set point under ad libitum feeding conditions by correcting the abnormal body composition and restoring leptin sensitivity. In contrast, massive hyperleptinemia induced by PASylated leptin administration prevents this normalization by blocking the complete restoration of ArcPomc expression. Therefore, our study reveals a strong reciprocal association between leptin levels and hypothalamic POMC in the regulation of energy homeostasis that is potentially relevant to explain the high recidivism rate for obesity after dieting that is commonly seen in clinical situations. Moreover, our data suggest that reversal of leptin resistance specifically on hypothalamic POMC neurons is a testable mechanism to explain the clinical findings that high dose leptin therapy is effective at maintaining weight loss after calorie restriction and reduction of endogenous leptin, but not for the primary treatment of obesity [2]. Collectively, our study demonstrates that the interaction between hypothalamic leptin sensitivity and Pomc gene expression regulates body weight set point, a phenomenon that can be applied to control obesity more efficiently than targeting either the leptin or POMC signaling pathways alone.

Che nella pratica significa: attraverso somministrazioni di leptina clinica studiando l’equilibrio recettoriale della via POMC/Agrp, si è riusciti ad ottenere un normale set-point del peso corporeo.

Utilizzando questi dati per ragionare, collegando alcuni pezzi del puzzle tra loro, si evince (per deduzione e non ancora per dimostrazione scientifica) che tramite una corretta manipolazione dietetica/allenante e col passare degli anni è possibile ristabilire l’equilibrio sulle sei vie metaboliche citate in precedenza. Tutto ciò deriva dal fatto che sappiamo per certo che l’esercizio fisico ben calibrato e la dieta sufficientemente ricca di stressor riescono ad agire su tutti gli ormoni nominati e su tutti i meccanismi coinvolti – in un ex obeso faranno solo molta più fatica e combatteranno con una resa estetica non ottimale (causata dall’accumulo degli adipociti vuoti). Tuttavia dobbiamo avere l’accortezza di stabilire alcune variabili che saranno molto utili nel nostro percorso.

In primis, per capire la “gravità” del set-point è utile capire quando si è verificato “l’intoppo” – cioè quando la persona è stata in sovrappeso, o se la madre è stata esposta a carestia (es per povertà) o al contrario se è stata sovrappeso durante la gravidanza. Una volta identificato quando si è verificato e di che entità è stato, potremo fare una stima sulla difficoltà e sugli step con cui procedere. Un sovrappeso mediato dai genitori è molto più lieve, in linea di massima, di uno maturato in 20 anni di “pratica”. Il primo avrà un’origine biochimica più facile da ricalibrare con l’alimentazione, il secondo necessiterà anche di soluzioni psicologiche. Prima di tutto in ottica natural, un obeso di oltre 170 kg è quasi impossibile che arrivi al six-pack definito. Esistono dei casi in letteratura, ma sono estremamente rari e qualcuno è anche sospetto. In questi casi si sa che dovremo procedere a una rimozione chirurgica dopo aver preparato il metabolismo dimagrendo il più possibile e cercando di aumentare il muscolo allo stesso tempo. Un percorso possibile sarà quindi:

  1. Ricomposizione corporea nella migliore maniera possibile;
  2. Sostituzione mentale dei cibi spazzatura in regime eucalorico con cibi più sani (rieducazione del palato);
  3. Aumento della massa muscolare se possibile con esercizi ad hoc di rimobilizzazione;
  4. Rimozione chirurgica del grasso in eccesso;
  5. Fase di riadattamento (da 1 a 3 anni)

Nell’ultima fase avremo un evidente squilibrio tra quello che il nostro cervello percepisce come “il nostro peso” e quello che il nostro corpo effettivamente porta con sé. Il set-point cerebrale ragionerà ancora con i kg di adipociti addosso e vi porterà stimoli sazianti molto diversi da quelli che arriveranno dopo che il tempo avrà riequilibrato le vie sopra menzionate.

Punto n°4: il corpo ragiona in due modi, attraverso le quantità di adipociti che “indossa” come una maglietta protettiva e attraverso gli stimoli che al cervello arrivano. La rimozione chirurgica porta via con sé buona parte della stimolazione endocrina “di ritorno” dagli adipociti, ma non elimina a prescindere la via che proviene dall’ipotalamo, che impiegherà diverso tempo per ricalibrarsi.

Tenendo sempre ben presente la particolarità individuale, terminiamo con alcuni consigli pratici che possono essere applicati da chi è stato in sovrappeso e mira comunque a elevati risultati estetici:

  1. Variare le diete in modalità progressiva e non utilizzare variazioni eccessivamente drastiche se non si è già “fit” o sotto il 15% da più di 2 anni. Un esempio è la Reverse Diet.
  2. Cercare di utilizzare approcci a predominanza mono-substrato – cioè ad alti carboidrati o ad alti grassi;
  3. Pervenire a diete ipercaloriche con macro (carbo e grassi) equamente distribuiti solo dopo molte prove e tentativi per non vanificare parecchi mesi di lavoro;
  4. Utilizzare l’allenamento come jolly nella variazione dietetica: allenamenti fortemente glicolitici per migliorare la sensibilità insulinica quando è il momento di preparare il corpo a dosi maggiori di carboidrati;
  5. Fare particolare attenzione se si utilizzano regimi low-carb che prevedono ricariche di carboidrati – sono un trigger molto forte per l’ipotalamo abituato ad abbuffate, pertanto è possibile che lascino strascichi di appetito aumentato per molti giorni seguenti, rendendo l’aderenza alla dieta molto più complicata;
  1. In generale una persona ex sovrappeso/obeso, avendo più adipociti vuoti – comunque in grado di produrre più GLUT4 rispetto alle cellule muscolari – tollererà meno la dieta iperglucidica.
  2. In generale, la persona ex sovrappeso/obeso, avrà maggiori livelli di infiammazione sistemica che vanno indirettamente a peggiorare il metabolismo del muscolo;
  3. Molto più “lineare” e da linea guida può essere il suggerimento di attendere il 15% di massa grassa prima di provare un approccio high carb – il che ci assicurerà una sensibilità ormonale maggiore e quindi maggiore possibilità di convertire i carboidrati senza accumularli.

bibliografia sono stato grasso

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Termoregolazione corporea per dimagrire

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In questo articolo scopriremo come la regolazione della temperatura corporea, possa aiutare a dimagrire. Quali sono gli accorgimenti che dobbiamo fare, per poter sfruttare la temperatura dell’ambiente per una miglior composizione corporea?

L’essere umano è un sistema complesso. Nel nostro organismo cooperano diversi apparati, composti da organi, che a loro volta sono formati da tessuti ed infine da cellule. Ogni mattoncino si incastra per formare una struttura più grande. Il tutto avviene per permettere la vita. Nel nostro corpo alcuni parametri fisiologici devono rimanere stabili, dentro certi range: il pH (vedi dieta alcalina), la glicemica, la temperatura corporea, ecc.

E’ inverno e vi apprestate ad entrare nel vostro negozio preferito, il primo giorno dei saldi. Fuori ci sono -3°, le porte automatiche si aprono e venite investiti dai 24° dello store affollato. Come fa il vostro corpo a sopportare cambiamenti climatici così improvvisi?

Come avviene la termoregolazione per il freddo

In un altro articolo abbiamo visto cosa succede quando arriva il caldo e vogliamo allenarci e quali sono i meccanismi fisiologici che mantengono la temperatura corporea stabile. In questo, invece,  ci soffermeremo sul freddo e sulla capacità del corpo d’aumentare la temperatura corporea (dimagrendo).

La termoregolazione da freddo è, come quella per il caldo, in primis regolata da uno spostamento del flusso sanguigno. In questo caso, all’opposto, il corpo irrora meno le estremità e la cute, a favore degli organi interni (le famose mani ghiacciate). Successivamente l’organismo può elevare la temperatura attraverso:

  • i brividi (che aumentano notevolmente il calore nel muscolo)
  • gli adipociti bruni
  • il fegato ed i muscoli

In questi ultimi due casi l’organismo aumenta la produzione di noradrenalina e T3. La conseguenza è una stimolazione della proteine mitocondriali UCP che generano calore da “cicli futili”, ovvero l’ATP speso non produce nessun lavoro meccanico o molecola, semplicemente si disperde in calore.

Questo permette all’organismo d’aumentare la propria temperatura corporea.

Termoregolazione corporea per dimagrire

termoregolazione corporea per dimagrire

Uno dei motivi per cui l’uomo moderno fa tanta fatica a mantenere un peso corporeo ideale, è che non è più sottoposto 24h su 24h a alte o basse temperature. La modernità ci permette di mantenere le nostre case-auto costantemente con temperature confortevoli. Di conseguenza non dobbiamo impiegare calorie nel mantenere stabile la temperatura coporea.

L’organismo aumenta il proprio metabolismo del 13% per alzare di un grado la propria temperatura corporea.

Questo ci fa capire che se non avessimo confortevoli abiti o il riscaldamento, il dispendio calorico dato dalla termoregolazione in ambienti freddi, sarebbe molto rilevante sul fabbisogno calorico giornaliero.

Tra l’altro, l’abitudine a stare al freddo stimola, attraverso l’irisina, il nostro organo adiposo a spostare i suoi adipociti da bianchi a bruni, portandoli da “passivi” a vere e proprie fornaci metaboliche

Insomma stare al freddo fa dimagrire, ma come possiamo abituarci?

Come migliorare la termoregolazione corporea?

Chi di voi ha visto Revenant, avrà notato come il personaggio principale, viene sottoposto, per tutto il film, al freddo, senza sentirne un reale disagio. E’ possibile, l’uomo senza comodità, realmente si abituava così bene alle basse temperature?

C’è sicuramente una componente sia soggettiva sia psicologica ma in media la risposta è si ecco alcuni passaggi per arrivare sopportare il freddo:

  1. Non essere troppo grassi
    Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, se un po’ di grasso fa da isolante, troppo non permette di avere abbastanza adipociti bruni da far intervenire (abbiamo quasi solo bianchi). Così non avremo fornaci sufficienti da attivare contro il freddo.
  2. Fare attività fisica all’aperto
    Anche con l’arrivo del freddo bisogna abituarsi a fare sport fuori. E’ importante coprirsi bene la gola che è una delle parti più fragili. La contrazione muscolare aumenterà considerevolmente la temperatura corporea abituandoci a reagire al freddo
  3. Abbassare il riscaldamento
    Abituarsi in modo graduale a riscaldare sempre meno la casa, non solo fa risparmiare, ma ci permette di prendere confidenza con ambienti sempre più freddi
  4. Docce fredde
    Abituarsi in modo graduale a fare la doccia sempre più fredda. Iniziando con temperature più miti e senza mai partire con l’acqua subito fredda (a meno di non essere già abituati). Se non farete questi passaggi in modo graduale vi beccherete subito un raffreddore, quindi la parola d’ordine è la gradualità
  5. Vestirsi meno
    Abituarsi sempre in modo graduale a vestirsi meno. Questo aiuta a stimolare il corpo a reagire al freddo. Ci vogliono mediamente 7-10 giorni per abituarsi.
  6. Attento ai brividi
    Tutti questi passaggi non devono mai a portati ad avere brividi costanti. L’organismo deve riuscire a reagire con strategie alternative. Se ti vengono probabilmente c’è qualcosa che non va ed i passaggi sono stati poco graduali.
    Se lo stimolo è eccessivo peggiorerà la tua salute, quindi fai tutto in modo estremamente lento.

La termoregolazione corporea per dimagrire può essere uno dei tanti fattori utili ad una miglior composizione corporea, basta trovare una giusta via di mezzo.

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L’autoregolazione nell’allenamento della forza

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Di Filippo d’Albero

Punto di partenza

Data Inizio: 09/11/2016
Peso: 77.1kg
Massimali (conservativi): 140kg  Squat high bar – 105kg Panca – 190kg Stacco

Ho deciso di eseguire un esperimento, dove l’unica cavia è il sottoscritto, per valutare l’efficacia di un protocollo DIETA-ALLENAMENTO fortemente incentrato sull’autoregolazione.

Il protocollo sarà strutturato nel seguente modo:

ALLENAMENTO: Ho deciso di combinare un allenamento in stile RTS (Reactive Training System), visto nell’articolo su come programmare l’allenamento della forza, implementato in ottica Hatfield. Il risultato è stato un protocollo di allenamento basato fortemente sull’autoregolazione, sia per quanto riguarda il carico allenante che per quanto riguarda il volume, in cui la prima porzione dell’allenamento era dedicata alla cura degli stimoli di tipo meccanico, mentre la seconda parte agli stimoli di tipo metabolico.

Lo strumento fondamentale che andrò ad utilizzare per autoregolarmi è l’RPE (Rate of Perceived Exertion) che è un metodo di valutazione dell’intensità di una serie allenante basato sul RIR (Rep in Reserve o come piace chiamarlo a noi in Italia BUFFER).
L’RPE è calcolato come 10-RIR quindi avremo che un RPE 10 risulta essere un RM (Rep Max o come spesso è erroneamente chiamato massimale) mente, ad esempio, un RPE 7 è una serie con BUFFER 3.

Per semplificare la comprensione inserisco una tabella esplicativa.

tabella autoregolazione forza

Le strategie che utilizzerò per autoregolare il volume di allenamento saranno le serie di Back-Off (per quanto riguarda i movimenti fondamentali e le variazioni di questi) e le serie Repeat (per quanto riguarda gli esercizi accessori).

Back-Off: Mi pongo un obiettivo di REP ad un certo RPE per il movimento scelto ed eseguo un ramping fino a trovare il peso della giornata. A partire da questo peso calerò di una certa percentuale (che varierà nel corso delle 8 settimane) per andare ad accumulare volume con un gesto tecnico superiore fin tanto che non raggiungo nuovamente l’RPE target della giornata.

Repeat: : Mi pongo un obiettivo di REP ad un certo RPE per il movimento scelto ed eseguo un ramping fino a trovare il peso della giornata. Manterrò,  in questo caso, il carico costante fino a che non raggiungerò “1 punto RPE” in più rispetto all’obiettivo di partenza.

PROGRESSIONE/PERIODIZZAZIONE: Mi piace strutturare i miei allenamenti in blocchi (mesocicli),  di 3 settimane, sfruttando un approccio misto delle periodizzazioni che vanno particolarmente di moda ad oggi (DUP , LINEARE, A BLOCCHI, CONIUGATE).

In questo test di 8 settimane ho strutturato l’allenamento in 2 blocchi da 3 settimane seguiti da una settimana di Deload e test (ho già eseguito una prima settimana di test degli RPE a volume limitato, una sorta di Acclimation).

Il primo Mesociclo sarà di accumulo in cui la progressione dello stimolo allenante avverrà principalmente a mezzo di un incremento del volume con incremento delle ripetizioni per serie e della percentuale di Back-Off, per permettere un numero superiore di serie, l’RPE si assesterà nell’intorno dell’8 per questo periodo.

Il secondo mesociclo sarà di intensificazione in cui la progressione sarà data principalmente da un incremento del carico utilizzato, a mezzo di una diminuzione delle ripetizioni per serie e della percentuale di Back-Off, l’RPE si assesterà nell’intorno del 9.

Solitamente incremento la specificità del movimento con l’avvicinarsi del test ma in questo caso, dato il periodo ridotto di questo esperimento, non credo sia necessario ed aggiungerebbe un grado di complessità in più a mio parere non utile ai fini dello studio.

ALIMENTAZIONE: I dati che utilizzerò per valutare l’andamento dei progressi saranno il peso di prima mattina (misurato ogni giorno appena sveglio e dopo essere stato in bagno) e la variazione del peso medio settimanale.

Continuerò a mangiare alimenti simili a quelli a cui sono abituato fino ad ora autoregolandomi sui quantitativi in funzione delle sensazioni cercando di seguire i bisogni del mio fisico.

Il 90% dei miei pasti sarà composto da alimenti sani e ricchi di macro e micro nutrienti e mi riservo un 10% circa di pasti liberi, assicurandomi di mangiare 2 porzioni di frutta e verdura ogni giorno.

L’apporto di acqua sarà di circa 5/6 litri al giorno.

Il mio obiettivo è quello di incrementare di circa 200g  il mio peso medio settimanale, di settimana in settimana, così da aumentare la massa muscolare e migliorare i miei massimali senza accumulare eccessivamente grasso.

Niente MyFitnessPal per 8 settimane.

SCOPO

La mia idea razionale, alla base di questo esperimento, è che le variabili in alimentazione ed allenamento in quanto VARIABILI non sono COSTANTI.

Starete pensando “GRAZIE AL RAZZO!” ed avete ragione ma se ci pensate tutti gli approcci più in voga ad oggi sono schemi estremamente rigidi (sia per quanto riguarda allenamento che alimentazione) con pochissimo spazio per l’autoregolazione.

Verosimilmente non tutti i giorni il nostro corpo avrà lo stesso fabbisogno calorico, come ogni giorno avremo un quantitativo di stress o fatica accumulati differente che ci permette di esprimere prestazioni differenti in sala pesi.

Se programma ed alimentazione sono strutturati intelligentemente la media dei giorni in cui abbiamo fatto o mangiato più del necessario, e quelli in cui meno, si assesterà intorno allo zero. Reputo però più fisiologico e naturale (permettetemi il non perfetto utilizzo dei termini) ascoltare il proprio corpo nel tentativo di dargli ciò di cui ha bisogno nel momento in cui ne ha bisogno.

Tutto questo dovrebbe avere un impatto principalmente dal punto di vista psicologico che andrà quindi a diminuire gli stressor che dovremmo affrontare nell’arco della preparazione permettendo, si spera, di ottenere prestazioni medie superiori e quindi un risultato migliore a fine test.

supercompensazione

Lo stress che il nostro corpo deve affrontare non è unicamente composto da quelli generati dal nostro allenamento ma è la somma di tutte le attività che hanno un impatto sul nostro fisico (lavoro, relazioni, vita di tutti i giorni ecc…).

Far si che allenamento ed alimentazione siano meno stressanti, rendendoli più naturali ed assecondando i bisogni del nostro fisico ed i sui feedback, potrebbe permetterci di ridurre il loro impatto sulla somma degli stressor (zona rossa del grafico precedente) richiedendo quindi un tempo inferiore perché avvenga  un adattamento (zona gialla) nella speranza di ottenere risultati superiori ed in tempi più brevi (e soprattutto prestazioni medie più elevate).

Analisi risultati

Data Fine: 24/12/2016
Peso: 79kg
Massimali: 160kg  Squat high bar – 120kg Panca – 220kg Stacco

L’andamento del peso medio settimanale è cresciuto ad un ritmo medio superiore all’obiettivo posto in partenza, il che verosimilmente ha portato ad un accumulo di grasso leggermente superiore a quello che avrei verosimilmente potuto ottenere tracciano con precisione il mio apporto calorico.

incremento peso settimanale

L’incremento complessivo del peso medio settimanale è stato di 1,9 kg in 8 settimane quindi una media settimanale di circa 0,275 kg (leggermente sopra il limite massimo di 200g settimanali che mi ero imposto).

Come si può notare dai grafici il trend del peso mattutino e del peso medio settimanale è stato crescente per l’intera durata dello studio.

Variazione di peso

peso medio settimanale

Per valutare la qualità del peso acquisito inserisco il tracciato con cadenza settimanale delle misurazioni di:

  • OMBELICO : +0.5CM
  • BRACCIO: +1.3CM
  • COSCIA: +2.1CM

L’andamento delle misure è stato il seguente:

Ciroconferenza ombelico

Circonferenza coscia

Circonferenza braccio

I risultati in allenamento sono quelli che più mi hanno colpito ma reputo vadano contestualizzati per comprenderli appieno.

I carichi del mio ultimo test massimali erano minori dei carichi massimi mai utilizzati da me nei tre sollevamenti (ebbi un calo di circa 50kg sul totale perdendo 11kg nella mia ultima fase di cut).

Riporto per correttezza quindi i miei massimali testati la settimana prima di iniziare questo protocollo e quelli più alti mai testati in precedenza.

  • Squat Highbar: 140kg con peso corporeo di 77kg circa e 150kg al peso corporeo di 85kg circa
  • Panca: 105kg al peso corporeo di 77kg circa e 115 kg al peso corporeo di 82kg circa
  • Stacco: 190kg al peso corporeo di 77kg circa e 200 al peso corporeo di 85kg circa
  • Miglior Totale: 480kg al peso corporeo di 82kg circa

Il risultato di questo test è stato:

  • Squat Highbar: 160kg (+20kg sul parziale e +10 sull’assoluto)
  • Panca: 120kg (+15kg sul parziale e +5 sull’assoluto)
  • Stacco: 220kg (+30kg sul parziale e +20 sull’assoluto)
  • Totale: 500kg (+65kg sul parziale e +20 sull’assoluto)

Il tutto ad un peso corporeo di circa 79kg (78,6 il giorno dei massimali).

Ho ottenuto quindi un miglioramento del 15% circa sul totale rispetto al mio ultimo test dei massimali ed un +5% circa sul mio miglior risultato ad un peso di circa 3kg inferiore.

Conclusioni sull’autoregolazione nell’allenamento della forza

Non preoccupatevi non sono qui a vendervi un metodo, questo esperimento aveva come unico scopo quello di valutare l’efficacia di un approccio più flessibile ed autoregolato, che permetta quindi alla persona media di gestire in modo autonomo il proprio allenamento ed alimentazione in modo che abbiano un impatto minore sullo loro vita di tutti i giorni (ed i rapporti sociali ne giovano ampiamente).

Non tutti hanno bisogno di protocolli estremamente stringenti e votati alla ricerca della perfezione, per molti di noi un approccio più gestibile ed intuitivo potrebbe portare a risultati più che soddisfacenti!

L’importare è avere un obiettivo e pianificare una strategia sensata e che rispetti i cardini fondamentai della programmazione e pianificazione di alimentazione e allenamento.

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LETTERATURA SCIENTIFICA SULL’AUTOREGOLAZIONE NELL’ALIMENTAZIONE (di cui sono a conoscenza)

  1. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3511603/
  2. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17544361
  3. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21244144
  4. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15942543

LETTERATURA SCIENTIFICA SULL’AUTOREGOLAZIONE DELL’ALLENAMENTO (di cui sono a conoscenza)

  1. Mann JB, Thyfault JP, Ivey PA, Sayers SP. The effect of autoregulatory progressive resistance exercise vs. linear periodization on strength improvement in college athletes. J Strength Cond Res. 2010;24(7):1718–1723. doi:10.1519/JSC.0b013e3181def4a6.
  2. McNamara JM, Stearne DJ. Flexible nonlinear periodization in a beginner college weight training class. J Strength Cond Res. 2010;24(1):17–22.
  3. Knight KL. Quadriceps Strengthening with the DAPRE Technique: Case studies with Neurological Implications. J Orthop Sports Phys Ther. 1990;12(2):66–71.
  4. Ardali G. A daily adjustable progressive resistance exercise protocol and functional training to increase quadriceps muscle strength and functional performance in an elderly homebound patient following a total knee arthroplasty. Physiother Theory Pract. 2014;30(4):287–297. doi:10.3109/09593985.2013.868064.
  5. Day ML, McGuigan MR, Brice G, Foster C. Monitoring exercise intensity during resistance training using the session RPE scale. J Strength Cond Res. 2004;18(2):353–358.
  6. Duncan MJ, Al-Nakeeb Y, Scurr J. Perceived exertion is related to muscle activity during leg extension exercise. Res Sports Med. 2006;14(3):179–189. doi:10.1080/15438620600854728.
  7. Gearhart RFJ, Goss FL, Lagally KM, et al. Ratings of perceived exertion in active muscle during high-intensity and low-intensity resistance exercise. J Strength Cond Res. 2002;16(1):87–91.
  8. Tiggemann CL, Korzenowski AL, Brentano MA, Tartaruga MP, Alberton CL, Kruel LFM. Perceived exertion in different strength exercise loads in sedentary, active, and trained adults. J Strength Cond Res. 2010;24(8):2032–2041. doi:10.1519/JSC.0b013e3181d32e29.
  9. Sweet TW, Foster C, McGuigan MR, Brice G. Quantitation of resistance training using the session rating of perceived exertion method. J Strength Cond Res. 2004;18(4):796–802. doi:10.1519/14153.1.
  10. McGuigan MR, Dayel Al A, Tod D, Foster C, Newton RU, Pettigrew S. Use of session rating of perceived exertion for monitoring resistance exercise in children who are overweight or obese. Pediatr Exerc Sci. 2008;20(3):333–341.
  11. Eston RG, Wiliams JG. Reliability of ratings of perceived effort regulation of exercise intensity. British Journal of Sports medicine. 1988;22:153–155. Available at: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1478740/.
  12. Testa M, Noakes TD, Desgorces F-D. Training state improves the relationship between rating of perceived exertion and relative exercise volume during resistance exercises. J Strength Cond Res. 2012;26(11):2990–2996. doi:10.1519/JSC.0b013e31824301d1.
  13. Senna G, Willardson JM, de Salles BF, et al. The effect of rest interval length on multi and single-joint exercise performance and perceived exertion. J Strength Cond Res. 2011;25(11):3157–3162. doi:10.1519/JSC.0b013e318212e23b.
  14. Hardee JP, Lawrence MM, Utter AC, Triplett NT, Zwetsloot KA, McBride JM. Effect of inter-repetition rest on ratings of perceived exertion during multiple sets of the power clean. Eur J Appl Physiol. 2012;112(8):3141–3147. doi:10.1007/s00421-011-2300-x.

Ecco tutto il programma consultabile in PDF

ANDAMENTO PROGRESSI TEST

BLOCCO 8SETTIMANE AUTOREGOLAZIONE ACCLIMAZIONE

BLOCCO 8SETTIMANE AUTOREGOLAZIONE_ANDAMENTO VARIABILI

BLOCCO 8SETTIMANE AUTOREGOLAZIONE SETT1

BLOCCO 8SETTIMANE AUTOREGOLAZIONE SETT2

BLOCCO 8SETTIMANE AUTOREGOLAZIONE SETT3

BLOCCO 8SETTIMANE AUTOREGOLAZIONE SETT4

BLOCCO 8SETTIMANE AUTOREGOLAZIONE SETT5

BLOCCO 8SETTIMANE AUTOREGOLAZIONE SETT6

BLOCCO 8SETTIMANE AUTOREGOLAZIONE SETT7

 

 

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Cintura per il sollevamento pesi, qual è il suo corretto utilizzo?

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Serve la cintura da palestra? Aiuta a proteggere realmente la schiena? In questo articolo analizzeremo sia dal punto di vista fisiologico, sia da quello pratico se la cintura da sollevamento pesi è realmente così utile e quando utilizzarla.

cintura pesi

Articolo di Manuel Parrino

Quante volte, in palestra, avete visto della (simpatica) gente indossare la cintura, praticamente dal momento in cui mette piede in sala, fino a un minuto prima di andarsi a fare la doccia?
Vi siete mai domandati il perché? Ha senso farlo?
Se chiedeste direttamente a loro, all’ovvia domanda: “perché utilizzi la cintura?”, probabilmente seguirebbe l’altrettanto scontata risposta: “per proteggermi la schiena”.
Ma ne siamo così sicuri? Veramente pensate che un accessorio in cuoio avvolto attorno alla vita possa rendere la vostra schiena immune da eventuali sovraccarichi? Cerchiamo di analizzare razionalmente la questione.
Partiamo dal presupposto che la colonna vertebrale è una struttura mobile, composta da un susseguirsi di unità costituenti di base sovrapposte tra loro, le vertebre. Queste sono articolate tra loro anteriormente tramite l’interposizione di un disco fibrocartilagineo (sinfisi), la cui funzione principale è quella di ammortizzare le forze di carico alle quali è normalmente sottoposto il rachide, posteriormente tramite delle articolazioni mobili (artrodie) che permettono lievi movimenti di scorrimento tra i processi articolari. A supporto della struttura vi sono poi diverse componenti, quali capsule articolari, svariati legamenti e tutta una complessa serie di muscoli scheletrici.

Se i movimenti realizzabili tra le singole vertebre sono abbastanza limitati, l’intera colonna, nel complesso (insieme di 33-34 vertebre), è comunque dotata di una buona mobilità e libertà di movimento (variabile da segmento a segmento), che ci consente di effettuare tutta una serie di movimenti sui vari piani spaziali.

Da questo ripasso di concetti anatomo-funzionali basilari, dovremmo renderci conto che non avrebbe alcun senso utilizzare la cintura per “bloccare” la schiena, in modo da tenerla rigida e fissa, cosicché le venga conferito il dono dell’immunità.
Infatti, possiamo benissimo notare che anche indossando la cintura attorno all’addome, la nostra schiena riesce comunque a compiere i normali movimenti per i quali è stata progettata, altrimenti non riusciremmo ad eseguire nessun esercizio come lo squat.
La cintura  è stata ideata con lo scopo di costruire un apposito accessorio capace di aumentare la pressione intra-addominale (IAP, Intra-Abdominal Pressure) di chi la indossi, facendo in modo che questo incremento dei valori pressori all’interno della cavità addominale possa conferire un maggior grado di stabilità  e compattezza al rachide, il quale è situato nella parte posteriore di questa “camera”.
Il nostro corpo è autosufficiente, siamo dotati di un intelligente sistema capace di modulare la IAP in base alle necessità, incrementandola quando serve, senza l’ausilio di alcun accessorio esterno.
Questo sistema è costituito da una serie di muscoli profondi, tra cui il muscolo trasverso dell’addome, obliquo interno, e i muscoli del pavimento pelvico che si co-attivano e co-contraggono sinergicamente tra loro, svolgendo un ruolo chiave in questo processo.

Pressione addominaleImmagine tratta dal testo “DCSS Power Mechanics for Power Lifters – Paolo Evangelista”

Da quanto detto possiamo comprendere che certamente la cintura non può considerarsi un accessorio indispensabile per il sollevamento pesi, per tutta la serie di motivi sovraesposti. Anche senza l’ausilio di questa siamo completamente capaci di effettuare sforzi sotto carico, anche importanti, per fortuna.
Da qui la visione in bianco e nero, tipica del palestrato medio. Da una parte troviamo il soggetto cintura-dipendente descritto all’inizio dell’articolo, dall’altra l’anti-cintura come stile di vita, quello che “la cintura ti indebolisce i lombari”, “ammiocugino gli è uscita l’ernia” ecc.., per intenderci.
Non penso ci sia bisogno di dire che entrambe le visioni siano errate, semplicistiche e fuorvianti.
Difatti, un corretto utilizzo della cintura può essere decisamente utile in svariate circostanze, a patto che la si sappia utilizzare.
Per prima cosa la cintura va allacciata stretta. La funzione di questa, infatti, consiste nell’avvolgere il tronco in maniera decisa e opporsi all’espansione addominale che si verifica normalmente durante il sollevamento di un carico importante.

cintura sollevamento pesi

Immagine tratta dal testo “DCSS Power Mechanics for Power Lifters – Paolo Evangelista”

In questo modo, si tende ad aumentare la pressione endo-addominale, con tutti i risvolti positivi sulla stabilità spinale che abbiamo visto precedentemente, e che diverse ricerche sembrerebbero confermare [1][2][3][4][5].

Per far sì che ciò accada è comunque necessario eseguire una corretta ed idonea respirazione durante l’alzata [6][7][8][9][3]. In pratica, bisogna effettuare un’inspirazione di tipo diaframmatica. Questo muscolo contraendosi si abbassa, comprime la cavità addominale, incrementando di conseguenza i valori pressori. A questo punto bisogna trattenere l’aria chiudendo la glottide (manovra di Valsalva), rimanere in questo stato di “apnea forzata” per l’intera alzata, e solo nell’ultima parte effettuare una decisa espirazione.
L’adozione di questa manovra non è comunque esente da conseguenze potenzialmente pericolose. Se nel sano potrebbe non creare problemi, questo tipo di respirazione è spesso controindicata nel caso di soggetti con problemi pressori/circolatori/cardiaci pre-esistenti, per tutta una serie di notevoli aggiustamenti acuti a carico del sistema cardiocircolatorio.
Quindi abbiamo capito che la funzione principale della cintura è proprio quella di non permette alla parete addominale di espandersi anteriormente.

Ora sapete che se volete utilizzare questo accessorio dovete “respirarci dentro” correttamente, altrimenti fareste meglio a lasciar perdere.

Considerato quanto detto fin ora, la maggior parte delle cinture che normalmente si vedono nelle palestre, quelle alte dietro e strette avanti, non avrebbero senso di esistere. Eventualmente andrebbero indossate al contrario, quindi con la parte più alta anteriormente. Una buona cintura dovrebbe essere alta almeno una decina di centimetri per l’intera circonferenza, come quelle usate nel Powerlifting.

cintura palestra

In definitiva, quando conviene utilizzare la cintura? Questo accessorio si presta molto utile nell’eseguire esercizi multiarticolari ad alta sinergia muscolare, che coinvolgono cioè numerose articolazioni e gruppi muscolari (Squat, Deadlift ecc.). Risulta ad oggi impresa ardua capirne l’utilità nelle alzate laterali, piuttosto che nel push down per i tricipiti. Anche nel caso di Squat e Stacchi, l’impiego della cintura ha senso nell’esecuzione di serie svolte ad alta intensità di carico, quindi con pesi importanti (≥ 80% 1-RM). Decisamente superflua in un ipotetico 3×15 al 60% del massimale, come tra l’altro, fu osservato in questo trial [2] and that any differential effect due to wearing a weight-belt did not occur over eight repetitions”.

Ma è vero che sottrae parte del lavoro ai paraspinali, indebolendoli di conseguenza?

Stando a quanto detto, compreso che la cintura svolge il proprio lavoro “davanti”, verrebbe da rispondere no.
Dubito fortemente che durante una serie di squat pesante, i vostri muscoli paravertebrali, che svolgono la funzione di tensori attivi della colonna, ricoprendo un ruolo chiave nel sostegno della stessa, possano permettersi di “prendersela alla leggera”, poiché voi avete indossato la vostra fedele cintura attorno all’addome.
In uno studio pubblicato nel ’99 [7] si evinceva che la pressione intra-muscolare degli erettori spinali subiva importanti incrementi durante l’esecuzione di sollevamenti pesi con cintura.
“Assuming that increased intra-muscular pressure of the erector spinae muscles stabilizes the lumbar spine, wearing abdominal belts may contribute to the stabilization during lifting exertions”

Gli autori conclusero supponendo che, poiché l’aumento della pressione intra-muscolare dei muscoli erettori spinali stabilizza la colonna lombare, l’utilizzo della cintura potrebbe contribuire alla stabilizzazione della stessa durante i sollevamenti.
In questo esperimento [2] non furono osservate differenze nell’attività elettromiografica (EMG) dei muscoli erettori spinali.
E’ anche vero che esistono lavori nei quali, a quanto pare, fu osservato un decremento dell’attivazione di alcuni muscoli della schiena, in seguito all’utilizzo della cintura [1][10].

Quindi fa male? E’ sconsigliato utilizzarla? La questione in letteratura resta piuttosto controversa. Se da un lato sembrerebbe che l’utilizzo di questo accessorio possa ridurre il carico sul rachide [6] e le forze di compressione agenti sui dischi intervertebrali [4], dall’altro, come abbiamo appena visto, potrebbero anche esserci dei punti a sfavore, che suggerirebbero di farne uso con cautela. Una sorta di “effetti collaterali da abuso”, come per qualsiasi cosa, del resto.

Cintura da palestra: cosa dobbiamo portarci a casa

La cintura non serve a proteggere un bel niente. E’ sbagliato ritenere che essa salvaguarda la schiena nei sollevamenti. Se pensate di avere “problemi” a questa regione corporea, e nonostante ciò riuscite a squattare pesantemente, attribuendogli il merito alla cintura, probabilmente i vostri problemi non sono poi così gravi.
La cintura è uno strumento e, come tutti gli strumenti, va saputo utilizzare, al momento giusto e nel modo più opportuno.
Utilizzatela per aumentare la performance.
Una volta che avrete acquisito una buona confidenza e dimestichezza coi pesi e avrete consolidato una perfetta tecnica di esecuzione delle varie alzate, potete pensare di adottare questo strumento per fare il “salto di qualità”. Vedetela come “la ciliegina sulla torta”, un valido mezzo che può darvi quel qualcosa in più, a patto che tutto il resto sia maniacalmente perfetto.
L’errore più grande che si possa commettere è quello di ritenersi capaci di utilizzare determinati carichi, magari superiori alle proprie capacità, guidati dall’ego e cullati da un rassicurante senso di sostegno fornitoci da questo accessorio una volta indossato.
Evitate di diventare dipendenti da questo oggetto. Potrebbe avere senso ciclizzarne l’uso. Programmare determinati periodi dove si andrà a sospendere l’utilizzo, magari corrispondenti ad uno specifico mesociclo dove, per svariati motivi legati alla periodizzazione, l’intensità di carico andrà a calare.
Basta semplicemente un po’ di buon senso. Ricordatevi di allenarvi sempre con la testa (con il cuore, e con il fegato :D).

Qui si può trovare una review scientifica (nostrana) sull’argomento

Riferimenti:

DCSS Power Mechanics for Power Lifters – Paolo Evangelista, capitolo 16 (pagg. 267-272).
[1] Lumbar spine stability can be augmented with an abdominal belt and/or increased intra-abdominal pressure. Cholewicki J, 1999
[2] The effectiveness of weight-belts during multiple repetitions of the squat exercise. Lander JE, 1992
[3] The effect of an abdominal belt on trunk muscle activity and intra-abdominal pressure during squat lifts. McGill SM, 1990
[4] Effects of a belt on intra-abdominal pressure during weight lifting. Harman EA, 1989
[5] The effectiveness of weight-belts during the squat exercise. Lander JE, 1990
[6] Effect of a stiff lifting belt on spine compression during lifting. Kingma et al. 2006
[7] Effects of abdominal belts on intra-abdominal pressure, intra-muscular pressure in the erector spinae muscles and myoelectrical activities of trunk muscles. Miyamoto K, 1999
[8] In a dynamic lifting task, the relationship between cross-sectional abdominal muscle thickness and the corresponding muscle activity is affected by the combined use of a weightlifting belt and the Valsalva maneuver. Blanchard TW et al, 2016
[9] The Valsalva maneuver: its effect on intra-abdominal pressure and safety issues during resistance exercise. Hackett DA, 2013
[10] Effect of belt pressure and breath held on trunk electromyography. Lee YH, 2002

Articolo di Manuel Parrino
Laurendo in Scienze motorie, personal trainer FIF ed appassionato come tutti noi del corpo umano, del movimento e dell’alimentazione.
Mail: Manuel_parrino@live.com

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La respirazione nello sport e la sua importanza

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Respirare è il primo gesto che facciamo quando veniamo al mondo e l’ultimo prima di andarcene, la respirazione ci accompagna per tutta la vita segnando ogni cambiamento di stato d’animo. Molti sono portati a pensare che il gesto del respirare, essendo così radicato in noi venga naturale farlo bene, purtroppo non è così.

la respirazione nello sport

Articolo del Dott Alessio Alfei

Durante le varie fasi della vita accumuliamo stress che si riflette in atteggiamenti sbagliati e di riflesso in pattern respiratori disfunzionali; questa disfunzione spesso è la testimonianza di una continua attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico (stress surrenale) con conseguente calo di performance ed indebolimento del sistema immunitario.

 

Imparare a gestire la respirazione durante la vita di tutti i giorni e negli allenamenti significa incrementare la qualità di vita e la performance nello sport.
Ogni inalazione di aria è l’espressione del sistema nervoso parasimpatico (responsabile delle funzioni a riposo) ed ogni esalazione è la manifestazione del sistema nervoso simpatico (responsabile della risposta “combatti o fuggi”)

Nel momento in cui veniamo sopraffatti dallo stress il nostro organismo attiva la modalità “combatti o fuggi” ed una persona cronicamente stressata svilupperà un pattern respiratorio alterato con un’attivazione della muscolatura respiratoria altrettanto disfunzionale, portando ad un peggioramento della postura (cifosi toracica accentuata e testa in avanti).
Oltre a questo il diaframma potrà alterare la sua contrazione prediligendo l’espirazione o l’inspirazione.

Capire lo stress.

Esistono due tipi di stress:

  1. Distress, associato ad eventi indesiderati come una situazione di pericolo.
  2. Eustress, associato ad eventi considerati positivi come l’emozione di un obiettivo raggiunto.

Qualunque sia il tipo di stress il sistema nervoso simpatico altera la pressione sanguigna, il battito cardiaco, la dilatazione pupillare, la sudorazione, la tensione muscolare e l’attenzione globale.

Quando è il sistema nervoso simpatico a dominare a causa dello stress (di entrambi i tipi) i respiri si fanno brevi e poco profondi non permettendo la completa espansione della gabbia toracica e un’ossigenazione di tessuti ottimale.
L’attivazione cronica del sistema nervoso simpatico limita l’azione a breve termine del sistema immunitario a causa della funzione anti-infiammatoria del cortisolo; in una situazione normale lo stress è contrastato in poco tempo e viene ripristinata sia l’omeostasi che la funzionalità del sistema immunitario, passando poi il testimone al sistema nervoso parasimpatico responsabile delle funzioni di riparazione e ristorazione.

Un’attivazione cronica del sistema nervoso simpatico fa sì che si protragga nel tempo l’immunosoppressione rendendo l’organismo facilmente infettabile.

Saper gestire la respirazione sia durante lo sforzo fisico di endurance che durante il riposo può garantire un aumento della performance significativo ed un’efficace gestione dello stress e, di conseguenza, un recupero più veloce.

Cosa fare per imparare a gestire la respirazione

Il primo step verso una respirazione efficace inizia nell’educazione ad una corretta respirazione diaframmatica. Il diaframma è il principale muscolo respiratorio e permette una naturale ed economica espansione e riduzione della gabbia toracica.

pressione diaframmatica polmoni

Un’attivazione costante del sistema nervoso simpatico altera il normale pattern di inalazione\esalazione causando l’impiego della muscolatura intercostale per il ciclo respiratorio, i muscoli intercostali vengono attivati per permettere respiri brevi, veloci e poco profondi, tipici della risposta “attacco e fuga”. La respirazione toracica di per sé non è un pattern respiratorio disfunzionale ma lo diventa nel momento in cui viene impiegato per gran parte dei cicli respiratori.

Durante un allenamento di durata o altamente impegnativo per il sistema cardiorespiratorio molte volte ignoriamo il modo in cui respiriamo. Se ci focalizzassimo sul modo in cui il nostro corpo inala l’aria durante questi sforzi noteremmo che tutti i respiri vengono fatti espandendo la gabbia toracica; tale respirazione oltre ad essere poco economica (la muscolatura intercostale è estesa e richiama molte energie ed ossigeno per funzionare) è anche inefficace dato che il volume di aria inalata spesso non è adeguato allo sforzo.

Passare volontariamente alla respirazione diaframmatica permette ai muscoli di ricevere più ossigeno migliorando sia la funzionalità che la capacità di tamponare i prodotti della contrazione responsabili dell’insorgere della fatica.

Allenarsi a respirare.

Purtroppo molto di noi fanno fatica a riconoscere una respirazione toracica da una diaframmatica; è quindi importante capire come respirare utilizzando il diaframma.

Un metodo molto semplice è quello di sdraiarsi a terra, appoggiare una mano sul torace ed una sulla pancia. Lo scopo dell’esercizio è quello, durante la respirazione, di espandere solo lo stomaco sollevando la mano appoggiata ad esso.

respirazione diaframmatica
All’inizio non è facile distinguere i due tipi di respirazione ma grazie al feedback tattile è possibile rendersi subito conto di quali muscoli stiamo usando.

Una volta padroneggiata la tecnica di respirazione diaframmatica è possibile impiegarla durante l’esercizio fisico.
Facciamo un paio di esempi pratici:

  • Durante la corsa a ripetute è possibile aumentare l’ossigenazione muscolare respirando con il diaframma nelle fasi che intercorrono tra una ripetuta e l’altra.
  • Durante le sedute di HIIT è importante cercare di utilizzare la respirazione diaframmatica sia negli intervalli di riposo sia durante gli esercizi; una respirazione diaframmatica permette un’attivazione profonda della muscolatura del tronco garantendo anche una maggiore protezione della schiena.

Soprattutto all’inizio sarà difficile mantenere la respirazione profonda durante gli sforzi, ma una costante pratica è in grado di trasformare un’azione in un gesto automatizzato.

Una respirazione profonda e controllata a riposo è in grado di anticipare e potenziare l’attivazione del sistema nervoso parasimpatico assicurando un recupero più efficace e rapido.
Molti preparatori atletici di alto livello inseriscono tecniche meditative basate sul controllo della respirazione per accelerare il recupero degli atleti, inoltre meditare aumenta considerevolmente la capacità di concentrazione, migliorando sia la resistenza alla fatica che il gesto atletico.

Ci sono studi che evidenziano l’importanza della normalizzazione del sistema nervoso autonomo ottenuta attraverso la meditazione.

È possibile trovare molti metodi che uniscono la respirazione a pratiche di concentrazione profonda, il più interessante per me è il metodo “Wim Hof”. Wim “Ice Man” Hof è un recordman olandese famoso per le sue prove resistenza al freddo e per aver sviluppato un metodo basato su esperienze personali ed avvalorato, in seguito, da ricerca scientifica.

Dagli studi su persone praticanti tecniche di respirazione avanzata è emerso che tali tecniche inducono un aumento rilevante sia nella normalizzazione del sistema immunitario (maggiore attivazione in caso di infezioni e depressione nelle risposte autoimmuni) che nella gestione dello stress inteso come perturbazione dell’omeostasi.

Il metodo Wim Hof consiste in cicli di respirazione profonda forzata associati a fasi di apnea, lo scopo è quello di ossigenare i tessuti, ottimizzare l’ossidazione dei substrati energentici ed attivare la termogenesi (leggi l’articolo sulla termoregolazione corporea per dimagrire)
Ognuno è libero di cercare, trovare e sperimentare il metodo che ritiene migliore, ho parlato del “Wim Hof” perché è quello che ho provato personalmente.

Quello che mi ha più convinto di questo metodo è la presenza di studi scientifici revisionati che ne avvalorano la sua efficacia e perché garantisce, nella maggioranza dei casi, una resistenza estrema al freddo ed alla fatica.

Una forma di controllo del respiro la troviamo anche nella tradizione meditativa induista con l'”hamsa” ovvero meditare semplicemente concentrandosi sui flussi di aria che entrano ed escono dai nostri polmoni

Qualunque sia il metodo scelto è importante praticarlo giornalmente, basta poco meno di mezz’ora per ottenere dei miglioramenti.

Respirare è un atto naturale che contiene un grande potere, noi siamo portati a pensare che per migliorare la performance sempre bisogno di qualcosa di complesso e difficile invece il segreto di una prestazione superiore è racchiuso in gesti semplici.

Se vuoi scoprire di più su Wim Hof qui trovi il suo libro:


L’articolo: La respirazione nello sport e la sua importanza, è del Dott Alessio Alfei

Dott. Alessio Alfei, ACE PT , laureato con lode in scienze motorie, preparatore atletico, titolare della palestra Muscle Power a Roma, responsabile della didattica della scuola ESC performance www.escperformance.eu
E blogger del Ministero della Forza.
Su Facebook: Alfei Performance Systems
http://ministerodellaforza.blogspot.it

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Flessibilità metabolica: perchè è fondamentale per essere magri

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Avete presente il vostro amico/a, quella che mangia come un bue ma non mette su un kg di grasso?
Lo so, una rabbia.
La ragione è semplice, nella sua vita precedente ha donato tutto quello che aveva ai poveri e ora è stata premiata.

A parte le battute oggi vediamo cos’è la flessibilità metabolica e come influenza il nostro metabolismo. Ma partiamo dalla teoria per capire perchè il metabolismo si blocca.

Lui è il cervellobrain

Il SNC, globuli bianchi, rossi e tutte le cellule sprovviste di mitocondri vanno a zuccheri (glucosio), il cervello in realtà è un tessuto glucosio preferenziale, ovvero può andare anche a chetoni, ma se c’è lo zucchero usa questo come carburante.

Indipendentemente dall’attività che fate il consumo di questi tessuti rimane più o meno stabile e vi porta a consumare 180g di glucosio al giorno. L’importante, per ora, è capire che non possono usare acidi grassi come combustibile ma solo zucchero.

Lui invece è il muscolo:

muscolo

Purtroppo consuma molto meno rispetto ai tessuti visti sopra, tuttavia la buona notizia è che a riposo brucia esclusivamente i grassi (ed un po’ di aminoacidi). Ecco le nostre fornaci dove liberarci dei kg di troppo.

Vado in palestra, allenano la mia massa muscolare, che crescendo mi fa bruciare più grasso. Woao, corro subito ad allenarmi.
Purtroppo, tuttavia, non funziona così. Sarebbe troppo facile. Il muscolo che consuma i lipidi a riposo è una condizione metabolica fisiologica ma che purtroppo sempre meno persone hanno. Sindrome metabolica, insulino resistenza, elevati livelli di resistina, ecc portano la nostra condizione da ideale ad una merda (scusate la parolaccia ma era per rendere l’idea).

Il muscolo da brucia grassi si ritrova a consumare un mix di lipidi e carboidrati. Questo abbassa il dispendio calorico globale dell’organismo, la nostra macchina si ingolfa e al posto d’avere un motore che gira 3000 volte al minuto passa a 1000.

La traduzione letterale la osserviamo mentre, con occhi carichi di odio, guardate la vostra amica magra che si mangia il pasticcino, intanto che vi chiedete: dove razzo mette tutto quello che mangia?

Flessibilità metabolica: come fare per ritrovarla

flessibilità metabolica come funziona

Per tornare ad essere dei buoni ossidatori ed accelerare il metabolismo, dobbiamo adottare tutte quelle strategie che insegnano al nostro organismo ad utilizzare in modo preferenziale un solo macronutriente: o grassi o zuccheri. Per assurdo (ma in fisiologia neanche tanto) le due strade opposte portano al medesimo risultato.

Flessibilità metabolica ed attività fisica

Allenamenti molto intensi portano l’organismo a consumare esclusivamente gli zuccheri. Attività come l’HIIT, sedute coi pesi metaboliche e tutte quelle attività che non hanno il tempo d’utilizzare l’ossigeno per ossidare i grassi, aiutano l’organismo a ritrovare l’affinità con gli zuccheri.

La chiave di volta è l’intensità. Ovviamente la persona deve già essere preparata fisicamente.

Dall’altra anche allenamenti molto molto blandi se fatti quando le nostre riserve di glicogeno epatico sono quasi esaurite, aiutano il muscolo ad aumentare la sua capacità d’ossidare meglio i grassi. Prende così un senso la corsa o la camminata in salita a digiuno mentre seguiamo una dieta low carb o chetogenica. L’obiettivo è aumentare l’ossidazione lipidica per un periodo di tempo rilevante (almeno 30′).

Ripetiamo perchè è importante, l’attività a basso impatto prende sempre di più un senso quanto più le riserve di glicogeno epatico sono basse, questo perchè l’organismo inizia a preservare il glucosio ed aumenta il metabolismo lipidico. In soggetti con una inflessibilità metabolico (col metabolismo bloccato), l’attività fisica moderata rischia di continuare ad usare un mix di grassi e carboidrati.

Flessibilità metabolica e dieta

Per l’alimentazione gli approcci sono simili all’allenamento. O preferiamo una dieta che stimoli e migliori il consumo di zuccheri o di grassi. Nel momento in cui il corpo riesce a sfruttare bene uno dei due metabolismi, anche la strada per sbloccare l’altro è in discesa.

Gli approcci possono essere quello di una dieta Low Fat come nel Natural Peaking, in cui gradualmente abbassiamo i grassi a favore dei glucidi.  Va ricordato che i carboidrati migliorano la sensibilità insulinica. La peggiorano solo quando ci ritroviamo in un contesto ipercalorico. Il classico nutrizionista che consiglia la dieta Mediterranea ha ovviamente le sue ragioni scientifiche. Più siamo magri e più questo approccio è vincente. Se siamo invece fortemente in sovrappeso o con un grasso viscerale rilevanti, gli adopociti (le cellule grasse) belle gonfie non permetteranno una corretta secrezione di adoponectina.

Questo ci fa comprendere perchè più siamo grassi, più siamo poco affini ai carboidrati.

Se volete utilizzare questo approccio la gradualità è la chiave di volta. Ogni settimana fate uno shift di 40-70kcal tra grassi e carboidrati.

L’altra strada invece è opposta ed è quella di seguire una dieta low carb o addirittura chetogenicha. In questo modo miglioreremo il metabolismo lipidico. E’ importante in questi casi programmare delle ricariche glucidiche. Pena migliorare la sensibilità insulinica, peggiorando l’affinità col glucosio. Se smettiamo di mangiare cronicamente carboidrati, gli enzimi deputati a scomporre gli zuccheri (amilasi) caleranno a favore delle lipasi.

Introdurre grassi a media catena come quelli che troviamo nell’olio di cocco, posso ulteriormente stimolare i mitocondri ad utilizzare i grassi.

Anche il digiuno intermittente può essere un’ottima strategia per obbligare il corpo a sfruttare bene i lipidi.

Conclusioni sulla flessibilità metabolica

Tutto quello che abbiamo scritto finora va applicato con un medico nutrizionista (che sia però bravo ed aggiornato), per il semplice motivo che a seconda della propria condizione l’approccio deve essere più o meno estremo.

Alcuni soggetti nel momento in cui danno un ordine alla propria alimentazione rispondono immediatamente, altri invece devo sforzare il corpo a sfruttare correttamente i grassi (soffrendo inizialmente di emicranie, debolezza, ecc).

Quello che dobbiamo portarci a casa dall’articolo di oggi è che tutte le diete ipocaloriche portano a dimagrire e migliorare l’assetto metabolico, questo deve essere chiaro. Tuttavia se il metabolismo è bloccato e assumiamo già poche calorie, mettersi a fare una dieta in cui si tagliano ulteriormente potrebbe peggiorare ulteriormente la situazione erodendo la massa magra.

Se abbiamo perso la nostra flessibilità metabolica diventando così inflessibili, una caloria non è più una caloria  e dobbiamo agire su altri fattori.

Come sempre a seconda della situazione DIPENDE.

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L’importanza della tecnica e di non scappare dai punti difficili

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In questo articolo vedremo come poter sfruttare la corretta esecuzione degli esercizi ed alcune tecniche d’allenamento, per migliorare la nostra forza e lo sviluppo muscolare. Scopriremo come i compensi tecnici, tolgono il carico interno al muscolo target, vanificando i nostri sforzi in palestra.

importanza tecnica punti difficili

Articolo di Lorenzini Mattia

Meglio l’uovo oggi o la gallina domani?

Facciamo un esperimento; la prossima volta che entrate in palestra prendetevi un attimo per guardarvi attorno. Cercate con la coda dell’occhio il rack dello squat, la postazione dello stacco là in fondo sulla sinistra, il ragazzo sulla panca piana.. poi passate in rassegna anche le altre postazioni (lat machine, pulley, leg press)… valutate gli schemi motori, la completezza del rom, la velocità, la tecnica di esecuzione degli esercizi ed IL CARICO UTILIZZATO.

Spesso tra gli utenti intermedi, che hanno superato la prima fase di inibizione verso il carico ed hanno iniziato ad aggiungere chili sul bilanciere, è l’ego ad essere allenato e non il muscolo o il movimento. E’ facile imbattersi in eghi smisurati e fisici minuti. Se da una parte è vero che è il CARICO a determinare la quantità di fibre reclutate (legge di henneman), è vero anche che non basta attivare le fibre, queste devono essere correttamente stimolate/allenate/esaurite.

Già all’80% del massimale reclutate TUTTE le fibre muscolari, ma non perchè le reclutate le sfinite.

Legge di Henneman

Il corpo si adatta ad uno stress/stimolo e sia l’incremento di forza (coordinazione inter e intra muscolare, frequenza di scarica, reclutamento) sia la sezione trasversa (ipertrofia), sono processi dispendiosi quindi è LOGICO che ISTINTIVAMENTE si tenda a creare compensi tecnici (il rimbalzo nella panca, la schiena nello stacco, uno squat meno profondo…) ma tutti questi adattamenti (oltre ad essere pericolosi) non sono in linea con l’obbiettivo di chi si allena con i pesi. La triste verità è che il corpo si adatta ad un carico INTERNO e non ad un carico ESTERNO cioè alla PERCEZIONE che ha di quel carico, che da “difficile” deve diventare “gestibile”. Da quà i primi due concetti, quello di RM.T e di “non scappare dei punti difficili”

Il concetto di RMT

Con RM si intende ripetizioni massimali (o massime). Indicando un 6RM si indica sei ripetizioni massime (a cedimento muscolare). Successivamente si è iniziato a parare di buffer (se volessi utilizzare un 6RM con buffer di uno mi fermerei a 5 ripetizioni). Per concludere con i moderni metodi di programmazione nell’allenamento della forza con l’RTS e l’autoregolazione. Con l’avvento della AIF, e l’uscita del libro di Ado GruzzaIl metodo Distribuito” è emerso infine il concetto di MAV (massima accelerazione veloce).
Eseguendo un 6MAV avrò quindi un buffer X.. dipendente dal grado tecnico e dall’anzianità dell’atleta, dove la serie termina quando la ripetizione ha un punto in cui rallenta visibilmente prima di venir chiusa (stiking point).

Il concetto di RM.T, è similile ma non uguale: indica le ripetizioni massime tecniche.

Un 1RM.T è il massimale tecnico o meglio indica il massimo peso sollevabile per un unica ripetizione mantenendo una tecnica sommariamente corretta senza errori RILEVANTI.

Lavorare in 6RM.T vuol dire eseruire sei ripetizioni tecnicamente “buone” consentendo comunque il presentarsi di uno stiking point ma mantenendo un esecuzione ottimale. Questo concetto si sposa quindi bene col mondo del bodybuilding (o meglio del powerbodybuilding) in quanto oltre allo stimolo si cerca l’esaurimento del muscolo e un lavoro in MAV potrebbe non garantire quelle microlesioni strutturali frutto dello stimolo metabolico utile all’innesco ipertrofico.

Il carico interno – una breve panoramica

Il carico esterno è quello espresso dal peso del bilanciere coi dischi. Quello interno invece è quanto di quel peso si scarica sul muscolo target e non su altri gruppi muscolari sinergici. Da quì anche la logica deduzione che, i dischi sul bilanciere sono soltanto un parametro e sono uno dei tanti strumenti da utilizzare per dosare il livello di stress da somministrare al corpo, allenamento dopo allenamento.

Non scappare dai punti difficili

Che fare per diventare grossi? Bella domanda, spesso basta un pò di “buon carbo” (tren…)

Scherzi a parte, per massimizzare il lavoro in palestra ed obbligare il corpo verso un adattamento NON compensativo ma biologico, bisogna COSTRINGERCI a non scappare dai punti difficili.

Vuoi il petto grosso? Questione di TUT, di carico, di serie, ripetizioni, tonnellaggio… tutto corretto ma solo se leggiamo questi fattori senza compensi. Altrimenti quando fai gli esercizi ti alleni a compensare non a stimolare il muscolo aumentando il carico interno.

L’isometria come asso nella manica:

Ho visto ottimo risultato sul petto con la panca piana e sulle gambe con lo squat. L’ho visto fare con percentuali sotto al 70%. Ho tenuto le ripetizioni tra 3-5 e il numero di serie tra 3-6. La panca veniva eseguita con un fermo progressivo da 3 secondi fino ad 8  e lo squat con pausa in buca progressiva dai 3 ai 5 secondi.

Quel “rimbalzo” che ti fà restare secco – Una proposta pratica per dominare il carico e non esserne dominati

(Esempio del primo microciclo, su tre giorni a settimana):

Giorno A)

  • Panca piana @60% 3 x 10 fermo di 1″; Rec 1’30”
  • Pause squat @65% 6 x 4 fermo in buca 3″; Rec  1’30”
  • Spinte con manubri (Set-System: vedi sotto) 8-10; Rec 2’00”
  • Parallele (Set-Sistem) 10-12; Rec 1’00”
  • Plank

Giorno B)

  • Squat @60% 3 x 10 fermo in buca 1″; Rec  1’30”
  • Panca piana @65% 6 x 3 fermo 5″; Rec 1’30”
  • Hack squat (set-System) 8-10; Rec 2’00”
  • Affondi (set System) 10-12; Rec 1’00”
  • Side Plank

Giorno C)

  • Stacco da terra 8 x 4 @ramping; Rec 1’30”
  • Panca alta  3 x 6 RM.T ; Rec 1’30”
  • Trazioni presa inversa (Set-System) 8-10; Rec 2’00”
  • Pulley basso (Set-System) 10-12; Rec 1’00”
  • Plank

N.B: La peogressione sarà fatta sia sul carico che sulla durata delle isometrie. La durata consigliata del protocollo è di 8 settimane (3 si carico ed una di scarico da ripetere due volte).

Breve panoramica sul Set-System Method:

Il set system method, è un sistema efficace per determinare il numero di serie necessarie al completo esaurimento delle riserve energetiche, fattore determinante per un corretto stimolo ipertrofico.

Tale metodo può essere applicato con un approccio all-out (tutto a cedimento) mantenendo un tempo di recupero completo tra le serie (3/4 minuti), o con un approccio in buffer, mantenendo però tempi di recupero incompleti (circa 1-2 minuti).

Esempio di approccio Set-System all-out
( SET: 8/10 reps – Carico 70%)

Serie                           Ripetizioni effettive                                        Recupero
1°                                           10                                                             3′ Cedimento
2                                             9                                                              3′ Cedimento
3                                             9                                                              3′ Cedimento
4                                             8                                                              3′ Cedimento
5                                             8                                                              3′ Cedimento
6                                             6 fuori range 8/10, si cambia esercizio!

Esempio di approccio Set-System in buffer
(SET: 6/8 reps – Carico 70%)

Serie                           Ripetizioni effettive                                        Recupero
1°                                            8                                                              2′ Buffer 2
2                                             8                                                              2′ Buffer 2
3                                             8                                                              2′ Buffer 2
4                                             7                                                               2′ Buffer 1
5                                             7                                                               2′ Buffer 1
6                                             6                                                               2′ Cedimento
7                                             5 fuori range 6/8, si cambia esercizio!

Sarà saltato subito all’occhio come questo metodo preveda l’impiego di un carico fisso. Quando l’obbiettivo è il completo esaurimento quello che serve è monitorare il sistema. Come un mancato esaurimento porta ad una risposta minore, anche il lavoro addizionale porta ad un mancato adattamento, causato dalla perdita di specificità. Quando lavori nel corretto range di ripetizioni, sarà il calo delle ripetizioni stesse a comunicarti l’avvenuto esaurimento, e saprai esattamente quando è giunto il momento di cambiare esercizio.

Il mio articolo completo sul Set-System lo trovi sul sito di Ironamanager 

Articolo di Lorenzini Mattia

 

Autore del progetto divulgativo: CorporeSano – Food&Training System Diplomato col massimo dei voti presso la Federazione Italiana Fitness. Amante del Natural Bodybuilding e della nutrizione sportiva, specializzato nel Power-Building. Opero in Toscana one to one o online in tutta italia, per lo sviluppo estetico e la performance atletica. Il mio approccio è pluridirezionale e personalizzato, per ottenere il massimo risultato, nel rispetto e nella conciliabilità con la vita quotidiana. Nell’ambito del web-writing e della divulgazione, amo rendere semplici concetti difficili, e semplificare il delicato passaggio che c’è, dalla teoria alla pratica. Troppo spesso dietro una maschera di carattere tecnico “leggiamo di tutto portandosi a casa il niente”. I miei articoli, si rivolgono a quell’utente che, saturo di tecnicismi vuol sapere cosa fare, in sala pesi e a tavola,per cominciare da subito a migliorarsi

Lorenzini Mattia

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Il peso di perdere peso

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Della Dott.ssa Carolina Strada

Proviamo ad immaginare un mondo popolato da individui normopeso, in grado di nutrirsi sapendo esattamente cosa e quanto mangiare, con la capacità di autoregolarsi in relazione alle risorse provenienti dall’esterno, riuscendo ad ascoltare e ad assecondare i naturali meccanismi di fame e sazietà. Pensandoci bene quel mondo già esiste ed è intorno a noi. Si chiama “natura”. Ogni animale, a parte l’uomo, si comporta così. Perché il  “nutrirsi” per gli altri esseri viventi è un atto ordinario, spontaneo e difficilmente mediato da variabili che ne vizino il processo. Questo è il motivo per cui in natura è quasi impossibile trovare animali in sovrappeso. Le uniche vittime di tale situazione sono infatti coloro  che patiscono l’influenza dell’uomo: quelli domestici. Ma perché per noi esseri umani è diverso? Perché dobbiamo combattere coi chili di troppo? Perchè tra nutrirsi ed alimentarsi vi è una differenza sostanziale. L’alimentazione non è il mero atto di introdurre all’interno del proprio corpo i nutrienti necessari alla sopravvivenza ma un comportamento che in quanto tale, come qualsiasi altro, viene appreso e mediato da una serie di altre variabili quali i pensieri, le emozioni, gli stimoli esterni, la disponibilità e può essere più o meno funzionale ad un obiettivo (alla salute, al mantenimento del peso ecc..). Prima di chiederci perché scegliamo determinati alimenti dovremmo chiederci cosa rappresenta il cibo per noi: nell’uomo infatti non è solo importante capire cosa e quanto mangiare, ma soprattutto come.

Mangiare è una necessità vitale e quotidiana, dipendente dallo stile educativo familiare appreso, dal tipo di società in cui viviamo, dai propri gusti e da altri fattori che costituiscono appunto le nostre “abitudini alimentari”.

Il peso di perdere peso

Nella nostra società la percentuale delle persone in sovrappeso o obese è piuttosto allarmante. Perché? Per un’errata educazione alimentare acquisita da piccoli e sedimentata nel tempo, per l’elevata disponibilità di alimenti, per il vizio dei naturali meccanismi di fame e sazietà causato dall’alternarsi di diete ed eccessi o dal gusto per gli alimenti palatabili (naturalmente i grassi e gli zuccheri in primis), per l’inconsapevolezza di quello che effettivamente si ingerisce. Ultima ma non per importanza la gratificazione. Il cibo è appagante, è premio, è consolazione. Il cibo riempie non solo lo stomaco, troppo spesso la mente. Riempie le giornate vuote, cura l’insoddisfazione, seda la rabbia. Ci aiuta a gestire certe situazioni sfogando su di esso le emozioni che ad esso non sono attribuite. Diventa un canale disfunzionale per tentare illusoriamente di risolvere problemi che invece rimangono, addizionati dal senso di colpa dello “scivolone”.

Ma al netto dei possibili problemi emotivi, perché mangiare è così bello? Il gusto è uno dei  cinque sensi, e viene necessariamente stimolato in modo costante.

Il sovrappeso è determinato, come anticipato, da diverse variabili: biologiche, cognitive, comportamentali, emotive.

Talvolta diventa necessario perdere alcuni chili, vuoi per questioni di salute o per una necessità estetica. Ma perdere peso, per alcuni, è a sua volta un peso. Dunque ci si aggrappa a diverse scuse: “è la genetica/ho disfunzioni ormonali” (potrebbe essere, assolutamente, ma forse sarebbe opportuno verificare con esami obiettivi le proprie convinzioni al fine di confermarle o meno, per evitare di trascinarle per anni senza fare niente a riguardo, visto e considerato che la genetica impatta sul sovrappeso in una percentuale di casi piuttosto irrisoria), “non potrò più andare fuori a cena”, “dovrò vivere a pollo e zucchine bollite per tutta la vita”, “meglio grassa e felice che magra e triste”, “io non riesco”, “mi piace troppo mangiare”, “eppure non mangio tanto, non capisco”. Tutto questo può essere vero, ma cercare scuse non aiuta a trovare soluzioni. La percezione di quanto effettivamente mangiamo è modulata dal confronto con gli altri, dal quello che noi valutiamo come “tanto” o “poco” secondo parametri autocostituiti e da ciò che assumiamo in modo  consapevole o inconsapevole. Dunque potrebbe darsi che il nostro “mangiare poco” contrasti con il vero, perché forse ci confrontiamo con gli altri solo in occasioni particolari (dunque parzializzando la nostra valutazione senza prendere in considerazione tutto), o perché la maggior parte delle volte che mangiamo lo facciamo senza pensare.  L’essere sinceri con noi stessi, favorendo un buon esame di realtà e tutte le variabili in gioco, è il primo passo per apportare delle modifiche ad una situazione che non ci aggrada. Si tratta di una questione di approccio al problema. È a dir poco sconsiderato pensare che tutte le persone normopeso siano tristi, abbiano la genetica a favore e vivano di verdure bollite segregati in casa per paura di sgarrare. Semplicemente essi riescono ad autogestirsi, ad autoregolarsi con un naturale equilibrio praticato negli anni. Dunque sanno “come”, oltre a scegliere “cosa” mangiare.

mente e cibo

Sradicare abitudini errate reiterate nel lungo periodo non è affatto facile, e come qualsiasi processo di cambiamento deve prevedere una buona dose di motivazione, di forza di volontà e di costanza. È un processo di apprendimento fluido che avviene col tempo, impossibile da  imparare in pochi giorni. Il problema ulteriore è che si desiderano i risultati “tutto e subito”. Perdere molti chili drasticamente in poco tempo. La dieta è troppo spesso vista come un supplizio di cui diventare martiri, incatenati al sacro vincolo del broccolo a vapore. Una macchina della tortura da cui liberarsi il prima possibile per tornare alle vecchie, “sane” abitudini (questo il motivo per cui la maggior parte delle diete fallisce facendo tornare al peso di partenza). Ma come già anteriormente esplicitato, è la gestione complessiva dell’alimentazione abituale, non in un range di tempo circoscritto, a determinare il proprio peso nel lungo periodo. Perdere chili implica apprendere un nuovo stile alimentare non rinunciando a ciò che ci piace (anche possono, anzi devono, tranquillamente rientrare alimenti che appagano il gusto) ma imparando la “giusta misura”. Alimentarsi non è un automatismo o un impulso, anche se la paura di certi cibi non è determinata dal cibo in sé, ma dal terrore di perdere il controllo di fronte ad esso. La dieta non deve essere una rigida tabella di marcia scandita da cibi tristi e piatti vuoti, ma un processo di cambiamento e di apprendimento, un fluido intrecciarsi tra le proprie necessità, i propri gusti e il proprio obiettivo, apportando piccole modifiche quotidiane nella scelta degli alimenti, variando, sperimentando ed inserendo alternative altrettanto gustose ma più funzionali ad un’alimentazione “giusta per noi”. Come sappiamo qualsiasi dieta lievemente ipocalorica e ben bilanciata funziona, è pur vero che la scelta di cibi a bassa densità calorica appaga la fame, mentre la scelta di cibi palatabili ricchi di calorie appaga il gusto. Il focus sta nel riuscire ad imparare a ponderare i diversi aspetti. Categorizzare gli alimenti in due tipologie che si autoescludono (concessi e non concessi) non farebbe altro che incrementare la desiderabilità dei secondi, con buona probabilità di eccedere nel caso in cui la frustrazione del broccolo al vapore prendesse il sopravvento. E se la scelta di un cambio di alimentazione vede minata la nostra allegra vita sociale? Se iniziamo a vedere con sospetto e timore gli inviti a cena e i ristoranti? La risposta è sempre una: apprendere moderazione e autoregolazione. Imparare ad ascoltare lo stomaco oltre che la gola, a sentirsi piacevolmente appagati ma non irrimediabilmente satolli, a scegliere i cibi, a valutare sia la qualità che la quantità, a mangiare con la testa.

Apparirebbe più facile avere un libretto di istruzioni a cui attenersi, sapere cosa e quanto mangiare al minimo dettaglio, ma sarebbe insostenibile e non applicabile alla vita di tutti i giorni oltre che poco gratificante. In questo risiede la sottile differenza tra l’essere passivi fruitori di regole e diventare attivi e consapevoli artefici della propria alimentazione, non necessariamente da autodidatti ma con l’obiettivo di imparare l’autonomia e la flessibilità. Può accadere di sbagliare, di inciampare, di eccedere. Ma perdere una battaglia non fa perdere la guerra. Gli errori servono a comprendere, ad invertire la rotta, ad aggiustare il tiro: non sono fallimenti se impariamo a visualizzarli come lezioni.

La vera vittoria di un cambiamento alimentare non è vietarsi il cibo, ma imparare a “concederselo”, perché la dieta non è una violenza auto inflitta ma deve diventare un atteggiamento mentale efficace.

Della Dott.ssa Carolina Strada
carolina

Sono una psicologa specializzata nei disturbi dell’alimentazione, mi occupo di benessere ed equilibrio a 360° tra il corpo e la mente, aiutando ad ottimizzare le risorse e a trovare le strategie per vivere serenamente.

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